Omaggio alla Catalogna - ANARCOTRAFFICO · 2020. 4. 17. · Mondo nuovo di Huxley. George Orwell...

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O

Il libro

maggio alla Catalogna è uno dei libri più appassionanti sulla guerra civile di Spagna.George Orwell, giunto a Barcellona nel dicembre 1936 “con la vaga idea di scriverearticoli per qualche giornale”, finì quasi immediatamente con l’arruolarsi nelle file

repubblicane: fu al fronte, visse le giornate del maggio 1937 a Barcellona, venne gravementeferito nell’assedio di Huesca e riuscì a riparare in Francia. Coinvolgente come un romanzo erigoroso come un saggio, Omaggio alla Catalogna rappresenta un momento cruciale dellaformazione politica e intellettuale dello scrittore, in cui le generiche preferenze per il mondodei diseredati, manifestate nelle prove d’esordio, si mutano in un più limpido e organico rifiutodel totalitarismo. Il testo è accompagnato da un saggio di Mario Maffi.

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L’autore

George Orwell (pseudonimo di Eric Arthur Blair, Motihari, Bengala, 1903 - Londra 1950), natoin India da una famiglia d’origine scozzese, nel 1921 si arruolò presso l’Indian Imperial Policein Birmania. Tornò in Europa nel 1928 e nel 1936 prese parte alla Guerra civile spagnola. Inseguito a questa esperienza pubblicò Omaggio alla Catalogna (1938). Durante il secondo conflittomondiale si dedicò al giornalismo e fu corrispondente di guerra. Raggiunta la fama nel 1945con La fattoria degli animali, pubblicò nel 1949 il suo capolavoro, l’avveniristico 1984 ispirato alMondo nuovo di Huxley.

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George Orwell

OMAGGIO ALLA CATALOGNA

Traduzione di Riccardo DurantiPostfazione di Mario Maffi

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George Orwell

La vitaEric Arthur Blair, vero nome di George Orwell, nasce il 25 giugno 1903 a Motihari,nel Bengala, dove il padre, d’origine angloindiana, è funzionario statale pressol’Opium Department. La sua famiglia appartiene alla borghesia “alto-bassa”, come ladefinirà lo stesso scrittore con sarcastica contraddizione. Al ruolo dominante eprivilegiato degli amministratori britannici nelle colonie non corrisponde, infatti, unanalogo status in Inghilterra. In India, i Blair si destreggiano a conciliare effettivascarsità di mezzi e salvaguardia delle apparenze quando, nel 1904, Eric, la madre e ledue sorelle tornano in patria e si stabiliscono a Henley-on-Thames, nella conteadell’Oxfordshire. Iscritto nell’esclusivo college St Cyprian di Eastbourne, il giovaneBlair ne esce con una borsa di studio e un opprimente complesso d’inferiorità, comeracconta nel saggio autobiografico del 1947 E tali, tali erano le gioie; né saprà integrarsinel clima altrettanto snob, seppur meno gretto, di Eton, dove viene ammesso nel1917.

Il senso di sradicamento è probabilmente alla base della sua decisione di seguirele orme paterne, arruolandosi nel 1922 nella Polizia imperiale indiana a Mandalay, inBirmania. Pur se ispirerà il suo primo romanzo (in ordine di composizione, ma editosolo nel 1934), Giorni in Birmania, l’esperienza si rivela traumatica. Diviso fra ilcrescente disgusto per l’arroganza imperialista e la funzione repressiva che il suoruolo gli impone, Eric si dimette nel 1928. Nello stesso anno parte per Parigi; il suonon è solo un pellegrinaggio nella capitale intellettuale, ma una vera e propriaesplorazione dei bassifondi, dove sopravvive grazie alla carità dell’Esercito dellaSalvezza, svolgendo i lavori più umili. Un’avventura che continuerà subito dopoanche in patria e ispirerà il romanzo d’esordio, Senza un soldo a Parigi e a Londra,pubblicato nel 1933 con lo pseudonimo di George Orwell.

Tra il 1932 e il 1936 alterna alle fatiche di scrittore quelle di insegnante e dicommesso di libreria, che entreranno nelle descrizioni d’ambiente dei due romanzisuccessivi, La figlia del reverendo del 1935 e Fiorirà l’aspidistra del 1936. Sucommissione del Left Book Club, un’associazione culturale filosocialista, svolgeun’indagine nelle zone più colpite dalla depressione economica, che lo porterà, neiprimi mesi del 1936, tra i minatori dell’Inghilterra settentrionale. Le loro miserecondizioni saranno descritte in La strada di Wigan Pier (pubblicato nel 1937). Nelgiugno del 1936 sposa Eileen O’Shaughnessy, impiegata al ministerodell’Informazione, e in dicembre parte come volontario per la Guerra di Spagna,raccontata nel diario-reportage Omaggio alla Catalogna, edito nel 1938.

A Barcellona si arruola nelle file del POUM (Partido Obrero de UnificaciónMarxista, d’ispirazione trotzkista) ed è inviato sul fronte aragonese. Colpito alla golada un cecchino franchista, rientra a Barcellona, ma il clima politico è mutato. Con ilprevalere della linea del Fronte Popolare e del Partito comunista nel governo

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repubblicano, il POUM e gli anarchici sono dichiarati fuorilegge e Orwell develasciare la Spagna quasi clandestinamente. Del 1939 è il romanzo Una boccata d’aria.

Respinto come inabile allo scoppio della Seconda guerra mondiale, si arruola nel1940 nelle milizie territoriali della Home Guard. Gli anni dal 1941 al 1946 lo trovanoa Londra dove collabora a giornali e riviste («Partisan Review», «New Statesman andNation», «Poetry London»), cura per la BBC una serie di trasmissionipropagandistiche dirette all’India ed è direttore letterario del settimanale socialista«Tribune», che gli affida una rubrica (As I please, “A modo mio”).

Nel 1945, anno in cui muore la moglie, è in Francia, Germania e Austria comecorrispondente dell’«Observer». Sempre nel 1945 appare il romanzo con cuiraggiungerà il successo, La fattoria degli animali. A metà aprile del 1946, sospesa persei mesi la collaborazione con i giornali, dà inizio alla stesura del libro che diventerà1984.

Nel 1947 si stabilisce con il figlio Richard, adottato nel 1944, a Jura, una fredda edisagiata isola delle Ebridi. È minato dalla tisi, il clima non si confà alle sue ormaidisperate condizioni di salute, costringendolo a continui ricoveri in sanatorio. Nel1949, dopo il secondo matrimonio con Sonia Brownell, redattrice della rivista«Horizon», si dedica, letteralmente incalzato dalla morte, alla revisione di 1984. Sispegne a Londra il 21 gennaio 1950.

Le opereSecondo la puntuale corrispondenza tra esperienze esistenziali e letterarie checontraddistingue l’intera opera di Orwell, gli anni birmani promuovono i racconti diricordi giovanili: Un’impiccagione (1931), contro la pena di morte, e Uccidendo unelefante (1936), confessione dei sentimenti ambivalenti – di odio per i dominatori, disimpatia per il paese oppresso ma anche d’esasperazione verso la popolazioneovviamente ostile – che compaiono anche nel primo lavoro di ampio respiro; Giorniin Birmania (1934) s’impernia infatti sul rifiuto dell’ipocrisia imperialista da parte diun “sahib” della comunità bianca. Pur accodandosi alla tradizione naturalistica, ilromanzo introduce in modo peculiare il motivo orwelliano dell’individuo in lottacontro il suo ambiente e destinato alla sconfitta. Che questo dissidio abbia perOrwell radici biografiche nell’insoddisfazione per i falsi valori della sua classesociale si conferma nella ricerca di un’umanità autentica – identificata con ilsottoproletariato più emarginato e disperato – che caratterizza i vagabondagginarrati in Senza un soldo a Parigi e a Londra (1933).

In La figlia del reverendo (1935) il tema della perdita della fede, vista nel dupliceaspetto consolatorio e mistificatorio, approfondisce un’altra costante dei personaggiorwelliani, tentati dal rifiuto della morale piccolo-borghese ma soggetti al fascinodella decency, rassicurante patrimonio di rispettabilità e dignità della loro classe. Lastessa attrazione-repulsione lacera il protagonista di Fiorirà l’aspidistra (1936), che sideclassa volontariamente in opposizione al mito del denaro. La strada di Wigan Pier(1937) è la seconda tappa di quell’accostamento al socialismo, volto a esplorare, dopoil sottoproletariato, il proletariato. Se la descrizione dei minatori soffre di eccessiapologetici, il libro è illuminante per capire la natura idealistica del socialismo diOrwell. Omaggio alla Catalogna (1938), oltre che un diario di trincea, è la storia di unarivoluzione tradita, sacrificata alle direttive della politica staliniana. Da allora in poi,

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come dirà nel saggio Perché scrivo (1946), ogni riga di Orwell sarà spesa contro iltotalitarismo, quello che era andato a combattere e quello inaspettato che avevaincontrato in zone più vicine a lui. Soprattutto egli vuole smascherare la campagnadi menzogne scatenata dai comunisti attraverso i mezzi d’informazione contro lealtre forze della sinistra. In Una boccata d’aria (1939) il cliché dell’eroe-antieroe èproiettato contro gli effetti disumanizzanti del “progresso”: solo alla conservazionedella memoria, al senso di continuità con il passato vengono attribuiti valorid’antidoto all’alienazione incombente. La sterminata produzione saggistica spaziada temi letterari come in Charles Dickens (1940) o Nel ventre della balena (1940) adargomenti sociologici come in Il leone e l’unicorno (1941) o Gli inglesi (1944); esaminala funzione sociale dello scrittore e i pericoli dell’“invasione della letteratura da partedella politica” in Letteratura e totalitarismo (1941), La prevenzione della letteratura (1944),Gli scrittori e il leviatano (1948); dal 1940 in poi manifesta un crescente interesse per irischi di un uso banalizzato e ideologico del linguaggio in Nuove parole (1940),Propaganda e linguaggio popolare (1944), La politica e la lingua inglese (1946). Nel saggioArthur Koestler (1944), l’esame dell’autore di Buio a mezzogiorno e del suo romanzoincentrato sulle “purghe” del 1936 anticipa, portando l’attacco al cuore della politicastalinista, La fattoria degli animali (1945). Rimasto un unicum nella narrativaorwelliana, il romanzo coniuga il genere letterario della favola animale à la Esopo eLa Fontaine con la lezione satirica di Swift, un maestro ben conosciuto, comedimostra il saggio Politica contro letteratura (1946).

1984, pubblicato nel 1948, è senz’altro il più famoso esemplare del filone ispiratodalle spettrali inquietudini che le due guerre e l’olocausto atomico avevano evocato.Le antiche utopie positive di Bacone, Moro, Campanella sono ora riproposte innegativo: è la parabola apocalittica delle grandi paure orwelliane – il totalitarismo, lafalsificazione e la perdita di memoria storica indotta dai mezzi d’informazione, lacorruzione del linguaggio, l’annullamento dell’identità individuale –, convogliatenella raggelante descrizione di una società del futuro contro cui combatte, ancorauna volta, l’ultimo eroe.

La fortunaIn Orwell la continua sovrapposizione tra uomo e scrittore pone non pochi problemiinterpretativi. I personaggi dei primi romanzi, soffrendo di un eccessivo ricalcobiografico, paiono mancare di efficace caratterizzazione e, più che animati di vitaautonoma, si pongono come portatori delle istanze del loro autore su alcuniproblemi specifici. In questo senso proprio i romanzi maggiormente premiati dalsuccesso di pubblico, La fattoria degli animali e 1984, sono considerati, per motividiversi, i più riusciti anche dalla critica. Ma la scarsa attenzione prestata alle primeopere di Orwell derivò anche dalle controversie sorte in fase di pubblicazione. Giorniin Birmania uscì con anni di ritardo per tema della censura statale; Omaggio allaCatalogna faticò non poco a trovare un editore disposto a rischiare suun’interpretazione tanto poco allineata della guerra civile spagnola. Anche La fattoriadegli animali, strepitoso bestseller da undici milioni di copie, ultimato nel 1944,apparve al momento sbagliato – proprio quando l’Inghilterra aveva più bisogno delpotente alleato sovietico – e dovette aspettare un anno prima di venire pubblicato.Basti pensare che in Russia il romanzo è stato tolto dall’indice dei libri proibiti solocon la Glasnost. Queste vicissitudini editoriali confermano a Orwell la fama di autore

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“scomodo”. L’ansia per la verità, l’imparzialità di giudizio perseguita fin quasi allamaniacalità, l’onestà intellettuale – impulsi che trovano manifestazione più viva inOmaggio alla Catalogna, libro rivalutato dalla moderna critica storiografica econsiderato uno dei più lucidi sull’argomento – forniscono all’intera sua opera uncarattere di denuncia.

L’inesauribile verve polemica che nei saggi e negli articoli fece di Orwell unimplacabile e magistrale pamphleteer, gli costò, letterariamente e politicamente,l’isolamento. Dall’intellighenzia degli anni Trenta, dagli Auden e dagli Spender concui pure aveva condiviso l’esperienza spagnola, lo separa il suo irrinunciabile spiritocritico nei confronti del marxismo. Gli strali immancabilmente rivolti contro unaletteratura asservita all’ortodossia investono un’intera generazione d’intellettualiengagés, di quelli che l’autore definisce “poetini effeminati”, corrotti dallo spiritogregario e irretiti nel culto della Russia. La sua denuncia degli opposti totalitarismilo vide inviso alla destra e alla sinistra e spesso strumentalizzato da entrambe.L’insistenza con cui dal 1936 in poi si volse contro il regime comunista tende a fardimenticare che Orwell si definì sempre socialista. Certo, il suo socialismo, così comeegli lo andava assestando sui cardini di “giustizia” e “libertà”, non potevaidentificarsi con il socialismo reale. La sua società ideale, più che alla dottrina delmaterialismo storico, sembra ispirarsi a un primato morale, che contempla decoro,rispetto della dignità umana, tolleranza, un concetto ampio di decency, insomma,esteso a tutte le classi. Un modello sulle cui effettive possibilità di realizzazione ilpessimismo di 1984 viene a porre una grave ipoteca. L’universo catastrofico diOrwell non è, infatti, che il precipitato di tutte quelle tendenze negative che egli vedegià presenti nel suo tempo. Secondo il tratto distintivo della letteratura antiutopica,per lo scrittore il futuro è già presente; nel momento in cui scrive il processo didegenerazione è già avviato, la massificazione ha già iniziato a corrodere ognidestino individuale e sociale. L’urgenza dell’avvertimento è drammatizzata inOrwell dalla vicinanza della proiezione: non un futuro remoto del prossimomillennio – dove, invece, s’ambientano gli altri campioni dell’escatologia negativadel Novecento, Il mondo nuovo di Huxley e Noi di Zamjatin –, ma addirittura un annodel suo stesso secolo, ottenuto semplicemente invertendo le cifre finali dell’anno dicomposizione del romanzo, il 1948. Quindi una lettura che insista sull’aspetto“profetico” di 1984 – inevitabile apogeo delle monumentali celebrazioni che sonostate promosse dai media allo scoccare della data orwelliana – rischia d’esserefuorviante. La valutazione del romanzo sulla base dell’effettiva esistenza di Statitotalitari, di uno strapotere dei mezzi di comunicazione, di una tecnologia alienante– o di quant’altro si è voluto identificare come la maggiore intuizione orwelliana –non dovrebbe oscurarne il carattere di monito, valido per ogni futuro.

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Bibliografia

Opere di George OrwellOPERE COMPLETE

The Complete Works of George Orwell, Secker & Warburg, London 1986-98 (i voll. I-IXsono curati interamente da Peter Davison; i voll. X-XX sono curati da Peter Davisoncon l’assistenza di Ian Angus e Sheila Davison).

PRIME EDIZIONI ORIGINALI

Down and Out in Paris and London, Gollancz, London 1933.Burmese Days, Harper, New York 1934.A Clergyman’s Daughter, Gollancz, London 1935.Keep the Aspidistra Flying, Gollancz, London 1936.The Road to Wigan Pier, Gollancz-The Left Book Club, London 1937.Homage to Catalonia, Secker & Warburg, London 1938.Coming Up for Air, Gollancz, London 1939.Inside the Whale, Gollancz, London 1940 (comprende: Charles Dickens; Boys’

Weeklies e Inside the Whale).The Lion and the Unicorn, Secker & Warburg, London 1941.Animal Farm, Secker & Warburg, London 1945.Critical Essays, Secker & Warburg, London 1946 (comprende: Charles Dickens; Boys’

Weeklies; Wells, Hitler and the World State; The Art of Donald McGill; Rudyard Kipling;W.B. Yeats; Benefit of Clergy; Arthur Koestler; Raffles and Miss Blandish; In Defence ofP.G. Wodehouse).

The English People, Collins, London 1947.Nineteen Eighty-Four, Secker & Warburg, London 1949.

PRINCIPALI SCRITTI POSTUMI

Shooting an Elephant and Other Essays, selected by T.R. Fyvel, Secker & Warburg,London 1950 (comprende: Shooting an Elephant; A Hanging; How the Poor Die; Lear,Tolstoy and the Fool; Politics vs Literature; Politics and the English Language; Reflections onGandhi; The Prevention of Literature; Second Thoughts on James Burnham; Confessions of aBook Reviewer; Books vs Cigarettes; Good Bad Books; Nonsense Poetry; Riding Down fromBangor; The Sporting Spirit; Decline of the English Murder; Some Thoughts on the CommonToad; A Good Word for the Vicar of Bray).

Such, Such Were the Joys, Harcourt, Brace & Co., New York 1953 (comprende, oltreallo scritto del titolo: Why I Write; Writers and Leviathan; Notes on Nationalism; Anti-Semitism in Britain; Poetry and the Microphone; Marrakech).

The Orwell Reader. Fiction, Essays and Reportage, introduzione di Richard H. Rovere,Harcourt, Brace & Co., New York 1956 (comprende estratti dai romanzi e dalle

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inchieste di Orwell e inoltre: Shooting an Elephant; A Hanging; Rudyard Kipling; Politicsvs Literature; Lear, Tolstoy and the Fool; Reflections on Gandhi; Second Thoughts on JamesBurnham; The Prevention of Literature; Politics and the English Language; Why I Write).

Collected Essays, Mercury Books, London 1961 (comprende la maggior parte deisaggi fin qui menzionati).

The Collected Essays, Journalism and Letters of George Orwell, a cura di Ian Angus eSonia Brownell, 4 voll., Secker & Warburg, London 1968, poi Penguin,Harmondsworth 1970: vol. I, An Age Like This (1920-1940); vol. II, My Country Right orLeft (1940-1943); vol. III, As I Please (1943-1945); vol. IV, In Front of Your Nose (1945-1950).

Nineteen Eighty-Four. The Facsimile of the Extant Manuscript, a cura di PeterDavison, Secker & Warburg, London - M & S Press, Weston (MA) 1984.

Orwell. The War Broadcasts, a cura di W. Jessamyn West, Gerald Duckworth & BBC,London 1985.

Orwell. The War Commentaries, a cura di W. Jessamyn West, Gerald Duckworth &BBC, London 1985.

The Orwell Diaries, a cura di Peter Davison, Penguin, London 2010.Nineteen Eighty-Four: The Annotated Edition, Penguin, London 2012.Diaries, a cura di Christopher Hitchens, Liveright Publishing Co., New York 2013.George Orwell: A Life in Letters, a cura di Peter Hobley Davison, Liveright

Publishing Co., New York 2013.Seeing Things As They Are: Selected Journalism and Other Writings, a cura di Peter

Davison, Harvill Secker, London 2014.George Orwell: The Complete Poetry, a cura di Dione Venables, Finlay Publisher,

London 2015.

PRINCIPALI EDIZIONI ITALIANE

Romanzi e saggi, a cura e con un saggio introduttivo di Guido Bulla, I MeridianiMondadori, Milano 2000 (comprende: Senza un soldo a Parigi e a Londra; Omaggio allaCatalogna; Una boccata d’aria; La fattoria degli animali; 1984 e una selezione di scrittisuddivisi in Racconti e saggi autobiografici; Scritti e divagazioni su arte e società; Interventie testimonianze).

La fattoria degli animali, trad. di Bruno Tasso, prefazione di Giorgio Monicelli,Mondadori, Milano-Verona 1947; nuova ed. con La libertà di stampa, 1975; trad. diGuido Bulla, Mondadori, Milano 2008.

Giorni in Birmania, trad. di Giovanna Caracciolo, Longanesi, Milano 1948;Mondadori, Milano 1983.

Omaggio alla Catalogna, trad. di Giorgio Monicelli, Mondadori, Milano-Verona1948; trad. di Riccardo Duranti, Mondadori, Milano 1993.

1984, trad. di Gabriele Baldini, in «Il Mondo», Roma 7 gennaio - 20 maggio 1950;Mondadori, Milano-Verona 1950; trad. di Stefano Manferlotti, Mondadori, Milano2002.

Fiorirà l’aspidistra, trad. di Giorgio Monicelli, Mondadori, Milano 1960.La strada di Wigan Pier, trad. di Giorgio Monicelli, Mondadori, Milano 1960.Nel ventre della balena, trad. di Giorgio Monicelli, in Valerio Riva (a cura di),

Prefazione ai Tropici, Feltrinelli, Milano 1962.Una boccata d’aria, trad. di Bruno Maffi, introduzione di Elena Croce, Mondadori,

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Milano 1966.Senza un soldo a Parigi e a Londra, trad. di Isabella Leonetti, introduzione di Elena

Croce, Mondadori, Milano 1966.La figlia del reverendo, trad. di Marcella Bonsanti, Garzanti, Milano 1968;

Mondadori, Milano 2005.Tra sdegno e passione, una scelta di saggi, articoli, lettere, con prefazione, cura e trad.

di Enzo Giachino, Rizzoli, Milano 1977.Millenovecento ottantaquattro. Il facsimile del manoscritto, a cura di Peter Davison,

saggio introduttivo di Umberto Eco, Mondadori, Milano 1984.Nel ventre della balena e altri saggi, trad. di Tiziana Barghigiani e Claudio Scappi,

Sansoni, Firenze 1988 (raccolta di scritti narrativi e saggistici che comprende:Uccidendo un elefante; In difesa del romanzo; In miniera; Le bugie settimanali per ragazzi;Profezie del fascismo; Nel ventre della balena; Chi sono i criminali di guerra?; Appunti sulnazionalismo; In difesa della cucina inglese; Una buona tazza di tè; Lear, Tolstoi ed il matto;Verso l’unità europea; Riflessioni su Gandhi).

Nel ventre della balena e altri saggi, a cura di Silvio Perrella, Bompiani, Milano 1996(oltre a una selezione dagli ultimi due volumi citati, il libro propone, nellatraduzione di Franco Mollica, altri saggi inediti in Italia: Perché scrivo; La prevenzionedella letteratura; La politica e la lingua inglese; Politica contro letteratura: Un’analisi dei“Viaggi di Gulliver”; Arthur Koestler; Libri contro sigarette).

Gli anni dell’«Observer»: la raccolta inedita degli articoli e le recensioni, 1942-49, trad. diEster Dornetti, Baldini Castoldi Dalai, Milano 2006.

Diari di guerra, a cura di Guyda Armstrong, trad. di Alessandra Sora, Mondadori,Milano 2007 (comprende: Diari di guerra, Il leone e l’unicorno e Lettere da Londra).

Ricordi della guerra di Spagna, trad. di Manuela Palermi, Datanews, Roma 2007.Letteratura palestra di libertà: saggi su libri, librerie, scrittori e sigarette, a cura di Guido

Bulla, Mondadori, Milano 2013.

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Omaggio alla Catalogna

Non rispondere allo stolto secondo la sua stoltezza,per non essere anche tu come lui.Rispondi allo stolto secondo la sua stoltezza,perché non appaia saggio ai suoi occhi.

PROVERBI, 26, 4-5

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Homage to Catalonia fu pubblicato a Londra da Secker & Warburg il 25 aprile 1938. L’edizione americana(Harcourt, Brace & Co., New York) non comparve prima del 15 maggio 1952, precedendo di soli tre anni latraduzione francese (Gallimard, Paris 1955). Quest’ultima si è rivelata molto importante: è infatti emerso direcente uno scambio di lettere fra Orwell e la sua traduttrice francese Yvonne Davet, in cui l’autore indicava unalista di errata e una serie di aggiustamenti da apportare al testo in caso di ristampa: una ristampa che però eglinon vide mai. La traduzione di Riccardo Duranti, qui presentata, segue il testo del volume VI dei Collected Workse a tratti differisce sensibilmente dalle traduzioni precedenti poiché, oltre che delle indicazioni fornite da Orwellnelle lettere alla Davet, tiene conto di alcune annotazioni a margine che negli ultimi mesi di vita lo scrittoreeffettuò in una copia di Omaggio alla Catalogna attualmente in possesso di collezionisti privati. La differenza piùmacroscopica rispetto alle vecchie edizioni consiste nel fatto che, venendo incontro ai desideri di Orwell, quelliche erano i capitoli V e XI (le parti cioè più politiche e meno narrative) sono diventati rispettivamente l’AppendiceI e II.

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I

Nella caserma Lenin di Barcellona, il giorno prima di arruolarmi nella milizia, hovisto un volontario italiano in piedi davanti al tavolo degli ufficiali.

Era un giovanottone dall’aspetto rude di venticinque-ventisei anni, dai capellibiondo-rossicci e un gran paio di spalle. Portava il berretto di cuoio con la visieraminacciosamente inclinato su un occhio. Era di profilo rispetto a me, con il mento sulpetto, e scrutava con aria perplessa una cartina che uno degli ufficiali aveva apertosul tavolo. C’era qualcosa nella sua espressione che mi commosse profondamente.Era l’espressione di un uomo che per un amico avrebbe ammazzato qualcuno esacrificato la propria vita – l’espressione che ci si sarebbe aspettati di vedere sul voltodi un anarchico, anche se con ogni probabilità lui era comunista. C’era un misto dicandore e di ferocia in essa, ma anche la patetica riverenza che gli analfabetimostrano per quelli che ritengono essere i loro superiori. Era chiaro che della cartinanon capiva un accidente; che riteneva la capacità di leggere una carta topograficaun’impresa intellettuale stupefacente. Non so bene perché, ma mi è capitatoraramente di vedere una persona – voglio dire un uomo – che mi abbia ispirato unasimpatia così immediata. Mentre intorno al tavolo parlottavano tra loro, qualcunofece notare che anch’io ero straniero. L’italiano alzò la testa e disse subito:

«Italiano?»Risposi nel mio pessimo spagnolo: «No, Inglés. Y tú?».«Italiano.»Mentre uscivamo dalla stanza l’attraversò a grandi passi e mi strinse la mano con

forza. Che strano l’affetto che si può provare per un estraneo! Sembrava quasi che lenostre due anime fossero per un momento riuscite a gettare un ponte sull’abisso dilingua e di tradizioni che ci separava e a incontrarsi nella maniera più intima.Speravo di riuscirgli simpatico tanto quanto lui a me. Ma mi rendevo anche contoche, per mantenere quella prima positiva impressione, non avrei dovuto incontrarlopiù; e naturalmente non l’ho più incontrato. In Spagna i contatti umani del genereerano all’ordine del giorno.

Ho voluto parlare di quel volontario italiano perché mi è rimasto impresso nellamemoria in maniera così vivida. Con la sua uniforme trasandata e l’aria insiemeferoce e patetica, esemplifica per me la particolare atmosfera di quel periodo. Egli faparte integrante dei miei ricordi di quella fase della guerra – le bandiere rosse diBarcellona, le sparute tradotte cariche di soldati male in arnese che si trascinavano afatica verso il fronte, le cittadine grigie e più avanti sconvolte dalla guerra, le trinceefangose e gelate sulle montagne.

Era la fine di dicembre del 1936, neanche sette mesi fa, eppure è un periodo che siè già allontanato a un’enorme distanza nel passato. Gli eventi successivi l’hannocancellato ancor più completamente di quanto abbiano cancellato il 1935 oaddirittura il 1905. Ero arrivato in Spagna con la vaga idea di scrivere articoli per lastampa, ma poi mi ero arruolato quasi subito nella milizia, perché in quel momento e

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in quell’atmosfera sembrava l’unica cosa concepibile da fare. Gli anarchicimantenevano ancora il virtuale controllo della Catalogna e la rivoluzione era ancorain pieno corso. Qualcuno che fosse stato lì sin dall’inizio forse avrebbe avutol’impressione già a dicembre e a gennaio che il periodo rivoluzionario stesse finendo;ma se si era appena arrivati dall’Inghilterra bastava guardarsi attorno a Barcellonaper essere sorpresi e soggiogati. Era la prima volta che mi trovavo in una città dovela classe operaia era saldamente in sella. Praticamente tutti gli edifici, piccoli ograndi che fossero, erano stati occupati dagli operai ed erano pavesati di bandiererosse o di quelle rosso-nere degli anarchici; su ogni muro c’erano disegnati falci emartelli e le sigle dei partiti rivoluzionari; quasi ogni chiesa era stata saccheggiata ele immagini sacre bruciate. Qua e là qualcuna era stata perfino sistematicamentedemolita da squadre di lavoratori. Ogni negozio e ogni caffè aveva un cartello chedichiarava che era stato collettivizzato, perfino i lustrascarpe e le loro scatole dilavoro dipinte di rosso e di nero. Camerieri e commessi ti guardavano negli occhi e titrattavano da pari a pari. Le formule d’indirizzo servili o addirittura cerimonioseerano per il momento scomparse. Nessuno più diceva “Señor” o “Don” e neanche“Usted”; tutti si chiamavano “Compagni” e si davano del tu, si salutavano con“Salud!” invece che con “Buenos días”. Una delle mie prime esperienze appenaarrivato fu quella di sentirmi fare una ramanzina dal direttore dell’albergo per avertentato di dare la mancia a uno degli inservienti. Le automobili private nonesistevano più: erano state tutte sequestrate, e tutti i tram, i taxi e gran parte deglialtri mezzi di trasporto erano stati verniciati di rosso e di nero. Dappertutto c’eranomanifesti rivoluzionari che fiammeggiavano dalle pareti in toni di rosso e di azzurrocosì vividi che facevano sembrare gli altri annunci superstiti macchie di fango.Lungo le Ramblas, l’ampia arteria centrale della città percorsa avanti e indietro da uncostante flusso di folla, gli altoparlanti lanciavano a tutto volume canti rivoluzionarinel corso dell’intera giornata e fino a notte fonda. Ed era proprio l’aspetto della follala cosa più strana di tutte. Apparentemente sembrava di essere in una città in cui leclassi agiate avevano praticamente cessato di esistere. A eccezione di un ristrettonumero di donne e degli stranieri, non c’era nessuno che fosse “ben vestito”.Praticamente tutti indossavano rudi abiti da operaio, oppure tute blu o qualchevariante dell’uniforme dei miliziani. Tutto questo era strano e commovente. C’eranoanche parecchie cose che non capivo e parecchie che in qualche modo non mipiacevano, ma riconobbi subito una situazione per cui valeva la pena di combattere.E poi ero convinto che le cose stessero esattamente come sembravano, che fossedavvero uno stato operaio e che tutta la borghesia fosse fuggita, eliminata o passatavolontariamente dalla parte dei lavoratori; non mi ero reso conto che un grannumero di borghesi agiati si limitavano, per il momento, a non dare nell’occhio o amascherarsi da proletari.

Insieme a tutto questo c’era anche un po’ della malsana atmosfera di guerra. Lacittà aveva un aspetto emaciato e trasandato, le strade e gli edifici avevano un granbisogno di manutenzione, di notte le vie erano poco illuminate per paura deibombardamenti aerei, i negozi erano per la maggior parte maltenuti e mezzi vuoti.La carne scarseggiava e il latte era praticamente impossibile da trovare, mancavanocarbone, zucchero, benzina e c’era una grave penuria di pane. Anche in quel periodole file per il pane erano spesso lunghe centinaia di metri. Tuttavia, per quanto sipoteva vedere, la gente sembrava contenta e piena di speranze. Non c’eradisoccupazione e il costo della vita era ancora estremamente basso; si vedevano

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pochissime persone visibilmente povere e nessun mendicante, tranne gli zingari.Soprattutto c’era fede nella rivoluzione e nel futuro, la sensazione di trovarsiimprovvisamente in un’epoca di eguaglianza e di libertà. Gli esseri umani stavanocercando di comportarsi come tali e non come ingranaggi nella macchina capitalista.Nei saloni da barbiere c’erano volantini anarchici (la gran parte dei barbieri eraanarchica) che spiegavano solennemente che i barbieri non erano più schiavi. Perstrada c’erano manifesti coloratissimi che si rivolgevano alle prostitute perchésmettessero di prostituirsi. Per chi veniva dalla cinica e beffarda civiltà anglofonac’era effettivamente un che di patetico nel modo letterale in cui questi spagnoliidealisti interpretavano i triti slogan rivoluzionari. All’epoca, le ballaterivoluzionarie del tipo più ingenuo, tutte incentrate sulla fratellanza proletaria e lamalvagità di Mussolini, venivano vendute per strada per pochi centesimi. Ho vistospesso miliziani semianalfabeti comprare queste ballate, compitarne a fatica le parolee poi, appena capito come andava, cominciare a cantarle sull’aria giusta.

In quel periodo vivevo nella caserma Lenin, ufficialmente per riceverel’addestramento necessario per andare al fronte. Quando mi ero arruolato miavevano detto che sarei partito per il fronte il giorno dopo, ma in realtà dovettiaspettare un bel pezzo mentre si costituiva una nuova centuria. Le milizie operaie,formate in tutta fretta dai sindacati all’inizio della guerra, non erano ancora stateorganizzate sul modello di un esercito normale. Le unità di comando erano costituitedalle “sezioni”, di circa trenta uomini, dalle centurias, un centinaio di uomini, e dalle“colonne”, termine con cui in pratica si indicava un qualunque raggruppamentoconsistente di soldati. La caserma Lenin era un complesso di splendidi edifici inpietra con annessi un maneggio ed enormi cortili selciati; era stata una caserma dicavalleria ed era stata occupata nel corso dei combattimenti di luglio. La mia centuriadormiva in una delle stalle, sotto le mangiatoie scavate nella roccia dove eranoancora incisi i nomi dei destrieri da battaglia. Tutti i cavalli erano stati sequestrati emandati ormai al fronte, ma lo stanzone puzzava ancora di piscio di cavallo e diavena andata a male. Restai in quella caserma per una settimana circa. Ricordosoprattutto gli odori equini e gli squilli di tromba incerti e tremolanti (i nostritrombettieri erano tutti dilettanti – ho imparato i vari segnali spagnoli soloascoltandoli provenire dalle linee fasciste), il calpestio degli scarponi chiodati nelcortile della caserma, le lunghe parate sotto il sole invernale, le scatenate partite dipallone, in cinquanta per parte, nello spazio ghiaioso del maneggio. C’erano forse unmigliaio di uomini nel complesso della caserma, più una ventina circa di donne, oltrele mogli dei miliziani che si occupavano della cucina. C’erano ancora delle donnenelle file della milizia, anche se non erano molte. Nei primi scontri avevanocombattuto fianco a fianco agli uomini come se niente fosse. È una cosa che sembradel tutto naturale in tempi di rivoluzione. Ma certe idee stavano già cambiando. Gliuomini dovevano essere allontanati dal maneggio quando le donne erano impegnatenelle esercitazioni, perché ridevano di loro e le smontavano un po’. Solo qualchemese prima nessuno avrebbe trovato niente di buffo in una donna che maneggiavaun fucile.

Tutta la caserma era nello stato di sporcizia e di caos in cui la milizia riducevaqualsiasi edificio occupasse e che sembra essere una delle inevitabili conseguenzedella rivoluzione. A ogni angolo ci si imbatteva in mucchi di mobili fatti a pezzi,selle rotte, elmetti da cavalleggeri d’ottone, foderi di sciabola vuoti e cibo indecomposizione. C’era uno spaventoso spreco di cibo, specialmente di pane. Solo

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dalla mia camerata a ogni pasto si buttava via un cesto intero di pane – una cosavergognosa visto che la popolazione civile ne soffriva la penuria. Mangiavamo sulunghi tavoli montati su cavalletti, da gavette di latta sempre sporche, e bevevamoda un aggeggio terribile chiamato porrón. Il porrón è una specie di bottiglia di vetrocon un beccuccio aguzzo da cui fuoriesce un sottile schizzo di vino non appena lo siinclina; si può così bere da una certa distanza, senza portarselo alle labbra, e puòpassare di mano in mano. Io mi misi subito in sciopero e pretesi una tazza nonappena vidi come funzionava il porrón. Ai miei occhi somigliava troppo a unpappagallo da ospedale, specialmente quando era pieno di vino bianco.

Pian piano alle reclute venivano distribuite delle uniformi, ma siccome si era inSpagna la distribuzione avveniva a spizzichi e bocconi, di modo che non si era maisicuri di chi aveva ricevuto cosa, e i vari oggetti di cui avevamo più bisogno, tipocinture e giberne, non furono distribuiti fino all’ultimo momento, mentre il treno cistava già aspettando per portarci al fronte. Ho parlato di “uniforme” della milizia,cosa che con ogni probabilità può dare un’impressione sbagliata, perché non sitrattava proprio di un’uniforme. Forse il termine più adatto sarebbe “multiforme”. Ilvestiario individuale seguiva suppergiù lo stesso schema generale, ma in nessuncaso due persone indossavano esattamente gli stessi panni. Praticamente tuttinell’esercito portavano pantaloni alla zuava di velluto a coste, ma lì l’uniformità sifermava. Sotto, chi portava fasce, chi ghette dello stesso tessuto, chi gambali di cuoioo stivali alti. Tutti avevano un giubbotto con la chiusura lampo, ma alcuni erano dipelle, altri di lana e di ogni colore possibile e immaginabile. I tipi di copricapo eranoaltrettanto numerosi di chi li portava. Era costume adornare il davanti del cappellocon un distintivo di partito e in più quasi tutti portavano un fazzoletto rosso o rosso-nero attorno al collo. Una colonna di miliziani a quell’epoca aveva l’aspetto di unamassa di gente assolutamente variopinta e straordinaria. Ma il vestiario dovevaessere distribuito a mano a mano che una fabbrica sempre diversa lo produceva infretta e furia e, date le circostanze, quegli abiti non erano niente male. Solo le camiciee i calzini erano di cotone e scadenti, assolutamente inutili per difendere dal freddo.Non oso neanche pensare cosa avevano dovuto passare i volontari nei mesiprecedenti prima ancora che si riuscisse a stabilire un minimo di organizzazione.Ricordo di aver trovato per caso un giornale di un paio di mesi prima in cui uno deileader del POUM, al ritorno da una visita al fronte, diceva che avrebbe cercato di far sìche “ogni volontario avesse una coperta”. Una frase che farebbe rabbrividirechiunque abbia mai dormito in trincea.

Il secondo giorno che ero in caserma cominciò quello che veniva comicamentedefinito “addestramento”. All’inizio ci furono terribili scene di caos. Le reclute eranoper la maggior parte ragazzi di sedici, diciassette anni usciti dai vicoli di Barcellona,pieni di ardore rivoluzionario, ma del tutto all’oscuro del significato della guerra.Era impossibile perfino riuscire a farli mettere in riga. La disciplina non esisteva; se aun uomo un ordine non andava giù, usciva dai ranghi e si metteva a litigare con fogacon l’ufficiale. Il tenente che ci addestrava era un giovanotto robusto dal viso fresco epiacevole, che era già stato ufficiale dell’esercito regolare e ne aveva ancora l’aspetto,con il suo portamento elegante e l’uniforme impeccabile. Abbastanza stranamenteera anche un socialista sincero e appassionato. Insisteva sulla completa eguaglianzasociale tra tutti i gradi ancor più di quanto non facessero i suoi soldati. Ricordoancora la sua espressione di dolorosa sorpresa quando una recluta ingenuamente glisi rivolse chiamandolo «Señor». «Come? Señor! Chi è che mi chiama Señor? Non

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siamo tutti compagni?» Ho i miei dubbi che questo atteggiamento facilitasse il suolavoro. Nel frattempo, le reclute fresche non ricevevano alcun addestramentomilitare che potesse esser loro della minima utilità. Ero stato informato che glistranieri non erano obbligati a sottoporsi all’“addestramento” (avevo notato che glispagnoli erano pateticamente convinti che tutti gli stranieri ne sapessero più di loroin fatto di questioni militari), ma naturalmente mi presentai insieme a tutti gli altri.Ero impaziente di imparare a usare una mitragliatrice; era un’arma che non avevomai avuto occasione di adoperare. Con mio grande disappunto scoprii che non ciaddestravano affatto all’uso delle armi. Il cosiddetto addestramento si limitava aesercizi da piazza d’armi del tipo più stupido e antiquato: fianco-destr, fianco-sinistr,dietro-front, marciare sull’attenti in fila per tre e tutte le altre inutili sciocchezze cheavevo già imparato quando avevo quindici anni. Era davvero una bizzarra manieradi addestrare un esercito di guerriglieri. È chiaro che se si hanno solo pochi giorni adisposizione in cui addestrare un soldato si devono insegnargli le cose di cui avràmaggior bisogno: come ripararsi, come avanzare allo scoperto, come montare laguardia e costruirsi un riparo, ma soprattutto come usare le proprie armi. Invece, aquesta massa di ragazzini entusiasti che entro pochi giorni sarebbero stati gettatisulla linea del fronte non veniva neanche insegnato come sparare con il fucile o cometogliere la sicura a una bomba a mano. Allora non comprendevo ancora che ilmotivo di tutto ciò era la mancanza di armi. Nella milizia del POUM la penuria difucili era così disperata che le nuove truppe mandate al fronte erano sempre costrettea rilevare i fucili dai compagni di cui prendevano il posto in prima linea. Nell’interocomplesso della caserma Lenin credo non ci fossero altri fucili oltre quelli usati dallesentinelle.

Dopo pochi giorni, però, anche se secondo qualsiasi standard eravamo ancora unamasnada disordinata, ci considerarono pronti a essere mostrati in pubblico e tutte lemattine ci facevano marciare fino ai giardini pubblici sulla collina dietro plaza deEspaña. Era il luogo dove tutte le milizie di partito, oltre ai Carabineros e ai primicontingenti del neoformato Esercito Popolare, andavano a compiere le loroevoluzioni. Lassù ai giardini pubblici, lo spettacolo era strano e rincuorante. Lungotutti i sentieri e i vialetti, tra le aiuole ben tenute, squadre e compagnie di uominimarciavano impalati avanti e indietro, gonfiando il petto in fuori nel tentativodisperato di assumere un aspetto marziale. Erano tutti disarmati e nessuno avevaun’uniforme completa, anche se qua e là, nella maggioranza di loro, cominciava adapparire qualche chiazza di uniformità miliziana. La procedura era più o menosempre la stessa. Per tre ore ci pavoneggiavamo avanti e indietro (il passo di marciaspagnolo è molto corto e rapido), poi ci fermavamo, rompevamo le righe e ciaffollavamo assetati in una piccola drogheria a mezza costa sulla collina, che facevaaffari d’oro smerciando vino da due soldi. Erano tutti molto cordiali con me. Inquanto inglese rappresentavo in un certo senso una curiosità e gli ufficiali deiCarabineros mi tenevano in alta considerazione e mi offrivano spesso da bere. Nelfrattempo, ogni volta che riuscivo a mettere con le spalle al muro il nostro tenente,continuavo a protestare che volevo essere addestrato all’uso della mitragliatrice.Tiravo fuori dalla tasca il mio dizionarietto Hugo e gli infliggevo una tiritera nel miopessimo spagnolo:

«Yo sé manejar fusil. No sé manejar ametralladora. Quiero aprender ametralladora.Cuándo vamos aprender ametralladora?»

Come risposta ricevevo sempre un sorriso infastidito e la promessa che

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l’addestramento alla mitragliatrice ci sarebbe stato mañana. Non c’è bisogno diaggiungere che mañana non sarebbe mai arrivato. Passarono diversi giorni e lereclute impararono a marciare al passo e a scattare sull’attenti in modo quasielegante, ma se sapevano da quale parte del fucile uscivano le pallottole era giàtanto. Un giorno un Carabinero armato venne verso di noi mentre ci fermavamo e cilasciò esaminare il suo fucile. Si scoprì così che in tutta la sezione nessuno tranne mesapeva come si caricava l’arma, men che meno come si prendeva la mira.

In quel periodo portavo ancora avanti la solita battaglia con la lingua spagnola. Aparte me c’era un solo altro inglese nella caserma e nessuno, neanche tra gli ufficiali,parlava una parola di francese. Le cose non mi erano certo facilitate dal fatto chequando i miei compagni parlavano tra loro in genere lo facevano in catalano. L’unicomodo di cavarmela era di portarmi sempre dietro un dizionarietto che tiravoprontamente fuori dalla tasca nei momenti di crisi. Comunque preferivo di granlunga essere uno straniero in Spagna che in qualsiasi altro paese. Com’è facile fareamicizia in Spagna! Dopo un giorno o due c’erano già una ventina di miliziani chemi chiamavano per nome, m’insegnavano i vari trucchi e quasi mi soffocavano conla loro ospitalità. Non sto scrivendo un libro propagandistico e non ho alcunaintenzione di idealizzare la milizia del POUM. Tutto il sistema delle milizie era pienodi gravi difetti e gli uomini stessi erano abbastanza diversi tra loro perché ormai inquel periodo il reclutamento volontario stava calando e molti degli uomini migliorierano già al fronte o erano morti. Tra noi c’era sempre una certa percentuale dipersone completamente inutili. Ragazzini di quindici anni venivano fatti arruolaredai genitori, ovviamente per le dieci pesetas al giorno che erano la paga deimiliziani, ma anche per il pane che i volontari ricevevano in abbondanza eriuscivano a spartire di contrabbando con la famiglia. Comunque sfido chiunque aessere buttato, come è capitato a me, in mezzo alla classe operaia spagnola – maforse dovrei dire catalana, perché a parte qualche aragonese e qualche andalusostavo sempre insieme a catalani – e a non rimanere impressionato dalla suafondamentale dignità e civiltà: soprattutto dalla loro schiettezza e generosità. Lagenerosità degli spagnoli, nel senso più ampio del termine, a volte rischia addiritturadi essere imbarazzante. Se si chiede loro una sigaretta, insisteranno perché si accettil’intero pacchetto. E oltre questo livello c’è una generosità ancora più profonda, unavera e propria munificenza spirituale, in cui mi sono imbattuto più volte e nellecircostanze più impensate. Qualche giornalista e altri stranieri che hanno visitato laSpagna nel corso della guerra hanno dichiarato che sotto sotto gli spagnoliprovavano un’aspra gelosia nei confronti degli aiuti provenienti dagli altri paesi.Tutto quello che posso dire io è che non mi è mai capitato di notare una cosa delgenere. Ricordo che pochi giorni prima che lasciassi la caserma, arrivò un gruppo diuomini che tornavano in licenza dal fronte e che raccontavano concitatamente le loroesperienze; erano pieni di entusiasmo nei confronti di un contingente francese cheaveva combattuto al loro fianco a Huesca. I francesi erano stati molto coraggiosi,dicevano, aggiungendo con foga: «Más valientes que nosotros», «Più coraggiosi dinoi!». Naturalmente sollevai qualche dubbio su questa affermazione, al che mispiegarono che i francesi ne sapevano di più dell’arte della guerra – se neintendevano parecchio di bombe, mitragliatrici e così via. Ma la loro ammirazioneera sincera. Un inglese si sarebbe tagliato una mano piuttosto che ammettere unacosa del genere.

Ogni straniero che ha prestato servizio nella milizia ha passato le prime settimane

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a imparare ad amare gli spagnoli e a essere esasperato da alcune loro caratteristiche.Sul fronte a volte la mia esasperazione ha sfiorato punte di furore. Gli spagnoli sonobravi in molte cose, ma non certo a fare la guerra. Tutti gli stranieri, senzadistinzione, rimangono sgomenti davanti alla loro inefficienza e soprattutto davantialla loro irritante mancanza di puntualità. L’unica parola di spagnolo che nessunostraniero può evitare di imparare è mañana – domani (letteralmente, “al mattino”).Ogniqualvolta è appena concepibilmente possibile, le cose da fare oggi vengonorimandate a mañana. Questo fatto è talmente notorio che perfino gli spagnoli cischerzano su. In Spagna niente, da un pasto a una battaglia, succede mai all’orastabilita. Di regola le cose succedono con molto ritardo, ma ogni tanto – in modo chenon si possa poi contare sul fatto che avverranno in ritardo – succedono in anticipo.Un treno che deve partire alle otto di norma partirà tra le nove e le dieci, ma puòdarsi che una volta alla settimana, grazie a un capriccio del macchinista, parta anchealle sette e mezzo. Cose del genere possono mettere a dura prova la pazienza. Inteoria nutro una certa ammirazione per il fatto che gli spagnoli non condividano lanostra nevrosi nordica nei confronti del tempo; sfortunatamente, però, io lacondivido in pieno.

Dopo infinite voci contrastanti, mañanas e ritardi, l’ordine di partire per il fronte ciarrivò con solo due ore di anticipo, quando gran parte del nostro equipaggiamentonon era stato ancora distribuito. Ci furono scene di grande tumulto nel magazzinodella fureria e alla fine parecchi uomini dovettero partire con l’equipaggiamentoincompleto. La caserma all’improvviso si riempì di donne che sembravano esserespuntate dal nulla e che aiutavano i loro uomini ad arrotolarsi la coperta e a riempirelo zaino. Fu abbastanza umiliante per me farmi insegnare come mettere le gibernenuove di zecca da una ragazza spagnola, la moglie di Williams, l’altro volontarioinglese. Era una creatura molto gentile, dagli occhi scuri, intensamente femminile;dall’aspetto si sarebbe detto che il suo compito nella vita era solo quello di fardondolare una culla, ma in realtà aveva combattuto coraggiosamente in luglio nellebattaglie per le strade della città. Quando partimmo era incinta di un bambino che èpoi nato dieci mesi dopo lo scoppio della guerra e che probabilmente era statoconcepito dietro una barricata.

Il treno doveva partire alle otto, ma solo alle otto e dieci i nostri ufficiali, tuttisudati e agitati, riuscirono a farci mettere in fila nella piazza d’armi della caserma.Ricordo molto vividamente la scena illuminata dalla luce delle torce – la confusionee la concitazione, le bandiere rosse contro le torce, le file confuse di volontari con lozaino in spalla e le coperte arrotolate indossate come bandoliere sulle spalle; le urla eil tintinnio degli scarponi e delle gavette, e poi un tremendo sibilo che solo alla fineriuscì a ottenere un po’ di silenzio; quindi un commissario politico tenne un discorsoin catalano in piedi sotto una sventolante bandiera rossa. Alla fine ci fecero marciareverso la stazione prendendo la strada più lunga, cinque chilometri circa, in modo damostrarci all’intera città. Nelle Ramblas ci fecero fermare mentre una banda presa inprestito suonava un inno rivoluzionario dietro l’altro. Ancora una volta tutta quellaroba da eroi vittoriosi – grida ed entusiasmo, bandiere rosse e rosso-neredappertutto, folle festanti che s’accalcano sui marciapiedi per ammirarci, donne chesalutano dalle finestre. Come sembrava tutto naturale, allora; e quanto lontano e deltutto improbabile ora! Il treno era così affollato di uomini che quasi non c’era spaziosul pavimento, figuriamoci sui sedili. All’ultimo momento la moglie di Williamsarrivò di corsa sulla banchina e ci diede una bottiglia di vino e trenta centimetri di

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quella salsiccia rosso vivo che sa un po’ di sapone e fa venire la diarrea. Il trenos’avviò e lentamente uscì dalla Catalogna inerpicandosi sull’altopiano d’Aragonaalla velocità, normale in tempo di guerra, di neanche venti chilometri all’ora.

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II

Anche se era molto lontana dalla linea del fronte, Barbastro aveva un aspetto cupo elogorato. Torme di miliziani dalle uniformi trasandate passeggiavano avanti eindietro per le stradine del villaggio, più che altro per cercare di scaldarsi un po’. Suun muro in rovina mi cadde l’occhio su un manifesto che risaliva a un anno prima eannunciava che “sei bei tori” sarebbero stati uccisi nell’arena il tal giorno. Cheaspetto triste e sbiadito avevano quei colori! Dov’erano ormai i bei tori e i bei toreri?A quanto pare neanche a Barcellona oggigiorno ci sono quasi più corride; chissàperché, i migliori matador erano tutti fascisti.

La mia compagnia fu trasferita in camion prima a Siétamo, poi verso ovest adAlcubierre, che era appena dietro la linea del fronte di Saragozza. C’erano volute trebattaglie prima che Siétamo fosse finalmente conquistata dagli anarchici a ottobre, ealcune sue parti erano state ridotte a pezzi dall’artiglieria, mentre la maggioranzadelle facciate delle case erano crivellate dai colpi di fucile. Ormai eravamo a 457metri sul livello del mare. Faceva un freddo cane, con banchi di nebbia in densevolute che sembravano levarsi dal nulla. Tra Siétamo e Alcubierre l’autista delcamion sbagliò strada (questa era una delle caratteristiche più regolari della guerra)e vagammo per ore nella nebbia. Era ormai notte fonda quando raggiungemmoAlcubierre. Qualcuno ci guidò tra pantani di fango in una stalla per muli dove ciscavammo una buca nella pula e ci addormentammo subito. La pula non è male perdormirci sopra quando è pulita, non buona come il fieno, ma sempre meglio dellapaglia. Fu solo alle prime luci del mattino che scoprii che la pula era in realtà pienadi croste di pane, fogli di giornale stracciati, ossa, sorci morti e scatolette di lattecondensato dai bordi taglienti.

Ormai eravamo vicini alla linea del fronte, abbastanza da sentire nell’aria ilcaratteristico odore della guerra – nella mia esperienza un misto di escrementi e dicibo in decomposizione. Alcubierre non era mai stata bombardata ed era in uno statomigliore della gran parte dei villaggi a ridosso delle linee. Eppure sono convinto cheneanche in tempo di pace si possa viaggiare in quella parte della Spagna senzaessere colpiti dal particolare squallore e dalla miseria dei villaggi aragonesi. Sonocostruiti come fortezze, casupole di fango e sassi ammassate attorno alla chiesa eperfino a primavera è difficile trovarvi un fiore; le case non hanno giardino, solo uncortiletto sul retro dove dei polli macilenti ruspano su banchi di sterco di mulo. Iltempo era uno schifo, un’alternanza di pioggia e foschia. Le stradine in terra battutaerano state ridotte a un mare di fango – in alcuni posti profondo anche più di mezzometro – su cui s’inerpicavano autocarri con le ruote che slittavano continuamentementre i contadini vi passavano sui loro goffi carri trainati da muli, a volte fino a seiper carro, aggiogati sempre a pariglie. Il costante andirivieni di truppe aveva ridottoil villaggio in uno stato di indescrivibile sporcizia. Il paese non aveva, né aveva maiavuto, un cesso o una fogna di qualche tipo e non c’era praticamente metro quadrodove si potesse passare senza stare bene attenti a dove si mettevano i piedi. La chiesa

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era stata ormai da tempo adibita a latrina e così tutti i campi per un raggio diquattrocento metri tutt’attorno. Non ripenso mai ai miei primi due mesi di guerrasenza rivedere i campi di stoppia invernale dai bordi incrostati di sterco.

Dopo due giorni, ancora non ci avevano distribuito i fucili. Dopo essere passati alComité de Guerra e ispezionato la fila di buchi nel muro – buchi provocati daraffiche di fucile, dato che vari fascisti erano stati giustiziati lì – in pratica avevi giàvisto tutto ciò che c’era da vedere ad Alcubierre. Su al fronte le cose evidentementeerano tranquille perché pochissimi feriti venivano trasferiti quaggiù. La distrazionepiù emozionante era l’arrivo dei disertori fascisti, che venivano scortati qui dalfronte. Molte delle truppe che ci fronteggiavano in questa zona non erano formateaffatto da fascisti, solo da disgraziati sorpresi dallo scoppio della guerra civilementre prestavano servizio di leva e che non vedevano l’ora di scappare. Ogni tantopiccoli gruppi s’arrischiavano a passare le linee e a venire dalla nostra parte. Non c’èdubbio che molti altri avrebbero fatto altrettanto se le loro famiglie non si fosserotrovate nel territorio controllato dai fascisti. Questi disertori erano i primi “veri”fascisti che avessi mai visto. La cosa che mi colpì più di tutto è che eranoassolutamente indistinguibili da noialtri, a parte il fatto che indossavano una tutakaki. Avevano sempre una fame da lupi quando arrivavano – abbastanza naturaledopo un paio di giornate passate a nascondersi nella terra di nessuno, ma era unsegno che veniva trionfalmente indicato come prova evidente che le truppe fascisteerano alla fame. Una volta ne osservai uno mentre si rifocillava in una casa dicontadini. Per molti versi era uno spettacolo pietoso. Un ragazzone sui vent’anni,profondamente segnato dal vento, con i vestiti ridotti a stracci, chino davanti alfuoco, intento a ingollarsi una gavetta piena di stufato scucchiaiandosela in bocca avelocità disperata; e per tutto il tempo il suo sguardo faceva nervosamente la spolatra i miliziani che erano in piedi tutt’attorno a lui. Secondo me non era ancora deltutto sicuro che non fossimo “rossi” assetati di sangue che l’avrebbero fucilato nonappena avesse finito di mangiare; la guardia armata che lo scortava continuava acarezzargli una spalla e a fare dei versi per rassicurarlo. In una memorabileoccasione quindici disertori arrivarono tutti in gruppo. Furono condotti in trionfoattraverso il villaggio con uno dei nostri in sella a un cavallo bianco che li precedeva.Riuscii a scattare una foto piuttosto sfuocata che in seguito mi è stata rubata.

Il mattino del terzo giorno che eravamo ad Alcubierre arrivarono i fucili. Unsergente con una faccia rozza e giallastra li distribuiva nella stalla dei muli. Ebbi unsussulto di sgomento quando vidi l’oggetto che mi era stato assegnato. Un Mausertedesco fabbricato nel 1896, vecchio di oltre quarant’anni! Era arrugginito,l’otturatore era duro, il supporto di legno della canna era spaccato; mi bastò gettareun’occhiata all’imboccatura della canna per rendermi conto che era corrosa e cheormai non c’era proprio niente da fare. La maggior parte degli altri fucili non eranoin condizioni migliori, anzi alcuni erano ridotti anche peggio, e non fu fatto alcuntentativo di dare le armi migliori agli uomini che sapevano maneggiarle meglio. Ilfucile migliore, che aveva solo dieci anni, fu dato a una creatura semideficiente diquindici anni, noto a tutti come il maricón (la checca). Il sergente ci “addestrò” al lorouso in cinque minuti, spiegandoci cioè come si caricava un fucile e come si smontaval’otturatore. Molti dei miliziani non avevano mai avuto un fucile per le mani epochissimi, sospetto, sapevano a che cosa servisse il mirino. Furono distribuite anchele cartucce, cinquanta a testa, quindi ci fecero mettere in riga, zaino in spalla, e cidirigemmo verso il fronte che distava da lì poco meno di cinque chilometri.

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La centuria, formata da ottanta uomini e diversi cani, si avviò in ordine sparso super il tornante. Ogni colonna di miliziani aveva almeno un cane come mascotte. Lapovera bestia che marciava con noi portava su un fianco la sigla POUM marchiata agrandi lettere e si muoveva con fare furtivo come se si rendesse conto che c’eraqualcosa che non andava nel suo aspetto. A capo della colonna, accanto alla bandierarossa, cavalcava Georges Kopp, il robusto comandante belga, in sella a un cavallonero; poco oltre si pavoneggiava avanti e indietro un giovanotto della brigantescacavalleria miliziana, che lanciava il cavallo al galoppo lungo ogni salita per poiatteggiarsi in pose pittoresche quando arrivava in cima. Gli splendidi cavalli dellacavalleria spagnola erano stati catturati in gran quantità nel corso della rivoluzione edistribuiti ai miliziani che, naturalmente, si davano molto da fare per cavalcarli finoa farli crepare.

La strada s’inerpicava in tornanti tra campi gialli e sterili che non erano stati piùtoccati dal raccolto dell’anno precedente. Davanti a noi si ergeva la bassa sierra chesepara Alcubierre da Saragozza. Ormai ci stavamo avvicinando alla prima linea, allebombe, alle mitragliatrici e al fango. Nel mio intimo ero spaventato. Sapevo che ilfronte era abbastanza tranquillo in quel momento, ma a differenza della maggiorparte degli uomini attorno a me ero abbastanza anziano da ricordare la GrandeGuerra, anche se non tanto da avervi partecipato. Per me la guerra voleva direproiettili che arrivavano ruggendo e schegge d’acciaio che rimbalzavano; esoprattutto voleva dire fango, pidocchi, fame e freddo. Può sembrare strano, matemevo il freddo più del nemico. Il pensiero del freddo mi aveva ossessionato sin daquando ero a Barcellona; addirittura mi aveva tenuto sveglio di notte, immaginandoil freddo delle trincee, le levatacce all’alba, i lunghi turni di guardia con il fucileghiacciato, il fango gelido che mi si sarebbe infilato negli stivali. Ammetto anche cheprovavo una specie di orrore nel guardare gli uomini che mi marciavano accanto.Non potete neanche immaginare che masnada disordinata sembravamo. Citrascinavamo in avanti con molta meno coesione di un gregge di pecore; nonavevamo fatto neanche tre chilometri che la coda della nostra colonna scomparveall’orizzonte. E almeno una buona metà dei cosiddetti uomini erano in realtà ragazzi– voglio dire, letteralmente ragazzini, al massimo sedicenni. Eppure erano tutti felicied emozionati al pensiero di arrivare finalmente al fronte. A mano a mano che ciavvicinavamo alla prima linea i ragazzi attorno alla bandiera rossa in testa allacolonna cominciarono a lanciare urla di «Visca POUM!», «Fascistas-maricones!» e cosìvia – urla che volevano essere bellicose e formidabili, ma che, uscendo da quelle goleinfantili, risuonavano patetiche come lamenti di gattini. Faceva un’impressioneorribile che i difensori della Repubblica dovessero essere questa folla di ragazzinistraccioni armati di logori fucili che non sapevano neanche usare. Ricordo di averpensato che cosa sarebbe successo se un aereo fascista fosse passato sopra di noi.Chissà se il pilota si sarebbe preso il disturbo di scendere in picchiata e spararci unaraffica di mitraglia? Forse persino da quell’altezza si sarebbe reso conto che noneravamo veri soldati.

Appena la strada s’inoltrò nella sierra deviammo verso destra e ci inerpicammoper una stretta mulattiera che saliva in tornanti su per la montagna. I monti in quellaparte della Spagna hanno una ben strana conformazione: sono fatti a ferro di cavallo,con la cima pianeggiante e fianchi scoscesi che sprofondano in immensi burroni.Verso la cima, con le ossa biancastre del calcare che affiorano dappertutto, non crescenulla sui pendii, tranne qualche stento arbusto e un po’ d’erica. La linea del fronte

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qui non è una linea continua di trincee, cosa impossibile del resto in un territoriomontuoso come questo, ma semplicemente una catena di luoghi fortificati, noti sottoil nome di “posizioni”, appollaiati in cima a ogni monte. Da una certa distanza siscorgeva la nostra “posizione” al centro del ferro di cavallo: una barricata irregolaredi sacchetti di sabbia, una bandiera rossa che garriva al vento, il fumo dei fuochiaccesi nei ricoveri scavati nella roccia. Appena ci si avvicinava un po’ si sentivaanche l’odore dolciastro e nauseabondo che in seguito mi è rimasto nelle narici persettimane: nel burrone che si spalancava alle spalle della posizione per mesi e mesierano stati gettati tutti i rifiuti – un mucchio marcio di croste di pane, escrementi elattine arrugginite.

La compagnia cui davamo il cambio si stava mettendo gli zaini in spalla. Erano tremesi che erano in prima linea; avevano le uniformi incrostate di fango, gli scarponi apezzi e i volti per la maggior parte barbuti. Il capitano che comandava la posizione(si chiamava Levinski ma era noto a tutti come Benjamin, era ebreo polacco dinascita, ma di madrelingua francese) spuntò fuori dal rifugio sotterraneo e ci salutò.Era un giovanotto tarchiato sui venticinque anni, dai capelli neri e rigidi e un visopallido e intenso che in quel periodo della guerra era anche sempre molto sudicio.Qualche pallottola vagante ronzava alta sopra le nostre teste. La posizione era unrecinto semicircolare largo una cinquantina di metri, con un parapetto formato inparte da sacchetti di sabbia e in parte da blocchi di calcare. C’erano trenta o quarantarifugi scavati nella roccia come tane di sorci. Williams, io e suo cognato ci tuffammosubito nel primo rifugio vuoto che ci sembrava più abitabile. Da qualche partedavanti a noi ogni tanto risuonava una fucilata che suscitava strani echi rotolanti trai monti di pietra. Avevamo appena fatto in tempo a posare gli zaini e a uscirestrisciando dal rifugio quando sentimmo un’altra esplosione e uno dei ragazzinidella nostra compagnia si allontanò di corsa dal parapetto con il viso percorso darivoli di sangue. Aveva fatto fuoco con il suo fucile ed era riuscito chissà come a farsiesplodere l’otturatore in faccia; aveva il cuoio capelluto ridotto a brandelli daiframmenti del bossolo scoppiato. Era il nostro primo ferito e, naturalmente, avevafatto tutto da solo.

Nel pomeriggio effettuammo il nostro primo turno di guardia e Benjamin ci fecevisitare la posizione. Davanti al parapetto c’era tutto un sistema di strette trinceescavate nella roccia, con feritoie molto rudimentali ricavate da mucchi di calcare.C’erano dodici posti di guardia, distribuiti in vari punti delle trincee e dietro ilparapetto interno. Davanti alle trincee c’era il filo spinato e poi il pendio sembravascivolare a precipizio in un burrone apparentemente senza fondo; di fronte a noic’erano colli brulli, qua e là semplici costoni rocciosi, tutti grigi e invernali, senzaalcun segno di vita, neanche un uccello. Scrutai attentamente tutto il paesaggio dauna feritoia, cercando di individuare la trincea fascista.

«Ma il nemico dov’è?»Benjamin agitò vigorosamente una mano. «Over zere!» (Benjamin parlava inglese,

un inglese terribile).«Sì, ma dove?»Secondo il concetto che mi ero fatto della guerra di trincea i fascisti avrebbero

dovuto trovarsi a cinquanta, cento metri di distanza. Ma lì non vedevo niente – aquanto pareva le loro trincee erano ben mimetizzate. Poi con sgomento mi resi contodel punto che Benjamin stava cercando di indicarmi; era la cima della collina difronte, oltre il burrone, ad almeno settecento metri di distanza, il vago profilo di un

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parapetto e una bandiera giallo-rossa: ecco la posizione dei fascisti. Rimasiindicibilmente deluso. Non eravamo affatto vicini! A quella distanza i nostri fucilierano completamente inutili. Ma proprio in quel momento ci fu un grido dieccitazione. Due fascisti, piccole figure grigiastre in lontananza, s’inerpicavano dicorsa sul pendio brullo del monte davanti a noi. Benjamin afferrò il fucile dell’uomoche gli stava accanto, prese la mira e tirò il grilletto. Clic! la cartuccia fece cilecca; iolo presi come un cattivo segno.

Le nuove sentinelle avevano fatto appena in tempo a prendere posizione nelletrincee che cominciarono a sparare una terribile salva di fucilate a niente inparticolare. Vedevo i fascisti, piccoli come formiche, spostarsi avanti e indietro alriparo del loro parapetto e ogni tanto un puntino nero che rappresentava una testa sifermava un attimo impudentemente esposto. Era chiaro che sparare era del tuttoinutile. Ma dopo neanche un attimo la sentinella alla mia sinistra, abbandonando ilsuo posto in maniera tipicamente spagnola, strisciò fino a me e cominciò a insistereperché sparassi. Provai a spiegargli che a quella distanza e con i nostri fucili siriusciva a colpire un uomo solo per sbaglio. Ma lui era appena un ragazzino econtinuava a indicarmi uno dei puntini con il suo fucile, con un’espressioneimpaziente come quella di un cane che aspetta che gli si lanci un sasso. Alla fineregolai l’alzo sui settecento metri e feci fuoco. Il puntino scomparve. Spero che ilcolpo gli sia andato abbastanza vicino da fargli fare un salto. Era la prima volta invita mia che sparavo una fucilata a un essere umano.

Ora che avevo visto il fronte ero profondamente disgustato. E la chiamavanoguerra, questa! E non eravamo certo in contatto con il nemico! Non facevo alcuntentativo di tenere la testa al di sotto del livello della trincea. Qualche tempo dopo,però, una pallottola mi passò accanto all’orecchio con un sibilo maligno per andarsi aspiattellare nel terrapieno alle mie spalle. Ahimè! Mi abbassai di colpo. Per tutta lavita avevo giurato che non mi sarei abbassato di colpo la prima volta che unapallottola mi fosse fischiata accanto; ma quel movimento pare essere istintivo e quasitutti lo fanno, almeno una volta.

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III

Nella guerra di trincea cinque sono le cose importanti: la legna da ardere, il cibo, iltabacco, le candele e il nemico. In inverno, sul fronte di Saragozza erano importantiesattamente in quest’ordine, con il nemico assolutamente all’ultimo posto. Tranneche di notte, quando un attacco di sorpresa era sempre possibile, nessuno sipreoccupava molto del nemico. Erano solo dei lontani insetti neri che di tanto intanto si vedevano saltellare avanti e indietro. La vera preoccupazione di entrambi glieserciti era cercare di mantenersi caldi.

Dovrei dire subito che in tutto il periodo che ho passato in Spagna dicombattimenti veri e propri ne ho visti pochissimi. Sono stato sul fronte aragoneseda gennaio a maggio e tra gennaio e la fine di marzo poco o niente è successo su quelfronte, se si eccettua la battaglia di Teruel. A marzo ci sono stati forti scontri intornoa Huesca, ma il mio ruolo personale in essi è stato molto marginale. In seguito, agiugno, ci fu il disastroso attacco a Huesca in cui diverse migliaia di uomini rimaserouccisi in un solo giorno, ma io ormai ero già stato ferito e messo fuoricombattimento. Le cose che si immaginano come gli orrori della guerra mi sonoaccadute solo di rado. Nessun aeroplano ha mai sganciato una bomba nelle mievicinanze, mi sa che neanche una granata è scoppiata nel raggio di una cinquantinadi metri attorno a me e sono stato impegnato in un combattimento corpo a corposoltanto una volta (e una volta è già troppo, posso aggiungere). Naturalmente sonostato sotto un pesante fuoco di mitragliatrice, ma di solito a distanze piuttostolontane. Perfino a Huesca si stava abbastanza al sicuro se si prendevano leopportune precauzioni.

Lassù, sui monti intorno a Saragozza, c’era soltanto quel misto di noia e discomodità che caratterizza la guerra di posizione. Una vita senza sorprese comequella di un impiegato di banca, e quasi altrettanto regolare. Turni di guardia,pattugliamenti, lavori di scavo; lavori di scavo, pattugliamenti, turni di guardia. Suogni vetta, fascista o lealista, un pugno di uomini sudici e stracciati tremavanoattorno alla propria bandiera e cercavano di tenersi al caldo. E a tutte le ore delgiorno e della notte pallottole senza senso vagavano sopra le valli vuote e solo perqualche improbabile caso fortuito andavano a bersaglio su un essere umano.

Spesso mi guardavo attorno nel paesaggio invernale e mi stupivo della futilità ditutto questo. Com’era inconcludente questo tipo di guerra! Qualche mese prima,verso ottobre, c’erano stati selvaggi combattimenti per conquistare questi monti; poi,dato che la mancanza di uomini e di armamenti, in particolare di artiglieria, rendevaimpossibile qualsiasi operazione su vasta scala, ogni esercito si era scavato le proprietrincee e si era sistemato sulle cime conquistate. Alla nostra destra c’era un piccoloavamposto, sempre del POUM, e sullo sperone di roccia alla nostra sinistra, alle settein punto rispetto a noi, una posizione del PSUC fronteggiava un altro sperone più altola cui cima era punteggiata da diverse piccole trincee fasciste. La cosiddetta primalinea zigzagava di qua e di là in un modo assolutamente incomprensibile se su ogni

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posizione non fosse sventolata una bandiera. Quelle del POUM e del PSUC erano rossee quelle degli anarchici rosso-nere; i fascisti di solito innalzavano la bandieramonarchica (rossa-gialla-rossa), ma qualche volta usavano anche quellarepubblicana (rossa-gialla-purpurea). 1 Il paesaggio era stupendo se riuscivi adimenticare che ogni vetta era occupata da truppe ed era perciò piena di lattine eincrostata di sterco. Alla nostra destra la sierra piegava verso sudest e si aprivanell’ampia valle percorsa da vene che si estendeva fino a Huesca. Nel bel mezzodella pianura alcuni minuscoli cubi erano sparsi come se qualcuno avesse lanciatodei dadi; era Robres, una cittadina nelle mani dei lealisti. Spesso la mattina la valleera nascosta sotto un mare di nuvole, dal quale i monti emergevano piatti eazzurrini, dando al paesaggio una strana somiglianza con un negativo fotografico.Oltre Huesca c’erano altre formazioni di monti come i nostri, segnati da strisce dineve che cambiavano disegno da un giorno all’altro. In lontananza le vettemostruose dei Pirenei, dove la neve non si scioglie mai, sembravano galleggiare sulnulla. Anche giù nella pianura tutto pareva morto e brullo. I monti davanti a noierano grigi e rugosi come pelle d’elefante. Il cielo era quasi sempre privo di uccelli.Non credo di aver mai visto un paese dove ce ne fossero così pochi. Gli unici chesono riuscito a vedere erano una specie di gazze e qualche stormo di pernici che dinotte ci facevano sussultare con il loro improvviso frullare, e anche, moltoraramente, voli d’aquila che veleggiavano lentamente ben al di sopra delle nostreteste, in genere inseguite da fucilate che loro neanche si degnavano di notare.

Nottetempo e quando c’era la nebbia si mandavano pattuglie nella valle che ciseparava dai fascisti. Era un compito non molto gradito: faceva troppo freddo ed eratroppo facile smarrirsi, e così ben presto scoprii che potevo ottenere il permesso diandare di pattuglia ogni volta che ne avevo voglia. Non c’erano sentieri di sorta tra igrandi burroni frastagliati; si riusciva a ritrovare la strada solo facendo ripetutitentativi e prendendo nota di nuovi punti di riferimento ogni volta. A volo dipallottola la postazione fascista più vicina era a settecento metri dalla nostra, madistava più di due chilometri per l’unica strada praticabile a piedi. Trovavoabbastanza divertente gironzolare per le oscure forre mentre le pallottole vagantifischiavano alte sulla mia testa come uccelli in volo. Anche meglio della notte era lanebbia fitta, che spesso durava l’intera giornata e aveva la tendenza ad attaccarsi allecime dei monti e a lasciare libere le valli. Quando ci si avvicinava alle linee fascistebisognava procedere a passo di lumaca; era molto difficile muoversi in silenziolungo quei pendii, tra gli arbusti secchi che scricchiolavano e l’acciottolio dei sassi.Fu solo al mio terzo o quarto tentativo che riuscii a trovare la strada per le lineenemiche. La nebbia era fittissima e strisciai fino al filo spinato per origliare. Sentivo ifascisti che chiacchieravano e cantavano nelle trincee. Poi fui messo in allarmeudendo alcuni di loro scendere dalla cima nella mia direzione. Mi nascosi dietro a uncespuglio che all’improvviso mi sembrò troppo piccolo e cercai di armare il fucilesenza far rumore. Comunque loro deviarono e non arrivarono mai nel mio raggiovisivo. Dietro al cespuglio dove mi ero rifugiato trovai numerose tracce di unprecedente combattimento – un mucchio di bossoli vuoti, un berretto di cuoio con unforo di pallottola e una bandiera rossa, evidentemente una delle nostre. La riportaiindietro nella nostra posizione, dove senza tanti complimenti fu ridotta a brandelliper farne stracci.

Appena arrivato al fronte ero stato nominato caporale o cabo, come dicevano loro,e posto al comando di una squadra di dodici uomini. Non era certo una sinecura,

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specialmente all’inizio. La centuria era una masnada senza addestramento compostaperlopiù da ragazzini sotto i vent’anni. Ogni tanto, tra le file della milizia, cis’imbatteva in bambini anche di undici, dodici anni, di solito profughi da territoricontrollati dai fascisti, che erano stati arruolati come miliziani perché era il modo piùfacile per mantenerli. Di regola erano impiegati in lavoretti leggeri nelle retrovie, maa volte riuscivano ad arrivare di soppiatto in prima linea, dove erano un vero eproprio pericolo pubblico. Mi ricordo di un piccolo bruto che gettò una bomba amano nel falò di un rifugio sotterraneo, «così, tanto per scherzare». Sul Monte Poceronon credo ci fosse nessuno al di sotto dei quindici anni, ma l’età media dovevacomunque essere molto inferiore ai vent’anni. Ragazzi di quell’età non dovrebberomai essere usati in prima linea, perché non resistono alla mancanza di sonno che èparte inseparabile della guerra di trincea. All’inizio era quasi impossibile mantenerela nostra posizione ben sorvegliata di notte. Si riusciva a svegliare quei disgraziatiragazzini della mia sezione solo trascinandoli fuori dai rifugi per i piedi e appenagiravamo la schiena, abbandonavano il proprio posto e si rinfilavano al riparo;oppure, addirittura, nonostante il terribile freddo, si appoggiavano alla parete dellatrincea e si addormentavano come sassi. Per nostra fortuna il nemico era tutt’altroche intraprendente. C’erano notti in cui mi pareva che la nostra posizione potesseessere espugnata da venti giovani esploratori armati di fucili ad aria compressaoppure, per restare in argomento, perfino da altrettante giovani guide armate diracchette da volano.

In quel periodo e anche molto più tardi, le milizie catalane avevano ancora lastessa base su cui si erano stabilite all’inizio della guerra. Nei primi tempi dellarivolta di Franco le milizie erano state organizzate in tutta fretta dai vari sindacati epartiti politici; erano essenzialmente organizzazioni politiche che obbedivano tantoal proprio partito di appartenenza quanto al governo centrale. Quando, all’inizio del1937, fu fondato l’Esercito Popolare, che era un esercito “apolitico” organizzato inmaniera più o meno tradizionale, in teoria le milizie di partito vi avrebbero dovutoessere incorporate. Ma per un lungo periodo gli unici cambiamenti che ebbero luogoavvennero soltanto sulla carta; le truppe del nuovo Esercito Popolare non arrivaronoin gran numero sul fronte aragonese se non a giugno e fino a quel momento ilsistema delle milizie rimase inalterato. Il punto centrale di questo sistema eral’assoluta eguaglianza sociale tra soldati e ufficiali. Tutti, dai generali ai soldatisemplici, ricevevano lo stesso soldo, mangiavano lo stesso cibo, indossavano glistessi abiti e si mescolavano tra loro sulla base di un’assoluta parità. Se si avevavoglia di dare una pacca sulle spalle del generale al comando della divisione echiedergli una sigaretta, si poteva farlo e nessuno l’avrebbe considerato strano. Perlo meno in teoria ogni milizia era un sistema democratico e non gerarchico. Erasottinteso che gli ordini dovessero essere eseguiti, ma anche che dovessero essereimpartiti da compagno a compagno e non da superiore a inferiore. C’erano ufficiali esottufficiali, ma non esistevano i gradi militari nel senso comunemente inteso; nonc’erano titoli, né galloni, né battere di tacchi, né saluti. Si era tentato di costruireall’interno delle milizie una specie di modello sperimentale di una società senzaclassi. Naturalmente non si trattava di un’eguaglianza perfetta, ma era quanto di piùvicino all’eguaglianza avessi mai visto o potessi ritenere possibile in tempo diguerra.

Devo però ammettere che a prima vista la situazione al fronte suscitò il mioorrore. Come diavolo si faceva a vincere una guerra con un esercito di questo tipo?

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Era la stessa cosa che dicevano tutti all’epoca, ma anche se era vera era pur sempreirragionevole. Perché, date le circostanze, le milizie non potevano certo esseremigliori di quello che erano. Un moderno esercito meccanizzato non spunta certofuori dal nulla, e se il governo avesse aspettato di avere truppe adeguatamenteaddestrate a disposizione, non ci sarebbe stata alcuna opposizione a Franco. Inseguito è prevalsa la moda di disprezzare le milizie e perciò di fingere che i difettiattribuibili alla mancanza di addestramento e di armamenti fossero il risultato delsistema ugualitario. In realtà, una nuova leva di volontari della milizia era unamassa indisciplinata non perché gli ufficiali chiamavano “compagni” i soldatisemplici, ma solo perché truppe formate da pivelli sono sempre delle masseindisciplinate. Nella pratica il tipo di disciplina “rivoluzionaria” e democratica è piùaffidabile di quanto ci si possa aspettare. In un esercito operaio la disciplina è,almeno in teoria, volontaria. È basata sulla solidarietà di classe, laddove in unesercito borghese di coscritti è basata in ultima analisi sulla paura. (L’EsercitoPopolare che sostituì le milizie adottò una disciplina che era una via di mezzo tra idue tipi.) Nelle milizie le prepotenze e gli insulti abituali in un esercito normale nonsarebbero stati tollerati neanche per un attimo. Le solite punizioni militariesistevano, ma erano applicate soltanto in caso di mancanze gravissime. Se unsoldato rifiutava di obbedire a un ordine non si procedeva immediatamente alla suapunizione; prima ci si appellava a lui in nome della solidarietà tra compagni. Ciniciinveterati che non hanno alcuna esperienza nel trattare con gli uomini dirannosubito che questo sistema non “funzionerà” mai, ma la verità è che alla lunga“funziona”, eccome.

Anche tra le leve peggiori di miliziani volontari la disciplina migliorò visibilmentecon il passare del tempo. A gennaio il compito di tenere in riga una dozzina direclute alle prime armi mi fece quasi venire i capelli bianchi. A maggio, per un breveperiodo, presi il posto di tenente al comando di una trentina di uomini, inglesi espagnoli. Eravamo stati tutti sotto il fuoco nemico per mesi e non ebbi mai la benchéminima difficoltà nel farmi obbedire o nel trovare volontari per una missionepericolosa. La disciplina “rivoluzionaria” dipende dalla coscienza politica – dallacomprensione del perché si deve obbedire agli ordini –; ci vuole tempo per diffonderequesta consapevolezza, ma del resto ci vuole tempo anche a addestrare un uomofino a farlo diventare un automa da piazza d’armi. I giornalisti che hanno deriso ilsistema delle milizie raramente si sono ricordati che questi volontari hanno dovutotenere la prima linea mentre l’Esercito Popolare si addestrava nelle retrovie. Il fattostesso che le milizie abbiano resistito sul campo è un tributo alla forza delladisciplina “rivoluzionaria”, visto che almeno fino al giugno del 1937 non c’era nienteche li obbligasse a farlo se non la solidarietà di classe. Qualche isolato disertorepoteva essere fucilato – qualche volta in effetti lo è stato – ma se mille uominidecidevano di abbandonare il fronte tutti insieme non c’era forza che avrebbe potutofermarli. Un esercito di coscritti nelle stesse circostanze – senza polizia militare – sisarebbe disperso subito. Eppure le milizie resistettero, anche se Dio sa che ottenneropochissime vittorie, e i casi di diserzione individuale non erano affatto comuni. Inquattro o cinque mesi passati nella milizia del POUM ho sentito di soli quattrodisertori e due di loro erano quasi sicuramente spie che si erano arruolate perottenere informazioni militari. All’inizio, il caos apparente, la mancanzageneralizzata di addestramento, il fatto che spesso si dovesse discutere per cinqueminuti prima che un ordine venisse eseguito, mi sconvolgevano e mi mandavano su

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tutte le furie. Avevo ancora idee basate sull’esercito inglese e certo le miliziespagnole se ne discostavano parecchio. Però, considerate le circostanze, erano truppemolto migliori di quanto chiunque potesse aspettarsi.

Nel frattempo, la legna da ardere – sempre quella. In tutto quel periodo non c’èannotazione nel mio diario che non menzioni la legna da ardere, o meglio lamancanza di legna da ardere. Ci trovavamo tra i seicento e i novecento metri dialtezza sul livello del mare, eravamo nel cuore dell’inverno e il freddo eraincredibile. Non che la temperatura fosse eccezionalmente bassa, parecchie notti nongelava nemmeno e un pallido sole invernale brillava spesso per un’ora nel bel mezzodella giornata; ma anche se non era molto freddo, vi assicuro che sembrava che lofosse. A volte c’era un vento stridulo che riusciva a strapparvi il berretto dalla testa ead attorcigliarvi i capelli in tutte le direzioni, a volte c’erano nebbie che siriversavano nelle trincee come liquido e vi penetravano fin nelle ossa; pioveva difrequente e bastava anche un quarto d’ora di pioggia per rendere intollerabili lecondizioni di vita. Il sottile strato di terra che copriva il calcare si trasformava subitoin una specie di grasso sdrucciolevole e siccome si camminava sempre in pendio eraimpossibile mantenere la presa a terra. Di notte, al buio, spesso sono caduto anchesei volte per fare venti metri; ed era una cosa molto pericolosa perché voleva dire chel’otturatore del fucile si impastava di fango. Per giorni e giorni di seguito vestiti,scarponi, coperte e fucili erano più o meno coperti di fango. Io mi ero portato quantipiù vestiti pesanti potessi trasportare, ma molti degli uomini erano terribilmentemalvestiti. Per l’intera guarnigione, un centinaio di uomini, c’erano solo dodicicappotti, che dovevano essere passati di sentinella in sentinella, e la maggior partedegli uomini aveva solo una coperta. In una gelida notte ho fatto un elenco nel miodiario di tutti gli articoli di vestiario che avevo indosso. Può essere interessante perdimostrare la quantità di vestiti che un corpo umano può portare. Indossavo unamaglia pesante e mutandoni, una camicia di flanella, due pullover, una giacca dilana, una giacca di pelle, braghe di velluto a coste, ghette, calze pesanti, scarponi, unrobusto impermeabile, una sciarpa, guanti di pelle foderati e un berretto di lana.Nondimeno tremavo come una foglia. Ammetto però di essere particolarmentefreddoloso.

La legna da ardere era l’unica cosa veramente importante. Il problema era chepraticamente non ce n’era affatto. La nostra misera montagna non aveva moltavegetazione neppure in condizioni ottimali e ormai erano mesi che era statarastrellata in lungo e largo da miliziani infreddoliti, con il risultato che qualsiasisterpo più spesso di un dito era stato già da tempo bruciato. Quando nonmangiavamo, dormivamo, montavamo la guardia o eravamo di corvé, andavamosempre giù nella valle dietro la posizione a cercare disperatamente combustibile.Tutto quel che ricordo di quel periodo sono le scarpinate su e giù per quel pendioquasi perpendicolare, sulle rocce aguzze che riducevano a brandelli gli scarponi, enoi sempre pronti ad avventarci su esili fuscelli di legno. Tre persone intente acercare per un paio d’ore riuscivano a raccogliere abbastanza combustibile peralimentare il fuoco in un rifugio sotterraneo per circa un’ora. L’ansia con cuicercavamo la legna da ardere ci aveva trasformato tutti in esperti botanici. Avevamoclassificato ogni pianta che cresceva sui fianchi della montagna secondo lecaratteristiche con cui ardeva: le varie eriche ed erbe secche, che erano buone peraccendere il fuoco ma si consumavano poi in pochi secondi; i cespugli di rosmarinoselvatico e le minuscole ginestre, che ardevano solo quando il fuoco era ben avviato;

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le stentate querce nane, più piccole di un arbusto d’uva spina, che praticamente nonsi potevano bruciare. C’era anche un tipo di canne secche che era ottimo peraccendere il fuoco, ma siccome crescevano solo sulla cima alla sinistra dellaposizione, per procurarsele bisognava affrontare il fuoco nemico. Se i mitraglierifascisti vedevano qualcuno andare là gli regalavano un intero caricatore tutto per lui.In generale la loro mira era però alta e le pallottole fischiavano sopra la testa comeuccelli, ma a volte gracchiavano e scheggiavano il calcare un po’ tropposcomodamente vicine, al che ci si buttava faccia a terra. Però si continuava anche araccogliere le canne; quando si trattava di legna da ardere, le altre cose contavanopoco.

Al confronto del freddo tutti gli altri disagi sembravano banali. Naturalmenteeravamo tutti sempre sudici. La nostra acqua, come il cibo del resto, veniva su adorso di mulo da Alcubierre e la razione che toccava a ciascuno finiva per essere dicirca un litro al giorno. Era un’acqua schifosa, poco più limpida del latte. In teoriadoveva essere solo da bere, ma io riuscivo sempre a sottrarne un gavettino perlavarmi la mattina. Ero solito lavarmici un giorno e usarla per radermi il giornodopo; non c’era mai abbastanza acqua per fare entrambe le cose. Nell’interaposizione il fetore era abominevole e fuori dal piccolo recinto della barricata c’eraogni sorta di escremento. Alcuni dei miliziani erano soliti defecare direttamente intrincea, un’abitudine disgustosa quando si doveva girare per i camminamenti albuio. Ma la sporcizia non mi ha mai preoccupato troppo. La sporcizia è una cosa sucui la gente di solito fa un po’ troppe storie. È stupefacente come ci si abitui in frettaa fare a meno del fazzoletto e a mangiare dalla stessa gavetta con cui ci si lava. Eneanche dormire vestiti è più un problema dopo un giorno o due. Naturalmente dinotte era impossibile togliersi i vestiti e specialmente gli scarponi; in caso di attaccobisognava essere pronti a uscire in un attimo. In ottanta notti, mi sono spogliato solotre volte, anche se ogni tanto riuscivo a cambiarmi d’abito di giorno. Faceva ancoratroppo freddo per avere i pidocchi, ma ratti e topi abbondavano. Spesso si dice chenon si trovano mai ratti e topi nello stesso posto, ma se c’è abbastanza cibo per lorosi trovano eccome.

Per altri versi non ce la passavamo poi troppo male. Il cibo era abbastanza buonoe di vino ce n’era in abbondanza. Le sigarette venivano ancora distribuite in razionidi un pacchetto al giorno, i fiammiferi un giorno sì e un giorno no, e c’era anche unadistribuzione di candele. Erano molto sottili, come quelle che si mettono sulle torte, etutti pensavano che fossero state razziate in qualche chiesa. Ogni rifugio sotterraneoriceveva ogni giorno una candela di circa otto centimetri che ardeva per ventiminuti. All’epoca era ancora possibile comprarle, anche se io me n’ero portata unabuona scorta personale. In seguito la penuria di candele e fiammiferi rese la vitamolto difficile. Non si riesce a comprendere l’importanza di queste cose fino a chenon se ne resta sprovvisti. Nel corso di un allarme notturno, per esempio, quandonel rifugio tutti cercano di prendere in fretta il fucile anche a costo di calpestare lafaccia del proprio compagno, poter accendere un fiammifero può fare la differenzatra la vita e la morte. Ogni miliziano aveva una pietra focaia e diversi metri distoppino giallastro. Subito dopo il fucile, questo era l’oggetto più importante che sipossedesse. Questi accendini a pietra focaia presentavano il grande vantaggio difunzionare anche in presenza di vento, solo che si limitavano a produrre un po’ dibrace fumante e quindi non erano molto utili ad accendere un fuoco. Quando lascarsità di fiammiferi aumentò il nostro unico sistema per ottenere una fiamma era

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quello di togliere la pallottola a una cartuccia e di accendere la cordite con la pietrafocaia.

La nostra era una vita veramente straordinaria – un modo di fare la guerra, seguerra la si poteva definire, molto fuori dal comune. L’intera milizia era irritatadall’inazione e protestava continuamente per sapere perché non ci era permessoattaccare. Ma era del tutto evidente che non ci sarebbe stata nessuna battaglia ancoraper molto tempo, a meno che non l’avesse iniziata il nemico. Georges Kopp, nei suoiperiodici giri d’ispezione, era stato molto chiaro con noi. «Questa non è una guerra»ci diceva, «è un’opera buffa in cui ogni tanto qualcuno muore.» In realtà lastagnazione sul fronte aragonese aveva origini politiche di cui all’epoca non sapevoniente; ma le difficoltà puramente militari – anche senza considerare la mancanza ditruppe di riserva – erano sotto gli occhi di tutti.

Tanto per cominciare, la natura del territorio. La linea del fronte, nostra e deifascisti, passava per posizioni di immensa forza naturale, che di regola potevanoessere avvicinate solo da una parte. Bastava scavare qualche trincea e posti delgenere non potevano essere conquistati dalla fanteria, a meno che non si fosse insuperiorità numerica schiacciante. Nella nostra posizione e nella maggior parte diquelle attorno a noi, una dozzina di uomini e un paio di mitragliatrici avrebberopotuto fermare un intero battaglione. Appollaiati come eravamo sulla cima di queimonti avremmo dovuto essere dei perfetti bersagli per l’artiglieria; solo chel’artiglieria non c’era. A volte guardavo il paesaggio attorno a me e desideravo – oh,con quanta passione! – un paio di batterie di cannoni. Si sarebbero potutedistruggere le posizioni nemiche una dopo l’altra con la stessa facilità di chi schiacciale noci con un martello. Ma dalla nostra parte i cannoni semplicemente nonesistevano. I fascisti ogni tanto riuscivano a portare uno o due pezzi da Saragozza e asparare qualche rara salva, ma erano così poche che non riuscivano neanche adaggiustare il tiro e le granate si tuffavano senza far danno nel vuoto dei burroni.Contro le mitragliatrici e in assenza di artiglieria ci sono solo tre cose che si possonofare: trincerarsi a distanza di sicurezza – diciamo, a quattrocento metri –, avanzare incampo aperto e farsi massacrare, oppure sferrare piccoli attacchi notturni che nonalterano la situazione generale. In pratica, l’alternativa è tra la stagnazione e ilsuicidio.

A tutto questo si aggiungeva la completa mancanza di materiale bellico. Bisognaveramente sforzarsi per rendersi conto di quanto malamente armate fossero lemilizie in quel periodo. Il centro di addestramento militare di una qualsiasi scuolaprivata inglese 2 è molto più simile a un esercito moderno di quanto lo fossimo noi.Le pessime condizioni del nostro armamento erano talmente stupefacenti che vale lapena ricordarle in dettaglio.

In quel settore del fronte tutta la nostra artiglieria consisteva in quattro mortai datrincea con quindici colpi ciascuno. Naturalmente erano troppo preziosi per esseresparati e così i quattro mortai erano tenuti ad Alcubierre. Il rapporto tramitragliatrici e soldati era approssimativamente di una ogni cinquanta uomini; eranoarmi vecchiotte, ma abbastanza accurate fino a tre o quattrocento metri. Oltre aquesto avevamo solo fucili, la maggior parte dei quali erano ferri vecchi. Neusavamo tre tipi. Il primo era il Mauser lungo. Raramente avevano meno divent’anni, un sistema di puntamento altrettanto utile di un tachimetro rotto e nellamaggior parte dei casi le scanalature interne della canna erano corrose al di là diogni speranza; comunque un fucile su dieci non era ridotto troppo male. Poi c’era il

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Mauser corto, detto anche mousqueton, che in realtà era un’arma da cavalleria. Questifucili erano più popolari degli altri perché erano più leggeri e davano meno impiccionelle strette trincee, ma anche perché erano relativamente nuovi e avevano unaspetto efficiente. In realtà erano quasi inutilizzabili, essendo stati montati con pezzidi ricambio: nessun otturatore apparteneva al proprio fucile originale e si poteva starsicuri che i tre quarti si sarebbero inceppati dopo i primi cinque colpi. C’erano anchealcune carabine Winchester. Era bello usarle, ma erano quanto mai imprecise esiccome non c’erano caricatori per le loro cartucce, si poteva sparare solo un colpoalla volta. Le munizioni erano così scarse che a ogni uomo in prima linea eranoaffidate solo cinquanta cartucce, la maggior parte delle quali, oltretutto, facevaschifo. Le cartucce fabbricate in Spagna erano tutte ricariche e sarebbero riuscite ainceppare anche i migliori fucili. Quelle messicane erano migliori e perciò eranotenute da parte per le mitragliatrici. Le migliori erano quelle tedesche, ma siccomequeste provenivano solo dai prigionieri e dai disertori non ce n’era una grandequantità. Io tenevo sempre in tasca un caricatore di munizioni tedesche e messicanein caso di emergenza. Ma in pratica, anche quando l’emergenza arrivò ho raramentefatto fuoco con il mio fucile; avevo troppa paura che quel catenaccio s’inceppasse edero troppo ansioso di tenere per riserva almeno un colpo che non avrebbe fattocilecca.

Non avevamo elmetti, né baionette, quasi nessuna rivoltella o pistola e non più diuna bomba a mano ogni cinque-dieci uomini. La bomba che usavamo a quell’epocaera un aggeggio spaventoso noto come “bomba FAI”, essendo stata tirata fuori daglianarchici all’inizio della guerra. Era costruita sullo stesso principio della bombaMills, ma la leva della sicura era tenuta ferma non da una spilla, ma dal nastroadesivo. Si strappava il nastro e poi ci si sbarazzava della bomba con la massimavelocità possibile. Di queste bombe si diceva che fossero “imparziali”: ammazzavanosia l’uomo contro cui venivano lanciate sia quello che le lanciava. Ce n’erano anchediversi altri tipi, persino più rudimentali, ma forse erano un po’ meno pericolose…per chi le lanciava, intendo. Ma sino alla fine di marzo non ho visto una bomba amano che valesse la pena lanciare.

Armi a parte, c’era penuria di tutti gli accessori secondari per guerreggiare. Peresempio, non avevamo né mappe, né cartine topografiche. La Spagna non è mai statacartografata del tutto e le uniche mappe dettagliate di quella zona erano vecchiecarte militari, quasi tutte in possesso dei fascisti. Non avevamo telemetri, telescopi,periscopi e neanche binocoli da campo, tranne qualcuno di proprietà privata, nétantomeno razzi di segnalazione e bengala, e neanche tronchesi né arnesi d’armaiolo,quasi nemmeno materiali per pulire le armi. Gli spagnoli sembravano non aver maisentito parlare di uno scovolo legato allo spago per pulire l’anima del fucile e miguardarono con sorpresa quando me ne costruii uno. Se volevano farsi pulire ilfucile, andavano dal sergente il quale aveva una lunga asta d’ottone che era semprepiù o meno piegata e finiva per rovinare le scanalature elicoidali. Non c’era neancheolio per lubrificare le armi. Si usava l’olio di oliva, quando si riusciva a procurarseneun po’; diverse volte ho oliato la mia arma con vaselina, crema da notte e perfino conlo strutto. Inoltre non c’erano lanterne né torce elettriche – all’epoca, sono convintoche non ce ne fosse una in tutto il nostro settore del fronte, e se ne potevanocomprare solo a Barcellona e anche lì con qualche difficoltà.

A mano a mano che passava il tempo e le sporadiche fucilate riecheggiavano tra imonti, cominciai a chiedermi con crescente scetticismo se sarebbe mai successo

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qualcosa per portare un po’ di vita, o piuttosto un po’ di morte, in quella guerra cosìstrampalata. Era contro la polmonite che combattevamo, non contro gli uomini.Quando le trincee sono a più di cinquecento metri di distanza nessuno viene colpito,se non per sbaglio. Naturalmente avemmo dei feriti, ma la maggior parte di loro sierano feriti da soli. Se ben ricordo, i primi cinque feriti che ho visto in Spagna eranostati tutti feriti dalle nostre armi – non intendo intenzionalmente, ma a causa diincidenti tecnici o per disattenzione. I nostri fucili rovinati costituivano un pericolocostante. Alcuni di essi avevano il brutto vizio di far fuoco appena si batteva il calcioper terra; ho visto un uomo spararsi in una mano con questo metodo. E al buio lereclute fresche non facevano altro che spararsi a vicenda. Una sera, non era neanchecalato il crepuscolo che una sentinella aprì il fuoco contro di me a una distanza diventi metri, riuscendo lo stesso a mancarmi di un buon metro – Dio solo sa quantevolte la pessima mira degli spagnoli mi ha salvato la vita. Un’altra volta, ero andatodi pattuglia nella nebbia e avevo diligentemente avvertito il capo della guardiaprima di partire. Al ritorno, però, inciampai in un arbusto; la sentinella, spaventata,si mise a gridare che stavano arrivando i fascisti e così ebbi il piacere di sentire ilcapo delle guardie ordinare a tutti di aprire un fuoco serrato contro di me.Naturalmente mi buttai a terra e le pallottole volarono innocue sopra la mia testa.Non c’è modo di convincere uno spagnolo, perlomeno uno giovane, che le armi dafuoco sono oggetti pericolosi. Una volta, parecchio tempo dopo questo episodio, erointento a fotografare alcuni mitraglieri con la loro arma puntata direttamente controdi me.

«Oh, non sparate, eh» dissi loro un po’ per scherzo mentre cercavo di mettere afuoco l’obiettivo.

«Oh, no che non spariamo.»Un attimo dopo ci fu un rombo spaventoso e una scia di pallottole mi passò

accanto al volto talmente vicina che mi sentii punzecchiare la guancia dalle particelledi cordite. Non l’avevano fatto apposta, ma i mitraglieri lo considerarono lo stessoun gran bello scherzo. Eppure solo pochi giorni prima avevano visto un mulattiereferito per sbaglio da un delegato politico che facendo lo scemo con una pistolaautomatica gli aveva ficcato cinque pallottole nei polmoni.

Le parole d’ordine complicate che l’esercito usava a quell’epoca erano anch’esseuna piccola fonte di rischi. Erano quel tipo noioso di doppie parole d’ordine in cui auna parola si deve rispondere con una controparola. Di solito erano di naturarivoluzionaria e edificante, tipo Cultura-progreso, oppure Seremos-invencibles, ed eraspesso impossibile far ricordare a sentinelle analfabete queste parole altisonanti. Unanotte, ricordo, la parola d’ordine era Cataluña-heroica e un giovane contadino con lafaccia da luna piena, che si chiamava Jaime Domenech, mi si avvicinò con aria moltoperplessa e mi chiese di spiegargliela.

«Heroica – ma che vuol dire, heroica di preciso?»Gli dissi che voleva dire la stessa cosa di valiente. Poco dopo lui stava arrancando

al buio su per la trincea quando una sentinella gli intimò:«Alto! Cataluña!»«Valiente!» gridò di rimando Jaime, sicuro di star dicendo la cosa giusta.Bang!Per fortuna, la sentinella lo mancò. In questa guerra tutti mancavano sempre tutti

gli altri, ogniqualvolta era umanamente possibile.

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IV

Ero in prima linea già da tre settimane quando un contingente di venti-trentauomini, proveniente dall’Inghilterra attraverso l’ILP, arrivò ad Alcubierre e, pertenere insieme tutti gli inglesi su quel fronte, Williams e io fummo mandati araggiungerli. La nostra nuova posizione era sul Monte Trazo, diversi chilometri piùa ovest e in vista di Saragozza.

La posizione era appollaiata sopra una specie di crinale calcareo lungo e sottilecon i rifugi scavati orizzontalmente nella roccia come tanti nidi di rondine riparia.S’inoltravano nel terreno per distanze prodigiose e dentro erano bui come la pece ecosì bassi che non ci si poteva neanche stare in ginocchio, figuriamoci in piedi. Sullevette alla nostra sinistra c’erano altre due posizioni del POUM, una delle quali eraoggetto di fascino per tutti gli uomini in prima linea perché c’erano tre miliziane chefungevano da cuoche. Le donne non erano esattamente delle bellezze, ma funecessario impedire l’accesso a quella posizione agli uomini delle altre compagnie. Acinquecento metri sulla nostra destra c’era una postazione del PSUC, sulla curva dellastrada per Alcubierre. Era proprio in quel punto che la strada cambiava mano. Lanotte si vedevano i fari dei nostri autocarri con gli approvvigionamenti snodarsisulla strada da Alcubierre e, allo stesso tempo, quelli dei fascisti provenire daSaragozza. Si vedeva anche la città, una sottile striscia di luci che sembrava una filadi oblò illuminati sulla fiancata di una nave, a circa diciannove chilometri versosudovest. Le truppe governative l’avevano guardata da quella distanza sindall’agosto 1936 e la stanno ancora guardando da lì mentre scrivo.

Eravamo una trentina in tutto, compreso uno spagnolo (Ramón, il cognato diWilliams), e con noi c’erano inoltre una dozzina di mitraglieri spagnoli. A parte unoo due rompiscatole – perché, si sa, la guerra attira gente di tutte le risme – gli inglesicostituivano un gruppo eccezionale, dal punto di vista fisico e mentale. Forse ilmigliore di tutti era Bob Smillie – nipote del famoso dirigente dei minatori – che inseguito ha trovato la morte in maniera così insensata e malvagia a Valencia. A onoredel carattere degli spagnoli bisogna dire che sono sempre andati molto d’accordocon noi inglesi, nonostante le difficoltà della lingua. Scoprimmo ben presto che tuttigli spagnoli conoscevano due espressioni inglesi: una era «OK, baby» e l’altra era unaparola usata dalle puttane di Barcellona nelle loro trattative con i marinai inglesi etemo che i compositori non me la stamperanno.

Ancora una volta lungo il fronte non stava succedendo niente: solo qualchesporadico ronzio di pallottole e, molto di rado, il botto di un mortaio fascista chemandava tutti di corsa sulla trincea più in alto per vedere su quale cima sarebbescoppiata la granata. Il nemico qui era un po’ più vicino, forse tre o quattrocentometri. La loro posizione più vicina era proprio quella davanti alla nostra, con unamitragliatrice il cui nido presentava delle feritoie che erano per noi una costantetentazione di sprecare cartucce. I fascisti raramente si disturbavano a spararcifucilate, ma indirizzavano raffiche abbastanza precise di mitragliatrice contro

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chiunque si sporgesse. Nondimeno ci vollero dieci giorni, o forse più, perchéavessimo il nostro primo ferito. Le truppe che ci fronteggiavano erano spagnole, masecondo i disertori c’erano anche dei sottufficiali tedeschi. In passato ci dovevanoessere stati anche dei Mori – poveri diavoli, quanto devono aver sofferto il freddo! –perché nella terra di nessuno c’era il cadavere di uno di questi, che era diventato unodei punti di attrazione della zona. A un paio di chilometri alla nostra sinistra la lineadel fronte smetteva di essere continua e c’era una zona più bassa e densamentealberata, che non apparteneva né ai fascisti né a noialtri. Sia noi che loro vimandavamo delle pattuglie in perlustrazione diurna. Era abbastanza divertente,sembrava di essere dei giovani esploratori, anche se non ho mai visto una pattugliafascista a meno di diverse centinaia di metri di distanza. Se si strisciava parecchiosulla pancia ci si poteva inoltrare un bel po’ oltre le linee fasciste e perfino arrivare avedere la fattoria su cui sventolava la bandiera monarchica e che era il quartiergenerale dei fascisti della zona. Ogni tanto ci scaricavamo su una salva di fucilate epoi ci affrettavamo a metterci al riparo prima che i mitraglieri ci potesseroindividuare. Spero proprio che siamo riusciti a rompere almeno qualche finestra, mala fattoria era a buoni ottocento metri di distanza e con i fucili che ci ritrovavamo e aquella distanza non si poteva neanche esser sicuri di colpire una casa.

Il tempo era perlopiù freddo, ma non pioveva; a volte, verso mezzogiorno c’eraun po’ di sole, ma non per questo il freddo diminuiva. Qua e là sulla terra lungo ipendii dei monti si trovavano le gemme verdi dei crochi e degli iris che tentavano disbocciare; evidentemente la primavera stava per arrivare, ma molto lentamente. Lanotte faceva più freddo che mai. Quando smontavamo di guardia nelle ore piccoleradunavamo tutte le braci che riuscivamo a trovare nel fuoco della cucina e cisalivamo sopra. Gli scarponi ne soffrivano molto, ma i nostri piedi ne godevanotanto. Però c’erano anche mattinate in cui lo spettacolo dell’alba che sorgeva sullevette delle montagne rendeva quasi grati di non essere a letto in ore così disumane.Io detesto la montagna, anche dal punto di vista scenico. Ma a volte valevaveramente la pena di ammirare l’aurora che si affacciava dietro i monti alle nostrespalle, le prime strisce dorate simili a spade che squarciavano le tenebre e poi la lucesempre più intensa e i mari di nuvole cremisi che si spandevano in incredibilidistese; anche se si era stati svegli tutta la notte, non si sentivano più le gambe dalginocchio in giù e si stava riflettendo imbronciati sul fatto che per altre tre ore non cisarebbe stata alcuna speranza di mangiare. Ho visto il sorgere del sole più spesso nelcorso di questa campagna che in tutto il resto della mia vita – o nel tempo che mirimane da vivere, spero.

Eravamo a corto di uomini in questa posizione, il che voleva dire turni di guardiapiù lunghi e corvé più dure. Cominciavo a risentire un po’ della mancanza di sonnoinevitabile anche nella guerra più tranquilla. A parte i turni di guardia e i servizi dipattuglia, c’erano continuamente allarmi notturni e grida di allerta e, in ogni caso,non è che si possa dormire come si deve in una maledetta tana scavata nella rocciacon i piedi che dolgono per il freddo. Nei miei primi tre o quattro mesi al fronte, noncredo di aver passato più di una dozzina di periodi di ventiquattro orecompletamente sveglio; d’altra parte certamente non ho avuto neanche una dozzinadi notti di sonno completo. Era del tutto normale dormire venti-trenta ore asettimana. Gli effetti di questo regime non erano tanto malvagi quanto ci si puòimmaginare; si aveva la sensazione di essere sempre più intontiti e la fatica di salire escendere i pendii diventava sempre maggiore, invece di diminuire, ma in genere ci si

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sentiva bene e si aveva sempre un grande appetito – cielo, che appetito! Qualsiasicibo sembrava buono, perfino gli eterni fagioli bianchi che, in Spagna, tutti alla fineimparavano a detestare, solo a vederli. La poca acqua che ricevevamo veniva damolto lontano a dorso di mulo oppure di asinelli maltrattati. Chissà perché icontadini aragonesi trattavano bene i muli mentre usavano maniere abominevoli neiconfronti degli asini. Se un somaro s’impuntava era del tutto normale prenderlo acalci nei testicoli. La distribuzione di candele era nel frattempo cessata e i fiammifericominciavano a scarseggiare. Gli spagnoli ci insegnarono a fare le lucerne a olio conuna lattina di latte condensato, un caricatore e un pezzetto di straccio. Se ci siprocurava un po’ di olio d’oliva, cosa abbastanza rara, queste lucerne ardevano conuna fiammella fumosa che illuminava quanto un quarto di candela, abbastanza perritrovare il proprio fucile al buio.

Pareva non esserci molta speranza di un combattimento serio. Quando avevamolasciato Monte Pocero avevo contato le mie cartucce e così scoprii che in quasi tresettimane avevo sparato solo tre colpi contro il nemico. Si dice che ci vogliano millepallottole per ammazzare un avversario e di quel passo sarebbero passati vent’anniprima che ammazzassi il mio primo fascista. Sul Monte Trazo le linee erano piùvicine e si sparava un po’ più spesso, ma sono ragionevolmente sicuro di non avermai colpito nessuno. In effetti, su questo fronte e in questa fase della guerra la veraarma non era il fucile, ma il megafono. Siccome non era possibile ammazzarel’avversario, gli si gridava contro. Questo metodo di far la guerra è così bizzarro cheha bisogno di qualche spiegazione.

Ogniqualvolta le linee erano a portata d’orecchio c’era sempre un discretoscambio di urla da trincea a trincea. Noi urlavamo: «Fascistas-maricones!». E lororispondevano: «Viva España! Viva Franco!», oppure quando sapevano che di fronteavevano gli inglesi: «Andatevene a casa, inglesi! Non vogliamo forestieri qui!». Dallaparte governativa, nelle milizie di partito, la propaganda urlata per minare il moraledel nemico era stata sviluppata in una vera e propria tecnica. Nelle posizioni in cuiera possibile, alcuni uomini, di solito i mitraglieri, erano chiamati a fare il loro turnodi urla e venivano provvisti di megafoni. In genere urlavano un copione già scritto,pieno di sentimenti rivoluzionari, per spiegare ai soldati fascisti che non erano altroche i manovali del capitalismo internazionale, che stavano combattendo contro laloro stessa classe eccetera eccetera, e per esortarli a passare dalla nostra parte. Questimessaggi erano continuamente ripetuti da uomini che si davano il cambio; a volte lastoria andava avanti anche tutta la notte. Non c’è dubbio che la tattica producesse uncerto effetto; tutti erano concordi nell’affermare che lo stillicidio di disertori daifascisti era in parte dovuto alla sua efficacia. In effetti, se ci si pensa, quando unpovero diavolo di sentinella – con ogni probabilità membro di un sindacato socialistao anarchico, che è stato arruolato contro la sua volontà – se ne sta a gelarsi nella suapostazione, il fatto che lo slogan “Non combattere contro la tua stessa classe!” gliriecheggi continuamente negli orecchi nel buio deve pur fargli una qualcheimpressione. Può darsi sia l’elemento determinante che gli fa scattare la decisione didisertare. Naturalmente un metodo del genere fa a pugni con il concetto di guerrache hanno gli inglesi. Ammetto che io stesso ne rimasi stupito e scandalizzatoappena lo vidi applicato. Che idea: cercare di convertire l’avversario, invece disparargli addosso! Ora sono convinto invece che da qualsiasi punto di vista la siconsideri, è una manovra legittima. In una guerra di trincea normale, in mancanza diartiglieria, è estremamente difficile infliggere delle perdite al nemico senza subirne

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altrettante. Se si riesce a neutralizzare un certo numero di uomini favorendo la lorodiserzione, tanto di guadagnato; in realtà i disertori sono meglio dei cadaveri, perchépossono fornire informazioni. Ma all’inizio il fenomeno ci lasciò un po’ sconcertati; cidava l’impressione che gli spagnoli non prendessero questa loro guerra abbastanzasul serio. Il tizio che gridava nella postazione del PSUC alla nostra destra era unartista in materia. A volte, invece di gridare slogan rivoluzionari si limitava ainformare i fascisti che noi mangiavamo molto meglio di loro. La sua versione dellerazioni che ci passava il governo tendeva a essere un po’ fantasiosa. «Pane tostatocon il burro!» – si sentiva la sua voce echeggiare nella valle solitaria – «Qui ci siamoappena seduti a mangiare pane tostato con il burro! Deliziose fette di pane tostatocon il burro!» Non dubito che, come noi, erano settimane e mesi che lui non vedeva ilburro, ma nella notte gelida la notizia delle fette di pane tostate e imburrate ha fattovenire l’acquolina in bocca a parecchi fascisti. La faceva venire anche a me, perquanto sapessi che stava mentendo.

Un giorno di febbraio vedemmo arrivare un aereo fascista. Come al solito unadelle mitragliatrici fu trascinata all’aperto e la sua canna puntata al cielo e tutti cisdraiammo a terra per prendere bene la mira. Non valeva la pena bombardare lenostre posizioni isolate e di regola i pochi aeroplani nemici che passavano dallenostre parti giravano alla larga per evitare il fuoco delle mitragliatrici. Questa volta,però, l’aeroplano volò dritto su di noi, troppo alto per meritare di sparargli, e invecedi bombe sganciò su di noi oggetti bianchi e abbaglianti che vorticavano senza posanell’aria. Alcuni di questi atterrarono svolazzando sulla posizione. Erano copie di ungiornale fascista, l’«Heraldo de Aragón», e annunciavano la caduta di Málaga.

Quella notte i fascisti tentarono un attacco che poi abortì. Io stavo per mettermi adormire, mezzo morto di sonno, quando un torrente di pallottole passò sopra di noie qualcuno, all’imboccatura del rifugio, gridò: «Attaccano!». Afferrai il fucile esgattaiolai al mio posto di combattimento, in cima alla posizione, accanto allamitragliatrice. Era buio pesto e c’era un baccano infernale. Il fuoco di cinquemitragliatrici, credo, si riversava su di noi e si udiva anche una serie di pesanti botticausati dai fascisti che lanciavano bombe a mano da dietro il loro parapetto inmaniera del tutto insensata. L’oscurità era fittissima. In fondo alla valletta alla nostrasinistra vedevo i lampi verdeggianti di fucili dove un gruppetto di fascisti, forse unapattuglia, contribuiva al fuoco generale. Le pallottole volavano attorno a noi nelletenebre gracchiando e sibilando senza posa. Anche qualche granata arrivò fischiandosopra di noi, ma nessuna ci cadde vicino e (come accadeva spesso in questa guerra)la maggior parte di esse non scoppiò. Passai un brutto momento quando un’altramitragliatrice aprì il fuoco dalla cima alle nostre spalle – in realtà era un’armaportata fuori dai nostri rinforzi, ma per un attimo ci diede l’impressione di esserecircondati. Subito dopo la nostra mitragliatrice s’inceppò, come succedevaimmancabilmente con quelle munizioni scadenti, e nelle tenebre impenetrabili non sitrovava la bacchetta per sbloccarla. A quanto pareva non c’era niente da fare se nonstar fermi a fare da bersaglio. I mitraglieri spagnoli non si curavano di mettersi alriparo, anzi si esponevano deliberatamente al fuoco, e così dovetti fare anch’io lastessa cosa. Per quanto alla fine insignificante, quell’esperienza fu parecchiointeressante. Era la prima volta che mi trovavo veramente sotto il fuoco nemico e conmia grande umiliazione scoprii d’essere orribilmente spaventato. Ho notato chequando si è sotto un fuoco pesante ci si sente sempre allo stesso modo – spaventatinon tanto di essere colpiti quanto perché non si sa dove si sarà colpiti. Si sta lì sempre

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a chiedersi dove si beccherà la pallottola e la cosa dà a tutto il corpo una spiacevolesensibilità.

Dopo un paio d’ore il fuoco si diradò e cessò del tutto. Nel frattempo avevamoavuto un solo ferito. I fascisti erano riusciti a piazzare un paio di mitragliatrici nellaterra di nessuno, ma si erano tenuti sempre a distanza di sicurezza e non avevanofatto alcun tentativo di prendere d’assalto il nostro parapetto. In effetti, quello nonera un attacco, ma solo un grande spreco di cartucce per fare un po’ di baccano ecelebrare così la caduta di Málaga. L’aspetto più importante di questo episodio è chemi ha insegnato a leggere i bollettini di guerra sui giornali con un occhio ancora piùscettico. Uno o due giorni dopo, i giornali e la radio riportavano la notizia di untremendo attacco di cavalleria e mezzi corazzati (su per i fianchi scoscesi di unmonte!) che era stato respinto dagli eroici inglesi.

Quando i fascisti annunciarono la caduta di Málaga, noi la prendemmo come unabugia, ma il giorno seguente le voci si fecero più convincenti e deve essere stato unpaio di giorni dopo che la cosa fu ammessa anche a livello ufficiale. Piano pianol’intera vergognosa storia uscì fuori – come la città fosse stata evacuata senzaneanche sparare un colpo e come la furia degli italiani si fosse abbattuta non sulletruppe, che se ne erano andate, ma sulla disgraziata popolazione civile, parte dellaquale fu inseguita e mitragliata per chilometri e chilometri. Queste notizieprovocarono un brivido lungo tutta la linea del fronte perché, qualsiasi fosse laverità, tutti i miliziani erano convinti che la perdita di Málaga fosse da attribuire aun tradimento. Erano le prime voci che sentivo a proposito di tradimento e didiversità d’obiettivi. Insinuarono nella mia mente i primi vaghi dubbi su questaguerra in cui, fino ad allora, i torti e le ragioni mi erano sembrati così nettamentedivisi.

A metà febbraio lasciammo Monte Trazo e fummo spediti, insieme a tutte letruppe del POUM del settore, a far parte dell’armata che assediava Huesca. Fu unviaggio in camion di un’ottantina di chilometri attraverso la pianura invernale, dovele viti potate non avevano ancora cominciato a germogliare e gli steli dell’orzostavano appena spuntando dalle zolle del terreno. A quattro chilometri dalle nostrenuove trincee Huesca brillava piccola e netta come una città di case di bambole.Alcuni mesi prima, quando Siétamo era stata occupata, il generale che comandava letruppe governative aveva detto allegramente: «Domani prenderemo il caffè aHuesca». La sua previsione si rivelò sbagliata. C’erano stati assalti sanguinosi, ma lacittà non era caduta e «Domani prenderemo il caffè a Huesca» era diventata unabattuta corrente in tutto l’esercito. Se mai tornerò in Spagna farò di tutto per bermiuna tazza di caffè a Huesca.

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V

A est di Huesca, fino alla fine di marzo, non accadde nulla – quasi letteralmentenulla. Eravamo distanti mille e duecento metri dal nemico. Poiché quando i fascistifurono respinti fino a Huesca le truppe dell’esercito repubblicano che presidiavanoquesta parte del fronte non erano state troppo zelanti nella loro avanzata, la linea quiformava una sorta di tasca. In seguito si sarebbe dovuto spostarla in avanti –un’impresa piuttosto delicata da compiere sotto il fuoco – ma per il momento ilnemico poteva anche non esistere; la nostra sola preoccupazione era quella di tenercial caldo e di mangiare abbastanza.

Nel frattempo, continuavano la routine giornaliera – e soprattutto notturna – e icompiti ordinari. Turni di guardia, le pattuglie, gli scavi, il fango, la pioggia, i ventiche fischiavano e, di tanto in tanto, la neve. Non fu che ad aprile inoltrato checominciammo ad accorgerci che la notte faceva appena un po’ più caldo. Quassùsull’altopiano le giornate di marzo erano perlopiù come in Inghilterra, con cieliazzurri e venti insistenti. L’orzo nei campi era ormai alto una trentina di centimetri,sui ciliegi si gonfiavano gemme purpuree (la linea qui passava per fruttetiabbandonati e orti) e se si guardava nei fossi si trovavano violette e un giacintoselvatico che pareva un esemplare malriuscito di cipollaccio. Subito dietro la primalinea scorreva un meraviglioso torrente, verde e gorgogliante, la prima acqualimpida che vedessi da quando ero arrivato al fronte. Un giorno strinsi i denti em’inoltrai nell’acqua per farmi il primo bagno in sei settimane. Fu quello che sipotrebbe definire un bagno rapido, perché l’acqua era perlopiù neve appena sciolta enon molto al di sopra della temperatura del congelamento.

Nel frattempo non succedeva nulla, non succedeva mai nulla. Gli inglesi ormaiavevano preso l’abitudine di dire che questa non era una guerra, ma unastramaledetta pantomima. Non eravamo quasi mai sotto il fuoco diretto dei fascisti.L’unico pericolo era rappresentato dalle pallottole vaganti che, essendo qui le lineepiù avanti su entrambi i lati, potevano arrivare da diverse direzioni. Tutti i feriti diquesto periodo erano stati colpiti da pallottole vaganti. Arthur Clinton si beccò unproiettile misterioso che gli fece a pezzi la spalla sinistra e gli rese inservibile ilbraccio, temo in maniera permanente. C’era un po’ di fuoco d’artiglieria, ma erastraordinariamente inefficace. I fischi e i botti delle granate erano anzi considerati unvago elemento di distrazione. I fascisti non tiravano mai le granate sulla nostratrincea. Qualche centinaio di metri dietro di noi c’era una fattoria, chiamata LaGranja, costituita da diversi edifici agricoli che usavamo come magazzini, quartiergenerale e cucina da campo per questo settore del fronte. Era questo l’obiettivo che ifascisti avevano preso di mira, ma erano a sei o sette chilometri di distanza e nonmiravano mai abbastanza bene da far più danno che rompere i vetri o scheggiare lepareti esterne. Si correva un pericolo reale solo trovandosi sulla strada dicollegamento quando iniziavano a bombardare e le granate si conficcavano neicampi da entrambi i lati. S’imparava quasi subito la misteriosa arte di giudicare dal

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fischio di una granata a che distanza sarebbe atterrata. Le granate che i fascistisparavano in questo periodo erano vergognosamente scadenti. Sebbene fossero da150 mm riuscivano a scavare un cratere largo meno di due metri e profondo unmetro e trenta, e almeno una su quattro non esplodeva nemmeno. Circolavano lesolite storie romantiche sulle attività di sabotaggio nelle fabbriche fasciste e sullegranate inesplose in cui, al posto della carica, erano stati trovati pezzi di carta con suscritto “Fronte Rosso”, ma io non ne ho mai avuto esperienza diretta. La verità erache le granate erano disperatamente vecchie; qualcuno aveva raccolto una spoletta diottone su cui era inciso l’anno di fabbricazione: 1917. I cannoni fascisti erano dellastessa marca e calibro dei nostri e le granate inesplose venivano spesso rimesse inefficienza e risparate al mittente. Si raccontava di una vecchia granata che aveva unsoprannome particolare e che andava avanti e indietro tutti i giorni, senza esploderemai.

Di notte si era soliti mandare piccole pattuglie nella terra di nessuno a sdraiarsinei fossi a ridosso delle linee fasciste per ascoltarne i rumori (squilli di tromba,clacson di autoveicoli e così via) che indicassero le attività che si svolgevano aHuesca. C’era un continuo andirivieni di truppe fasciste e il loro numero potevaessere controllato fino a un certo punto attraverso i rapporti degli uomini che simettevano in ascolto. Avevamo l’ordine permanente di riferire i rintocchi dellecampane delle chiese. A quanto pare i fascisti ascoltavano sempre messa prima dientrare in azione. In mezzo ai campi e ai frutteti c’erano delle baracche abbandonatecon le pareti di fango che si potevano esplorare senza pericolo accendendofiammiferi, dopo averne tappato bene le finestre. A volte si trovavano preziosioggetti da razziare, tipo un’ascia o una borraccia fascista (molto migliori delle nostree molto ricercate). Le esplorazioni si potevano fare anche di giorno, ma si dovevaprocedere quasi sempre carponi. Era molto strano strisciare per quei campi fertili edeserti dove tutto si era bloccato al momento del raccolto. I frutti dell’anno primanon erano stati neanche toccati. I tralci delle viti non potate avanzavanoserpeggiando sul terreno, le pannocchie sugli steli superstiti del mais eranodiventate dure come sassi, le barbabietole, da foraggio e da zucchero, eranodiventate grosse masse ipertrofiche e legnose. I contadini devono aver maledettoentrambi gli eserciti! A volte squadre di uomini andavano a scavare patate nellaterra di nessuno. A circa un chilometro e mezzo alla nostra destra, dove le lineeerano ancora più vicine, c’era un campo di patate frequentato sia dai fascisti che danoi. Noi ci andavamo di giorno, loro invece solo di notte, perché era sotto il controllodelle nostre mitragliatrici. Una notte, con nostro grande disappunto, ci si recarono inmassa e lo ripulirono. Ne scoprimmo un altro un po’ più in là, dove non c’erapraticamente copertura e si dovevano cavare le patate stando sdraiati ventre a terra –un lavoro molto stancante. Se venivate individuati dai loro mitraglieri dovevateschiacciarvi a terra come fa un ratto quando cerca di infilarsi sotto una porta, con lepallottole che spezzavano le zolle appena qualche metro dietro di voi. All’epoca peròsembrava valerne la pena. Le patate cominciavano a scarseggiare. Se si riusciva arimediarne un sacco si poteva portarle giù alla cucina e barattarle con una borracciadi caffè.

E ancora non succedeva niente, niente sembrava mai succedere. «Quandoattaccheremo? Perché non attacchiamo?» erano le domande che si sentivano tutti igiorni tra gli spagnoli e tra gli inglesi. Quando si pensa a che cosa significacombattere è strano che i soldati non vedano l’ora di farlo, eppure senza dubbio è

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così. Nella guerra di posizione ci sono tre cose che tutti i soldati desiderano: labattaglia, altre sigarette e una licenza di una settimana. Ora eravamo un pochinomeglio armati di prima. Ogni uomo aveva in dotazione centocinquanta cartucceinvece di cinquanta e piano piano ci fornivano baionette, elmetti e qualche bomba.C’erano voci continue di una prossima battaglia, che in seguito ho pensato venisserofatte circolare a bella posta per tenere su il morale dei soldati. Non c’era bisogno dieccessiva esperienza militare per capire che, almeno per il momento, da questa partedi Huesca non ci sarebbe stata alcuna azione importante. Il nodo strategico era lastrada per Jaca, dall’altra parte. In seguito, quando gli anarchici attaccarono quellastrada, il nostro compito sarebbe stato quello di compiere “attacchi di contenimento”per obbligare i fascisti a sottrarre truppe dall’altro fronte.

Nel corso di tutto questo periodo, circa sei settimane, ci fu una sola azione sulnostro versante del fronte. Fu quando le nostre truppe d’assalto attaccarono ilManicomio, un ospedale psichiatrico abbandonato che i fascisti avevano trasformatoin fortezza. C’erano diverse centinaia di fuoriusciti tedeschi nelle fila del POUM.Erano raccolti in un battaglione speciale chiamato Batallón de Choque e, dal punto divista militare, erano assolutamente su un altro piano rispetto al resto della milizia –in effetti, erano quelli che somigliavano a soldati più di chiunque altro io abbia maivisto in Spagna, tranne forse le Guardie d’Assalto e alcune unità della ColonnaInternazionale. L’attacco, come al solito, fu mal condotto. Mi chiedo quanteoperazioni in questa guerra e dalla parte governativa non siano state mal condotte.Le truppe d’assalto attaccarono il Manicomio, ma gli uomini di non ricordo qualemilizia, che dovevano sostenerle impadronendosi dell’altura vicina che dominaval’edificio, furono malamente ingannati. Il capitano che le comandava era uno diquegli ufficiali dell’esercito regolare di dubbia lealtà che il governo s’intestardiva atenere in servizio. Per paura o per tradimento mise in allarme i fascisti lanciando unabomba quando erano ancora a duecento metri di distanza. Mi compiaccio di riferireche i suoi uomini gli spararono sul posto. Ma ormai l’attacco a sorpresa non era piùuna sorpresa e i miliziani furono falciati da un pesante fuoco e ricacciati dalla collina;al calar della sera le truppe d’assalto dovettero abbandonare il Manicomio. Per tuttala notte le ambulanze sfilarono avanti e indietro sull’orribile strada per Siétamo,finendo di ammazzare i feriti gravi con i loro sobbalzi.

In quel periodo ormai eravamo tutti pieni di piattole; anche se faceva ancorafreddo, l’aria s’era addolcita abbastanza per loro. Personalmente ho una grossaesperienza di parassiti corporei di vario genere, e in quanto a bestialità, la piattolasupera di gran lunga tutti quelli in cui mi sono imbattuto. Altri insetti, per esempiole zanzare, fanno soffrire di più, ma perlomeno non sono parassiti residenziali. Lapiattola dell’uomo somiglia un po’ a una minuscola aragosta e abita soprattutto neipantaloni. A meno di bruciare tutti i vestiti che si hanno, non si conosce alcunrimedio per sbarazzarsene. Deposita le sue uova bianche e lucide, come tantiminuscoli granelli di riso, nelle cuciture dei pantaloni e quando si schiudono a lorovolta le nuove piattoline mettono su famiglia a velocità incredibile. Secondo me ipacifisti potrebbero trovare utile illustrare i loro opuscoli con ingrandimentifotografici di questi parassiti. Altro che gloria della guerra! In guerra tutti i soldatisono pieni di piattole, per lo meno se fa abbastanza caldo. Gli uomini che hannocombattuto a Verdun, a Waterloo, a Flodden, a Senlac, alle Termopili, avevano tutti itesticoli brulicanti di piattole. Noi cercavamo di tenere sotto controllo quelle pesti

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bruciandone le uova e lavandoci tutte le volte che ne trovavamo il coraggio. Nientepoteva spingermi nelle acque gelide di quel fiume se non le piattole.

Tutto cominciava a scarseggiare: scarpe, vestiti, tabacco, sapone, candele,fiammiferi e olio d’oliva. Le nostre uniformi cadevano ormai a pezzi e molti uominierano rimasti senza scarponi, solo con sandali dalla suola di corda. Ci si imbattevadappertutto in grandi mucchi di scarponi logori. Una volta tenemmo acceso il fuoconel rifugio per due giorni bruciando soprattutto scarponi, che come combustibilenon sono niente male. A questo punto mia moglie era a Barcellona ed era solitamandarmi tè, cioccolato e perfino sigari, finché cose del genere si riuscirono atrovare; ma anche lì tutto cominciava a scarseggiare, specialmente il tabacco. Il tèrappresentava una vera e propria manna dal cielo, anche se non avevamo latte e soloraramente zucchero. Dall’Inghilterra spedivano continuamente pacchi agli uominidel contingente, ma non arrivavano mai; cibo, vestiti e sigarette – tutto veniva orifiutato direttamente dall’ufficio postale o confiscato in Francia. La cosa abbastanzacuriosa era che l’unico negozio che riusciva a mandare pacchetti di tè a mia moglie –in una memorabile occasione addirittura una scatola di biscotti – era l’Army andNavy Stores. Povero vecchio Army and Navy! Compivano il loro dovere in manieramolto nobile, ma forse sarebbero stati più felici se la roba fosse stata inviata alla partefranchista della barricata. La penuria di tabacco era la peggiore. All’inizio cidistribuivano un pacchetto di sigarette al giorno, che si ridusse a otto sigarette algiorno e poi a cinque. Alla fine ci furono dieci giorni terribili in cui non avvennealcuna distribuzione di tabacco. Per la prima volta ho visto in Spagna quello che aLondra invece si vede tutti i giorni: gente che raccatta le cicche.

Verso la fine di marzo mi venne un ascesso alla mano che dovette essere inciso emi costrinse a mettere il braccio al collo. Dovetti andare in ospedale, ma non valevala pena mandarmi fino a Siétamo per una ferita così banale, perciò mi ricoveraronoal cosiddetto ospedale di Monflorite, che in realtà era un semplice posto di transitoper feriti. Ci rimasi dieci giorni, parte dei quali a letto. I practicantes (gli inservientiospedalieri) mi rubarono praticamente ogni oggetto di valore che possedevo,compresa la macchina fotografica e tutte le foto che avevo scattato. Al fronte tuttirubavano, era l’inevitabile effetto della scarsità, ma gli addetti all’ospedale erano ipeggiori ladri di tutti. In seguito, nell’ospedale di Barcellona, un americano che perunirsi alla Colonna Internazionale si era imbarcato su una nave silurata da unsottomarino italiano mi raccontò di essere stato trasportato a riva ferito e che mentrelo sollevavano con la barella per metterlo sull’ambulanza i portantini gli avevanosfilato l’orologio.

Nel periodo in cui fui costretto a portare il braccio al collo trascorsi diversebellissime giornate a vagare nelle campagne. Monflorite era il solito ammasso dicatapecchie di fango e sassi, attraversato da tortuose stradine che gli autocarriavevano macinato al punto da farle sembrare crateri lunari. La chiesa era stataridotta piuttosto male, ma era usata come magazzino militare. In tutto il circondarioc’erano solo due fattorie d’una certa importanza, Torre Lorenzo e Torre Fabián, esoltanto due edifici davvero imponenti, evidentemente le case dei proprietari terrieriche avevano un tempo dominato su quella campagna; la loro ricchezza si vedevariflessa nelle miserabili casette dei contadini. Subito dietro il fiume, vicino alla lineadel fronte, c’era un grande mulino con accanto una masseria. Pareva un peccatovedere quegli enormi e costosi macchinari arrugginire inutilizzati e le lunghecondotte di legno in cui una volta passava la farina venir smantellate per farne legna

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da ardere. In seguito, sempre per procurare combustibile per le truppe attestate nellazona, furono mandate vere e proprie squadre di uomini con autocarri a distruggeresistematicamente quel posto. Erano soliti spezzare le assi del pavimento delle stanzefacendoci scoppiare sopra una bomba a mano. La Granja, dove avevamo ilmagazzino e la cucina, forse una volta era stata un convento. Aveva al suo internograndi cortili e altri edifici più piccoli, per una superficie totale di quasi mezzo ettaroe con scuderie che potevano contenere trenta o quaranta cavalli. In questa parte dellaSpagna le residenze di campagna non sono particolarmente interessanti dal punto divista architettonico, mentre le fattorie di pietra imbiancata a calce, con gli archi atutto sesto e le magnifiche travi, sono edifici molto nobili, costruiti su uno schemache probabilmente è rimasto inalterato per molti secoli. A volte, vedere il trattamentoa cui le milizie sottoponevano gli edifici occupati ispirava un inconfessato senso disolidarietà verso gli ex proprietari fascisti. A La Granja tutte le stanze che nonvenivano usate erano state trasformate in latrine – un terribile ammasso di mobili apezzi ed escrementi. La cappella annessa, con le pareti traforate dalle granate, avevail pavimento ricoperto da uno strato di sterco. Nel grande cortile dove i cuochiscodellavano il rancio, lo spettacolo presentato dalle lattine arrugginite sparsedappertutto in mezzo al fango, allo sterco di mulo e al cibo andato a male eraributtante. Dava davvero ragione alla vecchia canzone militare che fa:

Ci son ratti, ratti, rattiGrandi e grossi come gattiIn giro per la fureria!

Quelli che frequentavano La Granja erano davvero grossi come gatti, o poco cimancava; grandi bestiacce tronfie che si trascinavano a fatica sullo strato di schifezzesparso dappertutto, talmente sfacciati che non scappavano neanche più, a meno chenon li si prendesse a fucilate.

La primavera intanto era finalmente arrivata. L’azzurro del cielo era più tenero el’aria si era di colpo addolcita. Nei fossi le rane si corteggiavano facendo un granbaccano. Intorno alla pozza dove s’abbeveravano i muli del villaggio trovai delledelicatissime ranocchiette verdi grandi come un soldo, d’un colore così brillante cheperfino l’erba novella sembrava opaca al confronto. Ragazzini andavano in giro con isecchi a caccia di lumache che venivano poi arrostite vive su pezzi di lamiera.Appena il tempo migliorò i contadini si riversarono nei campi per l’aratura diprimavera. Il fatto che io non sia riuscito neanche a scoprire con certezza se la terra lìfosse stata collettivizzata o se i contadini se la fossero semplicemente divisa tra diloro è caratteristico della vaghezza in cui è avvolta la rivoluzione agraria spagnola.Immagino che in teoria fosse stata collettivizzata, dato che eravamo in un territoriocontrollato dal POUM e dagli anarchici. A ogni modo i latifondisti se n’erano andati, icampi erano coltivati e la gente sembrava soddisfatta. La cordialità dei contadini neinostri confronti non ha mai cessato di stupirmi. Ad alcuni di quelli più anziani laguerra deve essere apparsa senza senso, evidentemente provocava la penuria di ognicosa e una vita terribilmente fastidiosa per tutti, e anche nelle circostanze piùfavorevoli la gente di campagna detesta avere delle truppe di stanza tra i piedi.Eppure erano tutti sempre cordiali – immagino pensassero che, per quantointollerabili potessimo essere sotto altri aspetti, eravamo quelli che impedivano ailoro padroni d’una volta di tornare. Una guerra civile è una faccenda molto strana.

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Huesca non distava neanche otto chilometri, era la città mercato per quella gente,tutti avevano parenti che vi abitavano, per tutta la vita vi erano andati ognisettimana a vendervi verdura e pollame e ora, invece, da otto mesi una barrieraimpenetrabile di filo spinato e mitragliatrici li separava dalla città. Ogni tantoaddirittura se ne scordavano. Una volta stavo parlando con una vecchietta cheportava uno di quei minuscoli lumi di metallo in cui gli spagnoli bruciano l’olio dioliva. «Dove posso comprare un lumino come quello?» le chiesi. «A Huesca» risposelei senza pensare, ma poi scoppiammo entrambi a ridere. Le ragazze del villaggioerano splendide creature vivaci dai capelli neri come il carbone, il passo ondeggiantee un comportamento franco e schietto che era probabilmente una delle conseguenzedel clima rivoluzionario.

Uomini che indossavano logore camicie azzurre, calzoni di fustagno nero e larghicappelli di paglia aravano i campi dietro a pariglie di muli che agitavanoritmicamente le lunghe orecchie. I loro aratri erano attrezzi miserevoli che silimitavano a smuovere appena il terreno in superficie senza neanche tracciare quelloche considereremmo un solco. Tutti gli attrezzi agricoli erano penosamenteantiquati, dato che tutto era dominato dal costo proibitivo del metallo. Un vomererotto, per esempio, veniva rappezzato e poi ancora rappezzato, finché alla fine eranopiù i rappezzi che altro. Rastrelli e forconi erano di legno. Le vanghe, tra gente cheraramente possedeva un paio di scarponi, erano sconosciute; dissodavano il terrenocon una pesante zappa simile a quelle in uso in India. Avevano un tipo di erpice checi riportava indietro ai tempi dell’età della pietra. Era fatto di tavole messe insiemefino a raggiungere le dimensioni di un tavolo di cucina; in queste tavole erano statipraticati centinaia di fori e in ciascuno di essi veniva incastrata una scheggia di selceche era stata intagliata esattamente come gli uomini facevano diecimila anni fa.Ricordo ancora la sensazione quasi di orrore che provai nell’imbattermi per la primavolta in uno di questi aggeggi in una delle baracche abbandonate nella terra dinessuno. Dovetti esaminarlo perplesso per un bel po’ prima di capire che si trattavadi un erpice. Mi sentivo male all’idea del lavoro necessario alla costruzione di unattrezzo del genere e della miseria che obbligava a usare selce al posto del metallo.Da quella volta le mie simpatie per il sistema industriale sono aumentate. Comunquenel villaggio c’erano anche due trattori moderni, senza dubbio sequestrati in qualcheazienda di un grande proprietario terriero.

Una o due volte le mie passeggiate mi portarono nel piccolo cimitero recintato chedistava circa un chilometro e mezzo dal villaggio. I morti sul fronte erano in generetrasportati a Siétamo; questi erano dunque i morti del villaggio. Era stranamentediverso da un cimitero inglese. Da queste parti non c’è molto rispetto per i morti!Cespugli ed erbacce soffocavano ogni cosa e c’erano ossa umane sparse dappertutto.Ma la cosa davvero sorprendente era la quasi assoluta mancanza di iscrizionireligiose sulle lapidi, anche se datavano tutte da prima della rivoluzione. Solo unavolta, credo, vidi la formula che in genere si trova sulle tombe cattoliche e cioè:“Pregate per l’anima del Tal dei tali”. La maggior parte delle iscrizioni eranopuramente secolari, con ridicoli panegirici poetici sulle virtù del defunto. Forse unatomba su quattro aveva una piccola croce o un frettoloso riferimento al Cielo; e disolito qualche zelante ateo si era dato la pena di cancellarli a colpi di scalpello.

La cosa mi fece capire che la gente di questa parte della Spagna deve essereveramente priva di sentimenti religiosi – perlomeno quelli intesi in senso ortodosso.È curioso come in tutto il periodo che ho trascorso nel paese non abbia mai visto una

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persona farsi il segno della croce; eppure si direbbe che un gesto del genere,rivoluzione o non rivoluzione, debba venire spontaneo, d’istinto. È evidente che laChiesa spagnola risorgerà (come dice il proverbio, la notte e i gesuiti tornanosempre), ma non c’è dubbio che all’inizio della rivoluzione ha subito un tracollo ed èstata fatta a pezzi a un livello tale che in circostanze analoghe sarebbe inconcepibileperfino per la moribonda Chiesa d’Inghilterra. Per gli spagnoli, almeno quelli inCatalogna e in Aragona, la Chiesa era una vera e propria associazione a delinquere.E forse la fede cristiana è stata rimpiazzata in qualche misura da quella nell’anarchia,il cui influsso è largamente diffuso e che senza dubbio ha una sfumatura religiosa.

Fu proprio il giorno che tornai dall’ospedale che spostammo la linea del fronte suquella che avrebbe dovuto essere la sua posizione, circa mille metri in avanti, lungoil ruscello che scorreva un paio di centinaia di metri dalla linea fascista. Eraun’operazione che avremmo dovuto compiere mesi prima. Il motivo per cui lofacevamo ora era che gli anarchici stavano sferrando il loro attacco sulla strada diJaca e un avanzamento da questa parte avrebbe costretto il nemico a spostare truppeper fronteggiarci.

Rimanemmo sessanta o settanta ore senza chiudere occhio e i miei ricordi siperdono in una sorta di alone sfocato o piuttosto in una serie d’immagini. Turnid’ascolto nella terra di nessuno a cento metri dalla Casa Francesa, una fattoriafortificata che faceva parte delle linee fasciste. Sette ore passate sdraiato in unapalude orrenda, immerso in un’acqua che puzzava di canne e in cui si sentiva ilcorpo sprofondare sempre più giù: la puzza delle canne, il freddo che ottundeva isensi, le stelle immobili nel cielo nero, l’acuto gracidio delle rane. Benché fosse aprile,fu la notte più fredda che ricordi di aver passato in Spagna. A non più di cento metrialle nostre spalle le squadre di lavoro erano duramente impegnate, ma il silenzio eracompleto, a parte il coro delle rane. Solo una volta nel corso di quella notte sentii unrumore – il suono familiare di un sacchetto di sabbia spianato da un badile. È stranocome, di tanto in tanto, gli spagnoli riescano a compiere audaci imprese con ottimaorganizzazione. La mossa fu programmata in maniera brillante. In sette ore seicentouomini costruirono mille e duecento metri di trincee munite di parapetto a unadistanza variante dai centocinquanta ai trecento metri dalle linee nemiche e tutto inun tale silenzio che i fascisti non si accorsero di niente e con un solo ferito nel corsodell’intera nottata. Naturalmente, il giorno dopo i feriti aumentarono. A ciascunuomo era stato assegnato un compito preciso, perfino agli inservienti di cucina che alavoro compiuto arrivarono all’improvviso con secchi di vino rinforzato da brandy.

E poi si levò l’alba e i fascisti di colpo si resero conto che eravamo lì davanti. Ilblocco bianco e squadrato della Casa Francesa, anche se distava duecento metri,sembrava torreggiare su di noi e le mitragliatrici riparate da sacchetti di sabbia sullefinestre dei piani superiori sembravano puntate dritte sul fondo della trincea.Rimanemmo a guardarla a bocca aperta, chiedendoci come mai i fascisti non ciavessero visto. Poi una maligna sferzata di pallottole e tutti c’eravamo gettati inginocchio a scavare freneticamente per fare più fonda la trincea e ricavare dei piccoliripari nelle pareti. Avevo ancora il braccio fasciato e perciò non potevo scavare;trascorsi la maggior parte della giornata a leggere un giallo, intitolato Lo strozzinoscomparso. Non ne ricordo la trama, ma ricordo benissimo la sensazione di starmenelì seduto a leggerlo; l’argilla umida del fondo della trincea sotto di me, il dovercontinuamente spostare le gambe per far passare gli uomini che si affrettavano chinisu e giù per la trincea, il crepitio delle pallottole che mi passavano a trenta o

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cinquanta centimetri sopra la testa. Thomas Parker si beccò all’attaccatura dellacoscia un proiettile che per i suoi gusti, come disse poi, era andato troppo vicino atrasformarsi in una decorazione al merito. 3 Uomini cadevano feriti lungo tutta lalinea, ma non era niente rispetto a quello che sarebbe successo se ci avesserosorpreso mentre ci spostavamo quella notte. Un disertore ci disse in seguito checinque sentinelle fasciste furono fucilate per negligenza. Anche adesso avrebberopotuto massacrarci se avessero preso l’iniziativa di spostare lì qualche mortaio. Eraun compito malagevole trasportare i feriti lungo la stretta e affollata trincea. Vidi unpovero diavolo, con i calzoni tutti insanguinati, sbalzato dalla barella con la boccaspalancata per il dolore. Bisognava trascinare i feriti per un bel pezzo, un chilometroe mezzo, se non più, perché anche quando c’era la strada le ambulanze non siavvicinavano mai alla prima linea. Se si avvicinavano troppo, i fascisti avevanol’abitudine di prenderle a cannonate – con qualche giustificazione, perché nellaguerra moderna nessuno si fa scrupolo a usare le ambulanze per trasportaremunizioni.

E poi, la notte dopo, l’attesa a Torre Fabián di un attacco annullato all’ultimomomento via radio. Nel granaio dove aspettavamo, il pavimento era un sottile stratodi paglia tritata su un letto profondo di ossa, umane e bovine tutte mischiate, e ilposto brulicava di ratti. Quegli esseri schifosi uscivano a branchi dal terreno da ognilato. Se c’è una cosa che detesto in modo particolare è un ratto che mi passa sopra albuio. Comunque mi presi la soddisfazione di colpirne uno in pieno facendogli fareun bel volo.

E poi l’attesa dell’ordine di attacco a cinquanta, sessanta metri dal parapettofascista. Una lunga fila di uomini accovacciati in un fosso d’irrigazione con lebaionette che fanno capolino oltre l’argine e il bianco degli occhi che brilla nelletenebre. Kopp e Benjamin seduti sui talloni alle nostre spalle insieme a un soldatocon la radioricevente attaccata alla schiena. Verso occidente, all’orizzonte, lampid’artiglieria rosati seguiti a intervalli di vari secondi da enormi esplosioni. E poi ilsegnale pip-pip-pip della radio e l’ordine sussurrato che dovevamo ritirarci finché lecondizioni erano ancora favorevoli. Lo eseguimmo, ma non abbastanza in fretta.Dodici ragazzini disgraziati del JCI (l’organizzazione giovanile del POUM,corrispondente alla JSU del PSUC), che erano stati piazzati a soli quaranta metri dalparapetto nemico, furono sorpresi dall’alba e non riuscirono a scappare. Dovetterorimanere sdraiati lì tutto il giorno, riparati solo da qualche ciuffo d’erba, con i fascistiche li bersagliavano di fucilate ogni volta che si muovevano. A sera sette di loroerano morti, poi gli altri cinque riuscirono a strisciare via con il favore delle tenebre.

E poi, per molti giorni a seguire, gli echi degli attacchi degli anarchici dall’altraparte di Huesca. Sempre gli stessi rumori. All’improvviso, alle prime ore dell’alba, ilboato d’apertura di decine e decine di bombe che scoppiavano simultaneamente –un boato diabolico, lacerante, anche a chilometri di distanza – il rombo ininterrottodi massicce scariche di fucileria e di mitraglia, un greve rumore rullantecuriosamente simile al rullo dei tamburi. A poco a poco gli spari si spargevanotutt’intorno le linee che circondavano Huesca e noi ci precipitavamo in trinceaappoggiandoci assonnati al parapetto mentre raffiche sparse e senza sensospazzavano l’aria sopra le nostre teste.

Di giorno i cannoni tuonavano a sprazzi. Torre Fabián, che era ora la nostracucina, fu bombardata e in parte distrutta. La cosa curiosa è che se si osserva il fuocod’artiglieria da una distanza di sicurezza si vuole sempre che il cannoniere colpisca il

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bersaglio, anche se quel bersaglio contiene il proprio pranzo e alcuni dei propricompagni. Quella mattina i fascisti tiravano bene; forse c’erano degli artiglieritedeschi in servizio. Inquadrarono Torre Fabián con precisi tiri d’aggiustamento.Una granata lunga, una corta, poi un sibilo e BUM!, le travi spezzate saltarono in ariae una lastra di uralite veleggiò come una carta da gioco lanciata in aria. La granatasuccessiva portò via un angolo dell’edificio con la stessa precisione di un gigantearmato di coltello. Però i cuochi riuscirono lo stesso a preparare il rancio in tempo –un’impresa degna di essere ricordata.

Con il procedere dei giorni i cannoni invisibili ma udibilissimi cominciarono adassumere ciascuno una personalità distinta. C’erano due batterie di pezzi russi da 75mm che sparavano da una postazione non molto lontana alle nostre spalle e che avolte mi facevano venire in mente l’immagine di un signore obeso che colpiva unapalla da golf. Erano i primi cannoni russi che mi capitava di vedere – o piuttosto disentire. I loro tiri avevano una traiettoria bassa e una velocità altissima, cosicché sisentiva lo sparo, il sibilo e l’esplosione della granata quasi simultaneamente. DietroMonflorite c’erano due pezzi pesantissimi che sparavano poche volte al giorno, conun ruggito basso e soffocato che sembrava l’abbaiare di lontani mostri incatenati. Incima al monte Aragón, la fortezza medievale che le truppe governative avevanoespugnato l’anno prima (per la prima volta nella storia, si diceva) e che dominavauno degli accessi a Huesca, c’era un grosso pezzo che doveva risalire al secoloprecedente. Le sue pesanti granate ci fischiavano sopra così lente che si aveva lanetta impressione di potersi mettere a correre al loro fianco e di riuscire a reggerne ilpasso. Una granata sparata da quel cannone faceva pensare più che altro a unsignore che passava fischiettando in bicicletta. I mortai da trincea, anche se eranopiccoli, avevano la voce più maligna di tutti. Le loro granate sono in realtà una sortadi siluro alato, dalla forma molto simile alle freccette con cui si gioca nei pub egrandi più o meno come una bottiglia da un litro; esplodono con un diabolico tonfometallico, come se un mostruoso globo di acciaio friabile venisse fatto a pezzi suun’incudine. Qualche volta i nostri aerei sorvolavano la zona e sganciavano i siluriaerei; l’eco del loro tremendo ruggito faceva tremare la terra anche a tre chilometri didistanza dal punto di esplosione. Gli scoppi dei colpi delle batterie antiaeree deifascisti punteggiavano il cielo come nuvolette in un acquerello d’infima qualità, manon ne ho mai visto uno che arrivasse a meno di mille metri da un aereo. Quando uncaccia scende in picchiata e fa fuoco con le mitragliatrici di bordo, da terra il suonosembra un rapido batter d’ali.

Dalla nostra parte della linea non succedeva un granché. A duecento metri sullanostra destra, dove i fascisti erano su un terreno leggermente più elevato, i lorocecchini riuscirono a colpire qualche nostro compagno. Duecento metri a sinistra, sulponte sopra il ruscello, era in corso una specie di duello tra i mortai fascisti e gliuomini che vi stavano costruendo in mezzo una barricata di cemento. Quelle piccolegranate maligne fischiavano in aria, fiuu-BUM! fiuu-BUM! con un suono doppiamentediabolico quando atterravano sull’asfalto della strada. A cento metri di distanza sipoteva stare perfettamente al sicuro e osservare le colonne di terra e fumo nerolevarsi in aria come alberi magici. I poveri diavoli attorno al ponte passavano granparte del giorno a ripararsi nei piccoli tombini che avevano scavato sui fianchi dellatrincea. Ma le perdite erano minori di quelle che ci potessimo aspettare e la barricatasi rafforzava costantemente, un muro di cemento largo sessanta centimetri, conferitoie per due mitragliatrici e un piccolo fucile da campo. Il cemento veniva armato

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con vecchie testate di letti, che a quanto pare costituivano l’unico ferro adatto alloscopo che si fosse riusciti a trovare.

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VI

Un pomeriggio Benjamin ci disse che aveva bisogno di quindici volontari. L’attaccoalla ridotta fascista che era stato annullato la volta precedente doveva esserecompiuto quella notte. Oliai le mie dieci cartucce messicane e sporcai la baionetta (seè troppo lucida, i suoi riflessi possono tradire la tua posizione) e preparai un pezzodi pane, dieci centimetri di salsiccia rossa e un sigaro che mia moglie mi avevamandato da Barcellona e che tenevo da parte ormai da un pezzo. Furono distribuitedelle bombe a mano, tre a testa. Il governo spagnolo era finalmente riuscito aprodurre delle bombe decenti. Erano costruite sul principio della bomba Mills, macon due sicure invece di una. Dopo averle tolte entrambe c’era un intervallo di settesecondi prima che la bomba esplodesse. Lo svantaggio principale presentato daquest’arma era che una delle sicure era molto dura e l’altra molto lenta per cui sipoteva scegliere di lasciare entrambe le sicure al loro posto ma poi rischiare di nonessere in grado di sfilare quella dura in caso d’emergenza, oppure di togliere quelladura e poi farsi venire i sudori freddi per paura che la bomba esplodesse in tasca.Comunque era una bombetta molto facile da lanciare.

Un po’ prima di mezzanotte Benjamin guidò noi quindici fino a Torre Fabián. Daqualche ora cadeva una pioggia battente. I fossi d’irrigazione traboccavano e bastavainciampare per finire nell’acqua fino alla cintola. Nel buio pesto e nella pioggia fittauna vaga massa di uomini ci attendeva nel cortile della fattoria. Kopp ci spiegò ilpiano d’attacco, prima in spagnolo e poi in inglese. In questo punto le linee fascistefacevano una curva a elle e il parapetto che dovevamo attaccare si trovava su unpiccolo rilievo proprio all’angolo della elle. Agli ordini di Jorge Roca, il nostrocomandante di battaglione (nella milizia un battaglione consisteva di circaquattrocento uomini), e di Benjamin, una trentina di noi, metà inglesi e metàspagnoli, doveva strisciare fin lassù e tagliare il filo spinato. Jorge avrebbe poilanciato una prima bomba come segnale, dopodiché il resto del gruppo avrebbe fattocadere una pioggia di bombe sulla trincea, scacciato i fascisti dal parapetto e cisaremmo impadroniti della postazione prima che si potessero riorganizzare. Nellostesso momento settanta membri delle truppe d’assalto avrebbero attaccato laposizione fascista che si trovava a duecento metri alla destra dell’altra, a cui era unitada una trincea di comunicazione. Per evitare di spararci a vicenda nel buio avremmoindossato dei bracciali bianchi. Proprio in quel momento arrivò una staffetta che ciavvertì che i bracciali bianchi non c’erano. Dall’oscurità una voce avanzò unaproposta in tono lamentoso: «Non si potrebbe fare in modo che, invece, i braccialibianchi se li mettano i fascisti?».

C’era da aspettare un’ora o due. Il granaio sopra la stalla dei muli era cosìrovinato dall’ultimo bombardamento che non ci si poteva muovere là dentro senzauna luce. Metà del pavimento era stato sfondato da una granata caduta dall’alto ec’era un dislivello di sei metri dal sottostante pavimento di pietra. Qualcuno trovòun piccone e, usandolo come leva, staccò una tavola rotta dal pavimento e così dopo

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qualche minuto avevamo un fuoco acceso e i vestiti bagnati fumanti. Qualcun altrotirò fuori un mazzo di carte. Cominciò a circolare la voce – una di quelle endemichevoci misteriose in una guerra – che presto ci avrebbero distribuito caffè bollentecorretto al brandy. Ci buttammo entusiasti giù per la scala semidistrutta ecominciammo a vagare nel cortile buio per chiedere dove avremmo potuto trovare ilcaffè. Ahimè! Del caffè nessuna traccia. Invece ci radunarono, ci fecero mettere in filaindiana e poi Jorge e Benjamin s’incamminarono decisi verso le tenebre, con noi alseguito.

Pioveva ancora e il buio era fitto, però almeno il vento s’era calmato. Il fango eraindicibile. I sentieri che attraversavano i campi di barbabietole erano tutta unaprotuberanza, scivolosi come un palo ingrassato e cosparsi di pozzanghere. Moltoprima che raggiungessimo il punto da dove avremmo scavalcato il nostro parapetto,eravamo caduti tutti diverse volte e avevamo i fucili impiastrati di fango. Nellatrincea trovammo un manipolo di uomini, le nostre riserve, un dottore e una fila dibarelle. Uscimmo uno per volta da un’apertura del parapetto e guadammo un altrofosso d’irrigazione. Ciaff-glu-glu! Di nuovo con l’acqua fino alla cintola e il fangoschifoso e viscido che s’infilava negli scarponi. Jorge attese sull’erba del bordo chefossimo passati tutti, quindi, piegato quasi a metà, cominciò ad avanzare lentamente.Il parapetto dei fascisti era a circa centocinquanta metri di distanza. La nostra unicapossibilità di arrivarci era di muoverci senza fare alcun rumore.

Io mi trovavo davanti con Jorge e Benjamin. Piegati in due, ma con la testa inavanti, avanzammo nell’oscurità quasi totale a una velocità che rallentavapraticamente a ogni passo. La pioggia ci picchiettava leggera in faccia. Se mi voltavoriuscivo a vedere solo i compagni più vicini, un gruppo di sagome chine chesembravano grossi funghi che si spostavano lentamente in avanti. Ma ogni volta chealzavo la testa, Benjamin, al mio fianco, mi sussurrava con forza all’orecchio: «To keepze head down! To keep ze head down!». Avrei potuto dirgli di non preoccuparsi tanto:sapevo per esperienza che in una notte buia non si riesce a vedere un uomo a ventipassi di distanza. Era molto più importante muoversi in silenzio. Se appena ciavessero sentito saremmo stati fritti. Non dovevano fare altro che annaffiarel’oscurità con una mitragliatrice e non avremmo potuto far altro che scappare oessere massacrati.

Ma su quel terreno saturo di pioggia era quasi impossibile muoversi in silenzio.Nonostante tutti gli sforzi, i piedi restavano incagliati nel fango e ogni passoproduceva un ciaf-ciaf, ciaf-ciaf. E il peggio era che siccome il vento si era calmato, lanottata era silenziosa, anche con la pioggia che cadeva. I rumori si sentivano anche alunga distanza. Ci fu un attimo di panico quando inciampai in un barattolo vuoto epensai che tutti i fascisti nel raggio di diversi chilometri mi avessero sentito. E inveceniente, nessun rumore, nessuno sparo di reazione, neanche un movimento dallelinee fasciste. Continuammo ad avanzare, sempre più lentamente. Non riesconeanche a darvi una pallida idea della smania profonda che avevo di arrivare là. Diarrivare appena alla distanza giusta per lanciare le bombe a mano prima che siaccorgessero di noi! In occasioni del genere non si riesce nemmeno a provare paura,solo un tremendo e disperato desiderio di coprire lo spazio che manca. Ho provatola stessa sensazione nel braccare una fiera; la stessa dolorosa voglia di arrivare a tiro;la stessa irreale certezza che è impossibile. E come si allungava la distanza!Conoscevo bene quel posto, non erano neanche centocinquanta metri, eppuresembravano già più di millecinquecento. Quando si procede a quella lentezza ci si

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rende conto delle enormi variazioni del terreno alla stessa stregua di una formica:quella meravigliosa distesa di erba liscia, quell’infido pezzo di fango appiccicoso, lecanne alte e fruscianti da evitare a ogni costo, il mucchio di sassi che quasi ti faperdere ogni speranza perché sembra impossibile superarlo senza far rumore.

Avanzavamo ormai da un secolo, al punto che cominciai a temere che avessimosbagliato strada. Poi dalle tenebre emersero vagamente sottili linee parallele dicolore ancora più scuro. Era il primo sbarramento di filo spinato (i fascisti neavevano due). Jorge s’inginocchiò e si rovistò nelle tasche. Era l’unico di noi ad avereun paio di tronchesi. Zac-zac. Il fil di ferro tagliato fu spostato con delicatezza.Aspettammo che gli uomini rimasti indietro si avvicinassero. Ci pareva che facesseroun baccano tremendo. Potevano mancare una cinquantina di metri dal parapettofascista ormai. Avanzammo ancora, piegati in due. Un passo furtivo, posando ilpiede a terra come un gatto che s’avvicina alla tana del topo; poi una breve pausad’ascolto, quindi un altro passo. Una volta alzai la testa e in silenzio Benjamin mipoggiò una mano sulla nuca riabbassandomela con forza. Sapevo che il secondosbarramento non era neanche a venti metri dal parapetto. Mi sembrava inconcepibileche trenta uomini potessero arrivare fin lì senza essere uditi. Bastava il nostro respiroa tradirci. Eppure, non so come, ci arrivammo. Ormai riuscivamo a distinguere ilparapetto fascista, un vago rilievo nel terreno che pareva torreggiare su di noi.Ancora una volta Jorge s’inginocchiò e si diede da fare. Zac-zac. Non c’era modo ditagliare quella roba senza fare rumore.

E così eravamo arrivati al secondo sbarramento. Scivolammo oltre carponi,stavolta un po’ più velocemente. Se ora avessimo avuto il tempo di allargarci tuttosarebbe andato bene. Jorge e Benjamin strisciarono verso destra. Ma gli uomini alleloro spalle, che si erano aperti a ventaglio, dovevano mettersi in fila indiana perpassare nello stretto varco aperto nel filo spinato e proprio in quel momento dalparapetto ci fu un lampo e si udì uno sparo. Alla fine la sentinella ci aveva sentito.Jorge si puntellò su un ginocchio e fece roteare un braccio come un lanciatore dicricket. BUM! La sua bomba esplose da qualche parte oltre il parapetto. Di colpo,molto prima di quanto si sarebbe creduto possibile, un ruggito di fuoco, dieci o ventifucili, si levò dal parapetto fascista. Dopo tutto ci stavano aspettando. Per un attimotutti i sacchetti di sabbia si stagliarono netti nella luce spettrale. Uomini che eranoancora troppo lontani cominciarono a lanciare le loro granate, alcune delle qualiatterravano molto prima del parapetto. Ogni feritoia sembrava sputare getti difiamma. È sempre una cosa detestabile esser presi a fucilate al buio – ogni lampo cheesce dalla canna del fucile sembra essere indirizzato proprio a te – ma il pericolomaggiore era costituito dalle bombe a mano. Non si riesce a concepire l’orroresuscitato da questi ordigni finché non se n’è visto uno scoppiare davanti al proprionaso e perdipiù al buio; di giorno si sente solo il botto e si vede l’esplosione, mentreal buio c’è anche un abbacinante lampo rosso. Alla prima salva mi ero gettato subitoa terra. Mentre me ne stavo sdraiato su un fianco combattevo una mia personalebattaglia con la sicura di una bomba. Quell’accidenti non voleva staccarsi. Alla finemi resi conto che la stavo tirando per il verso sbagliato. Riuscii a toglierla, mi alzai inginocchio, la lanciai e mi ributtai a terra. La bomba esplose alla mia destra, appenafuori del parapetto; la paura mi aveva rovinato la mira. In quel preciso istanteun’altra bomba esplose proprio davanti a me, così vicina che sentii il caloredell’esplosione. Appiattito per terra, affondai il viso nel fango con tale forza dasentire una fitta al collo, e pensai di essere stato ferito. Nella confusione udii una

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voce alle mie spalle dire in inglese: «Mi hanno beccato». In effetti le schegge non miavevano colpito, ma avevano ferito diverse persone attorno a me. Mi rialzai inginocchio e lanciai una seconda bomba. Non ricordo dove sia andata a finire.

I fascisti sparavano, i nostri da dietro sparavano e io mi rendevo ben conto diessere preso in mezzo. Sentii il calore di uno sparo e mi accorsi che un compagnostava sparando proprio dietro alle mie spalle. Mi alzai gridandogli: «Non spararmi,maledetto idiota!». In quel momento vidi che Benjamin, a dieci, quindici metri allamia destra, mi stava facendo cenno con un braccio di raggiungerlo e corsi verso dilui. Il che significava attraversare un tratto di feritoie che continuavano a sputarefuoco e mentre correvo mi coprii una guancia con la mano sinistra; un gesto senzasenso – come se una mano fosse stata in grado di fermare una pallottola! – ma avevouna gran paura di esser colpito al volto. Benjamin era appoggiato a un ginocchio conun’espressione diabolica e compiaciuta sul viso mentre prendeva accuratamente dimira i lampi dei fucili con la sua pistola automatica. Jorge era caduto ferito allaprima raffica e non si vedeva dov’era. M’inginocchiai accanto a Benjamin, tolsi lasicura dalla terza bomba e la tirai. Ah! questa volta non c’erano dubbi. La bombaesplose all’interno del parapetto, proprio all’angolo, vicino al nido dellamitragliatrice.

Improvvisamente il fuoco dei fascisti sembrò rallentare. Benjamin si alzò in piedie gridò: «Avanti! All’assalto!». Corremmo su per il lieve pendio che ci separava dalparapetto. Ho detto “corremmo”; forse sarebbe più corretto dire “ci trascinammo”; larealtà è che non si può correre molto veloci quando si è fradici di pioggia e infangatida capo a piedi, appesantiti inoltre da un fucile, una baionetta e centocinquantacartucce. Io davo per scontato che ci sarebbe stato un fascista ad aspettarmi in cimaalla salita. Se mi avesse sparato, a quella distanza non poteva certo mancarmi;eppure in qualche modo non mi aspettavo che sparasse, ma solo che tentassed’infilzarmi con la sua baionetta. Mi pareva di anticipare già la sensazione dellenostre due baionette che s’incrociavano e mi chiedevo se le sue braccia sarebberostate più forti delle mie. A ogni modo, non trovai nessun fascista ad aspettarmi. Conun vago senso di sollievo scoprii che il parapetto non era molto alto e che i sacchettidi sabbia offrivano un buon appoggio per i piedi. Di solito sono ostacoli difficili dasuperare. All’interno della trincea ogni cosa era a pezzi, con travi rotte dappertutto egrossi frammenti di uralite sparsi intorno. Le nostre bombe avevano distrutto tutte lebaracche e i rifugi sotterranei. E ancora non si vedeva un’anima in giro. Pensai che sifossero nascosti da qualche parte sottoterra e gridai in inglese (in quel momento nonriuscivo a pensare all’equivalente spagnolo): «Venite fuori di lì! Arrendetevi!».Nessuna risposta. Poi un uomo, un’ombra più densa nella penombra circostante,saltò sopra al tetto di una delle baracche semidistrutte e corse via verso sinistra. Lorincorsi, affondando invano la mia baionetta nelle tenebre davanti a me. Appenagirai l’angolo della baracca vidi un uomo – non so se fosse lo stesso che avevoappena visto – che fuggiva lungo la trincea di raccordo che portava all’altraposizione fascista. Dovevo essergli molto vicino perché riuscivo a vederlo bene. Eraa capo scoperto e pareva non avere niente addosso tranne una coperta che sistringeva attorno alle spalle. Se gli avessi sparato l’avrei fatto a pezzi. Ma nel timoreche ci colpissimo tra noi ci era stato ordinato di usare solo le baionette una voltaall’interno del parapetto, e in ogni caso non mi passò neanche per la testa di farfuoco. Invece feci un salto indietro di vent’anni con la memoria, al nostro insegnantedi boxe a scuola che mi dimostrava con un’efficace pantomima come aveva preso a

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baionettate un turco nei Dardanelli. Afferrai saldamente il fucile per la parte strettadel calcio e tentai un affondo verso la schiena dell’uomo. Era appena fuori dalla miaportata. Un altro affondo: ancora fuori portata. E così andammo avanti per un pezzo,lui che correva lungo la trincea e io dietro a lui dall’alto che tentavo di pungergli lespalle, ma senza mai toccarlo – un ricordo un po’ comico per me, ma immagino che alui la cosa deve essere sembrata un po’ meno buffa.

Naturalmente lui conosceva il terreno meglio di me e ben presto riuscì asfuggirmi. Quando tornai indietro la posizione era piena di uomini che gridavano. Ilrumore degli spari era un po’ diminuito. I fascisti riversavano ancora un fuocoabbastanza pesante su di noi da tre parti, ma veniva da una distanza moltomaggiore. Per il momento li avevamo ricacciati indietro. Ricordo di aver detto, intono oracolare: «Possiamo tenere questo posto per mezz’ora, non di più». Non sobene perché dissi proprio mezz’ora. Guardando oltre il parapetto sulla nostra destrasi vedevano innumerevoli lampi verdastri di fucilate che trafiggevano le tenebre; maerano abbastanza distanti, cento o duecento metri. Il nostro compito ora era dirastrellare la posizione e prendere qualsiasi cosa valesse la pena portar via. Benjamine qualcun altro stavano già rovistando tra le macerie di una grossa baracca odeposito sotterraneo al centro della posizione. Benjamin emerse barcollando dal tettosfondato tirandosi dietro la maniglia di corda di una cassa di munizioni.

«Compagni! Munizioni! Ci sono un sacco di munizioni qua!»«Non ci servono le munizioni» gli rispose una voce, «ci servono i fucili.»Era vero. La metà dei nostri fucili era inceppata dal fango ed erano praticamente

inutilizzabili. Si potevano pulire, certo, ma è rischioso togliere l’otturatore daun’arma al buio; lo si appoggia da una parte e poi lo si perde. Io avevo unaminuscola torcia elettrica, che mia moglie era riuscita a comprarmi a Barcellona,altrimenti tra tutti non avevamo alcun’altra fonte di luce. Alcuni di noi che avevanodei buoni fucili aprirono un fuoco balbettante in direzione dei lampi lontani.Nessuno osava sparare troppo rapidamente; perfino i migliori fucili si sarebberoinceppati se si riscaldavano troppo. Eravamo circa in sedici all’interno della trincea,compresi uno o due feriti. Parecchi feriti, sia spagnoli che inglesi, stavano ancora aterra fuori. Patrick O’Hara, un irlandese di Belfast che aveva ricevuto un po’ dinozioni di pronto soccorso, andava avanti e indietro con pacchetti di bende,fasciando i feriti e, naturalmente, veniva preso a fucilate ogni volta che tornava alparapetto, nonostante urlasse indignato «POUM!».

Cominciammo a perquisire sistematicamente la posizione. C’erano parecchi mortiin giro, ma non mi fermai a esaminarli. Quello che m’interessava era lamitragliatrice. Per tutto il tempo in cui ero stato sdraiato là fuori mi ero chiestovagamente perché non avesse aperto il fuoco. Esplorai il nido con il raggio della miatorcia elettrica. Che amara delusione! La mitragliatrice non c’era. C’era il treppiede evarie casse di munizioni e pezzi di ricambio, ma l’arma mancava. Dovevano averlasmontata e portata via allo scattare del primo allarme. Senza dubbio avevano agitodietro ordini precisi, ma era stata un’idiozia da vigliacchi, perché se l’avessero tenutalì ci avrebbero potuto massacrare tutti quanti. La cosa ci lasciò infuriati, perché incuor nostro ci eravamo ripromessi di impossessarci di una mitragliatrice.

Rovistammo qua e là, ma non trovammo niente di valore. C’era una gran quantitàdi bombe a mano fasciste in giro – un modello piuttosto scadente che s’innescavatirando una cordicella – e me ne misi in tasca un paio, più che altro per ricordo. Eraimpossibile non rimanere colpiti dalla spoglia povertà dei rifugi fascisti. Il disordine

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dei vestiti di riserva, dei libri, del cibo e dei piccoli effetti personali che si potevaosservare nei nostri rifugi qui mancava del tutto; questi poveri coscritti malpagatisembravano non possedere altro che qualche coperta e qualche tocco di panebagnato. In fondo alla trincea c’era un rifugio in parte sopraelevato con unaminuscola finestra. Facemmo brillare il raggio della torcia dalla finestra e subitolanciammo un grido. Appoggiato a una parete c’era un oggetto cilindrico in unacustodia di cuoio, alto un metro e mezzo e di circa quindici centimetri di diametro.Evidentemente era la canna della mitragliatrice. In un lampo facemmo il giro dellacostruzione ed entrammo dalla porta per scoprire che l’oggetto nella custodia dicuoio non era la mitragliatrice ma qualcosa che per il nostro esercito male armato eraancora più preziosa: si trattava di un enorme telescopio, probabilmente a sessanta osettanta ingrandimenti, completo di treppiedi pieghevole. Telescopi del generesemplicemente non esistevano dalla nostra parte del fronte e ce n’era un disperatobisogno. Lo portammo fuori in trionfo e lo appoggiammo al parapetto per portarcelovia dopo.

Proprio in quel momento qualcuno gridò che i fascisti si stavano avvicinando. Disicuro il crepitio delle fucilate si era fatto molto più intenso. Ma era anche chiaro chei fascisti non avrebbero contrattaccato da destra, perché voleva dire attraversare laterra di nessuno e dare l’assalto al proprio parapetto. Se avevano un briciolo dicervello ci sarebbero venuti addosso dall’interno delle loro linee. Mi portai dall’altrolato della posizione che aveva suppergiù la forma di un ferro di cavallo, con i rifugial centro, per cui avevamo a disposizione un altro parapetto sulla sinistra. Un fuocoabbastanza pesante veniva proprio da quella direzione, ma non era tantoimportante. Il punto pericoloso era dritto davanti a noi, dove non esisteva alcunaforma di protezione. Un flusso continuo di pallottole ci passava appena sopra latesta. Dovevano provenire dall’altra posizione fascista a monte della linea;evidentemente le truppe d’assalto non erano riuscite a conquistarla. Ma stavolta ilrumore era assordante. Era il continuo, tambureggiante fragore di una gran quantitàdi fucili che ero abituato a sentire da una certa distanza; questa era la prima volta chemi ci trovavo proprio in mezzo. A questo punto, naturalmente, gli spari si eranoallargati per chilometri e chilometri tutt’intorno. Douglas Thompson, con un braccioferito che gli pendeva inerte al fianco, era appoggiato al parapetto e sparava con unamano sola contro i lampi. Un compagno a cui si era inceppata l’arma gli caricava ilfucile.

Da questa parte noi eravamo quattro o cinque. Quel che dovevamo fare eraabbastanza evidente: dovevamo trascinare i sacchetti di sabbia dal parapetto frontalee costruire con essi una barricata sul lato indifeso e dovevamo sbrigarci. I tiri per oraerano alti, ma potevano abbassarsi da un momento all’altro; dai lampi che scorgevotutt’intorno riuscivo a capire che avevamo una o due centinaia di uomini che ciattaccavano. Cominciammo a staccare i sacchetti dalle loro nicchie, a portarli a spallaper venti metri e poi ad ammucchiarli più o meno alla rinfusa. Era un lavoraccio. Isacchetti erano piuttosto grandi e pesavano sui cinquanta chili e ci voleva ognigrammo di forza per staccarli dal parapetto; e poi ogni tanto la tela di sacco fradiciasi rompeva e la terra umida ci cascava tutta addosso, dentro il collo e le maniche.Ricordo che provavo un grande terrore per ogni cosa: il caos, il buio, il baccanoinfernale, lo scivolare avanti e indietro nel fango, le lotte con i sacchetti sempre lì sulpunto di scoppiare – e perdipiù sempre impacciato dal fucile, che però non osavometter giù per paura di perderlo. Mi misi perfino a gridare a qualcuno mentre

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avanzavamo barcollando con un sacco di sabbia in due: «Che guerra! Non è un granmacello?». All’improvviso una serie di sagome alte saltarono giù dal parapettofrontale. Quando si avvicinarono ci rendemmo conto che indossavano le divise delletruppe d’assalto e lanciammo un grido di gioia perché credevamo si trattasse dirinforzi. Invece erano solo in quattro, tre tedeschi e uno spagnolo. Più tardi venimmoa sapere quel che era successo alle truppe d’assalto: siccome non conoscevano ilterreno, al buio erano stati condotti nel punto sbagliato dove erano rimasti impigliatinel filo spinato fascista e un gran numero di loro era stato falciato. Questi quattro sierano smarriti, per loro fortuna. I tedeschi non parlavano una parola di inglese,francese o spagnolo. Con grande difficoltà e a forza di gesticolare gli spiegammocosa stavamo facendo e riuscimmo a farci aiutare nella costruzione della barricata.

I fascisti ora avevano messo in posizione anche una mitragliatrice. La si riusciva adistinguere mentre sputacchiava fuoco come un mortaretto a cento o duecento metridi distanza; le pallottole ci passavano sopra con uno schiocco secco e continuo. Inmen che non si dica avevamo buttato abbastanza sacchetti di sabbia a terra per fareun riparo dietro a cui i pochi uomini che si trovavano da questo lato della posizionepotevano sdraiarsi e sparare. Io ero inginocchiato appena dietro di loro. Una granatadi mortaio sibilò sopra di noi e andò a esplodere da qualche parte nella terra dinessuno. Ecco un altro pericolo, ma ci sarebbero voluti diversi minuti prima cheaggiustassero il tiro. Ora che avevamo finito di combattere con quegli accidenti disacchetti di sabbia, c’era un po’ più da divertirsi, in un certo senso; il fracasso, il buio,i lampi che si avvicinavano, i nostri compagni che sparavano su quei lampi. C’eraperfino tempo di riflettere un po’. Ricordo di essermi chiesto se avevo paura o menoe di aver deciso di no. Fuori, dove con ogni probabilità ero meno in pericolo, lapaura a momenti mi faceva star male. All’improvviso ci fu un altro grido che ifascisti si stavano avvicinando. Non c’era dubbio che nel frattempo i lampi dellefucilate si erano fatti molto più vicini. Ne vedevo uno a neanche una ventina dimetri. Evidentemente stavano avanzando lungo la trincea di comunicazione. Ma aventi metri erano nel raggio d’azione delle bombe a mano; noi eravamo in otto onove e tutti ammucchiati: bastava una sola bomba ben lanciata per farci tutti a pezzi.Bob Smillie, con il sangue che gli colava sul viso da una scalfittura, scattò inginocchio e lanciò una bomba a mano. Ci accucciammo in attesa del botto. L’innescomandò un incerto sprazzo rosso mentre la bomba volava in aria, ma poi non ci funessuno scoppio. (Almeno un quarto di quelle bombe facevano cilecca.) Io non neavevo più, a parte quelle fasciste, ma non ero molto sicuro di come funzionassero.Urlando domandai agli altri se qualcuno aveva una bomba in più. Douglas Moyle sitastò le tasche e me ne passò una. La lanciai e mi buttai faccia a terra. Per uno di queicolpi di fortuna che succedono una volta all’anno ero riuscito a far cadere la bombaesattamente dove avevo visto il lampo della fucilata. Ci fu il boato dell’esplosione epoi, subito, un levarsi diabolico di urla e rantoli. Ne avevamo beccato perlomenouno. Non so se era rimasto ucciso, ma di sicuro era ferito in modo grave. Poverodisgraziato! Povero disgraziato! Provai una vaga pena nel sentirlo urlare. Ma allostesso tempo, nell’incerto chiarore dei lampi, vidi o mi parve di scorgere una sagomain piedi vicino al punto dove avevo visto partire la fucilata. Alzai il fucile e fecifuoco. Un altro grido, ma credo si trattasse ancora dell’effetto della bomba.Gettammo diverse altre bombe. Gli altri lampi che vedemmo erano molto piùlontani, un centinaio di metri o anche più. E così li avevamo ricacciati indietro,almeno per il momento.

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Cominciammo tutti a imprecare e a chiederci perché diavolo non ci mandavanoun po’ di rinforzi. Con una mitraglietta e venti uomini con i fucili in perfettaefficienza avremmo potuto difendere questo posto dall’attacco di un interobattaglione. In quel momento Paddy Donovan, che era il vice di Benjamin ed erastato mandato a prendere ordini, scavalcò il parapetto frontale.

«Ehi! Venite fuori di lì! Tutti gli uomini si devono ritirare subito!»«Come?»«Ritiratevi! Uscite di lì!»«E perché?»«Ordini. Tornate di corsa alle nostre linee.»C’era già gente che si arrampicava sul parapetto. Diversi di loro si trascinavano

dietro a fatica una pesante cassa di munizioni. Pensai subito al telescopio che avevolasciato appoggiato al parapetto dall’altra parte della posizione. Ma in quelmomento vidi anche i quattro delle truppe d’assalto che, forse agendo dietro qualcheordine misterioso ricevuto in precedenza, avevano cominciato a correre lungo ilcamminamento della trincea di comunicazione. Li avrebbe portati dritti all’altraposizione fascista e – se ci fossero mai arrivati – a una morte sicura. Stavano già perscomparire nell’oscurità. Li inseguii cercando di pensare alla parola spagnola per“ritirata”; alla fine gridai: «Atrás! Atrás!» che probabilmente funzionò: lo spagnoloperlomeno capì e riportò indietro gli altri. Paddy intanto mi stava aspettando alparapetto.

«Forza, sbrigati!»«Ma il telescopio!»«Al diavolo il telescopio! Benjamin è lì fuori che ci aspetta.»Scavalcammo. Paddy mi tenne alzato il filo spinato. Appena uscimmo dal riparo

del parapetto fascista fummo investiti da un fuoco indiavolato che sembravaarrivarci addosso da tutte le direzioni. Una parte, senza dubbio, veniva anche dallenostre fila, perché tutti si erano messi a sparare lungo l’intera linea. Da qualsiasi latoci voltassimo un nuovo flusso di pallottole ci passava vicino; e così fummo sospintidi qua e di là nelle tenebre come un branco di pecore. La cosa non era niente affattofacilitata dal doverci tirare dietro la cassa di munizioni che avevamo razziato – unadi quelle casse contenenti millesettecentocinquanta cartucce e che pesano circamezzo quintale – più un’altra cassa di bombe e diversi fucili tolti ai fascisti. In pochiminuti, per quanto i due parapetti contrapposti distassero neanche duecento metri ela maggior parte di noi conoscesse bene il terreno, smarrimmo del tutto la strada. Ciritrovammo a strisciare in tondo nei campi fangosi, senza sapere niente tranne che lepallottole ci piovevano addosso da entrambe le parti. Non c’era luna per orientarci,ma il cielo cominciava leggermente a schiarirsi. Le nostre linee si trovavano a estrispetto a Huesca; io avrei voluto starmene lì dov’ero fino al primo sorgere del sole,che perlomeno ci avrebbe fatto vedere da che parte era l’Est e da che parte l’Ovest;ma gli altri non erano d’accordo. E così continuammo a strisciare nel fango,cambiando direzione ogni tanto e facendo a turno nel trascinarci dietro la cassa dimunizioni. Alla fine riuscimmo a scorgere la linea piatta di un parapetto davanti anoi. Poteva essere il nostro come poteva essere quello dei fascisti; nessuno di noiaveva la più pallida idea di dove stessimo andando. Benjamin strisciò sul ventre inmezzo a dei grossi cespugli biancastri fino a quando non fu a venti metri dalparapetto e provò a lanciare la parola d’ordine. Gli rispose un «POUM!». Saltammo in

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piedi, trovammo il sentiero che correva lungo il parapetto, riguadammo il fossod’irrigazione – ciaff-glu-glu! – ed eravamo in salvo.

Kopp ci aspettava dall’altra parte del parapetto insieme ad alcuni spagnoli. Ildottore e le barelle non c’erano più. A quanto pareva tutti i feriti erano statirecuperati tranne Jorge e uno dei nostri, che si chiamava Hiddlestone, ancoradispersi. Kopp camminava nervosamente avanti e indietro, pallidissimo. Perfino lepieghe di grasso sulla sua nuca erano pallide; non prestava alcuna attenzione allepallottole che fischiavano sopra l’esiguo riparo offerto dal parapetto e glicrepitavano attorno alla testa. La maggior parte di noi se ne stava accovacciata dietroalla barriera di sacchetti di sabbia bene al riparo. Kopp borbottava: «Jorge! Coño!Jorge!» e poi: «Se Jorge è andato è terribile, terribile!». Jorge era un suo grande amicopersonale e uno dei suoi ufficiali migliori. All’improvviso si rivolse a noi e chiesecinque volontari, due inglesi e tre spagnoli, che andassero a cercare i dispersi. Cioffrimmo io, Moyle e tre spagnoli.

Appena uscimmo dalla trincea gli spagnoli cominciarono a sussurrare che si stavafacendo pericolosamente chiaro. Era proprio vero: il cielo si stava tingendovagamente di blu. C’era un gran baccano di voci concitate proveniente dalla ridottafascista. Evidentemente avevano rioccupato la postazione con molte più forze diprima. Eravamo a sessanta o settanta metri dal parapetto quando devono avercivisto o sentito, perché ci piovve addosso una gran scarica di fucileria che ci fecetuffare faccia a terra. Uno di loro addirittura lanciò una bomba a mano oltre ilparapetto – un evidente segnale di panico. Rimanemmo sdraiati in mezzo all’erba, inattesa di una possibilità di rimetterci in movimento, quando sentimmo o credemmodi sentire – non ho dubbi che fosse pura fantasia, ma in quel momento la cosa ciparve abbastanza realistica – che le voci dei fascisti si facevano sempre più vicine.Avevano scavalcato il parapetto e ci stavano venendo addosso. «Scappa!» gridai aMoyle e scattai in piedi. E santo Cielo, che corsa feci! All’inizio di quella nottatacredevo che non si riuscisse a correre essendo bagnati dalla testa ai piedi eappesantiti da fucile e cartucce; be’, ora mi stavo rendendo conto che si riesce semprea correre quando si teme di essere inseguiti da cinquanta o cento uomini. Ma se iocorrevo forte, c’era chi correva ancora più forte. Mentre scappavo fui sorpassato daqualcosa di molto simile a una pioggia di meteoriti. Erano i tre spagnoli che eranoandati qualche metro più avanti di me. Arrivarono fino al nostro parapetto prima difermarsi ad aspettare che li raggiungessi. La verità è che tutti avevamo i nervi apezzi. Sapevo però che nella luce incerta da soli si è invisibili, mentre in cinque si èchiaramente individuabili, così me ne tornai indietro da solo. Riuscii ad arrivare finoal primo sbarramento di filo spinato e perlustrai il terreno come meglio potevo, cioènon molto bene, perché dovevo strisciare sul ventre. Di Jorge o Hiddlestone nessunatraccia, e così feci ritorno nella nostra trincea. In seguito venimmo a sapere che eranostati portati in infermeria tra i primi. Jorge aveva ricevuto una ferita leggera allaspalla. Hiddlestone invece si era beccato una bruttissima ferita – una pallottola cheera risalita per tutto il braccio sinistro, rompendogli le ossa in diversi punti; e mentregiaceva inerme per terra gli era scoppiata vicino una bomba che gli aveva portato viadiverse altre parti del corpo. Sono lieto di poter dire che se l’è cavata. In seguito miha detto che era riuscito a trascinarsi per un bel pezzo sulla schiena, poi si eraafferrato a un ferito spagnolo ed entrambi si erano aiutati a vicenda a rientrare nellenostre linee.

Ormai si stava facendo giorno. Per chilometri e chilometri d’intorno su tutta la

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linea rimbombava un fuoco sparso e senza senso, un po’ come la pioggia checontinua a cadere dopo un temporale. Ricordo l’aspetto desolato che dominava suogni cosa, i pantani di fango, i pioppi gocciolanti, l’acqua giallastra sul fondo delletrincee; e i volti esausti degli uomini con la barba lunga, imbrattati di fango eanneriti dal fumo fino agli occhi. Quando tornai nel mio rifugio i tre compagni concui lo dividevo dormivano già pesantemente. Si erano buttati a terra con tuttol’equipaggiamento addosso e stringevano a sé i loro fucili infangati. Tutto era saturodi pioggia, fuori e dentro il rifugio. Dopo una lunga ricerca riuscii a trovareabbastanza schegge di legno per accendere un minuscolo fuoco. Quindi mi fumai ilsigaro che avevo tenuto tanto gelosamente da parte e che, con mia grande sorpresa,non si era neanche rotto nel corso di quella notte tanto movimentata.

In seguito venimmo a sapere che l’azione era stata un successo, almeno nel suogenere. Si era trattato solo di una sortita per stornare dall’altro versante di Huesca,dove gli anarchici erano tornati all’attacco, parte delle truppe fasciste. Avevo stimatoche i fascisti avevano impegnato dai cento ai duecento uomini nel contrattacco, mapiù tardi un disertore ci disse che ne avevano usati seicento. Oserei dire che mentisse– i disertori, è evidente, cercano sempre di fare buona impressione. Peccato per queltelescopio, però. Il pensiero di aver perso quel bellissimo bottino di guerra mi dàancora fastidio.

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VII

Le giornate si fecero più calde e perfino le notti diventarono tiepide in manieratollerabile. Tra i rami di un albero scheggiato dalle pallottole proprio davanti alnostro parapetto cominciarono a formarsi fitti mazzetti di ciliegie. Fare il bagno nelfiume smise di essere un acuto dolore e cominciò a essere quasi un piacere. Roseselvatiche con fiori rosa grandi come piattini s’insinuavano tra i buchi lasciati dallegranate intorno a Torre Fabián. Dietro le linee s’incontravano contadini con le roseselvatiche infilate dietro le orecchie. Di sera uscivano con certe reti verdi a caccia diquaglie. Si stende la rete sopra l’erba, poi ci si acquatta e si fa il verso della quagliafemmina. I maschi che sentono quel richiamo accorrono sul luogo e, appena sonosotto la rete, viene tirato un sasso in modo che, spaventati, si alzino in volo e virimangano impigliati. A quanto pare con questo sistema si acchiappano solo imaschi delle quaglie, cosa che mi pareva piuttosto ingiusta.

Ora sulla linea accanto a noi era schierata una sezione di andalusi. Non so benecome fossero finiti in quella parte del fronte. La spiegazione che circolava era cheerano scappati da Málaga così in fretta che si erano scordati di fermarsi a Valencia;ma questa naturalmente era una voce messa in giro dai catalani i quali non facevanomistero di disprezzare gli andalusi che consideravano dei mezzi selvaggi. E in effettigli andalusi erano molto ignoranti. Quasi nessuno di loro sapeva leggere esembravano all’oscuro perfino dell’unica cosa che in Spagna sanno tutti: a qualepartito politico appartenessero. Si professavano anarchici, ma non ne erano del tuttosicuri; forse erano comunisti. Era gente nodosa, dall’aspetto rustico, pastori obraccianti di ritorno dagli uliveti, forse, con la faccia segnata in profondità dal soleferoce del Sud. Ci erano molto utili perché erano bravissimi ad arrotolare sigarettecon il tabacco secco spagnolo. La distribuzione di sigarette era cessata del tutto, ma aMonflorite ogni tanto era possibile comprare pacchetti di tabacco molto scadenteche, come aspetto e consistenza, era piuttosto simile alla paglia sminuzzata. L’aromanon era male, ma era così secco che anche riuscendo a farsi una sigaretta il tabaccone usciva subito tutto e si rimaneva con un tubetto di carta vuoto in mano. Invece gliandalusi erano in grado di arrotolare bellissime sigarette e avevano una tecnicaspeciale per chiuderne le estremità.

Due inglesi si presero un colpo di sole. I miei principali ricordi di quel periodosono il caldo che faceva a mezzogiorno e il lavorare seminudo con i sacchetti disabbia che scorticavano le spalle già sferzate dal sole; e poi lo stato pietoso in cuierano ridotti i vestiti, e le scarpe che cadevano letteralmente a pezzi; le lotte con imuli che ci portavano il rancio, bestie che non battevano ciglio alle fucilate, ma sidavano alla fuga appena lo shrapnel scoppiava per aria; le zanzare (checominciavano a essere attive) e i ratti, che erano davvero un pericolo pubblico e nonesitavano a divorare cinghie di cuoio e perfino giberne. Non succedeva molto, aparte che ogni tanto qualcuno veniva ferito dal fuoco dei cecchini e qualchesporadico bombardamento aereo o d’artiglieria su Huesca. Ora che gli alberi erano

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pieni di foglie avevamo costruito delle piattaforme per i cecchini, simili a machans 4

sui pioppi che crescevano lungo la linea. Dall’altra parte di Huesca gli attacchi siandavano lentamente esaurendo. Gli anarchici avevano subito grosse perdite e nonerano riusciti a interrompere del tutto la strada di Jaca. Erano riusciti sì ad attestarsiabbastanza vicino sui due lati della strada in modo da tenerla sotto il fuoco dellemitragliatrici e renderla inutilizzabile per il traffico, ma in mezzo c’era un chilometrodi terreno e i fascisti avevano costruito una sorta di strada interrata, una specie dienorme trincea, lungo la quale un certo numero di autocarri riusciva ad andareavanti e indietro. I disertori riferivano che a Huesca c’era abbondanza di munizioni epenuria di cibo. Ma era evidente che la città non sarebbe caduta. Probabilmente eraimpossibile prenderla con i quindicimila uomini male armati che erano disponibili.Più tardi, a giugno, il governo spostò truppe dal fronte di Madrid e riuscì aconcentrare trentamila soldati su Huesca, appoggiati da un enorme numero diaeroplani; ma la città non cadde ugualmente.

Quando ci concessero una licenza ero stato centoquindici giorni in linea e,all’epoca, questo periodo mi pareva essere stato uno dei più futili di tutta la mia vita.Mi ero arruolato nella milizia per combattere contro il fascismo e invece quasi nonavevo combattuto, mi ero limitato a esistere come una sorta di oggetto passivo, nonfacendo niente per guadagnarmi le mie razioni se non soffrire per il freddo e lamancanza di sonno. Forse questo è il destino della maggior parte dei soldati nellamaggior parte delle guerre. Ma ora che riesco a vedere quel periodo in prospettivanon rimpiango affatto di averlo vissuto. In verità, mi sarebbe piaciuto servire ilgoverno spagnolo in maniera un po’ più efficace; ma dal punto di vista personale –dal punto di vista della mia crescita personale – quei primi tre o quattro mesi passatial fronte furono molto meno inutili di quanto pensassi allora. Hanno costituito unaspecie di interregno nella mia vita, molto diverso da qualsiasi cosa fosse accadutaprima e forse da qualsiasi cosa accadrà in futuro; e poi mi hanno insegnato cose chenon avrei potuto apprendere in nessun altro modo.

Il nodo essenziale è che in tutto questo periodo ero rimasto isolato – perché alfronte ci si trovava quasi completamente isolati dal mondo esterno: si aveva solo unavaga conoscenza perfino di quello che stava succedendo a Barcellona – in mezzo agente che poteva definirsi grosso modo, ma non del tutto inaccuratamente, comerivoluzionaria. E questo era il risultato del sistema in vigore nella milizia, che sulfronte aragonese rimase essenzialmente inalterato all’incirca fino al giugno del 1937.Le milizie operaie, basate sui sindacati e composte ognuna da persone checondividevano pressappoco le stesse idee politiche, ebbero l’effetto di canalizzare inun sol luogo i sentimenti più rivoluzionari del paese. Ero capitato, più o meno percaso, nell’unica comunità di una certa grandezza in tutta l’Europa occidentale dovela coscienza politica e la sfiducia nel capitalismo erano più normali dei loro rispettivicontrari. Lassù in Aragona ci si trovava tra decine di migliaia di persone, la maggiorparte, anche se non tutte, di origine operaia, che vivevano tutte allo stesso livello einteragivano tra loro in termini di eguaglianza. In teoria si trattava di un’eguaglianzaperfetta, ma anche la pratica non se ne discostava molto. In un certo senso sipotrebbe affermare che lì si stava provando un primo assaggio di socialismo, intendocioè dire che l’atmosfera mentale prevalente era quella socialista. Molte dellemotivazioni normali della vita civile – lo snobismo, l’avidità di denaro, il timore deicapi eccetera – avevano semplicemente cessato di esistere. La normale divisionedella società in classi era scomparsa a un punto tale che è quasi inconcepibile

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immaginarla nell’aria dell’Inghilterra, inquinata dal denaro; lì non c’eravamo che noie i contadini e nessuno era padrone di un altro. Naturalmente un tale stato di cosenon poteva durare. Era semplicemente una fase temporanea e localizzata diun’enorme partita che si gioca sull’intera superficie della Terra. Comunque è durataabbastanza da avere il suo effetto su chiunque ne abbia avuto esperienza. Per quantoall’epoca s’imprecasse, in seguito si è compreso di essere stati in contatto conqualcosa di strano e prezioso: avevamo vissuto in una comunità dove la speranza erapiù normale dell’apatia e del cinismo, dove la parola “compagno” indicava verasolidarietà e non, come nella maggior parte dei paesi, un’impostura. Avevamorespirato aria di eguaglianza. Sono ben consapevole che al giorno d’oggi vada dimoda negare che il socialismo abbia qualcosa a che fare con l’eguaglianza. In ognipaese del mondo un’enorme tribù di burocrati di partito e di leccati professorini sidà molto da fare per “provare” che socialismo non significa altro che un capitalismodi stato pianificato in cui rimanga intatta la motivazione dell’avidità. Ma per fortunaesiste anche una visione del socialismo molto diversa da questa. Quel che attrae lagente comune verso il socialismo e la rende disposta a rischiare la pelle per esso, la“mistica” del socialismo, è l’idea di eguaglianza; per la maggior parte della gente ilsocialismo significa una società senza classi oppure non significa niente. Ed è perquesto che quei pochi mesi passati nelle fila della milizia sono stati preziosi per me.Le milizie spagnole, infatti, finché sono durate, erano un microcosmo di societàsenza classi. In quella comunità in cui nessuno cercava di “emergere”, dove c’erapenuria di tutto, ma nessun privilegio e nessuno leccava le scarpe a nessuno, sipoteva avere, forse, una rozza idea di quali potrebbero essere le fasi iniziali delsocialismo. E a conti fatti, invece di deludermi, l’intera esperienza ha esercitato unaprofonda attrattiva su di me. L’effetto è stato quello di rendere il mio desiderio divedere attuato il socialismo molto più concreto di quanto lo fosse prima. Magari, inparte, questo fu dovuto alla buona sorte di trovarmi tra gli spagnoli che, con la lorodignità innata e la sempre presente sfumatura di anarchismo, renderebberotollerabili anche le fasi iniziali del socialismo, se ne avessero l’opportunità.

Naturalmente, all’epoca non è che mi rendessi conto dei cambiamenti cheavvenivano nella mia mente. Come tutti quelli intorno a me, mi rendevo contosoprattutto della noia, del caldo, del freddo, delle piattole, dei sacrifici e dei rischiche ogni tanto si correvano. Ma ora è tutto diverso. Il periodo che allora mi sembravacosì futile e vuoto riveste ora per me una notevole importanza. È così diverso dalresto della mia vita che ha già assunto quella qualità magica che di regola appartienesolo ai ricordi vecchi di anni. Mentre lo vivevo era un periodo terribile e ora invece èun buon pascolo per la mia mente. Vorrei tanto potervi comunicare l’atmosfera diquel periodo. Spero di esserci riuscito almeno un po’ nei primi capitoli di questolibro. Nella mia mente è tutto collegato insieme al freddo invernale, le uniformilogore dei miliziani, i visi ovali degli spagnoli, il ticchettio delle mitragliatrici chesembrano battere messaggi in codice Morse, il puzzo di orina e di pane che marcisce,il sapore metallico degli stufati di fagioli trangugiati in fretta dalle gavette sporche.

L’intero periodo mi resta impresso con una strana nitidezza. Rivivo nellamemoria incidenti che potrebbero sembrare troppo insignificanti per essere ricordati.Mi ritrovo nuovamente nel rifugio sotterraneo di Monte Pocero, sdraiato nellanicchia scavata nel calcare che serve da letto, con il giovane Ramón che russa con ilnaso schiacciato tra le mie scapole. Avanzo con difficoltà lungo la trincea fangosa inmezzo alla nebbia che si leva in volute attorno a me come vapore freddo. Sto

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abbarbicato in una cengia sul fianco della montagna mentre tento di mantenerel’equilibrio e di tirar fuori dal terreno una radice di rosmarino selvatico. Alte sullamia testa fischiano pallottole senza senso.

Me ne sto sdraiato al riparo dei piccoli abeti ai piedi del versante occidentale delMonte Trazo, insieme a Kopp, Bob Edwards e tre spagnoli. Sulla collina grigia ebrulla alla nostra destra, dei fascisti s’inerpicano, in fila come formiche. Non moltodistante, davanti a noi, uno squillo di tromba risuona dalle linee fasciste. Koppincrocia il mio sguardo e con gesto da scolaretto si porta il pollice al naso e famarameo a quel suono.

Sto nell’aia fangosa di La Granja, in mezzo alla folla di uomini che fanno ressa conle loro gavette di latta attorno al calderone dello stufato. Il cuoco grasso epreoccupato li tiene a bada con il mestolo. A un tavolo vicino, un uomo con la barbae un’enorme pistola automatica attaccata alla cintura affetta le pagnotte dividendolein cinque parti. Dietro di me una voce dall’accento cockney (Bill Chambers con cui hoavuto un’aspra lite e che poi in seguito è caduto appena fuori Huesca) sta cantando:

Ci son ratti, ratti, rattiGrandi e grossi come gattiIn giro per…

Arriva sibilando nell’aria una granata. Ragazzini di quindici anni si buttano facciaa terra. Il cuoco si ripara dietro il calderone. Tutti si rialzano con un’espressione unpo’ imbarazzata mentre la granata scende in picchiata ed esplode a un centinaio dimetri di distanza.

Cammino avanti e indietro lungo la linea delle sentinelle, sotto i rami scuri deipioppi. Nel fosso colmo d’acqua poco lontano i ratti sguazzano, schiamazzandocome lontre. Mentre l’alba giallastra sorge alle nostre spalle, una sentinella andalusa,intabarrata nel suo mantello, comincia a cantare. Dall’altra parte della terra dinessuno, cento o duecento metri più in là, si sente cantare anche una sentinellafascista.

Il 25 aprile, dopo i soliti mañanas, un’altra sezione ci diede il cambio econsegnammo loro i nostri fucili, preparammo gli zaini e tornammo marciandoverso Monflorite. Lasciare il fronte non mi dispiaceva. Le piattole si moltiplicavanonei miei pantaloni a velocità molto superiore a quella che avevo io nel massacrarle enell’ultimo mese ero rimasto senza calze e con gli scarponi quasi senza più suola,cosicché andavo in giro più o meno a piedi nudi. Desideravo un bagno caldo, vestitipuliti e una notte passata tra le lenzuola con più passione di quanto si possadesiderare qualcosa quando si vive una normale vita civile. Dormimmo qualche orain un granaio di Monflorite, poi, a notte fonda, saltammo su un camion e riuscimmoa salire sul treno delle cinque a Barbastro e – dopo aver avuto la fortuna di prenderela coincidenza di un rapido a Lérida – arrivammo a Barcellona alle tre delpomeriggio del 26. Dopodiché cominciarono i guai.

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VIII

Da Mandalay, nella Birmania settentrionale, si può andare in treno fino a Maymyo,la principale località montana della provincia, sull’orlo dell’altipiano di Shan. Èun’esperienza strana. Si parte dalla tipica atmosfera di una città orientale – la luceaccecante del sole, le palme polverose, gli odori del pesce, delle spezie e dell’aglio,dei soffici frutti tropicali, la ressa di esseri umani dalla pelle scura – e, poiché ci si èormai abituati, si porta, per così dire, intatta con sé questa atmosfera fin nelloscompartimento ferroviario. Mentalmente si è ancora a Mandalay quando il treno siferma a Maymyo, a milleduecento metri sul livello del mare. Ma appena si sbarca daltreno è come se si scendesse in un altro emisfero. All’improvviso si respira dell’ariafresca e dolce che potrebbe essere quella che si respira in Inghilterra e si è circondatida erba verde, felci, abeti e montanare dalle guance rosee che vendono cestini difragole.

Tornare a Barcellona dopo tre mesi e mezzo passati al fronte mi riportò alla mentequesta esperienza. C’era lo stesso sconcertante cambiamento di atmosfera. In treno,fino all’arrivo a Barcellona, c’era ancora la stessa atmosfera del fronte; il sudiciume, ilrumore, la scomodità, i vestiti logori, il senso di privazione, di solidarietà e dieguaglianza. Il treno, già pieno di miliziani alla partenza da Barbastro, fu invasosempre più da contadini a ogni stazione sulla linea; contadini con fagotti di verdurae polli terrorizzati tenuti a testa in giù, con sacchi che si agitavano e tremavano sulpavimento e che poi si scoprivano pieni di conigli vivi – e alla fine addirittura con ungrosso gregge di pecore che furono spinte negli scompartimenti e ficcate in tutti glispazi disponibili. I miliziani cantavano a squarciagola canti rivoluzionari chesovrastavano perfino lo sferragliare del treno, lanciavano baci o sventolavanofazzoletti rosso-neri a tutte le belle ragazze che incontravano lungo la linea. Bottigliedi vino o di anis, il terribile liquore aragonese, passavano di mano in mano. Con leborracce spagnole di pelle di capra si riesce a mandare un getto di vino da una parteall’altra del treno fin nella bocca di un amico e così ci si risparmia un sacco di fastidi.Accanto a me un quindicenne dagli occhi neri raccontava le mirabolanti e, non hodubbi, completamente false imprese che aveva compiuto al fronte a due vecchicontadini dal volto coriaceo che lo ascoltavano a bocca aperta. Ben presto i contadinisciolsero i propri fagotti e ci offrirono del vino rosso scuro e appiccicoso. C’eraun’atmosfera di generale, profonda felicità, una felicità che non riesco a esprimere.Ma quando il treno si trascinò attraverso Sabadell ed entrò a Barcellona, sbarcammoin un’atmosfera che non era certo meno aliena e ostile nei confronti nostri e di quellicome noi di quanto lo sarebbe stata se fossimo scesi a Parigi o a Londra.

Tutti coloro che durante la guerra sono andati due volte a Barcellona a distanza dimesi hanno notato gli straordinari cambiamenti avvenuti in città. E il fatto curioso èche, sia che vi fossero stati prima ad agosto e poi a gennaio oppure, come me, primaa dicembre e poi ad aprile, hanno osservato sempre la stessa cosa: che l’atmosferarivoluzionaria si era ormai dissolta. Non c’è dubbio che a qualcuno che l’avesse

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visitata ad agosto, quando il sangue non si era ancora rappreso nelle strade e lemilizie erano acquartierate negli alberghi più eleganti, la Barcellona di dicembresarebbe apparsa imborghesita; a me, che venivo direttamente dall’Inghilterra, eraapparsa invece quanto di più simile potessi immaginare a una città operaia. Ora lamarea si era però ritirata. Ancora una volta era una città come tutte le altre, un po’ridotta in ristrettezze e scheggiata per via della guerra, ma senza alcun segnoesteriore del predominio della classe operaia.

Il cambiamento nell’aspetto della folla era stupefacente. Le uniformi della miliziae le tute blu erano quasi sparite; tutti sembravano indossare gli eleganti completiestivi in cui i sarti spagnoli sono degli specialisti. Uomini prosperi e grassocci,signore raffinate e macchine eleganti erano dappertutto. (A quanto pare non c’eranoancora automobili private; nondimeno, chiunque fosse “qualcuno” sembrava esserein grado di averne una a sua disposizione.) Gli ufficiali del nuovo Esercito Popolare,una categoria che praticamente non esisteva a Barcellona quando avevo lasciato lacittà, sciamavano per le strade in quantità sorprendente. L’Esercito Popolare avevaun ufficiale ogni dieci uomini. Un certo numero di questi ufficiali aveva servito nellemilizie ed era stato richiamato dal fronte per essere addestrato, ma la maggior partedegli altri erano giovanotti che avevano frequentato la Scuola di guerra piuttosto chearruolarsi nelle milizie. Il loro rapporto con i soldati non era proprio lo stesso invigore nell’esercito borghese, ma c’era una netta differenza sociale, espressa nelladisparità di paga e di uniforme. I soldati vestivano una sorta di ruvida tuta marrone,mentre gli ufficiali avevano un’elegante uniforme kaki con la vita stretta, un po’come quella degli ufficiali dell’esercito inglese, solo ancora più accentuata. Noncredo che più di uno ogni venti di loro fosse già stato al fronte, ma tutti portavanouna pistola automatica agganciata alla cintura, mentre noi, al fronte, non riuscivamoa procurarci una pistola né per amore né per denaro. Mentre avanzavamo per stradanotai che la gente sgranava gli occhi per il nostro aspetto trasandato e sporco.Naturalmente, come tutti gli uomini che sono stati in prima linea per diversi mesi,offrivamo uno spettacolo orripilante. Mi rendevo ben conto di sembrare unospaventapasseri. Il mio giubbotto di pelle era ridotto a brandelli, il mio berretto dilana era tutto sformato e mi scivolava sempre sopra un occhio, dei miei scarponi nonerano rimaste che le tomaie sfondate. Eravamo tutti più o meno nello stesso stato eperdipiù eravamo sudici e non sbarbati, perciò c’era poco da meravigliarsi che lagente sgranasse gli occhi. Ma la cosa mi diede ugualmente un po’ fastidio e mi fececapire che negli ultimi tre mesi erano successe delle cose strane.

Nei giorni immediatamente successivi innumerevoli segnali mi convinsero che lamia prima impressione non era stata affatto sbagliata. La città aveva subito unprofondo cambiamento. Due fatti salienti riassumevano tutto il resto. Uno era che lagente – la popolazione civile – aveva perso gran parte dell’interesse nell’andamentodella guerra; l’altro era che la normale divisione della società in ricchi e poveri, classealta e classe bassa, si stava riaffermando.

L’indifferenza generale nei confronti della guerra era un dato sorprendente epiuttosto nauseante. Per gente che arrivava a Barcellona da Madrid o anche daValencia era una cosa tremenda. In parte era dovuta alla lontananza fisica diBarcellona dai combattimenti; notai la stessa cosa un mese dopo a Tarragona, dove lavita normale di un’elegante città costiera continuava praticamente indisturbata. Maera significativo che l’arruolamento di volontari fosse diminuito in maniera notevolein tutta la Spagna da gennaio in poi. In Catalogna, a febbraio, c’era stata un’ondata

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di entusiasmo per il primo grande attacco in forze dell’Esercito Popolare, ma la cosanon si era tradotta in una forte crescita nel reclutamento di nuove truppe. La guerraera in corso da sei mesi o poco più quando il governo spagnolo dovette far ricorsoalla leva obbligatoria, una misura naturale nel corso di una guerra esterna, ma che inuna guerra civile sembra un po’ anomala. Senza dubbio era legata alla delusionedelle speranze rivoluzionarie con cui la guerra era cominciata. I membri delsindacato che si erano organizzati nelle milizie e avevano ricacciato i fascisti fino aSaragozza nelle primissime settimane di guerra erano riusciti a farlo in gran parteperché credevano di combattere in nome della supremazia della classe operaia; maora appariva sempre più chiaro che la supremazia della classe operaia era una causapersa e la gente comune, specialmente il proletariato urbano, che fornisce il grossodelle truppe in qualsiasi guerra, civile o esterna che sia, non poteva essere biasimatase mostrava una certa apatia. Nessuno voleva perdere la guerra, ma la maggioranzadella gente soprattutto non vedeva l’ora che finisse. Questo si notava dovunque siandasse. Dappertutto si sentiva lo stesso commento meccanico: «Questa guerra… èterribile, vero? Quando finirà?». Le persone con una coscienza politica notavanomolto più la lotta interna tra anarchici e comunisti che l’impegno comune percontrastare Franco. Per la gran massa della gente la cosa più importante era lapenuria di cibo. “Il fronte” era ormai considerato un luogo mitico e remoto in cui igiovani scomparivano e poi, o non tornavano per niente o tornavano dopo tre oquattro mesi con le tasche piene di soldi (i miliziani di solito ricevevano tutta la pagaarretrata quando tornavano in licenza). I feriti, anche quando saltellavano in giro conle stampelle, non ricevevano nessuna particolare considerazione. Essere arruolatinella milizia non andava più di moda. I negozi, che sono sempre una specie dibarometro dei gusti della gente, lo lasciavano chiaramente capire. Quando andai aBarcellona la prima volta, i negozi, per quanto sciatti e mal forniti, si eranospecializzati in equipaggiamento per miliziani. Bustine, giubbotti con la chiusuralampo, bandoliere, coltelli da caccia, borracce e fondine da pistola facevano bellamostra di sé in ogni vetrina. Ora invece i negozi erano molto più eleganti, ma laguerra era stata decisamente respinta sullo sfondo. Come scoprii in seguito, quandomi stavo riequipaggiando per tornare al fronte, certi articoli di cui c’è un granbisogno in prima linea erano ormai molto difficili da trovare.

Nel frattempo la propaganda sminuiva sistematicamente le milizie di partito afavore dell’Esercito Popolare. Questa posizione era piuttosto curiosa. A partire dafebbraio tutte le forze armate erano state, almeno in teoria, incorporate nell’EsercitoPopolare e le milizie, sulla carta, erano state ricostituite secondo i criteri in vigorenell’esercito, con paghe differenziate, gradi per decreto eccetera eccetera. Ledivisioni erano state formate con “brigate miste”, costituite cioè in parte da truppedell’Esercito Popolare e in parte da miliziani. Ma gli unici cambiamenti che erano inrealtà avvenuti riguardavano i nomi. Per esempio, le truppe del POUM, che inprecedenza erano raccolte nella Divisione Lenin, ora erano note come la 29ªdivisione. Fino a giugno pochissime truppe dell’Esercito Popolare arrivarono sulfronte aragonese e per questo le milizie riuscirono a mantenere la loro strutturaseparata e le loro caratteristiche speciali. Ma su ogni muro gli agenti del governoavevano scritto “Abbiamo bisogno di un Esercito Popolare”; alla radio e sullastampa comunista c’era una continua, e a volte addirittura malevola, presa in girodelle milizie, descritte come male addestrate, indisciplinate eccetera eccetera; invecel’Esercito Popolare era sempre definito “eroico”. Da molta di questa propaganda si

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sarebbe ricavata l’impressione che nell’essere andati al fronte come volontari ci fossequalcosa di vergognoso, mentre era lodevole aspettare di essere coscritti. Per ilmomento, comunque, le milizie tenevano testa al nemico mentre l’Esercito Popolaresi addestrava nelle retrovie, ma questo fatto doveva essere pubblicizzato il menopossibile. I contingenti di miliziani che tornavano al fronte non venivano fatti piùmarciare per le strade tra rulli di tamburi e sventolii di bandiere. Venivano fattipartire quasi di nascosto con i treni o con gli autocarri alle cinque di mattina.Qualche reparto dell’Esercito Popolare cominciava ora a essere mandato al fronte equesti sì, come una volta, venivano fatti marciare con grandi cerimonie per le strade;ma perfino loro erano salutati con entusiasmo relativamente scarso, a causa delgenerale calo d’interesse nei confronti della guerra. Il fatto che, almeno sulla carta, letruppe delle milizie facevano anch’esse parte dell’Esercito Popolare era astutamentesfruttato dalla stampa propagandistica. Tutti i meriti erano attribuitiautomaticamente all’Esercito Popolare, mentre le colpe venivano scaricate sullemilizie. A volte accadeva che le stesse truppe fossero lodate per un verso e biasimateper l’altro.

Ma oltre a tutto questo c’era lo sconvolgente mutamento nell’atmosfera sociale –un fenomeno inconcepibile se non lo si è provato di persona. Appena arrivato aBarcellona l’avevo considerata una città in cui quasi non esistevano distinzioni diclasse e grandi dislivelli di ricchezza. E senza dubbio l’apparenza era quella. I vestiti“eleganti” erano un’anomalia, nessuno era servile o accettava mance, camerieri,fioraie e lustrascarpe non abbassavano lo sguardo e davano del “compagno” a tutti.Quello che non avevo capito era che tutto questo era un misto di speranza e dimimetizzazione. La classe operaia credeva veramente in una rivoluzione che erainiziata, ma non si era ancora consolidata, mentre i borghesi si erano spaventati e sierano per il momento travestiti da lavoratori. Nei primi mesi della rivoluzionedovevano esserci state molte migliaia di persone che avevano indossato le tute egridato slogan rivoluzionari solo per salvarsi la pelle. Ora le cose stavano tornandoalla normalità. I ristoranti e gli alberghi eleganti erano pieni di gente ricca ches’ingozzava di cibi prelibati e costosi, mentre per la popolazione operaia i prezzi delcibo erano saliti vertiginosamente senza un corrispondente aumento dei salari. Aparte il costo elevato di tutti i beni, c’erano ricorrenti carenze di questo e di quelloche, naturalmente, colpivano i poveri più dei ricchi. Ristoranti e alberghisembravano avere poche difficoltà nel procurarsi tutto quello di cui avevanobisogno, mentre nei quartieri operai le file per il pane, l’olio d’oliva e altri generi diprima necessità s’allungavano per centinaia di metri. Nel mio precedente soggiornoa Barcellona ero stato colpito dall’assenza di mendicanti; ora ce n’erano in granquantità. Fuori dalle raffinate drogherie della parte alta delle Ramblas bande dibambini scalzi erano sempre in agguato per sciamare attorno ai clienti che neuscivano, chiedendo a gran voce qualcosa da mangiare. Le espressioni“rivoluzionarie” stavano cadendo in disuso. Gli sconosciuti ormai si rivolgevanoraramente la parola dandosi del tu e chiamandosi camarada; si usavano invece señor eUsted. Buenos días cominciava a sostituirsi a salud. I camerieri si erano rimessi lecamicie inamidate e i commessi dei negozi avevano riassunto l’aria servile. Entraicon mia moglie in un negozio di calze sulle Ramblas. Il negoziante si inchinava e sistrofinava le mani come non si fa più neanche in Inghilterra al giorno d’oggi, anchese venti o trent’anni fa c’era ancora qualcuno che si comportava così. In modo furtivoe indiretto l’uso della mancia stava tornando in auge. Le ronde operaie erano state

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costrette a sciogliersi e le forze di polizia di prima della guerra erano tornate apattugliare le strade. Uno dei risultati di questo cambio della guardia era che glispettacoli di cabaret e i bordelli di lusso, gran parte dei quali erano stati chiusi dalleronde operaie, avevano subito riaperto i battenti. a 5 Un piccolo ma significativoesempio di come ogni cosa ormai era orientata in favore delle classi più ricche sipoteva notare nella scarsità del tabacco. Per la gran massa di persone la penuria ditabacco era così disperata che per strada si vendevano sigarette riempite di radici diliquirizia sminuzzate. Le ho provate una sola volta (un sacco di gente le provava unasola volta). Franco aveva in mano le isole Canarie, dove si coltiva tutto il tabaccospagnolo; di conseguenza le uniche scorte di tabacco rimaste alla parte governativaerano quelle esistenti prima della guerra. E queste erano ormai così ridotte che itabaccai aprivano solo un giorno alla settimana; dopo aver aspettato in fila un paiodi ore, se si era fortunati se ne riusciva a comprare un pacchetto di poco più di ventigrammi. In teoria il governo non autorizzava l’acquisto di tabacco all’estero, perchéquesto significava ridurre le riserve auree che erano destinate all’acquisto diarmamenti e altri generi di prima necessità. In realtà c’era un costante rifornimentodi sigarette straniere di contrabbando – quelle più lussuose, tipo Lucky Strikeeccetera – che offriva grandi opportunità di guadagni esorbitanti ai profittatori. Lesigarette di contrabbando si potevano acquistare tranquillamente negli alberghieleganti e in maniera un po’ meno tranquilla anche per strada: bastava poterspendere dieci pesetas (il soldo giornaliero di un miliziano) per un pacchetto. Ilcontrabbando andava a profitto dei ricchi e perciò era tollerato. Se si avevaabbastanza denaro non c’era niente che non si potesse comprare in gran quantità,fatta eccezione talvolta per il pane, che era razionato in modo piuttosto severo.Questo evidente contrasto tra ricchezza e povertà sarebbe stato impossibile soloqualche mese prima, quando il controllo era o sembrava essere ancora saldamente inmano alla classe operaia. Ma non sarebbe giusto attribuirlo soltanto a uncambiamento a livello di potere politico. In parte era anche il risultato della relativasicurezza della vita a Barcellona, dove c’erano ben poche cose a ricordare alla genteche c’era una guerra in corso, a parte qualche sporadico allarme aereo. Chiunquefosse stato a Madrid diceva che lì le cose erano completamente diverse. Nellacapitale il pericolo comune costringeva i ceti più disparati a provare un senso disolidarietà reciproca. Un signore grassoccio che si gusta una quaglia mentre ibambini mendicano il pane è uno spettacolo disgustoso, ma è meno probabile che siassista a una cosa del genere se si sentono le cannonate vicine.

Un giorno o due dopo gli scontri nelle strade ricordo di esser passato per unadelle vie eleganti e di essermi imbattuto in una vetrina di pasticceria piena di dolci ebon bon del tipo più raffinato con prezzi da capogiro. Era il tipo di negozio che sipuò vedere a Bond Street o a rue de la Paix. E ricordo di aver provato un vago sensodi orrore e meraviglia all’idea che si potesse ancora sperperare del denaro su cosedel genere in un paese affamato e in stato di guerra. Ma Dio non voglia che miatteggi a essere superiore. Dopo diversi mesi di privazioni avevo anch’io un ferocedesiderio di cibo e vino decenti, cocktail, sigarette americane e cose del genere eammetto senza difficoltà di essermi goduto tutti i lussi che potevo permettermi.Durante quella prima settimana, prima che cominciassero gli scontri nelle strade, erocombattuto da diverse preoccupazioni che interagivano tra loro in modo abbastanzacurioso. In primo luogo, come ho già accennato, cercavo di darmi da fare per stare ilpiù comodo possibile. Poi, avendo mangiato e bevuto troppo, non mi sentivo bene

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per tutta la settimana. Quando ero indisposto me ne stavo a letto mezza giornata, mialzavo, rifacevo un pasto troppo abbondante e mi risentivo male. Nello stesso tempoportavo avanti trattative segrete per comprarmi una rivoltella. Avevo un granbisogno di procurarmela – nella guerra di trincea la rivoltella è un’arma molto piùutile del fucile – ma era molto difficile da trovare. Il governo le distribuiva allapolizia e agli ufficiali dell’Esercito Popolare, ma rifiutava di fornirne ai membri dellemilizie; si doveva comprarle, illegalmente, dalle scorte segrete degli anarchici. Dopotante storie e fastidi un amico anarchico riuscì a procurarmi una minuscola pistolaautomatica calibro 26, un’arma schifosa, inservibile oltre i cinque metri, ma sempremeglio di niente. Inoltre stavo cercando di prendere accordi per lasciare la miliziadel POUM e arruolarmi in qualche altra unità che mi avrebbe permesso di essereinviato sul fronte di Madrid.

Era già parecchio tempo che avevo detto a tutti che avevo intenzione di uscire dalPOUM. Se avessi potuto dar retta alle mie preferenze personali avrei senz’altro volutounirmi agli anarchici. Se ci si iscriveva alla CNT era possibile arruolarsi nella miliziadella FAI, ma fui informato che era più facile che la FAI mi spedisse a Teruel, piuttostoche a Madrid. Se volevo andare a Madrid dovevo arruolarmi nella ColonnaInternazionale, il che significava doversi procurare una raccomandazione da unmembro del Partito comunista. Mi misi in contatto con un amico comunista chelavorava nel Soccorso sanitario spagnolo e gli spiegai il mio caso. Egli parve moltodisposto a reclutarmi e mi chiese, se possibile, di convincere altri inglesi dell’ILP avenire con me. Se la mia salute fosse stata migliore probabilmente avrei accettatosubito la sua proposta. È difficile giudicare ora che differenza avrebbe fatto. Conogni probabilità sarei stato spedito ad Albacete prima degli scontri di Barcellona; nelqual caso, non avendo assistito di persona agli scontri, avrei potuto accettare comevera la versione ufficiale che poi ne è stata data. D’altra parte, se fossi rimasto aBarcellona nel momento della crisi, agli ordini dei comunisti ma ancora con un sensodi lealtà personale nei confronti dei compagni del POUM, la mia posizione sarebbestata insostenibile. Comunque avevo un’altra settimana di licenza a disposizione edero molto ansioso di recuperare le forze e la salute prima di tornare di nuovo alfronte. Inoltre – il tipico dettaglio che finisce sempre per determinare il destinopersonale – dovevo aspettare che i calzolai mi confezionassero un nuovo paio discarponi da combattimento (l’intero esercito spagnolo non era riuscito a procurarmiun paio di scarponi abbastanza grandi da adattarsi alla mia misura). Così dissi al mioamico comunista che avrei preso gli accordi definitivi in seguito. Nel frattempoavevo bisogno di riposarmi. Mi era perfino passata per la mente l’idea che io e miamoglie saremmo potuti andare a passare due o tre giorni al mare. Che idea! Il climapolitico avrebbe dovuto mettermi in guardia che non era certo il tipo di cosa che sipotesse fare, date le circostanze.

Perché sotto l’aspetto superficiale della città, sotto il lusso e la povertà crescenti,sotto l’apparente spensieratezza nelle strade, con le bancarelle dei fiori, le bandieremulticolori, i manifesti propagandistici e le resse di folla, scorreva un inconfondibilee orrendo senso di rivalità politica e di astio. Persone appartenenti a tutte lesfumature dello spettro politico esprimevano un oscuro presentimento: «Prima o poiscoppierà qualche guaio». Il pericolo era molto semplice e comprensibile. Eracostituito dall’antagonismo fra coloro che volevano che la rivoluzione andasse avantie quelli che, al contrario, volevano tenerla sotto controllo o addirittura evitarla –insomma, tra gli anarchici e i comunisti. Dal punto di vista politico non c’era chi

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detenesse il potere in Catalogna al di fuori del PSUC e dei suoi alleati liberali. Ma acontrastarli c’era l’incerta forza della CNT, peggio armata e meno sicura dei suoiobiettivi rispetto agli avversari, ma pur sempre potente per via del numero e delpredominio conquistato all’interno di varie industrie-chiave. Dato questoschieramento di forze uno scontro era inevitabile. Dal punto di vista dellaGeneralitat de Catalunya (il governo semiautonomo catalano, controllato dal PSUC),l’esigenza primaria, per rendere più sicura la propria posizione, era quella di toglierele armi dalle mani degli operai della CNT. Come ho già avuto modo di accennare, lamossa di sciogliere le milizie operaie era in fondo una manovra che aveva questoobiettivo. Allo stesso tempo le forze di polizia armata di prima della guerra, laGuardia Civil e via dicendo, erano state rimesse in campo e venivano rafforzate earmate in modo massiccio. Questo poteva significare una sola cosa. La Guardia Civil,in particolare, era una tipica gendarmeria continentale che per quasi un secolo ormaiaveva fatto da guardia del corpo alla classe dei proprietari. Nel frattempo era statoemanato un decreto che tutte le armi in mano ai privati dovevano essere consegnate.Naturalmente questo ordine era stato disatteso; era chiaro che agli anarchici le armisarebbero state tolte solo con la forza. Per tutto questo periodo circolarono voci,sempre vaghe e contraddittorie a causa della censura in vigore sui giornali, di piccoliincidenti e scontri sparsi in tutta la Catalogna. In vari posti le forze di polizia armateavevano attaccato roccaforti degli anarchici. A Puigcerdá, sulla frontiera francese, ungruppo di Carabineros fu mandato a riprendere l’edificio della dogana, fino adallora occupato dagli anarchici, e Antonio Martín, un noto esponente anarchico,rimase ucciso nello scontro. Incidenti analoghi erano accaduti a Figueras e, mi pare, aTarragona. A Barcellona c’erano stati una serie di tafferugli più o meno ufficiali neisobborghi operai. Membri della CNT e dell’UGT si erano ammazzati a vicenda già nelpassato; in diverse occasioni gli omicidi erano seguiti da imponenti funerali conevidenti intenzioni provocatorie, cioè deliberatamente organizzati per fomentarel’odio politico. Poco tempo prima un membro della CNT era stato assassinato e ilsindacato anarchico si era riversato in massa per le strade e centinaia di migliaia dipersone avevano seguito il corteo funebre. Alla fine di aprile, subito dopo il mioritorno a Barcellona, Roldán Cortada, un importante esponente dell’UGT, venneassassinato, presumibilmente per mano di qualche militante della CNT. Il governoordinò la chiusura dei negozi in segno di lutto e inscenò un’imponente processionefunebre, in gran parte formata da truppe dell’Esercito Popolare, che impiegava dueore per sfilare davanti a un punto qualsiasi di osservazione. Io assistetti al corteodalla finestra dell’albergo senza molto entusiasmo. Era evidente che il cosiddettofunerale non era altro che una dimostrazione di forza; se si insisteva ancora in questogenere di cose lo spargimento di sangue sarebbe stato inevitabile. Quella stessa notteio e mia moglie fummo svegliati da una salva di colpi d’arma da fuoco provenienteda plaza de Cataluña, che distava cento o duecento metri. Il giorno dopo venimmo asapere che si era trattato dell’eliminazione di un uomo della CNT, presumibilmenteper mano di qualcuno dell’UGT. Naturalmente era del tutto possibile che questiomicidi fossero opera di agenti provocatori. Si può misurare l’atteggiamento dellastampa capitalista straniera nei confronti di questa faida tra comunisti e anarchici dalfatto che all’omicidio di Roldán Cortada fu dato un grande rilievo, mentrel’assassinio di ritorsione fu accuratamente passato sotto silenzio.

Il Primo Maggio si stava avvicinando e giravano voci di un’immensamanifestazione, cui dovevano prendere parte sia la CNT che l’UGT. I dirigenti della

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CNT, più moderati di molti dei loro seguaci, perseguivano da tempo una politica diriconciliazione con l’UGT; anzi, il nodo centrale della loro strategia era proprio untentativo di formare un’enorme coalizione tra i due blocchi sindacali. L’idea era cheCNT e UGT marciassero fianco a fianco e mostrassero la propria solidarietà. Maall’ultimo momento la dimostrazione fu revocata. Era evidente a tutti che l’unicosbocco sarebbe stato lo scontro di piazza. E così il Primo maggio non accaddeassolutamente niente. Era una situazione per molti versi paradossale. Barcellona, lapresunta città rivoluzionaria, fu probabilmente l’unica città nell’Europa noncontrollata dai fascisti, in cui non si svolse alcuna celebrazione della festa deilavoratori. Devo però ammettere che io ne fui abbastanza sollevato. Il contingentedell’ILP avrebbe dovuto marciare nello spezzone del corteo riservato al POUM e tuttisi aspettavano degli incidenti. L’ultima cosa che avrei voluto era trovarmi coinvoltoin qualche scontro senza senso. Marciare per strada dietro a bandiere rosse piene dislogan edificanti e poi essere fatto fuori da uno sconosciuto appostato a qualchefinestra dei piani alti con la sua mitraglietta – be’, non era certo questa la mia idea diun modo utile di crepare.

a. Si diceva che le ronde operaie avessero chiuso il 75 per cento dei bordelli.

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IX

Il 3 maggio, verso mezzogiorno, nell’incrociarmi nella hall dell’albergo, un amicodisse con aria indifferente: «Ho sentito dire che c’è stato qualche incidente giù allacentrale del telefono». Per qualche ragione in quel momento non prestai moltaattenzione alla sua frase.

Nel pomeriggio, fra le tre e le quattro, ero arrivato a metà delle Ramblas quandosentii diverse fucilate risuonare alle mie spalle. Mi voltai e vidi alcuni giovani cheimpugnavano fucili e portavano al collo i fazzoletti rosso-neri degli anarchici infilarsiin una delle traverse delle Ramblas che vanno verso nord. Era chiaro che stavanoscambiando colpi di fucile con qualcuno che si trovava in cima a un’alta torreottagonale – appartenente a una chiesa, mi pare – che dominava la traversa. Pensaisubito: “Ci siamo!”, ma non è che fossi molto sorpreso; erano ormai giorni che tuttipensavano che la “cosa” potesse iniziare da un momento all’altro. Mi resi conto chedovevo tornare subito in albergo per controllare che mia moglie fosse al sicuro. Ma ilgruppetto di anarchici all’imboccatura della traversa faceva cenno alla gente diallontanarsi e intimava a gran voce che nessuno attraversasse la linea di fuoco.Risuonarono altri spari. Le pallottole provenienti dalla chiesa volavano sopra lastrada e una folla di gente spaventata correva giù per le Ramblas allontanandosidalla sparatoria: lungo tutta la strada si sentivano le serrande dei negozi chiudersi discatto. Vidi due ufficiali dell’Esercito Popolare ritirarsi prudentementenascondendosi dietro gli alberi con le mani sulle pistole. Davanti a me la gente siriversava nella stazione della metropolitana che si trovava al centro delle Ramblas incerca di riparo. Decisi subito di non seguire il loro esempio. Poteva significarerimanere intrappolati sottoterra per ore.

In quel momento un medico americano che era stato al fronte con noi corse da mee mi afferrò per un braccio. Sembrava molto agitato.

«Dai, dobbiamo andare giù all’Hotel Falcón!» (L’Hotel Falcón era una specie dipensione gestita dal POUM e usata soprattutto da miliziani in licenza.) «Gli uominidel POUM s’incontreranno lì. Cominciano i guai. Dobbiamo cercare di stare uniti.»

«Ma che diavolo sta succedendo?» chiesi.Il medico mi trascinava per un braccio. Era troppo agitato per fornirmi una

spiegazione chiara. A quanto pareva si era trovato a plaza de Cataluña quandodiversi autocarri pieni di Guardie d’Assalto armate si erano avvicinati alla centraletelefonica, che era tenuta in funzione soprattutto da operai della CNT, e l’avevanoimprovvisamente assalita. Poi erano accorsi alcuni anarchici e c’era stato uno scontrogenerale. Riuscii a capire che a far scoppiare “l’incidente”, qualche ora prima, erastata la richiesta da parte del governo di cedere la centrale del telefono, richiesta cheera stata naturalmente respinta.

Mentre scendevamo lungo il viale un camion ci passò accanto a gran velocità nelladirezione opposta. Era carico di anarchici armati di fucile. Sul davanti un giovanottodai vestiti logori stava sdraiato sopra un mucchio di materassi, dietro a una

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mitragliatrice leggera. Quando arrivammo all’Hotel Falcón, che era situato alla finedelle Ramblas, l’atrio brulicava di persone; la confusione era grande, nessunosembrava sapere che cosa avremmo dovuto fare e nessuno era armato a parte unpugno di incursori che di solito facevano la guardia all’edificio. Attraversai la stradae mi recai al Comité Local del POUM, che si trovava praticamente lì di fronte. Ai pianisuperiori, dove in circostanze normali i miliziani andavano a ritirare lo stipendio,c’era un’altra ressa di persone in fermento. Un uomo alto e pallido sulla trentina, dibell’aspetto e in borghese, stava cercando di mettere un po’ d’ordine e distribuivabandoliere e giberne da un mucchio in un angolo della stanza. Sembrava però chenon ci fossero ancora fucili. Il medico intanto era sparito – credo ci fossero stati giàdei feriti ed era stato lanciato un appello ai medici – ma era arrivato un altro inglese.Poco dopo, da un ufficio interno, l’uomo alto e altre persone cominciarono a tirarfuori bracciate di fucili e a distribuirli in giro. Io e l’altro inglese, essendo stranieri,eravamo guardati con sospetto e all’inizio nessuno ce li voleva dare. Poi arrivò unmiliziano che avevo incontrato al fronte e che mi riconobbe, quindi, anche se un po’controvoglia, ci furono consegnati i fucili e qualche caricatore.

In lontananza si sentiva un rumore di spari e le strade si erano completamentesvuotate. Tutti dicevano che era impossibile risalire le Ramblas. Le Guardied’Assalto si erano impadronite degli edifici più alti e aprivano il fuoco su chiunquepassasse. Io ero disposto a correre dei rischi pur di tornare in albergo, ma giravavoce che il Comité Local potesse venire attaccato da un momento all’altro e chefacevamo meglio a tenerci pronti. In tutto l’edificio, per le strade e sul marciapiededavanti, c’erano capannelli di persone che discutevano animatamente. Nessunosembrava avere un’idea chiara di cosa stesse accadendo. Tutto quello che riuscii acapire era che le Guardie d’Assalto avevano attaccato la centrale telefonica eoccupato vari punti strategici che dominavano altri edifici in mano agli operai.L’impressione generale era che le Guardie d’Assalto “ce l’avessero” con la CNT e laclasse operaia in genere. Si poteva notare che in questa fase nessuno ancorasembrava dare la colpa al governo. Le classi più povere di Barcellona consideravanole Guardie d’Assalto come qualcosa che somigliava ai Black and Tans 6, e tuttisembravano dare per scontato che questo attacco fosse una loro iniziativa. Quandoappresi come stavano le cose mi sentii un po’ sollevato. Il conflitto mi parevaabbastanza chiaro: da una parte la CNT, dall’altra la polizia. Non che io abbia unparticolare affetto per la figura idealizzata dell’“operaio” concepita dalla mentalitàdei borghesi comunisti, ma quando mi trovo di fronte a un operaio in carne e ossacontrapposto al suo nemico naturale, il poliziotto, non devo certo chiedermi da cheparte sto.

Passò diverso tempo e sembrava che non succedesse niente nella parte della cittàdove ci trovavamo. Non mi passò neanche per la testa di telefonare in albergo percontrollare se mia moglie stava bene; avevo dato per scontato che la centraletelefonica avesse smesso di funzionare – anche se in realtà era rimasta fuori serviziosolo per un paio d’ore. Ormai parevano esserci trecento persone, nei due edifici. Perlo più era gente che apparteneva agli strati più poveri della popolazione, quelli cheabitavano nei vicoli che si estendevano giù fino al porto; tra loro c’era anche un certonumero di donne, alcune con i bambini in braccio, e un gruppetto di ragazzinimalvestiti. Immagino che molti non avessero alcuna idea di che cosa stavasuccedendo e si fossero semplicemente rifugiati negli edifici del POUM in cerca diprotezione. C’erano anche parecchi miliziani in licenza e qualche straniero. Da

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quanto potevo valutare, in tutto avevamo qualcosa come sessanta fucili. I milizianipiù giovani, che parevano considerare tutta questa storia come una specie discampagnata, gironzolavano cercando di convincere chi aveva un fucile a cederlo aloro, oppure tentavano di sottrarglielo in qualsiasi altro modo. Infatti non passòmolto tempo che uno di loro riuscì a sfilarmi quello che avevo con un’abile mossa e asparire rapidamente. Così mi ritrovai di nuovo disarmato, a parte la minuscolaautomatica per cui avevo un solo caricatore.

Si era fatto buio, mi era venuta fame e sembrava proprio che al Falcón non ci fossecibo. Io e il mio amico riuscimmo a sgusciar via e ad andare nel suo albergo, nonmolto distante, a procurarci qualcosa da mangiare. Le strade erano completamentebuie e deserte, non si vedeva un’anima, le vetrine dei negozi erano tutte protettedalle serrande abbassate, ma ancora non erano state erette barricate. Prima dilasciarci entrare nell’albergo, chiuso e sbarrato, fecero un sacco di storie. Quandotornammo fui informato che la centrale telefonica era in funzione e così andainell’ufficio di sopra per chiamare mia moglie. Ovviamente non c’era un elencotelefonico in tutto l’edificio e io non sapevo il numero dell’Hotel Continental; dopoaver cercato stanza per stanza finalmente riuscii a scovare il numero in una guidaturistica. Non fui in grado di mettermi in contatto con mia moglie, ma parlai conJohn McNair, il rappresentante dell’ILP a Barcellona. Mi disse che tutto andava bene,nessuno era stato ferito e s’informò se al Comité Local stavamo tutti bene. Gli dissiche saremmo stati benone se avessimo avuto delle sigarette. Naturalmentescherzavo; nondimeno mezz’ora dopo McNair arrivò con due pacchetti di LuckyStrike. Aveva sfidato le strade buie come la pece e le pattuglie anarchiche che loavevano fermato due volte a pistole spianate, controllandogli i documenti. Nondimenticherò mai questo piccolo gesto di eroismo. Fummo molto contenti dellesigarette.

Sentinelle armate erano state messe alla maggior parte delle finestre, mentre nellastrada sottostante alcuni incursori fermavano e interrogavano i rari passanti. Unamacchina di pattuglia degli anarchici, irta d’armi, s’avvicinò. Accanto all’autistac’era una bellissima ragazza di circa diciott’anni, dai capelli scuri, che tenevaamorosamente sulle ginocchia una mitraglietta. Passai parecchio tempo a vagare perl’edificio, un posto enorme e confuso del quale era impossibile imparare latopografia. Ovunque il solito disordine, il mobilio sfasciato e le cartacce chesembrano essere gli inevitabili prodotti della rivoluzione. C’era gente che dormivadappertutto; su un divano rotto in un corridoio due poveracce del quartiere delporto russavano in santa pace. Prima che il POUM l’occupasse, l’edificio avevaospitato un cabaret. In diverse stanze c’erano palcoscenici rialzati; in una addiritturaun pianoforte a coda dall’aria desolata. Finalmente riuscii a trovare quello checercavo: l’armeria. Non sapevo come sarebbe andata a finire questa storia e avevo ungran bisogno di un’arma. Avevo sentito dire spesso che tutti i partiti rivali, sia ilPSUC che il POUM che la CNT-FAI, avevano accumulato armi in città e perciò nonriuscivo a credere che in due dei principali edifici controllati dal POUM non ci fosseropiù dei cinquanta-sessanta fucili che avevo visto. La stanza che fungeva da armerianon era presidiata e aveva una porta non molto robusta; io e l’altro inglese nonavemmo troppe difficoltà nel forzarla. Una volta all’interno scoprimmo che quelloche ci avevano detto era vero – non c’erano davvero altre armi. Tutto quello che vitrovammo fu un paio di dozzine di antiquati fucili di piccolo calibro e qualche fucileda caccia, senza munizioni né per gli uni né per gli altri. Tornai su nell’ufficio e chiesi

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se avessero altre cartucce per la pistola; niente da fare. Comunque c’erano alcunecasse di bombe a mano che ci erano state portate da una delle macchine di pattugliadegli anarchici. Me ne misi un paio nella giberna. Era un tipo di bomba moltoprimitiva, che s’innescava sfregando una sorta di fiammifero che aveva in cima e chesembrava molto probabile potesse scoppiare di propria iniziativa.

La gente si allungava per dormire sul pavimento. In una delle stanze un bambinopiangeva, piangeva senza smettere mai. Anche se eravamo a maggio la notte eraabbastanza fredda. Su uno dei palcoscenici del cabaret c’era ancora un sipario, cosìstaccai un pezzo di tenda con il mio coltello, mi ci avvolsi e dormii per qualche ora.Ricordo però che il mio sonno fu un po’ disturbato dal pensiero di quelle dannatebombe che avrebbero potuto farmi saltare in aria se mi ci fossi rotolato un po’ troppobruscamente. Alle tre di mattina l’uomo alto e di bell’aspetto che sembrava avereassunto il comando mi svegliò, mi affidò un fucile e mi mise di guardia a una dellefinestre. Mi disse che Salas, il capo della polizia responsabile dell’attacco alla centraletelefonica, era stato messo agli arresti (in realtà, come apprendemmo in seguito, erastato solamente destituito. Nondimeno la notizia confermava l’impressione generaleche le Guardie d’Assalto avessero agito di propria iniziativa). Appena si fece giorno,la gente in strada cominciò a costruire due barricate, una fuori del Comité Local el’altra davanti all’Hotel Falcón. Le strade di Barcellona sono pavimentate con selcisquadrati con cui è facile tirare su un muro, e sotto il selciato c’è una ghiaia ottimaper preparare sacchetti di sabbia. La costruzione di quelle due barricate fu unospettacolo strano ed esaltante; avrei dato non so cosa per poterla fotografare. Conl’energia appassionata che gli spagnoli tirano fuori quando hanno finalmente decisodi cominciare qualsiasi genere di lavoro, lunghe file di uomini, donne e perfinobambini si misero a cavare i selci dalla strada, caricandoli su un carrettino a manotrovato chissà dove, e a barcollare avanti e indietro portando a spalla pesantisacchetti di sabbia. Sulla soglia del Comité Local una giovane ebrea tedesca, cheindossava un paio di pantaloni da miliziano la cui allacciatura al ginocchio learrivava fino alle caviglie, osservava il lavoro con un gran sorriso. In un paio d’ore lebarricate erano ad altezza d’uomo, con i fucilieri appostati alle feritoie, mentre dietrouna di esse fu acceso un fuoco e gli uomini si misero a friggere le uova.

Intanto mi avevano ripreso il fucile e non pareva ci fosse niente di molto utile dafare. Io e un altro inglese decidemmo di tornarcene all’Hotel Continental. Sisentivano ancora parecchi spari in lontananza, ma a quanto pare nessuno venivadalle Ramblas. Mentre le risalivamo facemmo un salto al mercato. Pochissimebancarelle avevano aperto ed erano assediate da una calca di gente proveniente daiquartieri operai a sud delle Ramblas. Appena arrivati lì sentimmo una forte scaricadi fucilate proveniente da fuori e alcuni vetri del tetto tremarono incrinandosi,mentre la gente si precipitava verso le uscite posteriori. Comunque alcune bancarellerimasero aperte; riuscimmo a prenderci una tazza di caffè a testa e a comprare unospicchio di formaggio di capra che sistemai accanto alle mie bombe. Qualche giornopiù tardi fui molto contento di aver comprato quel formaggio.

All’angolo di strada dove avevo visto gli anarchici aprire il fuoco il giorno primaera stata eretta ormai una barricata. L’uomo che la presidiava (io mi trovavosull’altro lato della strada) mi gridò di stare attento. Le Guardie d’Assalto in cimaalla torre campanaria sparavano indiscriminatamente su chiunque passasse. Io mifermai e poi attraversai di corsa l’incrocio; infatti una pallottola mi sibilò accanto,sgradevolmente vicina. Quando mi avvicinai alla sede del comando del POUM,

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sempre dall’altro lato della strada, ci furono nuove grida di allarme lanciate daalcuni nostri incursori che vigilavano all’ingresso – grida che in quel momento noncompresi. Tra me e l’edificio c’erano alberi e un chiosco (in Spagna le strade diquesto tipo hanno un ampio marciapiede tra una corsia e l’altra) e perciò nonriuscivo a vedere quello che si sbracciavano a indicarmi. Arrivai fino al Continental,mi assicurai che tutto fosse a posto, mi lavai il viso e tornai alla sede del comando(che distava neanche cento metri dall’albergo) per ricevere ordini. A questo punto ilcrepitio dei fucili e delle mitragliatrici che proveniva ormai da diverse direzioni eraquasi paragonabile al frastuono di una battaglia. Ero appena riuscito a scovare Koppe gli stavo chiedendo che cosa si doveva fare quando dalla strada di sotto arrivò unaserie di tremendi boati. Facevano un tale fracasso che io ero sicuro che qualcuno cistesse sparando con un pezzo di artiglieria da campagna. In realtà si trattava disemplici bombe a mano che fanno il doppio del solito baccano quando esplodono inmezzo a edifici di pietra.

Kopp lanciò un’occhiata dalla finestra, strinse forte il bastone che teneva dietro laschiena e disse: «Andiamo a investigare un po’». Scese le scale con la sua solita arianoncurante e io lo seguii. Al portone d’ingresso un gruppo dei nostri incursorifaceva rotolare bombe sul marciapiede come se stesse giocando a bocce. Gli ordigniscoppiavano venti metri più giù con un terribile fracasso che spaccava i timpani e simescolava con gli spari dei fucili. A metà della strada, da dietro un’edicola digiornali, spuntava una testa – appartenente a un miliziano americano che ioconoscevo bene – e giuro che sembrava una noce di cocco messa in bella mostra auna fiera. Fu solo dopo un po’ che capii quello che stava succedendo. Accantoall’edificio del POUM c’era un bar, il Café Moka, con un albergo ai piani superiori. Ilgiorno prima venti o trenta Guardie d’Assalto armate avevano fatto irruzione nellocale e, quando erano cominciati gli scontri, avevano improvvisamente occupatol’edificio e vi si erano barricate. Presumibilmente era stato loro ordinato di occupareil caffè come mossa preliminare a un attacco agli uffici del POUM. Quella mattina, sulpresto, avevano tentato una sortita, c’era stato uno scambio di colpi d’arma da fuoco,uno dei nostri incursori era stato gravemente ferito e uno dei loro era morto. LeGuardie d’Assalto si erano di nuovo rifugiate nel caffè, ma quando l’americano si eraavvicinato avevano aperto il fuoco su di lui, quantunque egli fosse disarmato. Questisi era gettato al riparo dietro l’edicola e gli incursori stavano lanciando bombe controle Guardie d’Assalto per costringerle a starsene rintanate nel locale.

Con una sola occhiata Kopp valutò l’intera scena, si spinse in avanti e tirò indietroun incursore tedesco dai capelli rossi che stava per togliere la sicura da una bomba amano con i denti. Ordinò a tutti di togliersi dal portone e c’informò in diverse lingueche dovevamo evitare qualsiasi spargimento di sangue. Poi uscì sul marciapiede e,sotto lo sguardo delle Guardie d’Assalto, con gesti lenti e ostentati si tolse la pistoladalla cintura e la depose a terra. Due ufficiali spagnoli della milizia lo imitarono etutti e tre si avviarono lentamente verso l’ingresso del locale dove erano radunate leGuardie d’Assalto. Era il tipo di cosa che non avrei fatto neanche per venti sterline.Si stavano avvicinando, disarmati, a uomini fuori di sé per la paura e che avevano inmano armi con il colpo in canna. Una delle guardie, in maniche di camicia e lividadalla paura, uscì dal locale per parlare con Kopp. Continuava a indicare con gestifrenetici un paio di bombe inesplose sul marciapiede. Kopp tornò sui suoi passi e cidisse che avremmo dovuto far saltare in aria quei due ordigni. Lì dov’eranorappresentavano un pericolo per chiunque passasse. Uno degli incursori sparò a una

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delle bombe e la fece scoppiare, poi sparò anche all’altra ma la mancò. Gli chiesi diprestarmi il fucile, m’inginocchiai e lasciai partire un colpo verso la seconda bomba.Mi dispiace dirlo, ma la mancai anch’io. Questo fu l’unico colpo che sparai nel corsodell’intero periodo degli scontri. Il marciapiede era coperto dai frammentidell’insegna che sovrastava il Café Moka e due macchine parcheggiate lì vicino, unadelle quali era quella di Kopp, erano crivellate di proiettili e avevano il parabrezzasfondato dagli scoppi delle bombe.

Kopp mi riportò di sopra e mi spiegò la situazione. Dovevamo difendere gliedifici del POUM in caso di attacco, ma i dirigenti del partito avevano inviato l’ordinedi metterci sulla difensiva e, potendo evitarlo, di non aprire il fuoco. Proprio difronte a noi c’era un cinema, il Poliorama, che aveva un museo ai piani superiori esul tetto, molto al disopra degli altri edifici, un piccolo osservatorio con due cupole.Queste cupole dominavano l’intera strada e pochi uomini appostati là con dei fucilisarebbero bastati a impedire qualsiasi tentativo di attacco alla sede del POUM. Iguardiani del cinema erano membri della CNT e ci avrebbero lasciati andare e venirea nostro piacimento. Quanto alle Guardie d’Assalto asserragliate nel Café Moka, nonci avrebbero causato problemi; non avevano voglia di combattere e sarebbero statefelicissime di vivere e lasciar vivere. Kopp ribadì che gli ordini erano di non spararea meno che non venissimo presi di mira o le nostre sedi fossero attaccate. Anche selui non disse niente in proposito, dedussi che i dirigenti del POUM erano furiosi peresser stati trascinati in questa storia, ma si sentivano in dovere di stare al fianco dellaCNT.

L’osservatorio era già presidiato da alcune nostre sentinelle. I tre giorni e le trenotti successivi li trascorsi continuamente sul tetto del Poliorama, tranne breviintervalli quando riuscivo a sgusciar via e andare in albergo per i pasti. Lì noncorrevo alcun rischio e non soffrivo di niente di peggio della fame e della noia,eppure quello è stato uno dei periodi più insopportabili della mia vita. Secondo mepoche esperienze possono essere più nauseanti, più deludenti e, insomma, piùlogoranti per i nervi, di quelle maledette giornate di scontri per le strade.

Ero solito starmene seduto su quel tetto a riflettere sulla follia della situazione.Dalle strette finestre dell’osservatorio si riusciva a vedere per chilometri e chilometritutt’intorno, una quinta dietro l’altra di alti edifici svettanti, cupole di vetro efantastici tetti ricurvi dalle tegole di un verde brillante o color rame; verso est siscorgeva il mare celeste che luccicava: la prima volta che vedevo il mare da quandoero arrivato in Spagna. E tutta quella grande città di un milione di abitanti eraprigioniera di una specie di violenta inerzia, un incubo di fragore senza movimento.Le strade illuminate dal sole erano deserte. Non accadeva niente al di fuori di nugolidi pallottole scambiate tra barricate e finestre protette da sacchetti di sabbia. Non unveicolo girava per le strade; in varie parti delle Ramblas dei tram erano fermi nelpunto in cui i conducenti erano saltati fuori e li avevano abbandonati all’inizio dellesparatorie. E per tutto il tempo quel diabolico frastuono che si riverberava tramigliaia di edifici in muratura continuava a risuonare senza posa, come unatempesta tropicale. Bam-bam, ratta-tattà, BUM! – ogni tanto si spegneva in spariisolati, per poi riaccelerare in salve assordanti di fucileria, ma non cessava mai finchéc’era luce e riprendeva puntualmente appena sorgeva l’alba.

Ma che diavolo stava succedendo, chi combatteva contro chi e chi stava vincendo,era a prima vista molto difficile da scoprire. Gli abitanti di Barcellona sono cosìabituati agli scontri per strada e così al corrente della geografia locale che sanno

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quasi per istinto quale partito politico occupa una determinata strada o undeterminato edificio. Uno straniero invece non ci si raccapezza affatto. Guardandofuori dall’alto dell’osservatorio riuscivo a capire che le Ramblas, una delle principaliarterie della città, formavano una specie di linea di demarcazione. A destra iquartieri operai erano anarchici in maniera compatta; a sinistra c’era una confusalotta in mezzo ai vicoli contorti, ma da quella parte il PSUC e le Guardie d’Assaltoavevano più o meno il controllo della situazione. Su alla fine delle Ramblas, dalleparti di plaza de Cataluña, la situazione era così complessa che sarebbe stata deltutto inintelligibile se ogni palazzo non avesse esposto una bandiera di partito. Ilpunto di riferimento principale era l’Hotel Colón, il quartier generale del PSUC, chedominava plaza de Cataluña. In una finestra vicina alla penultima O nell’enormeinsegna che s’allungava per tutta la facciata era piazzata una mitragliatrice cheavrebbe potuto spazzare l’intera piazza con efficacia mortale. A un centinaio di metrisulla nostra destra, scendendo le Ramblas, i membri della JSU, l’organizzazionegiovanile del PSUC (corrispondente alla Young Communist League inglese),occupavano un grande magazzino le cui finestre laterali, protette da sacchetti disabbia, erano proprio davanti al nostro osservatorio. Avevano ammainato la lorobandiera rossa e innalzato la bandiera nazionale catalana. In cima alla centraletelefonica, da dove tutti gli scontri avevano avuto inizio, la bandiera catalana equella anarchica sventolavano fianco a fianco. Evidentemente lì si era arrivati a unqualche temporaneo compromesso, il centralino funzionava senza interruzioni enell’edificio nessuno sparava.

Nella nostra posizione c’era una strana tranquillità. Le Guardie d’Assalto nel CaféMoka avevano abbassato la saracinesca e ammucchiato i tavoli del bar per formareuna barricata. Più tardi una mezza dozzina di loro uscirono sul terrazzo davanti anoi e costruirono un’altra barricata di materassi, sopra la quale issarono la bandieranazionale catalana. Ma era abbastanza evidente che non avevano alcuna intenzionedi dare battaglia. Kopp aveva raggiunto un accordo preciso con loro: se loro non cisparavano, noi non avremmo sparato a loro. Ormai lui aveva stretto amicizia con leGuardie d’Assalto ed era andato a far loro visita diverse volte nel Café Moka.Naturalmente avevano razziato tutto quel che c’era da bere nel bar e avevanoperfino fatto dono a Kopp di una quindicina di bottiglie di birra. In cambio Kopp gliaveva addirittura dato uno dei nostri fucili per rimpiazzarne uno che in qualchemodo avevano perso il giorno prima. Nondimeno, starsene seduti su quel tettofaceva una strana sensazione. A volte, assalito da pura noia per tutta quella storia,non mi curavo affatto del frastuono infernale attorno a me e passavo ore e ore aleggere una serie di libri della Penguin che per fortuna avevo acquistato qualchegiorno prima; altre volte ero molto nervoso al pensiero di essere osservato da uominiarmati distanti neanche cinquanta metri. Era un po’ come ritrovarsi in trincea;diverse volte mi sorpresi a pensare alle Guardie d’Assalto come a “fascisti”, perforza d’abitudine. Di solito eravamo sempre in cinque o sei lassù. Mettevamo unuomo di guardia in ognuna delle torrette dell’osservatorio, mentre il resto di noi sene stava seduto sulle lastre di piombo del tetto lì sotto dove non c’era altro riparo cheuna balaustra di pietra. Ero ben consapevole che da un momento all’altro le Guardied’Assalto potevano ricevere per telefono l’ordine di aprire il fuoco. Eravamod’accordo che ci avrebbero avvertito prima di farlo, ma non avevamo alcunacertezza che avrebbero mantenuto i patti. Comunque in una sola occasione parvepossibile che sorgessero dei problemi. Una delle Guardie d’Assalto s’inginocchiò e

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cominciò a far fuoco da dietro la barricata. Io ero di guardia nell’osservatorio in quelmomento. Gli puntai addosso il fucile e gridai:

«Ehi! Non ci sparare!»«Cosa?»«Non ci sparare o ci mettiamo a sparare anche noi!»«No, no! Non sparavo mica a voi. Guarda un po’ laggiù!»Con il fucile indicò verso la traversa che passava sotto il nostro edificio. Infatti un

giovanotto in tuta azzurra e un fucile in mano stava sgattaiolando dietro l’angolo.Evidentemente aveva appena tirato un colpo contro le Guardie d’Assalto sulterrazzo.

«Stavo sparando a quello. Ha cominciato lui.» (Credo che fosse vero.) «Noi nonvogliamo spararvi. Siamo anche noi lavoratori, proprio come voi.»

Mi fece un saluto antifascista a cui io risposi. Quindi gli gridai:«Non è che vi è rimasta della birra?»«No, è finita tutta.»Quello stesso giorno, senza alcun motivo apparente, dall’edificio della JSU poco

più avanti nella strada, un tizio alzò il fucile e mi sparò un colpo mentre mi sporgevodalla finestra. Forse ero un bersaglio provocante. Io non risposi al fuoco. Anche se luiera a soli cento metri di distanza il proiettile mancò non solo me, ma anche il tettodell’osservatorio. Come al solito il livello di accuratezza nel tiro degli spagnoli misalvò la vita. Da quell’edificio mi spararono diverse altre volte.

Il diabolico fracasso delle fucilate non sembrava aver pausa. Ma, almeno agiudicare da quanto vidi e da tutto ciò che sentii dire, si combatteva sulla difensivada entrambe le parti. La gente si limitava a rimanere negli edifici che aveva occupatoo dietro le barricate e tirava sulla parte opposta. A meno di un chilometro da noic’era una strada che ospitava una delle sedi principali della CNT e quasi di frontec’erano gli uffici dell’UGT; da quella parte il volume di fuoco era molto intenso. Sonopassato per quella strada il giorno dopo la fine dei combattimenti e le vetrine deinegozi sembravano crivelli (la maggior parte dei commercianti di Barcellona avevaincollato strisce di carta incrociate sui vetri, in modo che quando la lastra venivacolpita da una pallottola non andava in mille pezzi). A volte il crepitio dei fucili edelle mitragliatrici era punteggiato dai boati delle bombe a mano. E ogni tanto, forseuna dozzina di volte in tutto, si sentirono le tremende esplosioni che lì per lì nonriuscivo a spiegarmi; sembravano bombe d’aeroplano, ma era impossibile che lofossero perché non si vedevano volare aerei. In seguito mi hanno detto che agentiprovocatori facevano brillare grosse quantità di esplosivo per aumentare il livellogenerale di rumore e di panico. Però non c’era fuoco di artiglieria. Ci stavo attentoperché se cominciavano a sparare i cannoni avrebbe voluto dire che la faccenda sistava facendo seria (l’artiglieria è un fattore determinante quando si combatte per lestrade). In seguito i giornali hanno riportato storie fantastiche di batterie di cannoniche sparavano nelle strade, ma nessuno è riuscito a indicarmi un edificio che fossestato colpito da una granata. In ogni caso, il rumore di un cannone che spara èinconfondibile se si è abituati a sentirlo.

Quasi da subito le scorte di cibo diventarono scarse. Con qualche difficoltà e laprotezione delle tenebre (perché le Guardie d’Assalto continuavano a tenere leRamblas sotto il fuoco dei cecchini) dall’Hotel Falcón arrivava il rancio per iquindici-venti miliziani che presidiavano il quartier generale del POUM, ma nonbastava certo per tutti e per quanto possibile andavamo a mangiare all’Hotel

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Continental. Questo albergo era stato “collettivizzato” dalla Generalitat e non, comela maggior parte degli altri, dalla CNT o dall’UGT, e perciò era considerato terrenoneutrale. Appena lo scontro nelle strade si era scatenato, l’albergo si era riempito diuna straordinaria folla di persone. C’erano giornalisti stranieri, personepoliticamente sospette d’ogni parte, un pilota americano che lavorava per il governo,vari agenti comunisti, compreso un russo obeso e dall’aspetto sinistro che si dicevafosse un agente della GPU, 7 (era soprannominato Charlie Chan e portava sempreappese alla cintura una rivoltella e una bellissima bomba a mano); c’erano anchealcune famiglie spagnole benestanti che sembravano simpatizzare per i fascisti, dueo tre feriti della Colonna Internazionale, una squadra di autisti di enormi camionfrancesi che stavano trasportando arance in Francia ma erano stati bloccati daicombattimenti, e un gran numero di ufficiali dell’Esercito Popolare. Come istituzionel’Esercito Popolare rimase neutrale per tutta la durata dei combattimenti, anche sequalche soldato scappò dalla caserma e vi prese parte a titolo individuale; il martedìmattina ne avevo notati un paio alle barricate del POUM. All’inizio, prima che lapenuria di cibo si facesse acuta e i giornali cominciassero a seminare zizzania, c’erala tendenza a considerare tutta questa storia come una farsa. La gente diceva che erail tipo di cosa che a Barcellona succedeva tutti gli anni. Giorgio Tioli, un giornalistaitaliano nostro grande amico, fece il suo ingresso nell’albergo con i pantaloni tuttiinsanguinati. Era uscito a vedere cosa stava succedendo e stava prestando delle curea un ferito sul marciapiede quando qualcuno si era divertito a tirargli addosso unabomba a mano, per fortuna senza ferirlo gravemente. Ricordo che diceva sempre chele pietre delle strade di Barcellona avrebbero dovuto essere numerate; così sisarebbero risparmiati tempo e fatica nell’erigere e nello smantellare le barricate.Ricordo anche un paio di uomini della Colonna Internazionale seduti nella miastanza d’albergo quando tornai stanco, affamato e sudicio dopo una nottata passatadi guardia. Il loro atteggiamento era assolutamente neutrale. Se fossero stati zelantimembri di partito, immagino mi avrebbero esortato a passare dall’altra parte oppuremi avrebbero immobilizzato e sequestrato le bombe di cui avevo piene le tasche;invece si limitarono a mostrarmi la loro solidarietà per il fatto che stavo trascorrendoil mio periodo di licenza dal fronte facendo turni di guardia su un tetto.L’atteggiamento generale era: «Si tratta di un semplice scontro tra gli anarchici e lapolizia – non significa niente». Nonostante la portata dei combattimenti e il numerodi vittime, credo che questa interpretazione fosse più vicina alla verità della versioneufficiale che presentava tutta la faccenda come una rivolta programmata.

Fu solo il mercoledì (il 5 maggio) che le cose parvero cambiare un po’. Le stradesbarrate avevano un bruttissimo aspetto. I rari passanti, costretti a uscire per unmotivo o per l’altro, strisciavano rasente i muri, sventolando fazzoletti bianchi; in unpunto delle Ramblas che sembrava al riparo dalle pallottole, alcuni strillonipubblicizzavano i loro giornali alla strada deserta. Il martedì «Solidaridad Obrera», ilgiornale degli anarchici, aveva descritto l’attacco alla centrale telefonica come una“mostruosa provocazione” (o qualcosa del genere), ma già il mercoledì avevacambiato musica e cominciato a implorare tutti perché tornassero al lavoro. Idirigenti anarchici diramavano lo stesso messaggio. Gli uffici de «La Batalla»,l’organo del POUM, che non erano presidiati, erano stati invasi e occupati dalleGuardie d’Assalto in concomitanza dell’attacco alla centrale telefonica, ma il giornalecontinuava a essere stampato e qualche copia distribuita da un’altra sede. Esortavatutti a rimanere sulle barricate. La gente era confusa e si chiedeva sgomenta come

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diavolo sarebbe andata a finire la faccenda. Dubito che a questo punto qualcunoavesse già abbandonato le barricate, ma tutti erano disgustati da quegli scontri senzasenso che evidentemente non avrebbero portato ad alcuna decisione, perché nessunovoleva che gli incidenti si sviluppassero fino a diventare una guerra civile su vastascala che avrebbe comportato la sconfitta nella guerra condotta contro Franco. Hosentito questo timore espresso da tutte le parti in conflitto. Per quanto si riusciva acapire da quello che diceva allora la gente, la base della CNT voleva, come all’inizio,solo due cose: che le venisse restituita la centrale telefonica e che le Guardied’Assalto venissero disarmate. Se la Generalitat avesse loro promesso queste duecose, oltre a misure per porre fine alla speculazione sui prezzi delle derratealimentari, non c’è dubbio che le barricate sarebbero state smantellate in un paiod’ore. Ma era altrettanto ovvio che la Generalitat non aveva alcuna intenzione dicedere. Giravano delle brutte voci. Si diceva che il governo di Valencia stesse perinviare seimila uomini a occupare Barcellona e che cinquemila anarchici e soldati delPOUM avessero abbandonato il fronte aragonese per venire a fronteggiarli. Solo laprima di queste due voci risultò essere vera. Dall’alto del nostro osservatorioavevamo visto le sagome grigie e basse delle navi da guerra che si avvicinavano alporto. Douglas Moyle, che era stato in Marina, disse che sembravanocacciatorpediniere inglesi. In effetti si trattava proprio di cacciatorpediniere inglesi,ma l’avremmo appreso solo in seguito.

Quella sera sentimmo dire che sulla plaza de España quattrocento Guardied’Assalto si erano arrese e avevano ceduto le armi agli anarchici; erano filtrate anchevoci che i quartieri dei sobborghi (a maggioranza operaia) fossero saldamentecontrollati dalla CNT. Insomma, pareva che stessimo vincendo. Ma quella stessa seraKopp mi mandò a chiamare e con aria seria mi comunicò che secondo leinformazioni che aveva appena ricevuto il governo si apprestava a metterefuorilegge il POUM e a dichiarare lo stato di guerra. La notizia mi sconvolse. Era laprima avvisaglia che avevo dell’interpretazione che con ogni probabilità sarebbestata data in seguito all’intera vicenda. Ebbi il vago presentimento che una voltacessati i combattimenti la colpa sarebbe stata addossata tutta al POUM, che era ilpartito più debole e perciò il capro espiatorio più adatto. E nel frattempo la nostraneutralità locale stava per terminare. Se il governo ci avesse dichiarato guerra nonavremmo avuto altra scelta che quella di difenderci e qui, nella sede del comando,potevamo star certi che i nostri vicini, le Guardie d’Assalto, avrebbero ricevutol’ordine di attaccarci. La nostra unica possibilità era di giocare d’anticipo e diattaccarli prima noi. Kopp era in attesa di ordini per telefono; appena avessimosentito che il POUM era stato ufficialmente dichiarato fuorilegge avremmo dovutoprepararci subito a impadronirci del Café Moka.

Ricordo la lunghissima serata da incubo che passammo a fortificare l’edificio.Incatenammo le serrande dell’ingresso principale e subito dietro costruimmo unabarricata con delle lastre di pietra lasciate lì dai muratori che avevano eseguito lavoridi restauro. Passammo in rassegna le nostre armi. Contando i sei fucili sul tetto delPoliorama dall’altra parte della strada, avevamo ventuno fucili, uno dei qualidifettoso, cinquanta colpi per ogni fucile e qualche dozzina di bombe a mano;nient’altro, a parte qualche pistola e rivoltella. Una dozzina di uomini, quasi tuttitedeschi, si erano offerti volontari per l’attacco al Café Moka, se si fosse resonecessario. Li avremmo dovuti attaccare dal tetto, naturalmente, di preferenza nelleore piccole del mattino, e prenderli di sorpresa; loro avevano la superiorità

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numerica, ma noi avevamo il morale più alto e non c’era dubbio che saremmoriusciti a prendere d’impeto l’edificio, anche se era fatale che qualcuno rimanesseucciso nel corso dell’azione. Non avevamo cibo, a parte qualche tavoletta dicioccolato, e girava insistente la voce che “loro” ci avrebbero tagliato l’acqua(nessuno sapeva con sicurezza chi fossero “loro”. Potevano essere le forzegovernative, che controllavano l’acquedotto, così come quelli della CNT – nessuno losapeva). Passammo parecchio tempo a riempire tutti i lavandini del palazzo, ognisecchio su cui riuscimmo a metter le mani e alla fine anche le quindici bottiglie dibirra, ormai vuote, che le Guardie d’Assalto avevano regalato a Kopp.

Io ero di un umore nero e stanchissimo dopo circa sessanta ore in cui non avevoquasi dormito. Era ormai notte fonda. La gente dormiva un po’ dappertutto sulpavimento dietro le barricate al piano terra. Di sopra c’era una stanzetta in cui c’eraun divano che volevamo usare come infermeria anche se, non c’è bisogno di dirlo,non riuscimmo a trovare nell’intero edificio né bende né tintura di iodio. Anche miamoglie era venuta giù dall’albergo, nel caso ci fosse stato bisogno di un’infermiera.Mi sdraiai sul divano perché sentivo di dover dormire almeno una mezz’orettaprima dell’attacco contro il “Moka”, in cui presumibilmente sarei rimasto ucciso. Miricordo il fastidio intollerabile che mi era causato dalla pistola, agganciata allacintola, che premeva contro il fondo schiena. La cosa che ricordo poi è di essermisvegliato bruscamente, per trovare mia moglie in piedi accanto al divano. Era ormaigiorno fatto, non era successo niente, il governo non aveva poi dichiarato guerra alPOUM, l’acqua non ci era stata tagliata e, a parte qualche sporadico sparo nelle strade,tutto era tornato nella normalità. Mia moglie disse che non aveva avuto il coraggiodi svegliarmi e aveva perciò dormito in una poltrona di uno dei salotti.

Quel pomeriggio ci fu una specie di armistizio. Gli spari piano piano cessarono econ sorprendente rapidità le strade si riempirono di gente. Qualche negozio tirò su leserrande e il mercato era affollato di persone che facevano ressa reclamando viveri,anche se le bancarelle erano praticamente vuote. A ogni modo, però, notai che i tramnon avevano ripreso a funzionare. Le Guardie d’Assalto erano ancora asserragliatedietro le loro barricate nel “Moka”; nessuna delle parti aveva sgomberato gli edificifortificati. Tutti si davano un gran daffare intorno per procurarsi cibo. E dappertuttosi sentivano mormorare le stesse domande preoccupate: «Secondo te, è finita sulserio? Secondo te, ricomincerà un’altra volta?». I combattimenti erano ormaiconsiderati come una sorta di calamità naturale, un terremoto o un uragano, che siabbatteva su tutti alla stessa maniera e che nessuno aveva la possibilità di fermare. Einfatti, quasi subito dopo – immagino che in realtà la tregua sia durata diverse ore,ma parvero più minuti che ore – un’improvvisa salva di fucileria, come un tuonoestivo, rimandò tutti in cerca di riparo; le serrande dei negozi si richiusero di scatto,le strade si svuotarono come per magia, le barricate furono di nuovo presidiate e “lacosa” ricominciò da capo.

Tornai al mio posto di guardia sul tetto con una sensazione di furia e di disgustoconcentrati. Quando si prende parte a eventi del genere immagino che in qualchemodo, seppur minore, si stia facendo la storia e quindi si avrebbe tutto il diritto disentirsi un personaggio storico. E invece non accade mai, perché in momenti delgenere piccoli particolari fisici hanno un peso oltremodo maggiore di qualsiasi altracosa. Per tutta la durata dei combattimenti non sono mai stato in grado di compiere“un’analisi” corretta della situazione come invece riuscivano a fare con agio altrigiornalisti che erano a chilometri e chilometri di distanza. Ciò a cui soprattutto

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pensavo non erano i relativi torti e ragioni di quella miserabile rissa intestina, masemplicemente il disagio e la noia di sedere giorni e notti su quello scomodissimotetto e la fame che aumentava sempre più perché nessuno di noi aveva fatto un pastodecente dal lunedì. Mi passava di continuo per la mente che avrei dovutotornarmene subito al fronte non appena quella storia fosse finita. Era una cosa che mimandava su tutte le furie. Ero stato centoquindici giorni in prima linea ed erotornato a Barcellona affamato di un po’ di riposo e di comodità; e invece ecco chedovevo passare il tempo seduto su quel tetto davanti a Guardie d’Assalto altrettantoannoiate che ogni tanto mi salutavano con la mano e mi assicuravano che anche loroerano “lavoratori” (il che voleva dire che speravano che non aprissi il fuoco su diloro), ma che non avrebbero esitato un istante a spararmi se gli fosse arrivatol’ordine di farlo. Se questa era storia, non lo sembrava di certo. Pareva piuttosto unaltro brutto periodo passato al fronte, quando eravamo a corto di uomini edovevamo fare mostruosi turni di guardia; invece che comportarsi da eroi, ci sidoveva limitare a stare al proprio posto, annoiarsi a morte, cascare dal sonno erinunciare del tutto a capire cosa stava succedendo.

All’interno dell’albergo, intanto, tra la folla eterogenea che perlopiù non avevaosato mettere il naso fuori della porta, era andato crescendo un terribile clima disospetto. Varie persone avevano contratto una forma contagiosa di mania dispionaggio e strisciavano in giro bisbigliando che tutti gli altri erano agenti dellospionaggio comunista o trockijsta o anarchico o vattelappesca. L’obeso agente russoattaccava bottone con tutti i profughi stranieri, prendendoli da parte a turno espiegando loro in maniera convincente che tutta questa storia non era altro che unamanovra degli anarchici. Io l’osservavo con un certo interesse, perché era la primavolta che vedevo una persona che faceva di mestiere il bugiardo – a meno che non simettano nel novero anche i giornalisti. C’era un nonsoché di repellente nella parodiadi vita d’albergo elegante che continuava nonostante le serrande abbassate e ilcrepitio degli spari. La sala da pranzo principale era stata abbandonata dopo che unapallottola era entrata da una vetrina e aveva scheggiato una colonna, così gli ospiti siaccalcavano in una stanza piuttosto scura sul retro, dove non c’erano quasi maitavoli per tutti. I camerieri erano rimasti in pochi – alcuni di loro erano membri dellaCNT e avevano aderito allo sciopero generale – e per il momento avevano rinunciatoalle camicie inamidate, ma i pasti continuavano a essere serviti con un notevolesfoggio di cerimoniosità, nonostante non ci fosse, ormai, praticamente più niente damangiare. Quel giovedì sera, per esempio, la portata principale a cena fu una sardinaa testa. L’albergo non aveva pane da giorni e anche il vino cominciava a scarseggiarea tal punto che eravamo costretti a bere vini sempre più vecchi a prezzi sempre piùalti. La penuria di cibo continuò anche diversi giorni dopo che i combattimenti eranocessati. Ricordo che per tre giorni di fila io e mia moglie facemmo colazione con lospicchio di formaggio di capra, senza pane e senza niente da bere. L’unica cosa di cuic’era grande abbondanza erano le arance. I camionisti francesi ne portarono grandiquantità nell’albergo. Erano un gruppetto dall’aspetto piuttosto da duri; insieme aloro c’erano alcune vistose ragazze spagnole e un enorme facchino dalla camicianera. In qualsiasi altro momento quel piccolo snob del direttore d’albergo si sarebbedato da fare per farli sentire a disagio, anzi secondo me si sarebbe addiritturarifiutato di lasciargli mettere piede nel locale; invece erano molto popolari perché, alcontrario di noi, avevano una scorta privata di pane e tutti cercavano di convincerli acederne una piccola parte.

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Passai un’ultima notte di guardia sul tetto e il giorno dopo sembrava veramenteche i combattimenti stessero per cessare. Non credo che ci siano stati molti spari quelgiorno, venerdì. Nessuno sembrava sapere con certezza se le truppe di Valenciastessero davvero per arrivare; in realtà arrivarono quella sera stessa. Il governodiramava messaggi in parte rassicuranti e in parte minacciosi, chiedendo a tutti ditornarsene a casa e dicendo che dopo una certa ora chiunque fosse stato trovato inpossesso di armi sarebbe stato arrestato. Non si prestava molta attenzione aiproclami governativi, ma piano piano la gente spariva dalle barricate un po’dappertutto. Non ho molti dubbi che la responsabilità principale fosse da attribuirealla scarsezza dei viveri. Da ogni parte si sentiva lo stesso commento: «Non abbiamopiù da mangiare, dobbiamo rimetterci al lavoro». Dall’altra parte le Guardied’Assalto, che potevano contare sul fatto di ricevere in ogni caso le loro razionifinché in città ci fosse stato del cibo, riuscirono a restare al loro posto. Nelpomeriggio le strade erano quasi tornate alla normalità, anche se le barricate vuoterestavano in piedi; le Ramblas erano affollate di gente, i negozi quasi tutti aperti e –cosa più rassicurante di tutte – i tram che erano rimasti fermi, come raggelati, sirimisero in moto e ripresero a circolare. Le Guardie d’Assalto occupavano ancora ilCafé Moka e non avevano smantellato le loro barricate, ma alcuni di loro avevanomesso fuori qualche sedia sul marciapiede e sedevano là con il fucile sulle ginocchia.Ammiccai a uno di loro passando lì davanti e ne ricevetti in cambio un mezzosorriso per niente ostile; naturalmente mi aveva riconosciuto. Sulla centraletelefonica la bandiera anarchica era stata ammainata e sventolava solo quellacatalana. Era il segno che gli operai erano stati definitivamente sconfitti; mi resiconto – anche se, a causa della mia ignoranza politica, non altrettanto chiaramente dicome avrei dovuto – che quando il governo si sarebbe sentito più sicuro ci sarebberostate rappresaglie. Ma in quel momento non ero interessato a quell’aspetto dellafaccenda. Provavo solo un gran sollievo perché il diabolico fracasso delle sparatorieera cessato e si poteva di nuovo comprare qualcosa da mangiare e riposarsi un po’ insanta pace prima di tornare al fronte.

Deve essere stato più tardi quella sera che le truppe provenienti da Valenciafecero la loro prima comparsa nelle strade. Erano Guardie d’Assalto, una formazioneanaloga a quelle locali, all’odiata Guardia Civil e ai Carabineros (cioè unagendarmeria con compiti precipui di repressione poliziesca): insomma, le truppescelte della Repubblica. Sembrarono spuntare dal terreno del tutto all’improvviso; lesi vedeva dappertutto pattugliare le strade in gruppi di dieci: uomini alti in uniformigrigie o azzurre, con lunghi fucili a tracolla e una mitraglietta per ogni pattuglia. Nelfrattempo c’era un compito delicato da portare a termine. I sei fucili che avevamousato per presidiare le torrette dell’osservatorio erano ancora lì e in un modo onell’altro dovevamo riportarli nella sede del comando del POUM. Si trattava solo difar loro riattraversare la strada. Facevano parte della dotazione dell’edificio, maportarli in strada significava contravvenire agli ordini del governo e se ci avesserosorpreso con quelle armi in mano saremmo stati sicuramente arrestati e – peggioancora – i fucili ci sarebbero stati confiscati. Con solo ventuno fucili in dotazione nonpotevamo certo permetterci di perderne sei. Dopo una lunga discussione su qualefosse il metodo migliore di procedere, un ragazzo spagnolo dai capelli rossi e iocominciammo a trasportarli di nascosto dall’altra parte della strada. Evitare lepattuglie di Guardie d’Assalto valenciane era abbastanza facile; il pericolo erarappresentato dai nostri vicini del Café Moka, i quali sapevano benissimo che

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avevamo dei fucili nell’osservatorio e avrebbero potuto fare la spia se ci avesserovisto portarli apertamente in strada. Ognuno di noi si svestì un po’ e si sospese unfucile alla spalla sinistra, con il calcio sotto l’ascella e la canna infilata nella gambadei calzoni. Peccato che fossero dei Mauser lunghi. Anche uno alto come me nonriesce a portare un Mauser lungo nei pantaloni senza un certo disagio. Scendere lescale a chiocciola dell’osservatorio con la gamba sinistra completamente rigida erauna fatica intollerabile. Una volta arrivati in strada scoprimmo che non potevamo faraltro che muoverci con estrema lentezza, in modo che non fosse necessario piegare leginocchia. Davanti al cinema vidi un gruppo di persone che mi fissavano moltointeressate mentre mi spostavo con la velocità di una tartaruga. Mi sono spessochiesto cosa pensassero mi fosse successo. Una ferita di guerra, forse. A ogni modo, ifucili furono portati dall’altra parte senza incidenti.

Il giorno dopo le Guardie d’Assalto valenciane erano dappertutto e giravano perle strade come conquistatori. Non c’era dubbio che il governo facesse uno sfoggio diforza puro e semplice per incutere un timore ancora più grande in una popolazioneche sapeva già non gli avrebbe fatto resistenza; se ci fosse stato un reale pericolo dialtri scontri i valenciani sarebbero stati tenuti in caserma e non sparsi per le strade inpiccoli gruppi. Erano truppe molto efficienti, le migliori che avessi visto in Spagnafino ad allora e anche se, in un certo senso, rappresentavano per me “il nemico” nonpotevo fare a meno di ammirarne l’aspetto e il portamento. Ma era con una sorta dimeraviglia che li osservavo passeggiare avanti e indietro per la città. Ero abituato aimiliziani logori e mal equipaggiati del fronte aragonese e non sapevo che laRepubblica avesse a disposizione truppe del genere. Non era solo il fatto che fosserouomini fisicamente scelti; era il loro armamento che mi stupiva più di tutto. Avevanotutti fucili nuovi di zecca di un tipo noto come “il fucile russo” (queste armiarrivavano in Spagna dall’URSS, ma credo che venissero fabbricate in America). Hoavuto occasione di esaminarne uno da vicino. Non che fosse un’arma perfetta, maera infinitamente meglio dei vecchi terribili tromboni che avevamo al fronte. LeGuardie d’Assalto valenciane avevano una mitraglietta ogni dieci uomini e unapistola automatica a testa; noi al fronte avevamo una mitragliatrice ogni cinquantauomini e quanto a pistole e rivoltelle, ce le potevamo procurare solo illegalmente. Ineffetti, anche se non ci avevo fatto caso fino a ora, era lo stesso dappertutto. LeGuardie d’Assalto e i Carabineros, che non erano affatto destinati al fronte, eranomeglio armati e molto meglio vestiti di noi. Ho il sospetto che succeda così in tutte leguerre – c’è sempre lo stesso contrasto tra l’azzimata polizia delle retrovie e i soldatilaceri in prima linea. Nel complesso le Guardie d’Assalto valenciane andarono moltod’accordo con la cittadinanza dopo un paio di giorni dal loro arrivo. Il primo giornoci fu qualche problema perché alcuni di loro – agendo, suppongo, dietro preciseistruzioni – cominciarono a comportarsi in maniera provocatoria. Gruppi di lorosalivano sui tram, perquisivano i passeggeri e se trovavano loro addosso tesseredella CNT gliele strappavano e le calpestavano. Questo portò a qualche rissa conanarchici armati e ci scapparono anche uno o due morti. Ben presto, però, le Guardied’Assalto smisero di comportarsi da conquistatori e i rapporti si fecero molto piùamichevoli. Si notò subito che la maggior parte di loro aveva rimorchiato unaragazza dopo un paio di giorni di permanenza.

Gli scontri di Barcellona avevano fornito al governo di Valencia il pretestolungamente atteso per assumere il pieno controllo della Catalogna. Le milizieoperaie dovevano essere sciolte e confluire nell’Esercito Popolare. La bandiera

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repubblicana spagnola sventolava ormai su tutta la città – era la prima volta che lavedevo, tranne forse quando ne avevo vista una issata su una trincea fascista. Neiquartieri operai le barricate venivano smantellate, anche se un po’ per volta, perché èmolto più facile costruirne una che rimettere a posto il selciato. Fuori dagli edifici delPSUC le barricate furono lasciate al loro posto e infatti molte rimasero in piedi fino agiugno. Le Guardie d’Assalto occupavano ancora parecchi punti strategici. Enormisequestri di armi venivano eseguiti nelle roccaforti della CNT, anche se non dubitoche parecchie sfuggirono alla confisca. «La Batalla» continuava a uscire, ma ilgiornale era talmente censurato che la prima pagina finì per essere del tutto vuota. Igiornali del PSUC invece non erano sottoposti a censura e uscivano con articoli difuoco che chiedevano a gran voce lo scioglimento del POUM. Si diceva che il partitoera un’organizzazione criptofascista e gli agenti del PSUC facevano circolare in cittàuna vignetta in cui il POUM era rappresentato come un losco figuro che si toglievauna maschera su cui c’era una falce e martello per rivelare un volto orrendo e follesegnato da una svastica. Evidentemente la versione ufficiale degli scontri diBarcellona era già stata decisa: doveva essere presentata come una ribellioneorganizzata da una “quinta colonna” fascista identificata esclusivamente col POUM.

Ora che gli scontri erano cessati, l’orribile atmosfera di sospetto e ostilità cheregnava in albergo era peggiorata. Davanti alle accuse che venivano lanciate in tuttele direzioni era impossibile rimanere neutrali. Le poste avevano ripreso a funzionare,i giornali comunisti stranieri ricominciavano ad arrivare e i loro resoconti degliscontri non solo erano violentemente parziali, ma com’è naturale anchefantasticamente imprecisi rispetto ai fatti. Secondo me, alcuni comunisti locali, cheavevano visto quello che era effettivamente successo, rimasero sgomenti di fronteall’interpretazione che si stava dando dei fatti, ma ovviamente dovevano mantenereil partito preso. Il nostro amico comunista mi ricontattò e mi chiese se intendevoancora trasferirmi nella Colonna Internazionale.

Rimasi piuttosto sorpreso. «I vostri giornali dicono che sono fascista» gli risposi.«Certo devo essere politicamente sospetto, visto che provengo dalle fila del POUM.»

«Oh, quello non conta. Dopotutto, agivi solo dietro ordini.»Fui costretto a spiegargli che dopo questa storia non avrei potuto arruolarmi in

nessuna unità controllata dai comunisti. Poteva voler dire essere usato, prima o poi,contro la classe operaia spagnola. Non si poteva mai sapere quando una cosa delgenere sarebbe accaduta di nuovo, e se dovevo imbracciare il fucile in una faccendacome quella, preferivo usarlo a fianco degli operai e non contro di loro. Lui accolse lemie obiezioni in modo molto equilibrato. Ma ormai l’intera atmosfera era cambiata:non si poteva più, come in passato, “concordare sulla differenza di opinioni” e poiandare a bere insieme con una persona che si sapeva essere un avversario politico.Nell’atrio dell’albergo ci furono delle discussioni piuttosto spiacevoli. E nelfrattempo le prigioni si andavano già riempiendo fino a traboccare. Dopo lacessazione degli scontri gli anarchici avevano naturalmente liberato i loroprigionieri, mentre le Guardie d’Assalto non avevano rilasciato i loro e la stragrandemaggioranza fu sbattuta in galera e tenuta lì senza neanche un processo, in molti casiper mesi e mesi. Come succede di solito, persone del tutto innocenti venivanoarrestate per grossolani errori della polizia. Ho già detto che Douglas Thompson erastato ferito all’inizio di aprile. Dopodiché avevamo perso i contatti con lui, comeaccadeva spesso quando qualcuno era ferito, perché i feriti venivano trasferiti da unospedale all’altro. In effetti lui era stato ricoverato all’ospedale di Tarragona e

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rispedito a Barcellona proprio in coincidenza con l’inizio degli scontri. Il martedìmattina lo incontrai per strada, abbastanza sbigottito dalle sparatorie cheinfuriavano tutt’intorno. Anche lui chiese quello che tutti si stavano chiedendo:

«Che diavolo vuol dire tutto questo?»Glielo spiegai come meglio potevo. Thompson rispose subito:«Io mi tengo fuori da questa storia. Il braccio mi fa ancora male. Me ne torno al

mio albergo e da lì non mi muovo.»E così se ne tornò in albergo, ma per sua sfortuna (com’è importante, nella

guerriglia urbana, capire bene la geografia locale!) l’albergo era in una zona dellacittà controllata dalle Guardie d’Assalto che vi fecero irruzione e lo arrestarono. Fusbattuto in galera e tenuto per otto giorni in una cella così affollata che non c’eraneanche spazio per sdraiarsi per terra. Casi del genere ce ne furono molti. Parecchistranieri politicamente sospetti si diedero alla macchia, inseguiti dalla polizia e incostante timore di esser denunciati. Chi se la passava peggio di tutti erano gli italianie i tedeschi che erano privi di passaporto ed erano in genere ricercati dalle poliziesegrete dei loro paesi. Se venivano arrestati si apriva per loro la possibilità di essereestradati in Francia, il che poteva voler dire essere poi rispediti in Italia e inGermania dove Dio solo sa quali orrori li attendevano. Una o due straniereregolarizzarono in tutta fretta la propria posizione “sposando” degli spagnoli. Unaragazza tedesca senza documenti evitò la polizia fingendo per diversi giorni diessere l’amante di un uomo. Ricordo l’espressione di vergogna e di tristezza sulvolto di quella poveretta quando per caso m’imbattei in lei mentre usciva dallastanza dell’uomo. Naturalmente non era la sua amante, ma senza dubbio pensavache io lo credessi. Si aveva sempre l’odiosa sensazione che qualcuno finoraconsiderato amico potesse finire per denunciarvi alla polizia segreta. Il lungo incubodegli scontri, il rumore, la mancanza di cibo e di sonno, il logorio misto alla noia distarmene seduto su un tetto a chiedermi se da un momento all’altro qualcuno miavrebbe sparato o se invece sarei stato io costretto a sparare a qualcuno mi avevanofatto venire i nervi a fior di pelle. Ero arrivato al punto che ogni volta che una portasbatteva facevo per impugnare la pistola. Il sabato mattina ci fu un’improvvisa salvadi spari in strada e tutti gridarono: «Ecco che si ricomincia!». Corsi fuori e scoprii chesi trattava solo di alcune Guardie d’Assalto valenciane che abbattevano un canerabbioso. Nessuno che si sia trovato a Barcellona in quel periodo o nei mesisuccessivi dimenticherà mai l’orribile atmosfera creata da paura, sospetto, odio,giornali censurati, prigioni traboccanti, code sterminate per procurarsi il cibo ebande di uomini armati in giro per le strade.

Ho tentato di rendere un po’ l’idea di cosa si provava a stare in mezzo agli scontridi Barcellona; eppure non credo di esser riuscito a esprimere gran parte dellastranezza di quel periodo. Una delle cose che mi rimane più impressa quando ciripenso sono i contatti casuali avuti all’epoca; la vista improvvisa di non combattentiper i quali l’intera faccenda era un’esplosione senza alcun senso. Ricordo unasignora vestita elegantemente che ho visto camminare lungo le Ramblas, con unasporta della spesa sottobraccio e un barboncino bianco al guinzaglio, mentre lefucilate rimbombavano e sibilavano a una o due traverse di distanza. È possibile chefosse sorda. Oppure l’uomo che ho visto correre in mezzo alla plaza de Cataluñadeserta sventolando un fazzoletto bianco in ciascuna mano. O il nutrito gruppo dipersone tutte vestite di nero che per oltre un’ora hanno cercato di attraversare lastessa piazza senza mai riuscirci. Ogni volta che spuntavano dall’angolo della

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traversa, i mitraglieri dell’Hotel Colón aprivano il fuoco e li ricacciavano indietro –non so perché, visto che era evidente che erano tutti disarmati. Ho poi pensato che sidovesse trattare di un gruppo di persone che partecipavano a un funerale. Ol’ometto che lavorava come custode del museo sopra il Poliorama e che parevaconsiderare tutta quella storia come un’occasione mondana. Era così compiaciutoche gli inglesi lo andassero a trovare – gli inglesi erano così simpáticos, diceva.Sperava tanto che lo andassimo a trovare ancora quando gli incidenti fossero finiti; ein effetti io sono tornato a fargli visita. Oppure l’altro ometto che aveva trovatorifugio in un portone e che, indicando compiaciuto con la testa l’inferno di spari cheproveniva da plaza de Cataluña, disse: «E così siamo tornati al 19 luglio!» comestesse facendo un commento sulla bella mattinata. O la gente che lavorava nellacalzoleria dove stavano facendo i miei scarponi. Ci ero andato prima e dopo checominciassero gli scontri, ma anche, per qualche minuto, durante il breve armistiziodel 5 maggio. Era un negozio molto caro e tutto il personale era dell’UGT, forse anchemembri del PSUC – insomma, politicamente stavano dall’altra parte e sapevano cheio prestavo servizio nel POUM – però il loro atteggiamento era completamenteindifferente a questo aspetto. «Che peccato, questa roba, vero? Ed è un brutto colpoper gli affari. Peccato che non smettano! Come se non bastasse tutto quel macello alfronte!» eccetera eccetera. Ci devono essere state un sacco di persone, forse lamaggioranza degli abitanti di Barcellona, che consideravano tutta questa storia senzaun barlume d’interesse, o con un interesse non maggiore di quello che avrebberoprovato nei confronti di un’incursione aerea.

In questo capitolo ho descritto solo le mie esperienze personali e dirette.Nell’Appendice II discuterò come meglio posso i problemi più ampi – quello che èaccaduto in realtà e con quali conseguenze, i torti e le ragioni dell’intera faccenda echi poteva ritenersi responsabile. Sugli scontri di Barcellona sono state fatte tante diquelle speculazioni politiche che mi pare importante cercare di ottenerne una visioneequilibrata e d’insieme. Moltissimo, abbastanza da riempire parecchi volumi, è statogià scritto sull’argomento e non credo di esagerare se affermo che nove decimi diquello che è stato scritto non corrisponde alla verità. Quasi tutti gli articoli pubblicatiall’epoca sono stati stesi da giornalisti lontani dai luoghi degli scontri e non sonosolo imprecisi nei fatti, ma addirittura intenzionalmente distorti. Come al solito si èpermesso che solo un aspetto del problema arrivasse a un pubblico più ampio. Cometutti quelli che erano presenti a Barcellona in quel periodo, ho assistito solo a quelloche accadeva nelle mie immediate vicinanze, ma ho visto e sentito abbastanza peressere in grado di smentire gran parte delle bugie che sono circolate in proposito.

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X

Deve esser stato tre giorni dopo la fine degli scontri di Barcellona che facemmoritorno al fronte. Dopo quegli scontri – e in particolare dopo lo scambio di insulti ecalunnie sui giornali – era molto difficile pensare a quella guerra nella stessa manieraingenua e idealistica di prima. Secondo me non c’è nessuno che abbia passatoqualche settimana in Spagna senza esserne rimasto in qualche modo deluso. Mitorna in mente il corrispondente estero che avevo incontrato appena arrivato aBarcellona e che mi aveva detto: «Questa guerra è un gran bordello proprio comeogni altra guerra». Quell’osservazione mi aveva sconvolto profondamente e,all’epoca (a dicembre), non credevo fosse vera; non era vera neanche a maggio; mapian piano lo stava diventando sempre più. Il fatto è che ogni guerra subisce unasorta di progressiva degradazione col passare dei mesi, perché cose come la libertàindividuale e una stampa veritiera sono semplicemente incompatibili con l’efficienzamilitare.

Ormai si poteva cominciare a tirare a indovinare su quello che sarebbe potutosuccedere in seguito. Era facile prevedere che il governo Caballero sarebbe caduto esarebbe stato sostituito da un esecutivo spostato a destra e con un’ancor più forteinfluenza comunista (e infatti questo accadde una o due settimane dopo) che sisarebbe impegnato a spezzare il potere dei sindacati una volta per tutte. In seguito,una volta sconfitto Franco – tralasciando gli enormi problemi posti dal doverriorganizzare il paese – le prospettive non erano certo rosee. Quanto alla retoricapropinata dai giornali sul fatto che questa “era una guerra per la democrazia” sitrattava chiaramente di fumo negli occhi. Nessuno con un minimo di cervello potevapensare che ci fosse speranza di instaurare un regime democratico, nemmeno nelsenso in cui lo intendiamo in Inghilterra o in Francia, in un paese così diviso edesausto come sarebbe stata la Spagna alla fine della guerra. Doveva per forza esserciuna dittatura ed era chiaro che la possibilità di una dittatura operaia era ormaisvanita. Questo significava che la tendenza generale sarebbe stata in direzione di unaqualche forma di fascismo. Un fascismo chiamato senza dubbio con un nome piùdelicato e – dato che qui si tratta della Spagna – più umano e meno efficiente dellasua versione tedesca o italiana. Le uniche altre alternative erano o un’infinitamentepeggiore dittatura franchista, o la possibilità (sempre presente) che la guerra sarebbefinita con la Spagna divisa da vere e proprie frontiere o perlomeno in zoneeconomiche d’influenza.

Da qualsiasi punto di vista la si guardasse, la prospettiva era deprimente. Ma nonse ne poteva trarre la conclusione che non valesse la pena combattere a favore delgoverno e contro il più scoperto e sviluppato fascismo di Franco e di Hitler. Perquanti difetti il governo postbellico avrebbe potuto avere, un regime franchistasarebbe stato certamente peggiore. Per i lavoratori – il proletariato urbano –chiunque avesse vinto alla fine probabilmente non avrebbe fatto molta differenza;ma, essendo la Spagna un paese soprattutto agricolo, i contadini avrebbero

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sicuramente tratto vantaggio da una vittoria del governo. Almeno una parte delleterre occupate sarebbero rimaste in loro possesso, nel qual caso ci sarebbe stataanche una distribuzione di terre nelle zone ora sotto Franco, e perlomeno la schiavitùvirtuale che era esistita in alcune parti della Spagna non sarebbe stata ristabilita. Ilgoverno che avrebbe assunto il controllo alla fine della guerra sarebbe stato in ognicaso anticlericale e antifeudale. Avrebbe tenuto a bada la Chiesa, almeno per ilmomento, e avrebbe modernizzato il paese – costruito strade, per esempio,promosso l’istruzione e la sanità pubblica; una certa quantità di iniziative in questadirezione erano state portate avanti anche nel corso della guerra. Dall’altra parteFranco, nella misura in cui non era un semplice burattino dell’Italia e dellaGermania, era legato ai grandi proprietari terrieri feudali e rappresentava lasoffocante reazione clerico-militare. Il Fronte Popolare poteva anche essere unatruffa, ma Franco era sicuramente un anacronismo. Solo milionari o romanticipotevano volere la sua vittoria.

Inoltre c’era il problema del prestigio internazionale di cui godeva il fascismo, unaquestione che da un paio di anni ormai mi ossessionava come un incubo. Dal 1930 inpoi il fascismo non aveva ottenuto altro che vittorie; era ora che prendesse unabatosta, non importava molto da chi. Se fossimo riusciti a ricacciare in mare Franco ei suoi mercenari stranieri la cosa avrebbe avuto uno straordinario effetto dimiglioramento sulla situazione mondiale, anche al prezzo di far finire la Spagnasotto una soffocante dittatura e con tutti i suoi uomini migliori in galera. Anche sesolo per quello, la guerra valeva la pena vincerla.

Ecco dunque come vedevo le cose all’epoca. Posso aggiungere che ora ho unamigliore opinione nei confronti del governo Negrín rispetto a quella che ne avevoquando entrò in carica. È riuscito a sostenere un conflitto difficile con splendidocoraggio e ha mostrato più tolleranza politica di quanta ci si potesse aspettare. Peròio sono ancora convinto che – a meno che la Spagna non si spacchi, nel qual caso leconseguenze sono imprevedibili – la tendenza del governo postbellico deve per forzaessere fascisteggiante. Ribadisco ancora una volta che mantengo questa miaconvinzione e corro il rischio che il tempo farà a me quello che fa alla maggior partedei profeti.

Eravamo appena tornati al fronte quando ci giunse la notizia che Bob Smillie, chestava tornando in Inghilterra, era stato arrestato alla frontiera, riportato a Valencia emesso in galera. Smillie era in Spagna sin dall’ottobre precedente. Per diversi mesiaveva lavorato negli uffici del POUM, poi si era arruolato nella milizia appena eranoarrivati gli altri membri dell’ILP, con l’intesa che avrebbe passato tre mesi al fronteprima di tornare in Inghilterra per un giro di propaganda. Ci volle un po’ di tempoprima che riuscissimo a scoprire il motivo del suo arresto. Lo tenevanoincommunicado, cosicché neanche un avvocato poteva vederlo. In Spagna non vige,perlomeno in pratica, il principio dell’habeas corpus e quindi si può essere tenuti inprigione per mesi di fila senza neanche essere accusati, figuriamoci poi processati.Alla fine riuscimmo a sapere da uno uscito di galera che Smillie era stato arrestatoper “trasporto di armi”. Guarda caso io sapevo benissimo che le “armi” in questioneerano due bombe a mano del tipo molto rudimentale usato all’inizio della guerra chelui voleva portarsi a casa per esibirle nel corso delle sue conferenze, insieme aschegge di granata e ad altri souvenir. Le cariche esplosive e gli inneschi erano statirimossi da quelle bombe e pertanto non erano che dei cilindri d’acciaiocompletamente innocui. Era evidente che si trattava solo di un pretesto e che in

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realtà lo avevano arrestato per i suoi noti collegamenti con il POUM. Gli scontri diBarcellona erano appena cessati e in quel momento le autorità si preoccupavanomolto di non lasciar uscire dalla Spagna chiunque fosse in grado di contraddire laversione ufficiale. Di conseguenza era possibile essere arrestati alla frontiera sullabase di pretesti più o meno banali. È del tutto probabile che all’inizio l’intenzionefosse quella di trattenere Smillie solo per pochi giorni. Ma il guaio è che in Spagna,una volta che si finisce in galera, in genere vi si resta, con o senza processo.

Eravamo ancora sul fronte di Huesca, ma ci avevano spostato un po’ più a destra,di fronte alla ridotta fascista che avevamo temporaneamente conquistato qualchesettimana prima. Ora fungevo da teniente – grado corrispondente a quello di second-lieutenant dell’esercito inglese, credo – al comando di una trentina di soldati, inglesi espagnoli. Ero stato proposto per la nomina a ufficiale effettivo; se me l’avrebberoconcessa o meno, non si sapeva ancora. In precedenza gli ufficiali della miliziaavevano sempre rifiutato i galloni regolari, che volevano dire una paga più alta econtrastavano con i loro ideali egualitari, ma ora erano costretti ad accettarli.Benjamin aveva già ricevuto il grado di capitano e Kopp era in procinto di riceverequello di maggiore. Naturalmente il governo non poteva fare a meno degli ufficialidella milizia, ma non aveva neanche intenzione di confermarne nessuno a un gradopiù alto di quello di maggiore, presumibilmente al fine di riservare i più alti gradi dicomando per gli ufficiali dell’esercito regolare e i neodiplomati dalla Scuola diGuerra. Di conseguenza nella nostra divisione, la 29ª, e senza dubbio anche in moltealtre, si assisteva alla bizzarra situazione temporanea per cui il comando didivisione, quello di brigata e quello di battaglione erano tutti detenuti da maggiori.

Sul fronte non succedeva granché. La battaglia attorno alla strada di Jaca s’eraspenta e non sarebbe ricominciata fino alla metà di giugno. Nella nostra posizione ilproblema principale era rappresentato dai cecchini. Le trincee fasciste erano distantipiù di centocinquanta metri, ma si trovavano su un terreno più elevato e su entrambii lati, dato che le nostre linee formavano un saliente ad angolo retto. Proprio la puntadel saliente era un luogo pericoloso in cui i franchi tiratori avevano sempre fatto unalto numero di vittime. Di tanto in tanto i fascisti aprivano il fuoco contro di noi conun lanciagranate o qualche arma del genere. Faceva un boato spaventoso – snervanteperché non lo si sentiva arrivare e quindi non si poteva neanche schivare – ma nonera molto pericoloso; il buco che faceva per terra non era più grande di un catino. Lenotti erano piacevolmente tiepide, ma di giorno faceva un caldo terribile, le zanzarecominciavano a dare fastidio e nonostante i vestiti puliti che ci eravamo portati daBarcellona quasi subito ci riempimmo di nuovo di piattole. Laggiù nei fruttetiabbandonati nella terra di nessuno le ciliegie impallidivano sui rami. Per due giornici furono piogge torrenziali, i rifugi sotterranei si allagarono e il parapetto si abbassòdi trenta centimetri; dopodiché ci furono altre giornate passate a scavare nella cretaappiccicosa con quelle maledette vanghe spagnole senza appoggio per la mano e chesi piegano come cucchiai di latta.

Ci avevano promesso un mortaio da trincea per la compagnia; non vedevo l’orache arrivasse. Di notte facevamo i soliti pattugliamenti – anche se erano piùpericolosi d’una volta perché le trincee fasciste erano meglio presidiate ed eranodiventati anche più attenti; avevano sparso lattine appena fuori il filo spinato eappena sentivano il minimo tintinnio aprivano il fuoco con le mitragliatrici. Digiorno anche noi facevamo cecchinaggio dalla terra di nessuno. Se si strisciava perun centinaio di metri si arrivava a un fosso, nascosto dall’erba alta, da cui si

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dominava un varco nel parapetto fascista. Avevamo sistemato un appoggio perfucile nel fosso. Se si aspettava abbastanza a lungo di solito si riusciva a vedere unasagoma vestita color cachi attraversare di corsa il varco. Sparai diverse volte. Non sose ho mai colpito qualcuno, ma è molto improbabile: non sono un gran tiratore con ilfucile. Ma era piuttosto divertente, i fascisti non sapevano da che parte arrivavano icolpi e io ero abbastanza sicuro che ne avrei beccato uno prima o poi. E invece, comesi dice, chi la fa l’aspetti: 8 fui io a esser beccato da un cecchino fascista. Accaddequando ero al fronte da dieci giorni. L’esperienza di esser colpito da una pallottola èpiuttosto interessante e credo che meriti d’essere descritta nel dettaglio.

Mi trovavo all’angolo del nostro parapetto alle cinque di mattina. Quella erasempre un’ora pericolosa, perché l’alba sorgeva alle nostre spalle e se si alzava latesta al di sopra del parapetto si stagliava netta contro il cielo. Stavo parlando allesentinelle prima del cambio della guardia. All’improvviso, nel bel mezzo di unafrase, sentii… è molto difficile descrivere quello che ho sentito, anche se ne ho unricordo nitidissimo.

Grosso modo era la sensazione di trovarsi al centro di un’esplosione. Mi parve checi fosse un forte scoppio e un lampo di luce accecante tutt’intorno a me, poi avvertiiuna tremenda scossa – non dolore, solo una scossa violentissima, tipo quelle che siprendono da un filo elettrico scoperto; e insieme alla scossa una sensazione diassoluta debolezza, l’impressione di esser colpito e ridotto in nulla. I sacchetti disabbia davanti a me si allontanarono immensamente. Immagino che ci si debbasentire in maniera molto simile quando si è colpiti da un fulmine. Mi resi subitoconto di esser stato colpito, ma a causa del botto e del lampo credevo che il colpofosse partito per sbaglio da un fucile vicino e io ne fossi stato investito. Tutto questoaccadde in una frazione di tempo molto inferiore al secondo. Subito dopo mi sipiegarono le ginocchia e caddi sbattendo la testa per terra con un urto che con miogrande sollievo non avvertii. Ero immerso in una sensazione ovattata e stupefatta,una consapevolezza di esser ferito molto gravemente, ma senza alcun dolore nelsenso comune della parola.

La sentinella americana con cui stavo parlando era scattata in avanti. «Perbacco!Sei ferito?» La gente si raccolse attorno a me. Ci fu il solito scompiglio – «Sollevatelo!Dov’è ferito? Apritegli la camicia!» eccetera eccetera. L’americano chiedeva uncoltello per tagliare la camicia. Io sapevo di averne uno in tasca e feci per prenderlo,ma mi resi conto che avevo il braccio destro paralizzato. Non sentendo alcun dolore,provai un vago senso di soddisfazione. Questo dovrebbe far piacere a mia moglie,pensai; aveva sempre voluto che rimanessi ferito, perché così avrei salvato la pellequando fosse arrivata la grande battaglia. Fu solo a questo punto che mi venne dachiedermi dove ero stato colpito e quanto era grave la ferita; non sentivo niente, mami rendevo conto che la pallottola mi aveva preso da qualche parte sul davanti delcorpo. Quando provai a parlare scoprii di non avere più voce, solo un fioco squittio,ma al secondo tentativo riuscii a chiedere dove ero stato colpito. Alla gola, midissero. Harry Webb, il nostro barelliere, aveva portato una benda e una dellebottigliette di alcol che ci davano per disinfettare le ferite sul campo. Appena misollevarono, mi uscì parecchio sangue dalla bocca e sentii uno spagnolo alle miespalle dire che il proiettile mi aveva attraversato il collo da parte a parte. Sentii l’alcolschizzare sulla ferita con una piacevole sensazione di freschezza laddovenormalmente avrebbe bruciato come l’inferno.

Mi rimisero a terra mentre qualcuno andava a prendere una barella. Non appena

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mi resi conto che la pallottola mi aveva trapassato il collo da parte a parte diedi perscontato che ormai ero spacciato. Non avevo mai sentito di un uomo o di un animaleche fosse sopravvissuto a una pallottola che gli aveva trafitto la gola. Il sanguecontinuava a uscirmi dall’angolo della bocca. “L’arteria è partita” pensai. Michiedevo quanto si potesse resistere con la carotide recisa; non molti minuti,presumevo. Tutto mi pareva molto sfocato. Per almeno due minuti pensai che miavessero ucciso. E anche quello fu molto interessante – voglio dire, è interessantesapere che cosa si pensa in quei momenti. Il mio primo pensiero, abbastanzaconvenzionalmente, fu per mia moglie. Il secondo fu un violento risentimento perdover lasciare questo mondo in cui, tutto sommato, sto più che bene. Ebbi il tempodi provare queste emozioni in modo molto vivido. Lo stupido incidente mi mandòsu tutte le furie. Era così privo di senso! Essere fatto fuori non in battaglia, ma inquesto angolo morto delle trincee, a causa di un attimo di disattenzione! Pensaianche all’uomo che mi aveva sparato – mi chiesi che aspetto aveva, se era spagnolo ostraniero, se sapeva di avermi beccato e così via. Non riuscii a provare risentimentonei suoi confronti. Riflettei che, essendo lui fascista, anch’io l’avrei ucciso se avessipotuto, ma che se fosse stato preso prigioniero e portato davanti a me in quelmomento mi sarei limitato a congratularmi con lui per la mira. Forse, però, se unostesse veramente in punto di morte i suoi pensieri sarebbero completamente diversi.

Mi avevano appena steso sulla barella quando il mio braccio paralizzato tornò invita e cominciò a farmi un male del diavolo. All’epoca immaginai che dovevoessermelo rotto nel cadere; ma il dolore in qualche modo mi rassicurò, perché sapevoche quando si sta per morire le percezioni non si fanno così acute. Cominciai asentirmi più normale e a provare dispiacere per i quattro poveri diavoli chesudavano e camminavano a fatica con la barella sulle spalle. Per arrivareall’ambulanza ci volevano quasi due chilometri e non era certo un percorso facile susentieri scivolosi e pieni di buche. Sapevo bene che faticaccia si doveva fare, perchéuno o due giorni prima anch’io avevo aiutato a portare giù un ferito. Le foglieargentee dei pioppi che in alcuni punti bordavano le nostre trincee mi sfioravano lafaccia; pensai a quant’era bello vivere in un mondo dove crescono i pioppi. Ma pertutto il tempo il dolore al braccio era terribile, e mi faceva bestemmiare e poi cercaredi non bestemmiare, perché ogni volta che respiravo con più forza il sangue miusciva gorgogliando dalla bocca.

Il medico mi rifasciò la ferita, mi fece un’iniezione di morfina e mi spedì aSiétamo. L’ospedale di Siétamo consisteva in un gruppo di baracche di legnocostruite in gran fretta in cui di solito i feriti erano tenuti per qualche ora prima diessere trasferiti a Barbastro o a Lérida. Io ero ancora intontito dalla morfina, macontinuavo a sentire parecchio dolore, praticamente non mi potevo muovere einghiottivo continuamente sangue. In maniera del tutto tipica dei metodi ospedalierispagnoli, mentre mi trovavo in questo stato, un infermiere niente affattoprofessionista cercò di costringermi a mangiare il rancio regolamentare – unabbondante pasto consistente di minestra, uova, uno stufato untuoso e così via – eparve sorpreso che io non lo volessi. Gli chiesi una sigaretta, ma eravamo in uno deiperiodi di carestia di tabacco e non si trovava una sigaretta in tutto l’ospedale. Pocodopo due compagni che avevano avuto il permesso di lasciare la prima linea perqualche ora apparvero al mio capezzale.

«Salve! Sei ancora vivo, eh? Bene. Vogliamo il tuo orologio, la rivoltella e la torciaelettrica. E anche il coltello, se ne hai uno.»

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Se ne andarono con tutti i miei beni mobili. Questo succedeva sempre quando siera feriti: tutto quel che si possedeva era subito diviso tra i compagni; era giusto così,perché orologi, rivoltelle e roba del genere erano oggetti molto preziosi al fronte e searrivavano nelle retrovie nello zaino del ferito era sicuro che prima o poi sarebberostati rubati.

Verso sera erano arrivati abbastanza feriti e malati da riempire le ambulanze e citrasferirono a Barbastro. Che viaggio! Si diceva che in questa guerra andava bene sesi era feriti alle estremità, ma che di una ferita all’addome si finiva sempre permorire. Ora mi rendevo conto del perché. Nessuno che fosse soggetto aun’emorragia interna sarebbe riuscito a sopravvivere a quel viaggio su chilometri distrade durissime che erano state fatte a pezzi dagli automezzi pesanti e mai riparatedall’inizio della guerra. Bum, batabum, batabam! Mi fece rivenire in mente unricordo della mia prima infanzia, un terribile gioco chiamato Wiggle-Woggle al lunapark di White City. Si erano anche dimenticati di assicurarci alle barelle. Per fortunaavevo ancora abbastanza forza nel braccio sinistro per sostenermi, ma un poverodisgraziato fu sbalzato sul pianale e Dio solo sa quello che ha dovuto soffrire. Unaltro, in grado di camminare e che se ne stava seduto in un angolo dell’ambulanza,vomitò un po’ dappertutto. L’ospedale di Barbastro era molto affollato, i letti cosìravvicinati che quasi si toccavano. Il mattino dopo caricarono un certo numero di noiferiti su un treno-ospedale e ci mandarono a Lérida.

Rimasi a Lérida cinque o sei giorni. Era un grande ospedale, con malati, feriti, maanche pazienti civili, più o meno tutti mischiati insieme. Alcuni degli uomini nel miopadiglione avevano ferite spaventose. Nel letto accanto al mio c’era un giovanottodai capelli neri che soffriva di una qualche malattia e a cui somministravano unamedicina che gli faceva urinare un liquido verde smeraldo. Il suo pappagallo era unodegli spettacoli della corsia. Un comunista olandese, che parlava inglese, appenasentì dire che c’era un inglese nell’ospedale fece amicizia con me e mi portavagiornali inglesi. Aveva ricevuto una terribile ferita nei combattimenti di ottobre e inqualche modo era riuscito a sistemarsi nell’ospedale di Lérida, sposando anche unadelle infermiere. A causa delle ferite ricevute, una delle gambe gli si era rinsecchitaal punto che non era più spessa del mio braccio. Due miliziani in licenza, che avevoincontrato nella mia prima settimana al fronte e che erano venuti a trovare un amicoferito, mi riconobbero. Erano ragazzini sui diciotto anni. Rimasero imbarazzati inpiedi accanto al mio letto, sforzandosi di trovare qualcosa da dire e poi, perdimostrare quanto gli dispiaceva che fossi stato ferito, all’improvviso presero tutto iltabacco che avevano in tasca, me lo diedero e scapparono via prima che potessirestituirglielo. Tipico comportamento spagnolo. Scoprii in seguito che non si riuscivaa comprare una briciola di tabacco in tutta la città e che mi avevano dato la lorointera razione settimanale.

Dopo qualche giorno riuscii ad alzarmi e ad andare in giro con il braccio al collo.Chissà perché faceva molto più male se pendeva inerte. Per il momento soffrivoanche parecchio per i danni riportati nella caduta e la mia voce era praticamentesparita del tutto, ma non sentii mai alcun dolore per la ferita della pallottola. Sembrache succeda sempre così. Il tremendo colpo che si riceve dal proiettile priva tutta lazona di ogni sensibilità; una scheggia di granata o di bomba, che è irregolare e disolito colpisce con molto minore violenza, probabilmente farebbe un male deldiavolo. L’ospedale aveva un bellissimo giardino in cui c’era una vasca con i pescirossi e altri pesciolini grigioscuri – alborelle, credo. Passavo ore e ore seduto lì a

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guardarli. Il modo in cui facevano le cose a Lérida mi fece capire parecchio sulfunzionamento del sistema ospedaliero sul fronte aragonese – non so se sugli altrifronti fosse lo stesso. In un certo senso gli ospedali erano molto buoni. I dottori eranopersone in gamba e non pareva esserci penuria di medicinali e attrezzature. Mac’erano due grossi difetti a causa dei quali, non nutro dubbi in proposito, centinaia omigliaia di uomini che potevano essere salvati sono invece morti.

Il primo è che tutti gli ospedali vicini alla linea del fronte erano usati più o menocome centri di smistamento dei feriti. Il risultato era che lì non si ricevevapraticamente alcuna cura a meno che non si fosse feriti così gravemente da non poteressere spostati. In teoria la maggior parte dei feriti erano spediti a Barcellona o aTarragona, ma a causa della scarsità dei mezzi di trasporto ci voleva spesso unasettimana o dieci giorni per arrivarci. Così i feriti erano tenuti sospesi a Siétamo, aBarbastro, a Monzón, a Lérida e in altri posti e in tutto questo tempo non ricevevanoalcuna cura se non, a volte, una fasciatura pulita e in qualche caso neanche quella.Uomini con terribili ferite provocate dalle granate, con ossa sbriciolate e così via,erano avvolti in una specie di involucro fatto di bende e gesso; una descrizione dellaferita veniva scritta a matita su questo involucro che di solito non veniva rimossofino a quando il ferito non arrivava a Barcellona o a Tarragona dieci giorni dopo. Eraquasi impossibile farsi esaminare la ferita durante il tragitto; i pochi medici nonarrivavano a fare tutto quello che c’era da fare e si limitavano a passarci di corsaaccanto al letto dicendo: «Sì, sì, appena arrivati a Barcellona si occuperanno di voi».Circolavano sempre voci che il treno-ospedale sarebbe partito per Barcellona mañana.L’altro grosso difetto era la mancanza di personale infermieristico competente.Apparentemente in Spagna non c’è modo di procurarsi infermiere professionali,forse perché prima della guerra questo lavoro era svolto esclusivamente da suore. Ionon posso lamentarmi delle infermiere spagnole, mi hanno sempre trattato conestrema gentilezza, ma non c’è alcun dubbio che fossero terribilmente incompetenti.Sapevano tutte misurare la febbre ai pazienti e alcune perfino sistemare unafasciatura, ma poi praticamente si fermavano lì. Il risultato era che uomini troppomalati per cavarsela da soli erano spesso vergognosamente trascurati. Le infermierelasciavano che uno rimanesse costipato per una settimana intera e raramentelavavano chi era troppo debole e non riusciva a lavarsi da solo. Ricordo un poverodiavolo con il braccio a pezzi che mi disse che erano tre settimane che nessuno glilavava la faccia. Perfino i letti non venivano rifatti per giorni e giorni. Il vitto in tuttigli ospedali era molto buono – anche troppo, in realtà. In Spagna più che in altriposti la tradizione sembrava essere quella di rimpinzare i pazienti di cibi abbastanzapesanti. A Lérida i pasti erano abbondanti. La colazione, verso le sei di mattina,consisteva di minestra, frittata, stufato, pane, vino bianco e caffè; il pranzo era ancorapiù abbondante: e tutto questo in un periodo in cui gran parte della popolazionecivile era gravemente denutrita. Gli spagnoli non sembrano riconoscere che esistequalcosa come una dieta leggera. Danno le stesse cose da mangiare a malati e sani,senza distinzione: sempre la stessa cucina ricca, grassa, ogni cosa imbevuta d’oliod’oliva.

Una mattina ci fu annunciato che gli uomini nel mio padiglione sarebbero statitrasferiti quel giorno stesso a Barcellona. Riuscii a mandare un telegramma a miamoglie, informandola che sarei arrivato presto, e subito dopo ci caricarono su degliautobus e ci portarono alla stazione. Fu solo quando il treno stava partendo chel’inserviente che viaggiava con noi si lasciò sfuggire che dopo tutto non saremmo

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andati a Barcellona bensì a Tarragona: immagino che il macchinista avesse cambiatoidea. “Tipico della Spagna!” pensai. Ma fu molto spagnolo anche il fatto cheacconsentirono a rimandare la partenza finché non avessi spedito un altrotelegramma, e ancor più spagnolo che questo non arrivò mai a destinazione.

Ci avevano sistemato in normali vagoni di terza classe, con i sedili di legno, emolti degli uomini, feriti gravi, erano scesi dal letto solo quella mattina. Poco dopo,un po’ per il caldo, un po’ per gli scossoni, metà di loro erano sull’orlo di un collassoe parecchi vomitavano sul pavimento. L’inserviente si aggirava tra le sagomecadaveriche disseminate un po’ dappertutto, portando un grosso otre di pelle dicapra pieno d’acqua che schizzava ora in una bocca ora in un’altra. Era un’acquacattivissima; ne ricordo ancora l’orribile sapore. Arrivammo a Tarragona che il solestava calando. La linea ferroviaria costeggia la spiaggia a un tiro di schioppo dalmare. Mentre il nostro treno entrava in stazione, una tradotta piena di truppe dellaColonna Internazionale ne stava uscendo e un capannello di gente sopra un ponte lastava salutando. Era un treno molto lungo, carico di uomini fin quasi a scoppiare,con pezzi da campagna legati ai pianali scoperti e ancora altri soldati affollati attornoai cannoni. Ricordo con particolare vivezza lo spettacolo di quel treno che passavanella luce gialla della sera; finestrino dopo finestrino di visi scuri e sorridenti, lelunghe canne inclinate dei cannoni, le sciarpe rosse che sventolavano – il tuttoscivolava accanto a noi contro lo sfondo di un mare color turchese.

«Extranjeros» disse qualcuno. «Sono italiani.»Era chiaro che fossero italiani. Nessun altro sarebbe riuscito a stare insieme in

maniera così pittoresca o a restituire il saluto alla folla con tanta grazia – una graziache non era intaccata dal fatto che metà degli uomini sul treno bevevano a garganellada bottiglie di vino. Sentimmo dire in seguito che questi erano alcuni degli uominiche a marzo avevano conseguito la grande vittoria a Guadalajara; erano stati inlicenza e ora venivano trasferiti sul fronte aragonese. La maggior parte di loro, temo,fu uccisa davanti a Huesca solo qualche settimana più tardi. Sul nostro treno gliuomini che stavano abbastanza bene da reggersi in piedi erano andati ai finestriniper salutare gli italiani mentre ci passavano accanto. Una stampella fu agitata fuoridal finestrino; braccia bendate salutarono a pugno chiuso. Era una specie di quadroallegorico della guerra; un treno pieno di truppe fresche sfilava con orgoglio su unbinario, mentre sull’altro scivolavano piano i feriti e ogni tanto i cannoni sui pianalifacevano sobbalzare il cuore, come sempre fanno i cannoni, e rinnovavano quellaperniciosa impressione, di cui è così difficile sbarazzarsi, che dopotutto la guerra èveramente un’impresa gloriosa.

L’ospedale di Tarragona era molto grande e pieno di feriti provenienti da tutti ifronti. Che ferite si vedevano! C’era un modo di curare certe ferite che immaginofosse in sintonia con i più recenti metodi della medicina, ma che era particolarmenteorribile da vedere e cioè quello di lasciare la ferita completamente scoperta, senzabende, ma protetta dalle mosche da una retina di mussola tenuta tesa daun’armatura di fil di ferro. Attraverso la mussola si vede benissimo la massa rossa egelatinosa di una ferita in via di guarigione. C’era un uomo ferito in volto e alla golache aveva la testa infilata in una specie di elmetto sferico di mussola; aveva la boccacucita e respirava attraverso un tubicino fissato in mezzo alle labbra. Povero diavolo,sembrava così solo, andava avanti e indietro e guardava tutti attraverso la suagabbia di mussola senza poter parlare. Rimasi tre o quattro giorni a Tarragona. Mistavano tornando le forze e un giorno, piano piano, riuscii a scendere fin sulla

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spiaggia. Era molto strano vedere che la vita al mare andava avanti come al solito; icaffè eleganti del lungomare erano affollati e grassi borghesi locali facevano il bagnoe prendevano il sole sulle sedie a sdraio come se per migliaia di chilometritutt’intorno non fosse in corso una guerra. Nondimeno, per puro caso, vidi anche unbagnante annegato, cosa che si sarebbe creduta impossibile in quel mare non moltoprofondo e dall’acqua tiepida.

Finalmente, otto o nove giorni dopo aver lasciato il fronte, mi visitarono la ferita.Nell’ambulatorio dove si esaminavano i nuovi casi, i medici armati di enormi cesoiefacevano a pezzi le corazze di gesso in cui gli uomini con le clavicole o le costolefrantumate erano stati rinchiusi nei punti di pronto soccorso a ridosso delle linee; dalcollo di quelle grandi e goffe corazze si vedevano spuntare facce ansiose e sudicie,con la barba di una settimana. Il medico, un trentenne efficiente e di bell’aspetto, mifece sedere su una sedia, mi afferrò la lingua con un pezzo di garza e la tirò fuori ilpiù possibile, poi mi cacciò uno specchietto da dentista giù per la gola e mi disse didire «Ah!». Continuò finché la lingua cominciò a sanguinarmi e gli occhi a riempirsidi lacrime, e mi disse che avevo una corda vocale paralizzata.

«Quando mi ritornerà la voce?» gli chiesi.«La voce? Oh, la voce non le tornerà più» rispose lui tutto allegro.A ogni modo si sbagliava, come si dimostrò in seguito. Per un paio di mesi circa

non riuscii a parlare se non poco più che bisbigliando, ma dopo quel periodo la vocemi ritornò normale quasi di colpo, avendo l’altra corda vocale “compensato” laperdita della compagna. Il dolore al braccio era dovuto al fatto che il proiettile avevalacerato un fascio di nervi dietro il collo. Era un dolore lancinante, come unanevralgia, e continuò a tormentarmi per quasi un mese, specialmente di notte,cosicché non riuscii a dormire molto. Le dita della mano destra erano anch’essesemiparalizzate. Ancora adesso, a cinque mesi di distanza, mi sento l’indice un po’intorpidito – un effetto ben strano, considerato che sono stato ferito al collo.

Nel suo piccolo la mia ferita divenne una curiosità e vari dottori la esaminarono,facendo schioccare spesso la lingua ed esclamando «Qué suerte! Qué suerte!». Uno diloro, con aria di grave autorità, m’informò che la pallottola aveva mancato l’arteriadi «circa un millimetro». Non so come facesse a saperlo. Nessuna delle persone chemi videro in quel periodo – medici, infermieri, practicantes o compagni di corsia –trascurò di assicurarmi che un uomo che ha la gola trapassata e sopravvive è lacreatura più fortunata della terra. Da parte mia non riuscivo a fare a meno di pensareche sarei stato ancor più fortunato se non fossi stato colpito affatto.

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XI

Durante le ultime settimane passate a Barcellona si avvertiva nell’aria una stranasensazione malevola – un’atmosfera di sospetto, timore, incertezza e odio velato. Gliscontri di maggio avevano lasciato una scia di conseguenze difficili da eliminare.Con la caduta del governo Caballero i comunisti erano saliti definitivamente alpotere, il compito di mantenere l’ordine interno era stato rimesso ai ministricomunisti e nessuno dubitava più che avrebbero fatto a pezzi i loro rivali politiciappena avessero avuto la minima opportunità. Ancora non stava succedendo nientee neanch’io mi ero fatto un quadro mentale di quello che sarebbe successo; tuttaviac’era sempre una vaga sensazione di pericolo, la premonizione di qualcosa di bruttoche stava per accadere. Per quanto in pratica si facesse ben poco per complottare,l’atmosfera generale costringeva tutti a sentirsi un po’ cospiratori. Si aveval’impressione di passare tutto il tempo a tenere conversazioni a bassa voce negliangoli dei caffè e a chiedersi con ansia se la persona del tavolo accanto fosse o no unaspia della polizia.

Circolavano voci sinistre d’ogni genere, grazie alla censura sulla stampa. Una diqueste sosteneva che il governo Negrín-Prieto aveva in programma di raggiungereun compromesso per la fine della guerra. All’epoca ero disposto a crederci, perché ifascisti minacciavano già Bilbao e apparentemente il governo non stava facendonulla per salvare la città. Bandiere basche spuntarono dappertutto a Barcellona, neicaffè le ragazze facevano tintinnare scatole per la raccolta di fondi e c’erano le solitetrasmissioni radio sugli “eroici difensori”, ma in realtà i baschi non stavanoricevendo nessun aiuto concreto. La tentazione di credere che il governo stessefacendo il doppio gioco c’era. Gli eventi successivi hanno dimostrato che su questopunto mi sbagliavo, ma appare probabile che si sarebbe riusciti a salvare Bilbao sesolo si fosse dimostrata un po’ più di energia. Un’offensiva sul fronte aragonese,anche se senza successo, avrebbe obbligato Franco a stornare parte del suo esercito;in effetti, invece, il governo non lanciò offensive se non quando era ormai troppotardi – in verità solo al momento dell’effettiva caduta di Bilbao. La CNT distribuivaenormi quantità di volantini che dicevano: “State in guardia!”, in cui si insinuava che“un certo partito” (cioè i comunisti) stava preparando un colpo di stato. C’era inoltreun diffuso timore che anche la Catalogna sarebbe stata invasa. In precedenza,quando stavamo tornando al fronte, avevo visto le massicce difese che venivanoapprestate a parecchi chilometri di distanza dietro la linea del fronte, e a Barcellonasi stavano scavando nuovi rifugi a prova di bomba. C’erano frequenti timori dibombardamenti aerei e navali; il più delle volte si trattava di falsi allarmi, ma ognivolta che le sirene suonavano tutte le luci in città venivano completamente oscurateper ore, e i più timorosi si precipitavano negli scantinati. Gli informatori della poliziaerano dappertutto. Le prigioni erano ancora piene di detenuti arrestati in seguito agliscontri di maggio, ma anche altri – naturalmente sempre anarchici o aderenti alPOUM – continuavano a sparire in galera uno o due alla volta. A quanto si riusciva a

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capire, nessuno veniva mai processato e neanche accusato formalmente – neancheper un’imputazione circostanziata come quella di “trockijsmo”; si venivasemplicemente sbattuti in galera e tenuti lì, di solito nel più assoluto isolamento. BobSmillie era ancora detenuto a Valencia. Non riuscimmo a scoprire niente se non chené il rappresentante locale dell’ILP né l’avvocato che era stato nominato avevanoavuto il permesso di incontrarlo. I volontari stranieri della Colonna Internazionale edi altre milizie finivano in galera in numero sempre maggiore. Di solito eranoarrestati per diserzione. Un effetto tipico della situazione generale era che ormainessuno sapeva più con certezza se un miliziano era un volontario o un soldatoregolare. Qualche mese prima a tutti quelli che si arruolavano nelle milizie era statodetto che erano volontari e, se volevano, potevano ritirare i documenti del congedoogniqualvolta andavano in licenza. Adesso invece sembrava che il governo avessecambiato idea: un miliziano era come un soldato regolare ed era consideratodisertore se provava a tornarsene a casa. Ma anche su questo punto nessunosembrava esser sicuro. In alcuni settori del fronte le autorità concedevano ancoracongedi. Alla frontiera questi a volte erano riconosciuti come validi, altre volte no; ese non lo erano, si veniva subito sbattuti in galera. In seguito il numero di “disertori”stranieri in prigione aumentò enormemente, ma la maggior parte di loro furonorimpatriati quando i paesi di origine cominciarono a protestare.

Bande armate di Guardie d’Assalto valenciane pattugliavano le strade, mentrequelle locali occupavano ancora i caffè e altri edifici nei punti strategici, e molti degliedifici del PSUC erano ancora protetti da sacchetti di sabbia e barricate. In vari puntidella città c’erano posti di blocco presidiati da Guardie d’Assalto locali e daCarabineros che fermavano i passanti e controllavano i documenti. Tutti miraccomandarono di non mostrar loro la mia tessera di miliziano del POUM, ma solo ilmio passaporto e il certificato dell’ospedale. Perfino l’esser noto come qualcuno cheaveva prestato servizio nella milizia del POUM era vagamente rischioso. Miliziani delPOUM feriti o in licenza erano penalizzati in maniera abbastanza meschina – peresempio, era loro reso difficile ritirare la paga. «La Batalla» usciva ancora, ma eracensurato fin quasi a sparire del tutto; anche «Solidaridad» e gli altri giornalianarchici erano pesantemente censurati. C’era una nuova regola per cui le particensurate dei giornali non dovevano essere lasciate più in bianco, bensì riempite conaltre cose; quindi era spesso impossibile dire con sicurezza quando un articolo erastato tagliato.

La penuria di cibo, che aveva avuto alti e bassi per tutto il corso della guerra, erain una delle fasi peggiori. Il pane scarseggiava e nel tipo più economico la farina eratagliata con il riso; quello che i soldati ricevevano in caserma era robaccia chesembrava stucco. Il latte e lo zucchero erano molto rari e il tabacco praticamente nonc’era più, a parte le sigarette di contrabbando, molto costose. C’era una gravepenuria di olio d’oliva che gli spagnoli usano in una dozzina di modi diversi. Le filedi donne che aspettavano di acquistare olio d’oliva erano controllate da Guardied’Assalto a cavallo che a volte si divertivano a far arretrare i cavalli nella filatentando di far loro calpestare i piedi delle donne. Un altro dei fastidi secondari diquel periodo era la mancanza di spiccioli. L’argento era stato tutto ritirato e, dato chenon si erano ancora coniate nuove monete, non c’era niente tra i pezzi da diecicentesimi e il biglietto da due pesetas e mezzo, e anche le banconote sotto le diecipesetas erano molto rare. a Per la gente più povera questo voleva dire unaggravamento della carestia. Una donna che aveva solo una banconota da dieci

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pesetas nel borsellino poteva aspettare ore in fila davanti al droghiere e poi nonessere in grado di comprar nulla perché il negoziante non aveva il resto e lei non sipoteva permettere di spendere l’intera somma.

Non è facile descrivere l’atmosfera da incubo di quel periodo – il particolaredisagio prodotto dalla diffusione di voci che cambiavano in continuazione, daigiornali censurati e dalla costante presenza di uomini armati. Non è facile perchéattualmente in Inghilterra manca del tutto l’elemento essenziale a determinare taleatmosfera. In questo paese l’intolleranza politica non è ancora data per scontata. Sì,ci sono forme di persecuzione politica ma sono molto meschine; se fossi un minatorenon ci terrei a far sapere al padrone che sono comunista; ma la figura del “buonmembro di partito”, il gangster-grammofono della vita politica continentale, èancora una rarità in questo paese e l’idea di “liquidare” o “eliminare” chiunque nonsia d’accordo con te non sembra ancora naturale. Solo a Barcellona sembravaassolutamente naturale. Gli “stalinisti” erano al comando e perciò era del tuttonormale che ogni “trockijsta” fosse in pericolo. Quello che tutti temevano era unevento che, dopo tutto, non si verificò: un altro scoppio di incidenti nelle strade, lacui responsabilità, ancora una volta, sarebbe stata addossata al POUM e agli anarchici.Più di una volta mi sono sorpreso a tendere le orecchie per sentire i primi spari. Eracome se un’enorme e malvagia intelligenza dominasse cupa sull’intera città. Tutti sirendevano conto di questo stato di cose e lo commentavano. Ed era anche strano chetutti esprimessero la loro sensazione quasi con le stesse parole: «L’atmosfera qui èorribile. Sembra di stare in un manicomio». Ma forse non dovrei dire tutti. Alcuni deimiei compatrioti che hanno svolazzato rapidamente per la Spagna, passando da unalbergo all’altro, sembra non abbiano notato niente di strano nell’atmosfera generaledel paese. Vedo che la duchessa di Atholl, sul «Sunday Express» del 17 ottobre 1937,scrive:

Sono andata a Valencia, a Madrid e a Barcellona… un ordine perfetto regnava in tutte e tre le cittàsenza bisogno di alcuna dimostrazione di forza. Tutti gli alberghi in cui sono stata non solo erano“normali” e “dignitosi”, ma anche molto confortevoli, nonostante la scarsità di burro e caffè.

Evidentemente è una peculiarità dei viaggiatori inglesi quella di credere che al difuori degli alberghi eleganti non esista niente. Mi auguro che siano riusciti aprocurare del burro per la duchessa di Atholl.

Io stavo nel Sanatorio Maurín, uno di quelli gestiti dal POUM. Era in periferia,vicino al Tibidabo, il monte dalla strana forma che sorge immediatamente alle spalledella città e che tradizionalmente si pensa sia l’altura da cui Satana mostrò a Cristotutti i paesi della terra (perciò si chiama così). La villa era appartenuta in precedenzaa un ricco borghese ed era stata confiscata all’epoca della rivoluzione. La maggiorparte degli uomini che l’abitavano erano stati congedati dal fronte per invalidità oavevano ferite che li avevano mutilati in modo permanente – membra amputate eroba del genere. C’erano diversi altri inglesi: Williams con una gamba malandata,Stafford Cottman, un ragazzo di diciott’anni che era stato mandato qui dalle trinceecon un sospetto di tubercolosi, e Arthur Clinton, il cui braccio sinistro, spezzato inpiù punti, era ancora imprigionato in una di quelle enormi strutture di fil di ferrousate dagli ospedali spagnoli, soprannominate aeroplani. Mia moglie risiedevaancora all’Hotel Continental e di solito, durante il giorno, andavo a Barcellona. Lamattina frequentavo il Policlinico per sottopormi a trattamenti elettrici al braccio. Era

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una faccenda strana – una serie di pungenti scosse elettriche che stimolavano i varifasci di muscoli a saltellare su e giù – ma sembrava funzionare abbastanza; miritornò l’uso delle dita e il dolore si attenuò un po’. Entrambi avevamo deciso che lacosa migliore da fare era tornare in Inghilterra appena possibile. Ero ancora moltodebole, non avevo più voce (e a quanto pareva non l’avrei recuperata) e i dottori midicevano che nella migliore delle ipotesi ci sarebbero voluti diversi mesi prima chefossi in grado di tornare a combattere. Avrei pur dovuto ricominciare aguadagnarmi da vivere prima o poi, e restare in Spagna a mangiare il cibo di cuialtre persone avevano bisogno non sembrava certo la cosa più sensata da fare. Ma lemie motivazioni erano soprattutto egoistiche. Avevo una gran voglia di allontanarmida tutto: dall’orribile atmosfera di sospetto e di odio politico, dalle strade affollate diuomini armati, dagli allarmi aerei, dalle trincee, dalle mitragliatrici, dai tramstridenti, dal tè senza latte, dalla cucina oleosa e dalla penuria di sigarette – inpratica da quasi tutto quello che avevo imparato ad associare con la Spagna.

I medici del Policlinico mi avevano certificato inabile al servizio, ma per ottenereil congedo dovevo esser visitato da una commissione sanitaria di un ospedale vicinoal fronte e poi andare a Siétamo a farmi timbrare i documenti nel quartier generaledella milizia del POUM. Kopp era appena tornato dal fronte molto contento. Avevapartecipato alle ultime azioni e diceva che Huesca sarebbe stata finalmente presa. Ilgoverno aveva inviato truppe dal fronte di Madrid e stava concentrando trentamilauomini e un enorme numero di aeroplani. Gli italiani che avevo visto risalire la lineaferroviaria a Tarragona avevano attaccato la strada di Jaca, ma avevano subitopesanti perdite, tra cui due carri armati. A ogni modo la città era sul punto di cadere,diceva Kopp. (Ahimè, non era vero! L’attacco fu terribilmente pasticciato e non portòaltro che un’orgia di bugie sui giornali.) Nel frattempo Kopp doveva andare aValencia per un colloquio al ministero della Guerra. Aveva con sé una lettera dipresentazione del generale Pozas, che era a capo dell’esercito orientale – la solitalettera che descriveva Kopp come “una persona di tutta fiducia” e lo raccomandavaper un incarico speciale nel settore del genio (Kopp da civile era stato ingegnere). Luipartì per Valencia lo stesso giorno in cui io partii per Siétamo: il 15 giugno.

Ci vollero cinque giorni prima che facessi ritorno a Barcellona. RaggiungemmoSiétamo su un camion verso mezzanotte e appena arrivammo al quartier generaledel POUM ci misero in riga e ci distribuirono fucili e cartucce prima ancora dichiederci come ci chiamavamo. Pareva che l’attacco fosse imminente ed eraprobabile che mobilitassero le riserve da un momento all’altro. Io avevo in tasca ilcertificato dell’ospedale, ma non mi pareva bello rifiutarmi di andare con gli altri. Misdraiai a dormire sul pavimento, con una cassa di munizioni per cuscino, in unostato d’animo profondamente turbato. L’esser stato ferito aveva momentaneamentecompromesso il mio coraggio – credo che questo accada spesso – e la prospettiva diritrovarmi di nuovo sotto il fuoco mi spaventava tremendamente. A ogni modo,come al solito ci furono un po’ di mañanas da aspettare; alla fine non ci fecerointervenire, e il mattino dopo presentai il certificato medico e mi misi a caccia delmio congedo. La cosa comportò una serie di viaggi confusi e stancanti. Come alsolito mi fecero fare la spola da un ospedale all’altro – Siétamo, Barbastro, Monzón,poi di nuovo a Siétamo a farmi vistare il foglio di congedo, quindi di nuovo lungo lalinea ferroviaria via Barbastro e Lérida – e oltretutto la convergenza delle truppe suHuesca aveva monopolizzato ogni mezzo di trasporto e sconvolto qualsiasiorganizzazione. Ricordo di aver dormito in posti stranissimi – una volta in un letto

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di ospedale, ma poi anche in una cunetta, una volta su una panca molto stretta dacui caddi nel bel mezzo della notte e una volta anche in una specie di locandamunicipale a Barbastro. Se appena ci si allontanava dalla ferrovia non c’era modo diviaggiare se non saltando su qualche autocarro che passava per caso. Si dovevaaspettare in strada per ore, a volte anche tre o quattro ore di fila, insieme a capannellidi contadini sconsolati con fagotti pieni di anatre e conigli, che facevano segno a tuttii camion che passavano. Quando finalmente se ne incontrava uno che non era stipatodi soldati, pagnotte o casse di munizioni, i sobbalzi sopra quelle terribili stradefinivano per ridurre le persone in poltiglia. Nessun cavallo mi ha fatto sobbalzaretanto in alto quanto riuscivano a fare quei camion. L’unico modo di viaggiarci era distringersi tutti insieme e di aggrapparsi l’uno all’altro. Con mia grande umiliazionescoprii che ero ancora troppo debole per arrampicarmi sul cassone di un camionsenza essere aiutato.

Dormii una notte nell’ospedale di Monzón, dove passai la visita dellacommissione medica. Nel letto accanto al mio c’era una Guardia d’Assalto feritasopra l’occhio sinistro. Fu molto cordiale con me e mi offrì delle sigarette. Gli dissi:«A Barcellona ci saremmo presi a fucilate» e la cosa ci fece molto ridere. Era stranocome lo spirito generale sembrasse cambiare a mano a mano che ci si avvicinava allalinea del fronte. Quasi ogni sorta di odio e di risentimento tra i vari partiti politicisvaniva. In tutto il tempo che sono stato al fronte non ricordo mai nemmenoun’occasione in cui un aderente al PSUC abbia mostrato ostilità nei miei confrontiperché facevo parte del POUM. Quel genere di cose accadeva solo a Barcellona o inposti ancor più lontani dalla guerra. A Siétamo c’erano un sacco di Guardied’Assalto. Erano state inviate da Barcellona per prendere parte all’attacco finalecontro Huesca. Le Guardie d’Assalto non erano un corpo addestrato principalmenteper il combattimento in prima linea e molti di loro non erano mai stati sotto il fuoconemico prima di allora. A Barcellona erano signori e padroni delle strade, ma quinon erano altro che quintos (reclute, novellini) e facevano amicizia con i milizianiquindicenni che erano stati mesi in prima linea.

Nell’ospedale di Monzón il medico rifece la solita routine di tirarmi la lingua e dificcarmi uno specchietto in gola, mi assicurò con lo stesso tono allegro degli altri chela voce non mi sarebbe più tornata e mi firmò un altro certificato. Mentre aspettavodi esser visitato, nello stesso ambulatorio stavano eseguendo qualche terribileoperazione senza anestesia – perché non usassero anestetici lo ignoro. Sembrava nonfinire mai, un urlo dopo l’altro, e quando entrai vidi sedie sparse un po’ dappertuttoe il pavimento ricoperto da pozze di sangue e di urina.

Alcuni dettagli di quell’ultimo viaggio mi sono rimasti impressi nella mente concuriosa chiarezza. Ero in uno stato d’animo diverso, evidentemente, uno statod’animo che mi portava a osservare tutto con maggiore attenzione di quanto nonavessi fatto nei mesi precedenti. Avevo ottenuto il mio congedo, vidimato dal timbrodella 29ª divisione e il certificato medico in cui ero dichiarato “inabile”. Ero libero ditornarmene in Inghilterra e di conseguenza ero in grado, quasi per la prima volta, diguardare la Spagna da turista. Dovevo fermarmi un giorno a Barbastro perché c’eraun solo treno al giorno. In precedenza avevo avuto solo brevi squarci della vita diBarbastro e la città mi era sembrata semplicemente parte della guerra – un postogrigio, fangoso, freddo, pieno di autocarri imballati e truppe logore. Ora misembrava un posto stranamente diverso. Vagabondando per il paese mi resi contoche c’erano stradine piacevolmente tortuose, vecchi ponti di pietra, negozi di vino

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con grandi barili stillanti alti quanto un uomo e curiose officine seminterrate doveartigiani fabbricavano ruote di carro, pugnali, cucchiai di legno e borracce di pelle dicapra. Mi misi a osservare un uomo mentre confezionava uno di questi piccoli otri escoprii con grande interesse una cosa che non sapevo prima, cioè che la parte con ilpelo va all’interno e il pelo non viene affatto tolto, cosicché in pratica quel che si beveè pelo di capra distillato. Per mesi avevo bevuto da quelle borracce senza mairendermene conto. Dietro all’abitato c’era un fiume non molto profondo e verdegiada da cui si levava, perpendicolare, una parete di roccia in cima alla quale eranostate costruite alcune case, di modo che dalla finestra della camera da letto si potevasputare direttamente nel fiume una trentina di metri più in basso. Nelle crepe dellaroccia avevano fatto il nido un numero incalcolabile di colombi. E a Lérida c’eranoantichissimi edifici semidiroccati sui cui cornicioni migliaia di rondini avevanocostruito il nido, tanto che da una certa distanza il profilo incrostato dei nidiappariva come una generosa modanatura in stile rococò. Era strano che durante i seimesi passati non avessi avuto occhio per questi particolari. Con il foglio di congedoin tasca mi sentivo di nuovo un essere umano e anche, un po’, un turista. Ebbi quasil’impressione di trovarmi veramente in Spagna per la prima volta, in un paese cheper tutta la vita avevo desiderato tanto visitare. Nelle tranquille stradine secondariedi Lérida o di Barbastro mi pareva di cogliere uno scorcio momentaneo, una speciedi lontana eco della Spagna che risiede nell’immaginazione comune. Le sierrasbianche, i greggi di capre, le segrete dell’Inquisizione, le architetture moresche, lelunghe file scure di muli che si snodano per i sentieri, ulivi grigio-argento e limoneti,ragazze dalle mantillas nere, i vini di Málaga e di Alicante, le cattedrali, i cardinali, lecorride, i gitani, le serenate – insomma, la Spagna. In tutta Europa era il paese cheaveva la più salda presa sulla mia fantasia. Mi pareva un peccato, una volta che eroriuscito finalmente a venirci, aver visto solo questo angolo nordorientale, perdipiùnel bel mezzo di una guerra così confusa e in gran parte d’inverno.

Quando arrivai a Barcellona era ormai tardi e non c’erano taxi. Era inutile cercaredi raggiungere il sanatorio Maurín, fuori città, e così mi diressi all’Hotel Continental,fermandomi per strada a cenare. Ricordo la conversazione che ebbi con un camerieredall’aria molto paterna a proposito dei boccali di quercia fasciati di rame in cuiservivano il vino. Gli dissi che avrei voluto comprarne una serie da portare inInghilterra. Il cameriere fu molto comprensivo. Sì, erano bellissimi, vero? Maoggigiorno era impossibile trovarli ormai. Nessuno li costruiva più – nessunocostruiva più niente. Questa guerra – che peccato! Concordammo che la guerra eraun gran peccato. Ancora una volta mi sentii un po’ turista. Il cameriere mi chiesegentilmente se mi era piaciuta la Spagna; ci sarei tornato volentieri? Oh, certo che cisarei tornato volentieri. Il tono tranquillo di questo dialogo mi è rimasto impressonella memoria, forse a causa di quello che accadde subito dopo.

Quando arrivai in albergo trovai mia moglie seduta nell’atrio. Si alzò e mi venneincontro con un fare che mi colpì per la sua casualità; mi cinse il collo con un braccioe scoccandomi un bel sorriso perché tutti nella sala lo vedessero, mi bisbigliò in unorecchio:

«Sparisci!»«Come?»«Sparisci subito, vattene!»«Ma…»«Non startene lì impalato! Devi uscire subito di qui!»

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«Ma come? Perché? Che vuoi dire?»Mi prese per un braccio e mi stava già trascinando verso le scale. A metà percorso

incontrammo un francese – di cui non dirò il nome, perché anche se non aveva alcuncollegamento con il POUM, si dimostrò sempre un buon amico nei nostri confronti intutto quel periodo tempestoso. Anche lui mi guardò con un’espressione preoccupata.

«Dammi retta! Non devi venire qui. Esci subito e nasconditi prima che chiaminola polizia.»

E – guarda un po’! – in fondo alle scale un membro del personale dell’albergo chefaceva parte del POUM (senza che la direzione lo sapesse, immagino), uscì con farefurtivo dall’ascensore e mi consigliò di andarmene in un inglese un po’ incerto. Maio non avevo ancora capito cosa stava succedendo.

«Ma che diavolo significa tutto questo?» chiesi appena uscimmo sul marciapiede.«Ma come, non hai sentito?»«No. Sentito cosa? Non ho sentito un bel niente.»«Il POUM è stato sciolto. Hanno confiscato tutti gli edifici. Praticamente sono tutti

dentro. E si dice che stiano già fucilando la gente.»E così era finita. Dovevamo trovare un posto per parlare. Tutti i grandi caffè lungo

le Ramblas erano pieni di polizia, ma ne trovammo uno tranquillo in una stradinalaterale e mia moglie mi spiegò che cosa era successo mentre io ero via.

Il 15 giugno la polizia aveva improvvisamente arrestato Andrés Nin nel suoufficio e la stessa sera aveva fatto irruzione nell’Hotel Falcón arrestando tutti ipresenti, per la maggior parte miliziani in licenza. Il posto fu subito trasformato inprigione e in poco tempo era stracolmo di prigionieri di ogni tipo. Il giorno dopo ilPOUM fu dichiarato fuorilegge e tutti i suoi uffici, librerie, sanatori, centri di SoccorsoRosso e così via confiscati. Nel frattempo la polizia arrestava tutti quelli su cuiriusciva a mettere le mani fra coloro che si sapeva fossero in qualche modo collegatial POUM. In un paio di giorni tutti o quasi i quaranta membri del Comitato Esecutivoerano in galera. Forse uno o due erano riusciti a nascondersi, ma la polizia avevaadottato il metodo (ampiamente usato da entrambe le parti in questa guerra) diprendere in ostaggio la moglie di un uomo se questi spariva dalla circolazione. Nonc’era modo di sapere quante persone fossero state arrestate. Mia moglie avevasentito dire che erano quattrocento nella sola Barcellona. In seguito ho pensato cheanche all’epoca quel numero doveva esser stato maggiore. Erano state arrestate lepersone più impensate. In alcuni casi la polizia era arrivata perfino a trascinaremiliziani feriti via dagli ospedali.

Era una cosa molto scoraggiante. Che diavolo significava tutto questo? Capivo chevolessero sopprimere il POUM, ma perché arrestavano tutta quella gente? Per niente,a quanto pareva di capire. Apparentemente la soppressione del POUM aveva unasorta di effetto retroattivo; il partito era ora illegale e perciò per essere fuorileggebastava averne fatto parte in passato. Come al solito, nessuno degli arrestati era statoformalmente incriminato. Nel frattempo, però, la stampa comunista di Valencias’infiammava con la storia di un enorme “complotto fascista”, comunicazioni viaradio con il nemico, documenti firmati con inchiostro simpatico eccetera eccetera.Tratterò questa storia più in dettaglio nell’Appendice II. La cosa più importante erache appariva solo sui giornali di Valencia; credo di non sbagliarmi se dico che nonuna parola su questa storia o sulla soppressione del POUM apparve sui giornali diBarcellona, fossero essi comunisti, anarchici o repubblicani. Apprendemmo la naturaprecisa delle accuse lanciate contro i dirigenti del POUM non dai giornali spagnoli,

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ma da quelli inglesi che arrivarono a Barcellona un paio di giorni dopo. Quello chenon potevamo sapere all’epoca era che il governo non era responsabile delle accusedi tradimento e di spionaggio e che parecchi membri del governo in seguito leavrebbero addirittura ripudiate. Sapevamo solo molto vagamente che i dirigenti delPOUM – e quindi presumibilmente anche tutti noi – erano accusati di essere al soldodei fascisti. E intanto giravano già varie voci che nelle prigioni si fucilava la gente ingran segreto. Su questo si è esagerato parecchio, ma in alcuni casi successe davvero enon c’è dubbio che nel caso di Nin le cose siano effettivamente andate così. Dopo ilsuo arresto Nin fu trasferito a Valencia e quindi a Madrid, e già il 21 giugno la voceche fosse stato fucilato arrivò a Barcellona. In seguito la voce si fece piùcircostanziata: Nin era stato ucciso in prigione dalla polizia segreta e il suo corpogettato per strada. Questa storia proveniva da varie fonti, tra cui Federica Montseny,un ex membro del governo. Da quel giorno fino a oggi di Nin vivo non si sono piùavute notizie. Quando, in seguito, delegati di vari paesi pretesero una spiegazione daparte del governo, i suoi portavoce temporeggiarono per un po’ e dissero solo cheNin era scomparso e non avevano idea di dove si trovasse. Qualche giornale tiròfuori la storia che si fosse rifugiato in territorio fascista. Nessuna prova fu portata asostegno di questa tesi e Irujo, ministro della Giustizia, in seguito ha dichiarato chel’agenzia giornalistica Espagne aveva falsificato il suo comunicato. b In ogni caso èdel tutto improbabile che la polizia si sia lasciata sfuggire un prigioniero politicodell’importanza di Nin. A meno che in futuro non ce lo mostrino vivo, credo proprioche dobbiamo presumere che sia stato assassinato in prigione.

La storia degli arresti andò avanti per un pezzo, per mesi e mesi, finché il numerodei prigionieri politici, senza contare i fascisti, fu nell’ordine delle migliaia. Unfenomeno degno di nota in questa vicenda era rappresentato dall’autonomia deigradi più bassi della polizia. Molti degli arresti erano apertamente illegali e variepersone il cui rilascio era stato ordinato dal capo della polizia furono riarrestateappena uscite di galera e portate in “prigioni segrete”. Un caso tipico fu quello diKurt Landau e di sua moglie. Erano stati fermati il 17 giugno e Landau eraimmediatamente “sparito”. Cinque mesi dopo la moglie era ancora in carcere, senzaprocesso e senza notizie del marito. Proclamò uno sciopero della fame, in seguito alquale il ministero della Giustizia la informò che il marito era morto. Poco dopo furilasciata per essere immediatamente riarrestata e risbattuta in galera. E si potevanotare che la polizia, almeno nei primi tempi, sembrava del tutto indifferente aglieffetti che le sue azioni potevano avere sulla guerra. Era pronta ad arrestare altiufficiali che occupavano importanti posizioni militari senza neanche chiedere ilpermesso. Verso la fine di giugno, da qualche parte del fronte, una squadra dipolizia appositamente mandata da Barcellona arrestò José Rovira, il generale a capodella 29ª divisione. I suoi uomini spedirono una delegazione al ministero dellaGuerra per protestare e scoprirono che tanto il ministero quanto Ortega, il capo dellapolizia, non erano stati neanche informati dell’arresto di Rovira. In tutta questafaccenda il dettaglio che mi è andato più di traverso, anche se forse non ha unagrande importanza, è che tutte le notizie di quello che stava succedendo erano tenutenascoste alle truppe che combattevano in prima linea. Come avrete notato, né io néchiunque altro al fronte avevamo sentito parlare della soppressione del POUM. Iquartieri generali del POUM, i centri di Soccorso Rosso e così via continuarono afunzionare come al solito almeno fino al 20 giugno e nessuno a Lérida, che dista solocentocinquanta chilometri da Barcellona, aveva sentito parlare di quello che stava

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accadendo. Qualsiasi informazione in proposito fu tenuta nascosta dai giornali diBarcellona (quelli di Valencia, che riportavano le storie di spionaggio, nonarrivavano al fronte aragonese), e non c’è dubbio che il motivo dell’arresto di tutti imiliziani del POUM in licenza a Barcellona era di impedir loro di tornare al fronte conle notizie. Il gruppo con cui avevo risalito le linee il 15 giugno deve essere statol’ultimo a raggiungere il fronte. Sono ancora curioso di sapere come siano riusciti amantenere segreta la notizia, perché i camion dei rifornimenti eccetera facevanoancora la spola avanti e indietro; non c’è dubbio, comunque, che il segreto fueffettivamente mantenuto e che gli uomini in prima linea, come ho poi sentito direda parecchie persone, non seppero niente di tutto questo se non diversi giorni dopo.Il motivo di questa segretezza è abbastanza evidente. Si stava per sferrare l’attaccocontro Huesca, la milizia del POUM era ancora un’unità autonoma e probabilmente sitemeva che, qualora gli uomini avessero saputo ciò che stava succedendo, sisarebbero rifiutati di combattere. In realtà niente del genere si verificò anche quandole notizie arrivarono. In quei giorni devono esserci stati diversi uomini che sonocaduti senza neanche sapere che i giornali delle retrovie li stavano chiamandofascisti. Questo genere di cose è un po’ difficile da perdonare. So bene che tenernascoste le brutte notizie alle truppe è una regola comune e che forse di solito ègiustificata. Ma mandare in battaglia degli uomini senza neanche informarli che alleloro spalle il loro partito è stato soppresso, i loro dirigenti accusati di tradimento, iloro amici e parenti sbattuti in galera, mi pare una cosa ben diversa.

Mia moglie cominciò a raccontarmi quello che era successo ai nostri vari amici.Alcuni degli inglesi e altri stranieri erano riusciti a passare la frontiera. Williams eStafford Cottman non erano stati arrestati quando la polizia aveva fatto irruzione alsanatorio Maurín e si erano nascosti da qualche parte. Lo stesso aveva fatto JohnMcNair che era andato in Francia ma era tornato in Spagna dopo che il POUM erastato messo fuorilegge – un po’ avventato da parte sua, ma non gli piaceva l’idea distarsene al sicuro mentre i suoi compagni erano in pericolo. Per il resto era unacronaca fatta solo di «Hanno preso il tale», «Hanno preso il talaltro». Sembrava cheavessero “preso” quasi tutti. A sentire che avevano “preso” anche George Kopprimasi di stucco.

«Cosa? Kopp? Credevo fosse a Valencia.»Pareva fosse tornato a Barcellona; aveva con sé una lettera del ministero della

Guerra per il colonnello a capo delle operazioni del genio sul fronte orientale.Sapeva che il POUM era stato dichiarato fuorilegge, naturalmente, ma forse non gliera passato per la mente che la polizia sarebbe stata tanto stupida da arrestarlomentre era diretto al fronte impegnato in una missione militare urgente. Era passatoall’Hotel Continental per prendere le sue cose; in quel momento mia moglie era fuorie il personale dell’albergo era riuscito a trattenerlo con qualche falso pretesto mentreavvertivano la polizia. Ammetto di essermi infuriato quando appresi la notiziadell’arresto di Kopp. Era un mio amico personale, avevo combattuto ai suoi ordiniper mesi, ero stato sotto il fuoco nemico insieme a lui e conoscevo la sua storiapersonale. Era un uomo che aveva sacrificato tutto – famiglia, nazionalità, lavoro –solo per venire in Spagna a combattere il fascismo. Per aver lasciato il Belgio senzapermesso ed essersi arruolato in un esercito straniero mentre era ufficiale di riservadell’esercito belga e, prima ancora, per aver contribuito a fabbricare illegalmentemunizioni per il governo spagnolo, aveva collezionato anni e anni di prigione dascontare se mai fosse tornato nel suo paese. Era stato in prima linea dall’ottobre 1936,

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si era fatto strada da semplice miliziano fino al grado di maggiore, era stato in azionenon so quante volte ed era stato anche ferito in un’occasione. Nel corso dei disordinidi maggio, come avevo potuto testimoniare io stesso, aveva impedito chescoppiassero scontri locali, probabilmente salvando dieci o venti vite. E l’unica cosache riuscivano a fare in cambio per lui era sbatterlo in galera senza tanticomplimenti. Arrabbiarsi è una perdita di tempo, ma la malevola stupidità di untrattamento del genere mette a dura prova la pazienza di una persona.

Intanto non avevano “preso” mia moglie. Anche se era rimasta al Continental, lapolizia non aveva fatto alcun passo per arrestarla. Era abbastanza chiaro che lavolevano usare come anatra da richiamo. Un paio di sere prima, comunque, dimattina prestissimo, sei agenti in borghese avevano invaso la nostra stanza d’albergoe l’avevano perquisita. Avevano sequestrato ogni pezzo di carta in nostro possesso,tranne, per fortuna, i passaporti e il libretto d’assegni. Avevano preso i miei diari,tutti i nostri libri, i ritagli di stampa che avevo accumulato nei mesi passati (mi sonospesso chiesto che ci avrebbero fatto con tutti quei ritagli di stampa), tutti i mieisouvenir di guerra e tutta la corrispondenza. (A proposito, si sono portati via unaserie di lettere che avevo ricevuto dai miei lettori. Ad alcune non avevo ancorarisposto e naturalmente non mi ero segnato gli indirizzi. Se a qualcuno che mi hascritto a proposito del mio ultimo libro e non ha ancora ricevuto risposta capita dileggere queste righe, vuole essere tanto gentile da accettare queste mie scuse?) Hoappreso in seguito che la polizia aveva anche confiscato vari miei oggetti personaliche avevo lasciato al Sanatorio Maurín. Si sono portati via perfino un fagotto con lamia biancheria sporca. Forse pensavano ci fossero dei messaggi scritti sopra conl’inchiostro simpatico.

Era ovvio che era più sicuro per mia moglie restare in albergo, almeno per ilmomento. Se avesse tentato di nascondersi, senza dubbio si sarebbero messi subitosulle sue tracce. Quanto a me, sarei dovuto entrare subito in clandestinità. Laprospettiva mi ripugnava. Nonostante gli innumerevoli arresti era quasi impossibileper me credere che corressi alcun rischio. Tutta la faccenda mi sembravaassolutamente senza senso. Era stato un analogo rifiuto a prendere sul serio questoattacco idiota che aveva portato Kopp a finire in galera. Continuavo a dirmi: maperché mai qualcuno vorrebbe arrestarmi? Che cosa avevo fatto? Non ero neancheiscritto al POUM. Certo avevo preso parte, armi in mano, agli scontri di maggio, ma lostesso avevano fatto, a occhio e croce, altre quaranta-cinquantamila persone. E poiavevo proprio un gran bisogno di una notte di riposo come si deve. Volevo correre ilrischio e tornare in albergo. Ma mia moglie non volle sentir ragioni. Con pazienza mirispiegò la situazione. Non importava cosa avessi fatto o non fatto. Questa non eramica una retata di criminali, era l’instaurarsi di un regno del terrore. Io non erocolpevole di alcuna azione certa, però ero colpevole di “trockijsmo”. Il solo fatto diaver prestato servizio nella milizia del POUM bastava e avanzava per farmi andare inprigione. Era inutile restare attaccati all’idea inglese che si è al sicuro fintanto che cisi attiene alla legge. Qui praticamente la legge era quello che la polizia voleva chefosse. L’unica cosa da fare era tenersi nascosto negando di aver mai avuto a che farecon il POUM. Passammo in rassegna le carte che avevo in tasca. Mia moglie mi fecestrappare la tessera di miliziano, su cui era stampata a grandi lettere la sigla delpartito e anche una foto di un gruppo di miliziani con la bandiera del POUM sullosfondo; erano tutte cose che in quei giorni bastavano per farsi arrestare. Dovevo,però, tenermi i documenti del congedo. Anche questi costituivano un rischio perché

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portavano il timbro della 29ª divisione e la polizia era probabilmente consapevoledel fatto che la 29ª era del POUM; ma senza quei documenti potevo essere arrestatocome disertore.

Adesso dovevamo pensare ad andarcene dalla Spagna. Restare, con la certezza diessere prima o poi arrestati, non aveva alcun senso. In realtà a entrambi sarebbepiaciuto molto restare, se non altro per vedere come sarebbe andata a finire. Ma ioebbi il presentimento che le galere spagnole sarebbero state dei posti schifosi (ineffetti erano molto peggio di come le avevo immaginate io), che una volta in prigionenon si sapeva mai quando se ne sarebbe usciti, e inoltre, anche a prescindere daldolore al braccio, ero malandato di salute. Ci mettemmo d’accordo per incontrarcil’indomani al Consolato Britannico, dove sarebbero venuti anche Cottman e McNair.Ci sarebbero probabilmente voluti un paio di giorni per mettere in ordine i nostridocumenti. Prima di poter lasciare la Spagna bisognava farsi mettere tre visti diversi– dal comando di polizia, dal console francese e dall’ufficio stranieri catalano. Ilpericolo naturalmente era costituito soprattutto dal comando di polizia. Ma forse ilconsole britannico sarebbe riuscito a sistemare le cose senza far sapere che avevamoavuto a che fare con il POUM. Ovviamente doveva esserci da qualche parte un elencodi stranieri sospettati di “trockijsmo”, e con ogni probabilità i nostri nomi vi eranocompresi, ma forse con un po’ di fortuna saremmo riusciti ad arrivare alla frontieraprima dell’elenco. Era sicuro che ci sarebbero stati parecchi pasticci e un sacco dimañanas. Per fortuna eravamo in Spagna e non in Germania. La polizia segretaspagnola aveva un po’ dello spirito della Gestapo, ma non molto della suacompetenza.

E così ci separammo. Mia moglie tornò in albergo e io vagai nell’oscurità in cercadi un posto per dormire. Ricordo che mi sentivo stufo e scontento. Avevo sognatotanto di passare una notte in un vero letto! Non avevo dove andare, nessuna casa incui trovare rifugio. Il POUM in pratica non aveva un’organizzazione clandestina.Senza dubbio i dirigenti avevano sempre saputo che c’era la possibilità che il partitofosse sciolto d’autorità, ma non si erano certo aspettati una caccia alle streghe sugrande scala come questa. Tant’è vero che avevano continuato a ristrutturare gliedifici in mano al POUM (tra le altre cose stavano costruendo una salacinematografica nella sede del comando, dove prima c’era una banca) fino al giornostesso in cui il partito fu dichiarato fuorilegge. Di conseguenza i luoghi d’incontro e inascondigli che ogni partito rivoluzionario avrebbe dovuto tener prontisemplicemente non esistevano. Il cielo solo sa quanta gente – gente in casa dellaquale la polizia aveva fatto irruzione – dormiva per strada quella notte. Io ero reduceda cinque giorni di viaggi defatiganti, avevo dormito in posti impossibili, il bracciomi faceva un male del diavolo e adesso questi scemi mi davano la caccia a destra e amanca e mi toccava dormire ancora per terra. Questi erano più o meno i miei unicipensieri. Non feci nessuna delle appropriate analisi politiche. Non le faccio maimentre gli avvenimenti sono in corso. Succede sempre così quando rimangocoinvolto in guerre e in politica – non mi rendo conto di niente che non sia il fastidiofisico e un profondo desiderio che tutte quelle maledette stupidaggini finiscano unavolta per tutte. Dopo riesco a scorgere un significato negli eventi, ma mentre sono incorso, voglio solo venirne fuori – forse è una mia ignobile caratteristica personale.

Camminai a lungo e alla fine arrivai dalle parti del Policlinico. Volevo un postodove potessi sdraiarmi senza che uno sbirro ficcanaso mi trovasse e mi chiedesse idocumenti. Provai un rifugio antiaereo, ma era stato appena scavato e l’umidità

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colava giù per le pareti. Poi capitai tra le macerie di una chiesa che era stata sfondatae bruciata durante la rivoluzione. C’era rimasto praticamente solo il guscio, quattropareti prive di tetto intorno a un mucchio di detriti. Frugai nella semioscurità finchétrovai una specie di nicchia dove potevo stendermi. I pezzi di calcinaccio non sono lamiglior cosa su cui sdraiarsi, ma per fortuna era una notte calda e riuscii a dormireper diverse ore.

a. Il valore d’acquisto della peseta era di circa quattro penny.b. Cfr. i rapporti della delegazione Maxton in Appendice II.

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XII

L’aspetto peggiore dell’essere ricercati dalla polizia in una città come Barcellona èche tutto apre così tardi. Quando si dorme per strada ci si sveglia sempre versol’alba, mentre nessuno dei caffè di Barcellona apre molto prima delle nove.Passarono ore prima che potessi bermi una tazza di caffè o farmi radere. Era moltostrano, dal barbiere, vedere ancora appeso alla parete il cartello degli anarchici chespiegava come fosse vietato dare la mancia. “La rivoluzione ha spezzato le nostrecatene” diceva il cartello. Avevo una gran voglia di dire ai barbieri che se nonstavano attenti le loro catene si sarebbero presto risaldate.

Gironzolai un po’ e tornai verso il centro città. In cima agli edifici del POUM lebandiere rosse erano state strappate e al loro posto sventolavano le bandiererepubblicane, mentre manipoli di Guardie Civili armate stazionavano all’ingresso.Al centro di Soccorso Rosso all’angolo di plaza de Cataluña i poliziotti si eranodivertiti a rompere gran parte delle vetrine. Le librerie gestite dal POUM erano statesvuotate e la bacheca che era sulle Ramblas era stata ricoperta dalla vignetta antiPOUM – quella con la faccia da fascista sotto la maschera. In fondo alle Ramblas,vicino al molo, m’imbattei in uno strano spettacolo; una fila di miliziani, ancoralogori e infangati dal fronte, che si erano abbandonati esausti sulle sedie sistemate lìdai lustrascarpe. Sapevo perfettamente chi erano – anzi uno lo riconobbi benissimo.Erano miliziani del POUM che erano tornati dalla prima linea il giorno precedente eavevano scoperto che il POUM era stato sciolto ed erano stati costretti a passare lanotte per strada perché la polizia aveva fatto irruzione nelle loro case. Ognimiliziano del POUM che tornava a Barcellona in quei giorni poteva scegliere franascondersi subito o finire in galera – un’accoglienza tutt’altro che bella, dopo tre oquattro mesi passati al fronte.

Ci trovavamo proprio in una strana situazione. Di notte si viveva da fuggiaschibraccati, ma durante il giorno si poteva condurre una vita quasi normale. Ogni casain cui si sospettava che sostenitori del POUM potessero trovare rifugio era – o almenoera molto probabile che fosse – tenuta sotto controllo ed era impossibile andare in unalbergo o in una pensione perché, per legge, l’albergatore doveva subito avvertire lapolizia appena si presentava un forestiero. In pratica questo voleva dire essercostretti a passare la notte all’addiaccio. Invece di giorno, in una città grande comeBarcellona, si era abbastanza al sicuro. Le strade erano sì affollate di Guardied’Assalto, locali o valenciane, di Carabineros e di polizia normale, più Dio solo saquante spie in borghese; però in pratica non potevano certo fermare chiunquepassasse, e se si assumeva un’aria normale si riusciva a passare inosservati. La cosada fare era evitare di sostare dalle parti delle sedi del POUM e andare in caffè oristoranti dove si era conosciuti di vista dai camerieri. Quel giorno e quellosuccessivo passai parecchio tempo a farmi un bagno in uno dei bagni pubblici. Mipareva un modo di ingannare il tempo e di tenermi nascosto. Purtroppo furono inmolti ad avere la stessa idea, e qualche giorno più tardi – dopo che io avevo lasciato

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Barcellona – la polizia fece irruzione in uno dei bagni pubblici e arrestò una granquantità di “trockijsti” in costume adamitico.

A metà delle Ramblas incontrai uno dei feriti del Sanatorio Maurín. Ciscambiammo la strizzatina d’occhio quasi invisibile che la gente si scambiava in quelperiodo e riuscimmo a incontrarci in un caffè un po’ più avanti senza farci notare.Lui era scampato all’arresto quando la polizia aveva fatto irruzione nel sanatorio, maera stato costretto a vivere in mezzo alla strada come tutti gli altri. Era in maniche dicamicia – era dovuto scappare senza giacca – e non aveva soldi. Mi raccontò di comeuna delle Guardie d’Assalto aveva strappato il grande ritratto a colori di Mauríndalla parete e l’aveva fatto a pezzi a forza di calci. Maurín (uno dei fondatori delPOUM) era prigioniero dei fascisti e all’epoca si credeva fosse stato già fucilato daloro.

Alle dieci incontrai mia moglie al Consolato Britannico. McNair e Cottmanarrivarono subito dopo. La prima cosa che mi dissero era che Bob Smillie era morto.Era morto in prigione a Valencia – di cosa, nessuno lo sapeva con certezza. Era statosepolto immediatamente e al rappresentante locale dell’ILP, David Murray, era statoimpedito di vederne il corpo.

Naturalmente pensai subito che Smillie fosse stato assassinato. Era quello cheall’epoca pensarono tutti, ma da allora mi sono convinto che forse mi ero sbagliato.Più tardi la causa ufficiale della morte fu attribuita a un’appendicite e in seguito unoche era stato detenuto insieme a lui e che poi era stato rilasciato ci disse cheeffettivamente Smillie era stato molto malato in prigione. Perciò la storiadell’appendicite può anche essere vera. Il rifiuto di far vedere il corpo a Murray puòessere stato solo un ulteriore dispetto. Però, c’è da dire anche che all’epoca Smillieaveva ventidue anni e fisicamente era una delle persone più in salute che abbia maiconosciuto. Credo che fosse l’unica persona, inglese o spagnola, che passò tre mesi intrincea senza ammalarsi neanche una volta. Gente in forma come lui di solito nonmuore di appendicite se viene curata come si deve. Ma bastava vedere com’erano leprigioni spagnole – quelle arrangiate in fretta e furia per ospitare i prigionieri politici– per rendersi conto di quanto scarse fossero le possibilità che un malato venissecurato a dovere. Quelle prigioni erano posti che possono essere descritti soltantocome segrete. In Inghilterra si deve risalire fino al diciottesimo secolo per trovarequalcosa di paragonabile. La gente era stipata in stanzette dove c’era a malapena lospazio per sdraiarsi a terra e spesso era tenuta chiusa in cantine e altri luoghi scuri. Enon era una misura temporanea – ci sono stati casi di persone tenute anche quattro ocinque mesi senza poter vedere la luce del sole. Si era nutriti con una dieta sudicia einsufficiente di due piatti di minestra e due tocchi di pane al giorno (qualche mesepiù tardi, però, sembra che il vitto sia un po’ migliorato). Non sto certo esagerando;basta chiedere a qualsiasi persona considerata politicamente sospetta in Spagna. Hoavuto testimonianze sulle prigioni spagnole da diverse fonti e sono tutte troppoconcordi tra loro per non essere ritenute degne di fede; e poi ho potuto dareun’occhiata di persona a una di queste prigioni. Un altro amico inglese che è statodetenuto un po’ più tardi scrive che le sue esperienze in prigione “rendono più facilecapire il caso di Smillie”. La morte di Smillie non è una cosa che posso facilmenteperdonare. Insomma, ecco un ragazzo di talento e coraggioso che aveva rinunciatoalla sua carriera presso l’università di Glasgow per venire a combattere contro ilfascismo e che, come ho potuto vedere con i miei occhi, aveva compiuto il suodovere con impeccabile coraggio e convinzione; e l’unica cosa che erano riusciti a

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fare per lui era stato sbatterlo in galera e lasciarlo morire come un animaletrascurato. Mi rendo conto che nel bel mezzo di una guerra così grande e sanguinosaè inutile fare tante storie per la morte di un individuo. Una bomba d’aereo che cadein una strada affollata provoca molta più sofferenza di quanta ne possa provocareun’intensa persecuzione politica. Ma quello che fa rabbia in una morte come questa èil fatto che è completamente senza senso. Essere uccisi in battaglia – sì, è una cosache ci si aspetta; ma essere sbattuti in galera, e neanche per un delitto immaginarioma solo in base a un odio cieco e malevolo, e poi morire in solitudine – be’, è tutto unaltro paio di maniche. Non riesco proprio a capire come una cosa del genere – e ilcaso di Smillie non era certo eccezionale – potesse rendere la vittoria più a portata dimano.

Quel pomeriggio io e mia moglie andammo a trovare Kopp. I prigionieri che nonerano tenuti in isolamento si potevano visitare, anche se non era prudente farlo piùdi una o due volte. La polizia teneva d’occhio la gente che faceva avanti e indietro; sesi faceva visita alle prigioni troppo spesso si veniva subito marchiati dal sospetto diessere amici dei “trockijsti” e con ogni probabilità si finiva in galera. La cosa era giàcapitata a un gran numero di persone.

Kopp non era in isolamento e ottenemmo il permesso di visitarlo senza troppedifficoltà. Mentre ci conducevano attraverso le porte blindate nella prigione, vidi unmiliziano spagnolo che avevo conosciuto al fronte portato fuori tra due Guardied’Assalto. I nostri sguardi s’incontrarono: di nuovo la strizzatina d’occhio fantasma.E la prima persona che incontrammo una volta dentro fu un miliziano americano cheera partito per far ritorno in patria qualche giorno prima; aveva i documenti inordine, ma l’avevano arrestato lo stesso alla frontiera, probabilmente perché portavaancora i calzoni di fustagno dell’uniforme e quindi poteva essere identificato comemiliziano. Ci incrociammo come se fossimo stati dei perfetti estranei. Una cosaterribile. Erano mesi che lo conoscevo, avevamo condiviso un rifugio sotterraneo,aveva dato una mano a portarmi nelle retrovie quando ero stato ferito; ma era anchel’unica cosa da fare. Le guardie in divisa azzurra ficcavano il naso dappertutto.Sarebbe stato fatale riconoscere troppe persone.

La cosiddetta prigione era in realtà lo scantinato di un negozio. In due stanze,ognuna delle quali misurava circa sei metri quadrati, erano rinchiuse quasi uncentinaio di persone. Il posto sembrava davvero un’illustrazione da calendario delcarcere di Newgate nel diciottesimo secolo, con il sudiciume maleodorante, la ressadei corpi umani, la mancanza di mobili – solo il pavimento di marmo, una panca equalche logora coperta – e l’illuminazione scarsa perché sulle vetrine erano stateabbassate le saracinesche di lamiera ondulata. Sulle pareti sporche erano statitracciati slogan rivoluzionari – “Visca POUM!”, “Viva la Revolución!” e così via. Ormaiil posto veniva usato da mesi come deposito di prigionieri politici. C’era un chiassoassordante. Era l’ora delle visite e il luogo era così affollato che era difficile muoversi.Quasi tutti appartenevano agli strati più poveri della classe operaia. Si vedevanodonne che scioglievano miseri fagotti di cibo che avevano portato ai loro uominiimprigionati. Tra i prigionieri c’erano parecchi feriti del Sanatorio Maurín. A due diloro erano state amputate le gambe; uno era stato portato in prigione senza lastampella e saltellava in giro su una gamba sola. C’era anche un ragazzo che nonpoteva avere più di dodici anni; a quanto pareva stavano arrestando anche ibambini. Nello scantinato c’era il tanfo bestiale che si ottiene sempre quando si

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ammucchiano in un luogo chiuso un gran numero di persone che non hanno accessoa servizi igienici decenti.

Kopp si fece largo a gomitate tra la gente per venirci incontro. La sua facciapaffuta e colorita non pareva cambiata e pur nelle circostanze schifose in cui sitrovava aveva mantenuto l’uniforme in perfetto ordine ed era perfino riuscito aradersi. Tra i prigionieri c’era un altro ufficiale con l’uniforme dell’Esercito Popolare.Mentre si facevano largo con gran difficoltà tra la folla, lui e Kopp si scambiarono ilsaluto militare; in un certo qual modo quel gesto mi parve patetico. Kopp sembravaessere di ottimo umore. «Be’, immagino che saremo tutti fucilati» disse allegramente.La parola “fucilati” mi provocò una specie di tremito interiore. Una fucilata avevaattraversato il mio corpo da poco tempo e quella sensazione era ancora fresca nellamia memoria; non è affatto bello pensare che la stessa cosa accada a qualcuno che siconosce bene. A quell’epoca davo abbastanza per scontato che tutti gli uomini piùimportanti del POUM, e Kopp tra loro, sarebbero stati davvero fucilati. Erano giàarrivate le prime voci sulla morte di Nin e sapevamo benissimo che il POUM era statoaccusato di alto tradimento e di spionaggio. Tutti gli elementi facevano pensare a ungrande processo-montatura seguito dal massacro dei dirigenti “trockijsti”. Vedere unproprio amico in galera e non poter fare niente per aiutarlo è una gran bruttasensazione. Perché non c’era niente che si potesse fare; era inutile persino rivolgersialle autorità belghe, dato che venendo in Spagna Kopp aveva violato le leggi del suopaese. Dovetti lasciare che parlasse mia moglie; con la mia vocetta gracchiante nonriuscivo a farmi sentire nel chiasso di voci della stanza. Kopp ci stava raccontandodegli amici che si era fatto tra gli altri prigionieri, delle guardie, alcune delle qualierano delle brave persone mentre altre maltrattavano e picchiavano i prigionieri piùtimidi, e del vitto, «sbobba per porci» secondo lui. Per fortuna avevamo pensato diportargli qualcosa da mangiare e anche qualche sigaretta. Poi Kopp passò a dircidelle carte che gli avevano sequestrato al momento del suo arresto. Tra queidocumenti c’era la lettera del ministero della Guerra, indirizzata al colonnello a capodelle operazioni del genio nell’Esercito dell’Est. La polizia l’aveva confiscata e sirifiutava di restituirla; si diceva che fosse conservata nell’ufficio del capo dellapolizia. Se fosse stata recuperata poteva essere molto importante.

Capii subito quanto poteva essere importante. Una lettera ufficiale di quel genere,contenente le raccomandazioni del ministero della Guerra e del generale Pozas,avrebbe dimostrato la buona fede di Kopp. Ma il problema era provare che la letteraesisteva davvero; se fosse stata aperta nell’ufficio del capo della polizia si poteva starsicuri che qualche solerte sbirro l’avrebbe distrutta. C’era una sola persona cheavrebbe potuto essere in grado di recuperarla e cioè l’ufficiale a cui era indirizzata.Kopp ci aveva già pensato e aveva scritto una lettera che voleva io portassi dinascosto fuori dalla prigione per impostarla. Ma era evidente che sarebbe stato piùveloce e più sicuro andarci di persona. Lasciai mia moglie lì con Kopp, mi precipitaifuori e dopo una lunga ricerca riuscii a prendere un taxi. Mi rendevo conto chedipendeva tutto dal tempo. Si erano ormai fatte le cinque e mezzo e il colonnelloavrebbe probabilmente lasciato l’ufficio alle sei e Dio solo sapeva dove la letterasarebbe finita l’indomani – forse distrutta, o perduta da qualche parte nel caos deidocumenti che con ogni probabilità si stavano accumulando a mano a mano che,sospetto dietro sospetto, si susseguivano gli arresti. L’ufficio del colonnello era alDipartimento della Guerra, dalle parti del molo. Mentre salivo di corsa le scale laGuardia d’Assalto di servizio all’ingresso mi sbarrò la strada con la sua lunga

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baionetta e mi chiese i “documenti”. Gli sventolai il mio foglio di congedo sotto ilnaso; evidentemente non sapeva leggere perché mi lasciò passare, impressionato dalvago mistero di quel “documento”. All’interno l’edificio era un enorme e intricatolabirinto che s’irradiava attorno a un cortile centrale, con centinaia di uffici su ognipiano; naturalmente, siccome si era in Spagna, nessuno aveva la più pallida idea didove fosse l’ufficio che stavo cercando. Continuavo a ripetere: «El coronel…, jefe deingenieros, Ejército de Este!». La gente mi sorrideva e alzava le spalle con grazia.Chiunque avesse un’opinione mi spediva in una direzione; su per quelle scale, giùper quelle altre, lungo interminabili corridoi che alla fine si rivelavano vicoli ciechi. Eintanto il tempo passava. Avevo la stranissima sensazione di trovarmi nel bel mezzodi un incubo: correvo su e giù per le scale, tra gente misteriosa che andava e veniva,lanciavo sguardi in uffici caotici pieni di carte sparse dappertutto e ticchettantimacchine per scrivere; intanto il tempo passava e forse una vita era in gioco.

A ogni modo riuscii ad arrivare in tempo e con mia vaga sorpresa mi fu concessaudienza. Non incontrai il colonnello, bensì il suo aiutante o segretario, un ufficialettodall’elegante uniforme, gli occhi grandi e un po’ strabici, che uscì nell’anticamera perchiedermi cosa volevo. Cominciai a rovesciargli addosso la mia storia. Venivo anome del mio ufficiale superiore, il maggiore Jorge Kopp, che aveva una missioneurgente da svolgere al fronte ed era stato arrestato per sbaglio. La lettera di cui eralatore e che era destinata al colonnello era di natura confidenziale ed era necessariorecuperarla al più presto. Io avevo prestato servizio per mesi agli ordini di Kopp epotevo testimoniare che era un ottimo ufficiale, era chiaro che il suo arresto eradovuto a un equivoco, la polizia lo aveva scambiato per qualcun altro ecceteraeccetera eccetera. Continuavo a insistere sull’urgenza della missione che Koppdoveva svolgere al fronte, consapevole che questo era l’argomento più forte a miadisposizione. Però il racconto, nel mio spagnolo rozzo che faceva ricorso al franceseogni volta che ero in crisi, deve essergli suonato molto strano. Il peggio è che la vocemi abbandonò quasi subito e solo grazie a un enorme sforzo riuscii a gracchiarequalcosa. Avevo paura che mi avrebbe abbandonato del tutto e che l’ufficialetto sisarebbe presto stancato di cercare di starmi a sentire. Mi sono spesso chiesto che cosaavrà pensato mi fosse successo alla voce – se credeva fossi ubriaco o semplicementeaffetto da cattiva coscienza.

Fatto sta che rimase ad ascoltarmi con pazienza, annuì moltissimo ed espresse uncauto assenso a quello che andavo dicendo. Sì, pareva proprio che ci fosse stato unequivoco. Certamente era il caso di fare ulteriori accertamenti. Mañana… Protestaivivacemente. Niente mañana! La questione era molto urgente; Kopp avrebbe dovutogià trovarsi al fronte. Di nuovo l’ufficiale parve essere d’accordo. Poi arrivò ladomanda che temevo:

«Questo maggiore Kopp… in quale forza prestava servizio?»La terribile verità doveva venir fuori: «Nella milizia del POUM».«POUM!»Vorrei potervi descrivere l’espressione di allarmato sconcerto che c’era nella sua

voce. Dovete ricordarvi la fama di cui il POUM godeva in quel momento. L’ossessionedello spionaggio era al culmine; probabilmente tutti i buoni repubblicani per ungiorno o due furono sul serio convinti che il POUM fosse davvero una vastaorganizzazione di spionaggio al soldo dei tedeschi. Dire una cosa del genere a unufficiale dell’Esercito Popolare era come andare nel Club della Cavalleria subitodopo l’episodio della lettera di Zinov’ev 9 e dichiararsi apertamente comunista. I suoi

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grandi occhi scuri diedero uno sguardo obliquo al mio viso. Un’altra lunga pausa,poi aggiunse scandendo bene le parole:

«E lei sostiene di essere stato al fronte con lui. Quindi anche lei ha prestatoservizio nella milizia del POUM?»

«Sì.»Si voltò e si tuffò nell’ufficio del colonnello. Mi giungevano gli echi di una

conversazione concitata. “Ecco fatto! Ho rovinato tutto” pensai. Non avremmo mairecuperato la lettera di Kopp. Per di più ero stato costretto a confessare di essereanch’io del POUM e senza dubbio adesso avrebbero telefonato alla polizia e miavrebbero fatto arrestare, così, tanto per aggiungere un altro trockijsta al carniere.Dopo un po’, invece, l’ufficiale tornò, si rimise il berretto e con volto severo mi fecesegno di seguirlo. Eravamo diretti all’ufficio del capo della polizia. Era distante, unaventina di minuti a piedi. L’ufficialetto marciava davanti a me con rigido passomilitare. Non ci scambiammo una parola per tutto il tragitto. Quando arrivammoalla sede del comando di polizia, fuori dall’ufficio sostava un’orribile folla difurfanti, evidentemente sbirri in borghese, confidenti e spie d’ogni genere.L’ufficialetto entrò nell’ufficio; seguì una lunga e arroventata conversazione. Sisentiva gente che alzava la voce con rabbia; ci si immaginava un gesticolare violento,un alzare di spalle, pugni battuti sul tavolo. Evidentemente la polizia si rifiutava dicedere la lettera. Ma alla fine l’aiutante del colonnello riemerse, paonazzo, ma conuna grande busta dall’aspetto ufficiale in mano. Era la lettera di Kopp. Avevamoottenuto una piccola vittoria – che, come poi si scoprì, non fece alcuna differenza. Lalettera giunse puntualmente al destinatario, ma i superiori militari di Kopp nonriuscirono lo stesso a tirarlo fuori di prigione.

L’ufficiale mi promise che avrebbe provveduto lui stesso a portare a destinazionela lettera. Ma che mi diceva di Kopp? chiesi io. Non potevamo farlo rilasciare? Sistrinse nelle spalle. Quella era tutta un’altra questione. Non sapevano perché Koppfosse stato arrestato. Mi poteva solo assicurare che sarebbero state svolte tutte leindagini del caso. Non c’era altro da aggiungere; era tempo di separarci. Ciscambiammo un piccolo inchino. E poi accadde un fatto strano e commovente.L’ufficialetto esitò un attimo, poi si fece avanti e mi strinse la mano.

Non so se riesco a farvi capire quanto mi toccò profondamente quel gesto. Asentirlo sembra ben misera cosa, ma non lo era. Dovete rendervi conto del clima delmomento – l’orribile atmosfera di sospetto e odio, le menzogne e le voci checircolavano dappertutto, i manifesti che dai cartelloni strillavano che io e tutti quellicome me eravamo spie fasciste. E dovete tenere a mente che eravamo appena fuoridall’ufficio del capo della polizia, in mezzo a quella masnada di spioni e agentiprovocatori, uno qualsiasi dei quali poteva sapere che io ero “ricercato” dalla polizia.Equivaleva a stringere in pubblico la mano a un tedesco nel corso della Prima guerramondiale. Immagino che l’ufficiale avesse in qualche modo deciso che io non erodavvero una spia fascista; comunque, fu un bel gesto da parte sua stringermi lamano.

Registro questo dettaglio, per quanto banale possa sembrare, perché in un certosenso è tipico della Spagna – dei lampi di magnanimità che si possono avere daglispagnoli in mezzo alle peggiori circostanze. Della Spagna conservo pessimi ricordi,ma degli spagnoli ho pochissimi ricordi brutti. Rammento solo un paio di occasioniin cui mi sono arrabbiato seriamente con qualche spagnolo e in entrambi i casi, se ciripenso, avevo torto io. Non c’è dubbio che essi siano dotati di una generosità, una

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specie di nobiltà che in verità non appartiene al ventesimo secolo. È questo cheautorizza a sperare che in Spagna perfino il fascismo possa assumere una formarelativamente flessibile e tollerabile. Pochi spagnoli hanno la maledetta efficienza ecoerenza che un moderno stato totalitario richiede. C’era stata una piccola e bizzarraesemplificazione di questo fatto solo poche sere prima, quando la polizia avevaperquisito la stanza di mia moglie. In realtà la perquisizione era stata una faccendapiuttosto interessante e mi sarebbe piaciuto assistervi, anche se forse è stato megliodi no, perché magari non sarei riuscito a mantenere la calma.

La polizia portò a termine la perquisizione nel noto stile GPU o Gestapo.Bussarono perentoriamente alla porta all’alba ed entrarono in sei, accesero subitotutte le luci e presero posizione in vari punti della stanza, una manovraevidentemente studiata a tavolino in precedenza. Quindi passarono al setaccioentrambe le stanze (c’era un bagno annesso) con incredibile scrupolo. Bussarono allepareti, alzarono i tappetini, esaminarono il pavimento, palparono le tende, cercaronosotto la vasca e dietro il radiatore, svuotarono ogni cassetto e ogni valigia, tastaronoogni indumento e lo guardarono controluce. Confiscarono tutte le carte, compresequelle appallottolate nel cestino della carta straccia, e perdipiù tutti i libri cheavevamo. Il fatto che possedessimo una versione francese del Mein Kampf di Hitler limandò in brodo di giuggiole. Se fosse stato l’unico libro in nostro possesso la nostrasorte sarebbe stata segnata. È chiaro che chi legge il Mein Kampf deve per forza esserefascista. Però subito dopo s’imbatterono in una copia dell’opuscolo di Stalin Comeliquidare trockijsti e altri doppiogiochisti che in qualche modo li rassicurò. In un cassettoc’era una certa quantità di confezioni di cartine da sigaretta. Fecero a pezzi ognipacchetto ed esaminarono le cartine una per una, caso mai ci fossero messaggi. Intotale impiegarono quasi due ore per portare a termine il loro lavoro. Eppure, intutto quel tempo non perquisirono mai il letto. Mia moglie era rimasta sdraiata a lettodurante l’intera perquisizione; chiaramente sotto al materasso poteva essercinascosta una mezza dozzina di mitragliette, senza contare un intero archivio didocumenti trockijsti sotto al cuscino. Eppure gli investigatori non fecero nemmeno lamossa di avvicinarsi al letto o di guardarci sotto. Non credo che questocomportamento sia contemplato nella routine della GPU. Bisogna ricordare che lapolizia era quasi completamente controllata dai comunisti e questi uomini erano conogni probabilità membri del partito. Però erano anche spagnoli, e buttare giù dalletto una signora era un po’ troppo anche per loro. Questa parte del lavoro futacitamente omessa, rendendo l’intera perquisizione assolutamente insensata.

Quella notte McNair, Cottman e io dormimmo nell’erba alta ai margini di uncantiere abbandonato. Era una nottata fredda per la stagione in cui ci trovavamo enessuno di noi dormì molto. Ricordo le lunghe ore di vagabondaggio prima diriuscire a bere una tazza di caffè caldo. Per la prima volta da quando ero arrivato aBarcellona andai a dare un’occhiata alla cattedrale – una cattedrale moderna e unodegli edifici più orrendi del mondo. Aveva quattro guglie merlate che avevanoesattamente la forma di una bottiglia di vino del Reno. Al contrario della maggiorparte delle chiese di Barcellona non aveva subito danni nel corso della rivoluzione –era stata risparmiata grazie al suo “valore artistico”, diceva la gente. Secondo me glianarchici diedero prova di cattivo gusto nel non farla saltare in aria quando neavevano l’occasione, anche se in effetti appesero una bandiera rosso-nera in mezzoalle guglie. Nel pomeriggio mia moglie e io andammo a trovare Kopp per l’ultimavolta. Non c’era più niente che potessimo fare per lui, assolutamente niente, tranne

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salutarlo e lasciare un po’ di soldi ad amici spagnoli perché gli portassero cibo esigarette. Poco tempo dopo che ce ne eravamo andati da Barcellona, però, egli fuposto incommunicado e non fu possibile neanche mandargli del cibo. Quella sera,scendendo giù per le Ramblas, passammo davanti al Café Moka che le Guardied’Assalto presidiavano ancora in forze. Obbedendo a un impulso entrai e parlai condue di loro, appoggiati al bancone con il fucile a tracolla. Chiesi se sapessero qualidei loro compagni erano stati di servizio lì all’epoca degli scontri di maggio. Non losapevano e, con la solita vaghezza spagnola, non avevano idea di come ci si potesseinformare in proposito. Dissi loro che il mio amico Jorge Kopp era in galera e forsesarebbe stato processato per qualcosa connesso agli scontri di maggio; che gli uominiche prestavano servizio lì sapevano che invece lui aveva fatto di tutto per evitare gliscontri e aveva quindi salvato loro la vita; avrebbero dovuto farsi avanti etestimoniare in questo senso. Uno degli uomini a cui stavo parlando era un tipomassiccio e un po’ ottuso che continuava a scuotere la testa perché non riusciva asentire quello che dicevo con il rumore del traffico all’esterno. Ma l’altro era diverso.Disse che aveva sentito parlare del comportamento di Kopp da alcuni suoi colleghi;Kopp era un buen chico (un bravo ragazzo). Ma anche allora sapevo che era tuttoinutile. Se anche fosse mai stato processato, Kopp sarebbe stato inchiodato, comesempre in questi casi, da false prove. Se è stato poi fucilato (e temo che la cosa sia deltutto probabile) questo sarà il suo epitaffio: il buen chico della povera Guardiad’Assalto che faceva parte di uno sporco sistema, ma aveva conservato abbastanza lasua qualità di essere umano da riconoscere, quando la vedeva, un’azione dignitosa.

La vita che facevamo era fuori dall’ordinario, assolutamente folle. Di notteeravamo criminali, mentre di giorno eravamo prosperi visitatori inglesi – o almenoquesto era quello che ci sforzavamo di sembrare. Anche dopo una notte passataall’addiaccio, un bagno, una rasatura e la visita al lustrascarpe fanno miracoli. Lacosa più sicura al momento era sembrare il più possibile borghesi. Frequentavamo lazona residenziale alla moda della città, dove le nostre facce non erano note,andavamo nei ristoranti più cari e con i camerieri ci comportavamo quanto piùpossibile da inglesi. Per la prima volta in vita mia mi misi a scrivere sui muri. Icorridoi di parecchi ristoranti eleganti furono imbrattati con dei “Visca POUM!”scarabocchiati nei caratteri più grandi in cui potessi scriverli. In tutto quel periodo,nonostante fossi tecnicamente un latitante, non riuscii mai a sentirmi in pericolo.L’intera faccenda mi pareva così assurda. Avevo l’incrollabile convinzione ingleseche non possono arrestarti se non hai violato la legge. È una convinzione quanto maipericolosa da mantenere nel corso di una persecuzione politica. Era stato spiccato unmandato d’arresto nei confronti di McNair e con ogni probabilità anche il resto dinoi era ormai nell’elenco dei ricercati. Gli arresti, le irruzioni, le perquisizionicontinuavano senza posa; praticamente tutte le persone che conoscevamo, a partequelle che stavano ancora al fronte, erano ormai in prigione. La polizia saliva perfinosulle navi francesi che ogni tanto portavano via i profughi e arrestava “trockijsti”sospetti.

Grazie alla cortesia del console britannico, che deve aver passato una gran bruttasettimana, eravamo riusciti a farci mettere in ordine i passaporti. Prima ce ne fossimoandati, meglio sarebbe stato. C’era un treno diretto a Port Bou che partiva alle sette emezzo di sera e che quindi di norma ci si poteva aspettare partisse verso le otto emezzo. Ci mettemmo d’accordo in modo che mia moglie prenotasse un taxi, facesse ibagagli, saldasse il conto dell’albergo e uscisse all’ultimo momento. Se avvertiva il

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personale dell’albergo con troppo anticipo era sicuro che avrebbero mandato achiamare la polizia. Arrivai alla stazione verso le sette e scoprii che il treno era giàpartito, alle sette meno dieci. Il macchinista aveva cambiato idea, come al solito. Perfortuna riuscimmo ad avvertire mia moglie in tempo. C’era un altro treno l’indomanimattina, sul presto. McNair, Cottman e io cenammo in un ristorantino vicino allastazione e a forza di caute domande scoprimmo che il proprietario era un membrodella CNT e bendisposto nei nostri confronti. Ci affittò una stanza con tre letti e sidimenticò di avvertire la polizia. Per la prima volta, dopo cinque notti, riuscivo adormire senza i vestiti addosso.

La mattina dopo mia moglie riuscì a svignarsela dall’albergo senza problemi. Iltreno partì con circa un’ora di ritardo. Ingannai il tempo scrivendo una lunga letteraal ministero della Guerra, informandoli del caso Kopp – che senza dubbio era statoarrestato per errore, che al fronte c’era urgente bisogno di lui, che innumerevolipersone avrebbero testimoniato che era innocente di qualsiasi reato eccetera eccetera.Mi chiedo se qualcuno abbia mai letto quella lettera, scritta su pagine strappate dalmio taccuino con una calligrafia piuttosto traballante (avevo ancora le ditasemiparalizzate) e in uno spagnolo ancora più traballante. A ogni modo né questalettera né altro sortì alcun effetto. Al momento in cui scrivo, sei mesi dopo, Kopp (senon è già stato fucilato) è ancora in galera senza processo e senza incriminazione.All’inizio abbiamo ricevuto due o tre lettere da lui, fatte uscire clandestinamente diprigione da detenuti liberati e impostate in Francia. Raccontavano tutte la stessastoria – detenzione in tane buie e luride, vitto pessimo e insufficiente, visite medicherifiutate. Circostanze, queste, di cui ho avuto conferma anche da diverse altre fonti,inglesi e francesi. Più recentemente Kopp è scomparso in una delle “prigionisegrete” con cui sembra impossibile avere qualsiasi forma di comunicazione. Il suocaso rientra tra quelli di un gran numero, forse centinaia, di stranieri e di chissàquante migliaia di spagnoli.

Alla fine riuscimmo ad attraversare la frontiera senza incidenti. Il treno avevaanche la prima classe e un vagone ristorante, il primo che avessi visto da quando eroin Spagna. Fino a poco tempo prima c’era una sola classe nei treni di tutta laCatalogna. Due poliziotti fecero il giro del treno e presero i nomi degli stranieri, maquando ci videro nel vagone ristorante parvero convinti che fossimo genterispettabile. Era strano notare quanto le cose fossero cambiate. Solo sei mesi prima,quando gli anarchici dominavano ancora, si era rispettabili se si aveva l’aspetto di unproletario. Mentre scendevo da Perpignan a Cerbères un commesso viaggiatorefrancese nel mio scompartimento mi aveva detto tutto serio: «Non deve andare inSpagna con quell’aspetto. Si tolga il colletto e la cravatta. Altrimenti a Barcellonaglieli strapperanno di dosso». Esagerava, ma il suo atteggiamento dimostrava in checonsiderazione era tenuta la Catalogna. E alla frontiera le guardie anarchicheavevano respinto un francese elegante e sua moglie soltanto perché – secondo me –avevano un aspetto troppo borghese. Adesso era tutto il contrario; assumere unaspetto borghese era l’unica salvezza. Al controllo passaporti confrontarono i nostrinomi con quelli dell’elenco dei sospetti, ma grazie all’inefficienza della polizia inostri nomi non c’erano, e neanche quello di McNair. Fummo perquisiti dalla testa aipiedi, ma non avevamo addosso niente che ci potesse incriminare, tranne i mieidocumenti di congedo; ma i Carabineros che mi perquisirono non sapevano che la29ª divisione era del POUM. E così riuscimmo a passare quella barriera e dopo seimesi mi trovavo di nuovo su suolo francese. I miei unici souvenir della Spagna erano

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una borraccia di pelle di capra e uno di quei lumini di ferro in cui i contadiniaragonesi bruciano l’olio – lumini che hanno quasi esattamente la forma di quelli diterracotta che i romani usavano duemila anni fa – e che io avevo raccolto in una dellebaracche rovinate al fronte e che chissà come era rimasto nel mio bagaglio.

Dopotutto scoprimmo che eravamo riusciti ad andarcene appena in tempo. Ilprimo giornale che leggemmo annunciava l’arresto di McNair per spionaggio. Leautorità spagnole avevano avuto un po’ troppa fretta nel fare questo annuncio. Perfortuna il crimine di “trockijsmo” non è soggetto a estradizione.

Mi chiedo quale sia l’azione che è meglio fare per prima quando si arriva da unpaese in guerra e si mette piede in territorio pacifico. La mia fu di precipitarmi daltabaccaio a comprare tutti i sigari e le sigarette di cui riuscii a imbottirmi le tasche.Poi andammo tutti al buffet e ci prendemmo una tazza di tè, il primo tè con il lattefresco che bevessimo da molti mesi a quella parte. Ci vollero diversi giorni prima chemi abituassi all’idea che si potevano comperare le sigarette ogniqualvolta ce ne fossebisogno. Mi aspettavo sempre di vedere le porte del tabaccaio sbarrate con laminacciosa scritta “No hay tabaco” appiccicata sulla vetrina.

McNair e Cottman avrebbero proseguito per Parigi. Mia moglie e io scendemmodal treno a Banyuls, la prima stazione, perché avevamo bisogno di una vacanza. ABanyuls non fummo molto bene accolti appena scoprirono che venivamo daBarcellona. Parecchie volte fui coinvolto nella stessa conversazione: «Venite dallaSpagna? Da che parte combattevate? Dalla parte del governo? Oh!» e quindiun’esplicita freddezza. La cittadina sembrava essere compatta dalla parte di Franco,senza dubbio per via dei numerosi profughi spagnoli fascisti che vi arrivavanoperiodicamente. Il cameriere del caffè che frequentavo era uno spagnolo franchista emi lanciava occhiate di traverso ogni volta che mi serviva l’aperitivo. Ben diverso ilclima a Perpignan, che era piena di partigiani del governo e dove tutte le diversefazioni complottavano contro le altre quasi come a Barcellona. C’era un bar dovebastava pronunciare la parola “POUM” per procurarsi amici francesi e sorrisi dalcameriere.

Ci fermammo a Banyuls per tre giorni, credo. Fu un periodo stranamenteinquieto. In questa tranquilla cittadina di pescatori, lontano da bombe, mitragliatrici,file per il cibo, intrighi e propaganda ci saremmo dovuti sentire profondamentesollevati e grati. Invece, niente affatto. Le cose che avevamo visto in Spagna non siallontanavano né acquistavano una prospettiva diversa ora che ne eravamo lontani;anzi ci tornavano di continuo in mente ed erano ancora più vivide di prima.Pensavamo, parlavamo e sognavamo della Spagna senza posa. Per mesi, prima, cieravamo detti che «quando saremo fuori dalla Spagna» saremmo andati da qualcheparte sulla costa del Mediterraneo per starcene un po’ tranquilli e magari metterci apescare un po’; ma ora che eravamo qui non provavamo altro che noia e delusione. Iltempo era freddo, con un vento incessante che soffiava dal mare, l’acqua era opaca emossa, tutt’intorno al porticciolo rifiuti, pezzi di sughero e interiora di pescegalleggiavano tra le pietre. Può sembrare una follia, ma la cosa che tutti e duevolevamo era tornare in Spagna. Anche se non avrebbe portato alcun beneficio anessuno, anzi, in verità avrebbe provocato molti guai seri, entrambi desideravamoesser rimasti lì per essere imprigionati come tutti gli altri. Immagino di non esserriuscito bene a esprimere il significato che hanno avuto per me quei mesi passati inSpagna. Ho registrato solo alcuni eventi esterni, ma non riesco a fare lo stesso con lesensazioni che hanno lasciato dentro di me: sono troppo connesse con immagini,

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odori e suoni che non possono essere espressi dalla scrittura – l’odore delle trincee,l’alba tra i monti che si perdono in distanze inconcepibili, il gelido crepitio dellepallottole, il boato e il bagliore delle bombe; la luce limpida e fredda delle mattinatedi Barcellona, il calpestio degli scarponi nel cortile della caserma in quel dicembrequando la gente credeva ancora nella rivoluzione; e poi le file per il cibo, le bandiererosso-nere, le facce dei miliziani spagnoli; soprattutto le facce dei miliziani – uominiche ho conosciuto in prima linea e che ora sono sparsi Dio solo sa dove, alcuni uccisiin battaglia, alcuni mutilati, altri in galera – la maggior parte di loro, spero, ancorasani e salvi. Buona fortuna a tutti quanti; spero che vincano la loro guerra e caccinotutti gli stranieri dalla Spagna, siano essi tedeschi, russi o italiani. Questa guerra, incui ho avuto un ruolo così insignificante, mi ha lasciato ricordi che sono per lamaggior parte brutti, eppure non vorrei non avervi partecipato. Quando si è riuscitia intravedere uno squarcio di un disastro così grande – e comunque vada a finire, laguerra di Spagna si rivelerà un tremendo disastro, anche senza contare la carneficinae le sofferenze fisiche – il risultato non è necessariamente segnato da delusione ecinismo. Può sembrare strano, ma tutta questa esperienza non ha scalfito, bensìrafforzato la mia fede nella dignità degli esseri umani. E spero che il resoconto cheho fatto non sia troppo ingannevole. Sono convinto che di fronte a un argomentocome questo nessuno sia o possa essere del tutto veritiero. È difficile essere sicuri diqualcosa al di fuori di ciò che si è visto coi propri occhi e, consapevolmente o meno,chiunque scriva è partigiano. Nel caso non l’abbia detto prima in questo libro, lo dicoadesso: state attenti alla mia partigianeria, ai miei errori di fatto e alla distorsioneinevitabilmente causata dall’aver assistito agli eventi dal mio punto di vista. E stateattenti a tutte queste cose anche quando leggete qualsiasi altro libro su questoperiodo della guerra di Spagna.

A causa della sensazione di dover fare qualcosa, anche se non c’era assolutamenteniente che potessimo fare, lasciammo Banyuls prima del previsto. A mano a manoche ci inoltravamo verso il Nord della Francia il paesaggio si faceva più verde e piùmorbido. Via dai monti e dalle viti, di nuovo verso i pascoli e gli olmi. Quando eropassato per Parigi diretto in Spagna la città mi era parsa decaduta e cupa, moltodiversa dalla Parigi che avevo conosciuto otto anni prima, quando il costo della vitaera basso e di Hitler non si era ancora mai sentito parlare. Metà dei caffè checonoscevo una volta erano chiusi per mancanza di clienti e tutti erano ossessionatidal carovita e dalla paura della guerra. Ora invece, dopo la povertà della Spagna,perfino Parigi mi pareva gaia e prospera. E l’Esposizione era in pieno corso, anche senoi riuscimmo a non visitarla.

E poi l’Inghilterra – l’Inghilterra meridionale, probabilmente il paesaggio piùsoave del mondo. Quando si passa da quelle parti, specialmente se ci si statranquillamente riprendendo dal mal di mare con i soffici cuscini di un treno sotto ilsedere, è difficile credere che qualcosa stia veramente succedendo da qualche altraparte del mondo. Terremoti in Giappone, carestie in Cina e rivoluzioni in Messico?Non vi preoccupate: la bottiglia del latte sarà davanti alla porta di casa domattina e il«New Statesman» uscirà di venerdì. Le città industriali erano lontane, una macchiadi fumo e di sofferenza nascosta dalla curvatura della terra. Qui si era ancoranell’Inghilterra che ho conosciuto nella mia infanzia: le scarpate lungo la ferroviaricoperte di fiori selvatici, i prati dall’erba alta dove grandi cavalli lustri brucano emeditano, i lenti ruscelli in mezzo ai salici, le verdi distese di olmi, la speronella neigiardini delle casette di campagna; e poi il grande deserto tranquillo della periferia

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londinese, le chiatte sul fiume fangoso, le strade familiari, i manifesti che annuncianogli incontri di cricket e i matrimoni della famiglia reale, i signori in bombetta, ipiccioni di Trafalgar Square, gli autobus rossi, i poliziotti in blu – tutti addormentatinel profondo, profondissimo sonno dell’Inghilterra, da cui a volte temo non cisveglieremo mai finché non ne saremo strappati di colpo dal boato delle bombe.

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Appendice I

All’inizio avevo ignorato l’aspetto politico della guerra e fu solo a questo punto checominciò a imporsi di prepotenza alla mia attenzione. Se non siete interessati agliorrori delle fazioni politiche, vi prego di saltare questa sezione; sto cercando ditenere le parti più politiche di questo resoconto in capitoli separati proprio a questoscopo. Allo stesso tempo, però, sarebbe impossibile descrivere la guerra di Spagnada un punto di vista puramente militare. Si è trattato soprattutto di un conflittopolitico. Nessun evento che si è verificato nel suo corso, perlomeno durante il primoanno, è comprensibile se non si ha un minimo di conoscenza della lotta interpartiticache si svolgeva dietro le linee governative.

Al mio arrivo in Spagna, e anche per un certo periodo in seguito, non solo non erointeressato alla situazione politica, ma ne ero del tutto inconsapevole. Se mi avestechiesto perché mi ero arruolato nella milizia vi avrei risposto: “Per combattere controil fascismo”, e se aveste insistito per sapere a favore di cosa avrei combattuto, la miarisposta sarebbe stata: “La dignità comune”. Avevo accettato la versione che il«News Chronicle» e il «New Statesman» 10 avevano dato di quella guerra comedifesa della civiltà contro la folle rivolta di un esercito di colonnelli Blimp 11 al soldodi Hitler. L’atmosfera rivoluzionaria di Barcellona mi aveva profondamente attratto,ma non è che avessi fatto sforzi per capirla meglio. Quanto al caleidoscopio di partitipolitici e sindacati, con i loro fastidiosi nomi e sigle – PSUC, POUM, FAI, CNT, UGT, JCI,JSU, AIT – non faceva altro che esasperarmi. A prima vista sembrava che la Spagnafosse stata colpita da un’epidemia di iniziali. Sapevo che prestavo servizio inqualcosa chiamato POUM (mi ero arruolato nella milizia del POUM piuttosto che inun’altra solo perché mi era capitato di arrivare a Barcellona con le credenzialidell’ILP), ma non mi ero reso conto che ci fossero serie divergenze tra i vari partitipolitici. Sul Monte Pocero, quando indicavano la postazione alla nostra sinistra edicevano: «Quelli sono i socialisti» (intendendo quelli del PSUC), rimanevo perplessoe dicevo: «Ma non siamo tutti socialisti?». Credevo fosse un’idiozia che gente checombatteva per salvarsi la vita dovesse appartenere a partiti diversi; il mioatteggiamento era sempre del tipo: “Perché non la smettiamo con queste sciocchezzepolitiche e ci concentriamo sulla guerra?”. Naturalmente questo era il correttoatteggiamento “antifascista” che era stato accuratamente diffuso dai giornali inglesi,in gran parte al fine di impedire che la gente comprendesse la vera natura delconflitto. Ma in Spagna, specialmente in Catalogna, era un atteggiamento che non sipoteva mantenere a tempo indeterminato e infatti nessuno lo mantenne. Pur se amalincuore, tutti prima o poi si schieravano da una parte o dall’altra. Anche se infattia uno non importava niente dei partiti politici e delle loro “linee” in conflitto, eratroppo evidente che la sua sorte dipendeva da quello. In quanto miliziani si erasoldati impegnati a combattere Franco, ma si era anche pedine in una più vasta lottacombattuta tra due teorie politiche. Quando, arrabattandomi per trovare legna daardere sui fianchi della montagna, mi chiedevo se questa fosse davvero una guerra o

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se invece se la fosse inventata il «News Chronicle», quando schivavo le mitragliatricicomuniste negli scontri di Barcellona, quando finalmente fuggii dalla Spagna con lapolizia alle calcagna – tutte queste cose mi accadevano in quel modo particolareperché prestavo servizio nella milizia del POUM e non in quella del PSUC. Com’ègrande la differenza tra due sigle!

Per capire lo schieramento delle forze governative bisogna ricordare com’eracominciata la guerra. Quando i combattimenti iniziarono il 18 luglio è probabile cheogni antifascista in Europa abbia provato un brivido di speranza. Perché, almeno inapparenza, ecco finalmente una democrazia che resisteva al fascismo. Per anni, inpassato, le cosiddette nazioni democratiche avevano ceduto al fascismo a ogni pièsospinto. Ai giapponesi era stato lasciato fare quello che volevano in Manciuria.Hitler era arrivato al potere senza ostacoli e si era messo a massacrare oppositoripolitici d’ogni colore. Mussolini aveva bombardato gli abissini mentre cinquantatrénazioni (almeno mi pare che fossero cinquantatré) si limitavano a elevare pieproteste “fuori scena”. Ma quando Franco aveva tentato di rovesciare un governomoderatamente di sinistra, il popolo spagnolo, contro le aspettative di tutti, gli si erarivoltato contro. Sembrava – probabilmente era – il cambio della marea.

Ma c’erano diversi punti che sfuggirono all’attenzione generale. Tanto percominciare, Franco non era strettamente paragonabile a Hitler o a Mussolini. La suarivolta era un ammutinamento militare sostenuto dall’aristocrazia e dalla Chiesa e ingran parte, specialmente all’inizio, era un tentativo non tanto di imporre il fascismoquanto di restaurare il sistema feudale. Questo significava che Franco aveva contronon solo la classe operaia, ma anche vari settori della borghesia liberale – le stessepersone che sostengono il fascismo quando compare nella sua forma più moderna.Ancor più importante di questo era il fatto che la classe operaia spagnola nonopponeva resistenza a Franco in nome della “democrazia” e dello status quo, comeforse avremmo potuto fare in Inghilterra; la sua resistenza era accompagnata da – sipotrebbe addirittura dire che consisteva in – una decisa spinta rivoluzionaria. Laterra fu occupata dai contadini; i sindacati presero il controllo di molte fabbriche e digran parte dei trasporti; le chiese furono saccheggiate e i preti cacciati via oaddirittura uccisi. Il «Daily Mail», tra gli applausi del clero cattolico, si permise dipresentare Franco come un patriota che liberava il suo paese dalle orde di diabolici“Rossi”.

Durante i primi mesi della guerra civile il vero oppositore di Franco non fu tantoil governo quanto i sindacati operai. Appena scoppiò la rivolta franchista gli operaiorganizzati delle città risposero proclamando lo sciopero generale e poi chiedendo agran voce – e dopo una dura lotta, ottenendo – armi dagli arsenali pubblici. Se nonavessero agito spontaneamente e in modo più o meno autonomo è molto probabileche nessuno avrebbe opposto resistenza a Franco. Naturalmente non è che ci possaessere alcuna certezza in proposito, ma ci sono perlomeno buone ragioni percrederlo. Il governo aveva fatto poco o niente per impedire la rivolta, che siprevedeva da parecchio tempo, e quando cominciarono i problemi il suoatteggiamento fu debole ed esitante, al punto che, infatti, la Spagna ebbe tre primiministri nell’arco di una sola giornata. a Inoltre, l’unico passo che avrebbe potutosalvare la situazione nell’immediato, armare gli operai, fu preso a malincuore e solosu pressione della protesta popolare. A ogni modo le armi furono distribuite e nellegrandi città della Spagna orientale i fascisti furono sconfitti soprattutto grazie allosforzo della classe operaia, aiutata da un settore delle forze armate (Guardie

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d’Assalto eccetera) rimasto fedele al governo. Era il tipo di sforzo che probabilmentepoteva essere compiuto solo da gente che combatteva con uno scopo rivoluzionario –cioè che credeva di combattere per qualcosa di meglio dello status quo. Si ritiene chenei vari centri della rivolta tremila persone siano morte nelle strade in una solagiornata. Uomini e donne armati solo di candelotti di dinamite attraversarono dicorsa le piazze e presero d’assalto edifici di pietra presidiati da soldati addestrati earmati di mitragliatrici. Nidi di mitragliatrici che i fascisti avevano posizionato neipunti strategici furono distrutti da taxi che gli si lanciavano addosso a novantachilometri all’ora. Anche se non si fosse saputo niente delle occupazioni delle terreda parte dei contadini, dell’organizzazione di soviet locali eccetera, sarebbe statodifficile credere che gli anarchici e i socialisti, che formavano la spina dorsale dellaresistenza, lo stessero facendo solo per mantenere la democrazia capitalista, chespecialmente agli occhi degli anarchici non era altro che una macchina da truffacentralizzata.

Intanto gli operai avevano le armi in mano e a questo punto non avevano certointenzione di restituirle. (Ancora un anno dopo si calcolava che gli anarco-sindacalisti in Catalogna avessero trentamila fucili.) I latifondi dei grandi agrarifranchisti in molti luoghi furono occupati dai contadini. Insieme allacollettivizzazione delle industrie e dei trasporti ci fu un tentativo di abbozzare unaforma rudimentale di governo operaio attraverso comitati locali, ronde operaie cherimpiazzavano le vecchie forze di polizia favorevoli al capitalismo, milizie operaiebasate sui sindacati e così via. Naturalmente questo processo non fu uniforme e inCatalogna avanzò più che in altri luoghi. Ci furono alcune zone in cui le istituzioni digoverno locale rimasero praticamente intatte, mentre in altre funzionarono fianco afianco ai comitati rivoluzionari. In qualche posto furono istituite comuni anarchicheindipendenti e alcune di esse rimasero tali per un anno, fino a quando non furonosciolte con la forza dal governo. In Catalogna, nei primi mesi, la maggior parte delpotere effettivo fu saldamente in mano agli anarco-sindacalisti che controllavano leindustrie-chiave. La cosa che era successa in Spagna, in effetti, non era una sempliceguerra civile, ma l’inizio di una rivoluzione. È questo il fatto che la stampaantifascista al di fuori della Spagna si è assunta il singolare compito di tenerenascosto. Il problema è stato ridotto a un conflitto tra fascismo e democrazia, el’aspetto rivoluzionario il più possibile passato sotto silenzio. In Inghilterra, dove lastampa è più centralizzata e il pubblico più facile da abbindolare che altrove, solodue versioni della guerra di Spagna hanno ricevuto diffusione degna di nota: laversione della destra, coi patrioti cristiani che si oppongono ai bolscevichi grondantidi sangue, e quella della sinistra, coi gentiluomini repubblicani che cercano di sedareuna rivolta militare. Il problema centrale è stato efficacemente occultato.

Ci sono diversi motivi per tutto questo. Tanto per cominciare, la stampafilofascista metteva in giro tremende menzogne su presunte atrocità commesse e altripropagandisti benintenzionati hanno senza dubbio pensato di aiutare il governolegittimo spagnolo negando che il paese fosse “in mano ai Rossi”. Ma il motivoprincipale, in realtà, era questo: a parte i piccoli gruppi rivoluzionari presenti in ognipaese, il mondo intero era ben deciso a impedire che in Spagna avvenisse unarivoluzione. In particolare, proprio il Partito comunista, spalleggiato dalla Russiasovietica, si era gettato a corpo morto contro l’ipotesi rivoluzionaria. La tesi deicomunisti era che una rivoluzione in questa fase sarebbe stata fatale e che quindil’obiettivo da porsi in Spagna non era l’assunzione del controllo da parte dei

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lavoratori, bensì la democrazia borghese. Non c’è bisogno certo di precisare comemai la stessa linea fu adottata dal “liberalismo” capitalista. C’erano forti investimentidi capitali esteri in Spagna. La Barcelona Traction Company, per esempio,rappresentava dieci milioni di sterline di capitale britannico; nel frattempo isindacati avevano assunto il controllo di tutti i trasporti della Catalogna. Se larivoluzione fosse andata avanti non ci sarebbero stati risarcimenti per le perditesubite, o perlomeno sarebbero stati molto bassi; se invece avesse prevalso larepubblica capitalista, gli investimenti stranieri sarebbero stati al sicuro. E dato che larivoluzione doveva essere schiacciata, far finta che non fosse mai avvenuta avrebbesemplificato molto le cose. In questo modo il vero significato di qualsiasiavvenimento poteva essere occultato; ogni passaggio di potere dai sindacati algoverno centrale poteva essere presentato come un passo necessario nellariorganizzazione militare. La situazione che ne è derivata era quanto mai curiosa.Fuori dalla Spagna poche persone capirono che era in corso una rivoluzione;all’interno del paese nessuno nutriva dubbi in proposito. Perfino i giornali del PSUC,controllati dai comunisti e più o meno impegnati sulla linea antirivoluzionaria,parlavano della “nostra gloriosa rivoluzione”. Nel frattempo, però, la stampacomunista degli altri paesi gridava a gran voce che della rivoluzione non c’eraalcuna traccia; l’occupazione delle fabbriche, l’istituzione dei comitati operaieccetera, non erano mai successi – oppure, in alternativa, erano successi “ma nonavevano alcuna importanza politica”. Secondo il «Daily Worker» 12 del 6 agosto 1936chi affermava che il popolo spagnolo stava combattendo per la rivoluzione sociale oper qualsiasi altra cosa che non fosse la democrazia borghese era “un furfante e unbugiardo matricolato”. Invece Juan López, che faceva parte del governo di Valencia,nel febbraio 1937 dichiarava che «il popolo spagnolo stava versando il propriosangue non per la repubblica democratica e la sua Costituzione di carta, bensì… perla rivoluzione». Sembrerebbe quindi che tra i furfanti e i bugiardi matricolatiandassero inclusi anche membri di quel governo per cui ci era stato ordinato dicombattere. Alcuni dei giornali antifascisti stranieri si ridussero perfino a dar creditoalla pietosa bugia di sostenere che le chiese erano attaccate solo quando erano usatecome riparo fortificato dai fascisti. In realtà le chiese erano saccheggiate dappertuttoe sistematicamente, perché era ben chiaro a tutti che la Chiesa spagnola era parteintegrante del sistema capitalista. Nei sei mesi trascorsi in Spagna ho visto solo duechiese intatte e fino almeno al giugno del 1937 a nessuna chiesa fu permesso diriaprire e tenere funzioni, fatta eccezione per una o due chiese protestanti a Madrid.

A ogni modo, però, ci fu solo l’inizio di una rivoluzione, non il processo completo.Perfino quando gli operai, senza dubbio in Catalogna e forse anche altrove, hannoavuto il potere di farlo, non hanno mai rovesciato né sostituito del tutto il governo.Era ovvio che non potessero farlo finché Franco era alle porte e settori dellaborghesia stavano dalla loro parte. Il paese era in una fase di transizione che sipoteva indirizzare sia verso uno sviluppo in senso socialista, sia verso un ritorno auna normale repubblica capitalista. I contadini avevano in mano gran parte delleterre e con ogni probabilità le avrebbero tenute, a meno che Franco non vincesse;tutte le grandi industrie erano state collettivizzate, ma se sarebbero rimaste tali o sesarebbe stata reintrodotta la proprietà capitalista dipendeva in fin dei conti da qualegruppo avrebbe prevalso. All’inizio si poteva affermare con sicurezza che sia ilgoverno centrale sia la Generalitat de Catalunya (il governo semiautonomo catalano)rappresentavano la classe operaia. Il governo era guidato da Caballero, un socialista

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di sinistra, e aveva ministri che rappresentavano la UGT (il sindacato socialista) e laCNT (i sindacati controllati dagli anarchici). La Generalitat de Catalunya fu per unperiodo soppiantata di fatto da un comitato di difesa antifascista, b formato inmaggioranza da delegati dei sindacati. Più tardi questo comitato fu sciolto e laGeneralitat ricostituita per rappresentare i sindacati e i vari partiti della sinistra. Maogni successivo rimpasto del governo rappresentava un ulteriore spostamento adestra. Prima il POUM fu estromesso dalla Generalitat; sei mesi dopo Caballero fusostituito dal socialista di destra Negrín; poco tempo dopo la CNT fu allontanata dalgoverno; poi toccò alla UGT; quindi la CNT fu estromessa anche dalla Generalitat;infine, un anno dopo lo scoppio della guerra e della rivoluzione, restava un governocostituito interamente da socialisti di destra, liberali e comunisti.

La grande svolta a destra ebbe inizio verso ottobre-novembre 1936, quandol’Unione Sovietica cominciò a fornire armi al governo spagnolo e il potere cominciò apassare dalle mani degli anarchici a quelle dei comunisti. Con l’eccezione dellaRussia e del Messico, nessun paese ebbe la decenza di andare in soccorso delgoverno legittimo e il Messico, per evidenti ragioni, non era in grado di fornire armiin grandi quantità. Di conseguenza i russi erano in una posizione tale che potevanoesercitare una grande influenza. Non sussistono dubbi sulla sostanza di questainfluenza: “Impedite la rivoluzione o non avrete armi”, e infatti la prima mossacontro gli elementi rivoluzionari, l’espulsione del POUM dalla Generalitat catalana, fufatta dietro precisi ordini dell’URSS. Naturalmente si è tentato di negare che da partedel governo russo ci sia stata alcuna influenza diretta, ma questo non è un puntomolto importante, perché si può dare per scontato che i partiti comunisti di ognipaese portino avanti la linea politica russa e non si può negare che il Partitocomunista fosse il principale sostenitore delle manovre prima contro il POUM, poicontro gli anarchici e i seguaci di Caballero tra i socialisti e, in generale, contro letendenze rivoluzionarie. Una volta intervenuta l’URSS, il trionfo del Partitocomunista era assicurato. Tanto per cominciare, la gratitudine verso la Russia per lafornitura di armi e il fatto che il Partito comunista, specie dopo l’arrivo delle BrigateInternazionali, sembrava davvero capace di vincere la guerra, accrebbero adismisura il prestigio dei comunisti. In secondo luogo, le armi russe erano distribuiteattraverso il Partito comunista e i partiti a esso alleati, i quali badarono bene a che nearrivassero il meno possibile ai loro avversari politici. c In terzo luogo, dichiarando illoro sostegno a una linea politica non rivoluzionaria, i comunisti furono in grado diraccogliere i consensi di tutti coloro che erano stati spaventati dagli estremisti. Erafacile, per esempio, chiamare a raccolta gli agricoltori più ricchi per contrastare lapolitica di collettivizzazione degli anarchici. Ci fu un’enorme crescita nelle adesionial partito, specie dalle file della borghesia – negozianti, funzionari, ufficialidell’esercito, agricoltori benestanti eccetera eccetera. La guerra era essenzialmenteuna lotta triangolare. La battaglia contro Franco doveva continuare, ma allo stessotempo l’obiettivo del governo era di recuperare tutto il potere che era rimasto nellemani dei sindacati. Questo fu ottenuto con una serie di piccole mosse – una lineapolitica portata avanti a colpi di spillo, come l’ha definita qualcuno – e nell’insiemecon grande abilità. Non ci fu nessuna manovra controrivoluzionaria di caratteregenerale ed evidente; fino al maggio 1937 quasi non ci fu bisogno di usare la forza.Gli operai potevano sempre essere richiamati all’ordine con un argomento che erafin troppo evidente per essere dichiarato in modo esplicito: “Se non farete così, così ecosì perderemo la guerra”. Non c’è bisogno di aggiungere che in ogni caso sembrava

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sempre che la cosa richiesta dalla necessità militare fosse cedere alcune delleconquiste che i lavoratori si erano assicurati nel 1936. Ma era un argomento semprevincente perché perdere la guerra era l’ultima cosa che anche i partiti rivoluzionarivolevano; se la guerra fosse stata perduta, democrazia e rivoluzione, socialismo eanarchia sarebbero diventate parole senza significato. Gli anarchici, l’unicaformazione rivoluzionaria abbastanza grande da poter contare qualcosa, furonocostretti a cedere su tutti i punti. Il processo di collettivizzazione fu rallentato, ci sisbarazzò dei comitati locali, le ronde operaie furono abolite e furono ricostituite leforze di polizia anteguerra, pesantemente rinforzate e armate; varie industrie-chiaveche erano sotto il controllo dei sindacati furono occupate dal governo (la conquistadella centrale telefonica di Barcellona, il fatto scatenante degli scontri di maggio, eraun incidente di questo processo); e infine, la cosa più importante di tutte, le milizieoperaie, fondate sui sindacati, furono gradualmente smantellate e ridistribuite nelnuovo Esercito Popolare, un esercito apparentemente “apolitico” organizzato sulinee semiborghesi, con una scala salariale diversificata, una casta di ufficialiprivilegiata eccetera eccetera. In quelle particolari circostanze questa fu la mossadecisiva; in Catalogna avvenne più tardi che nel resto del paese perché era lì che ipartiti rivoluzionari erano più forti. Era chiaro che l’unica garanzia che i lavoratoripotessero avere di mantenere le proprie conquiste era quella di conservare ilcontrollo di almeno una parte delle forze armate. Come al solito lo scioglimento dellemilizie fu portato avanti con la scusa dell’efficienza militare; nessuno poteva negareche ci fosse un gran bisogno di una generale e completa riorganizzazionedell’apparato militare. Tuttavia, sarebbe stato possibile riorganizzare e rendere piùefficienti le milizie anche mantenendole sotto il controllo diretto dei sindacati;evidentemente lo scopo principale della riforma era di assicurarsi che gli anarchicinon continuassero ad avere un esercito per conto proprio. Inoltre lo spiritodemocratico delle milizie ne faceva il brodo di coltura delle idee rivoluzionarie. Icomunisti se ne rendevano ben conto e si scagliavano aspramente e senza posacontro il principio, sostenuto dal POUM e dagli anarchici, della paga uguale per tutti iranghi. Stava avendo luogo un “imborghesimento” generale, una distruzionepremeditata dello spirito egualitario dei primi mesi della rivoluzione. Avvenne tuttomolto rapidamente: chi si recava in Spagna a intervalli di pochi mesi dichiarava diavere quasi l’impressione di non visitare lo stesso paese; quello che in apparenza eper un breve periodo era parso essere uno stato operaio, si stava tramutandopraticamente a vista d’occhio in una normale repubblica borghese con le solitedivisioni tra ricchi e poveri. Nell’autunno del 1937, il “socialista” Negrín potevadichiarare nei discorsi pubblici che «noi rispettiamo la proprietà privata» e membridelle Cortes che all’inizio della guerra erano dovuti fuggire all’estero per via delleloro sospette simpatie fasciste cominciavano a rientrare in Spagna.

È facile comprendere questo processo se si ricorda che deriva dall’alleanzatemporanea che certe forme di fascismo impongono a borghesi e operai. Questaalleanza, nota come Fronte Popolare, è essenzialmente un’alleanza tra nemici eappare del tutto probabile che debba sempre finire con uno dei soci che inghiottel’altro. L’unica caratteristica strana della situazione spagnola – una caratteristica cheperaltro ha causato enormi fraintendimenti fuori dalla Spagna – è che tra i partitidella coalizione di governo i comunisti non sono schierati all’estrema sinistra, bensìall’estrema destra. In realtà questo non dovrebbe sorprendere, perché la tattica deicomunisti anche altrove, specialmente in Francia, ha ormai chiarito che il comunismo

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ufficiale deve essere considerato, perlomeno in questa fase, una vera e propria forzacontrorivoluzionaria. Tutta la linea politica del Comintern è subordinata(comprensibilmente, vista la situazione mondiale) alla difesa dell’URSS, che a suavolta dipende da un sistema di alleanze militari. In particolare, l’URSS è alleata dellaFrancia, un paese capitalista e imperialista. Questa alleanza servirebbe ben pocoall’URSS se il capitalismo francese non fosse forte, perciò la linea dei comunistifrancesi deve essere controrivoluzionaria. Questo significa non solo che i comunistifrancesi ora marciano dietro al tricolore e cantano la Marsigliese, ma anche, ed è benpiù grave, che essi hanno dovuto lasciar perdere qualsiasi efficace rivendicazionenelle colonie francesi. Non sono passati neanche tre anni da quando Thorez, ilsegretario del PCF, dichiarava che gli operai francesi non sarebbero mai stati ingenuifino al punto di lasciarsi convincere a combattere contro i loro compagni tedeschi; d

ora egli stesso è uno dei patrioti che si spolmona a gran voce in tutta la Francia. Lachiave del comportamento del Partito comunista di qualsiasi paese è il rapportomilitare, effettivo o potenziale, che quel paese intrattiene con l’Unione Sovietica. InInghilterra, per esempio, la posizione è ancora incerta e perciò il Partito comunistainglese è ancora ostile al governo nazionale e, almeno ufficialmente, si oppone a unapolitica di riarmo. Se, però, la Gran Bretagna si alleasse o firmasse un’intesa militarecon l’URSS, anche i comunisti inglesi, come quelli francesi, non avrebbero altra sceltache quella di diventare patrioti e imperialisti; già ci sono segni premonitori in questosenso. In Spagna non c’è dubbio che la “linea” del Partito comunista fossefortemente influenzata dal fatto che la Francia, alleata della Russia, si sarebbenettamente opposta ad avere un paese rivoluzionario così vicino e avrebbe fattofuoco e fiamme per impedire la liberazione del Marocco spagnolo. Il «Daily Mail»,con le sue storie di rivoluzioni rosse finanziate da Mosca, era ancor piùforsennatamente in torto del solito. In realtà sono stati proprio i comunisti, più dichiunque altro, a impedire la rivoluzione in Spagna. In seguito, quando le forze didestra hanno riassunto il controllo della situazione, i comunisti si sono dimostratidisponibili ad andare molto più in là dei liberali nella persecuzione dei dirigentirivoluzionari. e

Ho cercato di delineare lo sviluppo della rivoluzione spagnola durante il suoprimo anno perché questo facilita la comprensione della situazione in ogni suasingola fase. Ma non voglio certo suggerire che a febbraio mi fossi già fatto tutte leopinioni che risultano da quanto detto sopra. Tanto per cominciare, le cose che piùmi hanno illuminato non erano ancora accadute e in ogni caso le mie simpatie eranoin certo modo diverse da quelle attuali. Questo è avvenuto in parte perché il latopolitico della guerra mi annoiava ed era naturale che reagissi contro il punto di vistadi cui sentivo più parlare – cioè quello del POUM-ILP. Gli altri inglesi in mezzo a cuimi trovavo erano perlopiù dell’ILP, con qualche membro del Partito comunista, e lamaggior parte di loro era politicamente molto più preparata di me. Per settimane diseguito, durante il noiosissimo periodo in cui non succedeva niente intorno aHuesca, mi sono trovato coinvolto in discussioni politiche che praticamente nonavevano mai fine. Nel fienile pieno di spifferi e di cattivi odori della fattoria pressocui eravamo alloggiati, nella soffocante oscurità dei rifugi sotterranei, dietro aiparapetti nelle gelide ore nel cuore della notte, le “linee” di partito in conflittovenivano dibattute senza posa. Anche tra gli spagnoli succedeva la stessa cosa e lamaggior parte dei giornali che leggevamo facevano della faida interpartitica la loro

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notizia principale. Si doveva essere sordi o del tutto idioti per non farsi una qualcheidea di quello che i vari partiti sostenevano.

Dal punto di vista della teoria politica, i partiti che contavano erano soltanto tre: ilPSUC, il POUM e la CNT-FAI (questi ultimi chiamati con una certa approssimazioneanarchici). Prenderò per primo il PSUC, perché è il più importante; è il partito che allafine ha vinto e anche in quel periodo era evidentemente in fase di ascesa.

È innanzitutto necessario spiegare che quando si parla della “linea” del PSUC inrealtà s’intende la “linea” del Partito comunista. Il PSUC (Partido Socialista Unificadode Cataluña) si era formato all’inizio della guerra mediante la fusione di vari partitimarxisti, compreso il Partito comunista catalano, ma era ormai completamente sottoil controllo comunista ed era affiliato alla Terza Internazionale. In altre parti dellaSpagna non aveva avuto luogo alcuna unificazione formale tra socialisti e comunisti,ma il punto di vista comunista e quello della destra socialista poteva considerarsiidentico dappertutto. Generalizzando un po’, si può dire che il PSUC era l’organopolitico della UGT (Unión General de Trabajadores), ovvero i sindacati di ispirazionesocialista. Gli iscritti a questa confederazione sindacale in tutta la Spagna arrivavanoa un milione e mezzo circa di unità. Comprendeva molte sezioni dei lavoratorimanuali, ma dallo scoppio della guerra era stato rimpolpato da una grande adesionedi membri appartenenti alla borghesia, perché nei primi giorni della “rivoluzione”persone di ogni tipo avevano trovato utile iscriversi sia alla UGT sia alla CNT. Le dueorganizzazioni sindacali per molti versi erano sovrapponibili, ma delle due la CNTera più specificatamente un’organizzazione operaia. Il PSUC era dunque un partito inparte formato da operai e in parte dalla piccola borghesia – i commercianti, ifunzionari e gli agricoltori più benestanti.

La “linea” del PSUC, che era diffusa dalla stampa comunista o filocomunista ditutto il mondo, era suppergiù la seguente:

“In questo momento non importa altro che vincere la guerra; senza vittoria,qualsiasi altra cosa non significa nulla. Perciò non è il momento di parlare di portareavanti la rivoluzione. Non possiamo permetterci il lusso di alienarci le simpatie deicontadini obbligandoli alla collettivizzazione e neanche di spaventare i settori dellaborghesia che combattono al nostro fianco. Soprattutto dobbiamo sbarazzarci diqualsiasi disordine rivoluzionario per essere efficienti al massimo. Dobbiamo avereun governo centrale forte invece di comitati locali e un esercito ben addestrato e deltutto militarizzato sotto un comando unico. Restare attaccati a frammenti dicontrollo operaio e ripetere a pappagallo slogan rivoluzionari è peggio che inutile;non è solo ostruzionismo, ma attività controrivoluzionaria, perché porta a divisioniche i fascisti possono usare contro di noi. In questa fase non stiamo combattendo perla dittatura del proletariato, ma per la democrazia parlamentare. Chiunque cerchi ditrasformare la guerra civile in una rivoluzione sociale fa il gioco dei fascisti ed è atutti gli effetti, se non nelle intenzioni, un traditore.”

La “linea” del POUM divergeva da questa in ogni punto tranne, naturalmente,sull’importanza di vincere la guerra. Il POUM (Partido Obrero de UnificaciónMarxista) era uno di quei partiti comunisti dissidenti che negli ultimi anni hannofatto la loro comparsa in diversi paesi, in contrapposizione allo “stalinismo”; cioè alcambiamento, reale o apparente, nella politica comunista. Era costituito in parte daex comunisti e in parte dai membri di un partito precedente, il blocco degli operai edei contadini. Numericamente era un partito piccolo, f senza molto seguito al di fuori

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della Catalogna ed era importante soprattutto per la percentuale insolitamente altadi iscritti politicamente preparati. In Catalogna la sua principale roccaforte eraLérida. Non rappresentava alcun blocco di sindacati. I miliziani del POUM erano ingenere iscritti alla CNT, mentre i tesserati di solito appartenevano alla UGT. A ognimodo, il POUM aveva qualche influenza solo all’interno della CNT. La sua “linea” erasuppergiù la seguente:

“Parlare di opporsi al fascismo con la ‘democrazia’ borghese non ha alcun senso.La ‘democrazia’ borghese non è altro che un nome diverso del capitalismo, così comelo è il fascismo; combattere il fascismo nel nome della ‘democrazia’ significacombattere contro una forma di capitalismo in nome di un’altra forma che si puòtrasformare nella prima da un momento all’altro. L’unica alternativa reale alfascismo è il potere operaio. Se ci si pone qualsiasi obiettivo al di sotto di questo sioffre la vittoria a Franco o, nella migliore delle ipotesi, si fa entrare il fascismo dallaporta sul retro. Nel frattempo i lavoratori devono tenersi stretto qualsiasi straccio dipotere conquistato; se cedono qualsiasi cosa al governo semiborghese possono starsicuri che saranno imbrogliati. Le milizie operaie e le forze di polizia devono esseremantenute nella loro forma attuale e qualsiasi tentativo di ‘imborghesirle’ deveessere respinto. Se i lavoratori non controllano le forze armate, le forze armatecontrolleranno i lavoratori. La guerra e la rivoluzione sono inseparabili.”

Meno facile è definire il punto di vista anarchico. In ogni caso il termine generico“anarchico” è impiegato per definire una gran quantità di persone con idee anchemolto diverse. L’enorme blocco di sindacati che costituiscono la CNT (ConfederaciónNacional del Trabajo), che ha in tutto circa due milioni di iscritti, ha come organopolitico la FAI (Federación Anarquista Ibérica), una vera e propria organizzazioneanarchica. Ma persino i membri della FAI, per quanto sempre imbevuti, come forse lamaggior parte degli spagnoli, di filosofia anarchica, non erano necessariamenteanarchici nel senso puro della parola. Specialmente dall’inizio della guerra si eranopiù avvicinati al socialismo in senso stretto, in quanto le circostanze li avevanocostretti a partecipare a un’amministrazione centralizzata e perfino a infrangere tuttii loro principi entrando in una coalizione di governo. A ogni modo, la differenzafondamentale tra loro e i comunisti consisteva nel fatto che essi, al pari del POUM,miravano al potere operaio e non alla democrazia parlamentare. Erano d’accordocon lo slogan del POUM: “La guerra e la rivoluzione sono inseparabili”, per quanto simostrassero meno dogmatici al riguardo. Grosso modo la CNT-FAI combatteva per: 1)un controllo diretto sull’industria da parte dei lavoratori impiegati nei diversi settori,come per esempio, i trasporti, le fabbriche tessili eccetera; 2) un governo esercitato dacomitati locali e resistenza a qualsiasi forma di autoritarismo centralizzato; 3)un’ostilità senza compromessi nei confronti della borghesia e della Chiesa. L’ultimopunto, per quanto più vago, era il più importante. Gli anarchici erano l’opposto dellamaggioranza dei cosiddetti rivoluzionari in quanto, anche se i loro principi erano avolte vaghi, il loro odio nei confronti dei privilegi e dell’ingiustizia eraassolutamente genuino. Dal punto di vista filosofico, il comunismo e l’anarchia sonoai poli opposti. In pratica – ovvero nella forma di società che auspicano – ladivergenza tra loro è essenzialmente una diversità d’accento, ma è quanto maiinconciliabile. I comunisti pongono l’accento sulla centralizzazione e sull’efficienza,gli anarchici sulla libertà e sull’eguaglianza. L’anarchia ha profonde radici in Spagnaed è probabile che sopravviva al comunismo quando l’influenza dei russi si saràritirata. Nei primi due mesi della guerra furono gli anarchici, più di chiunque altro, a

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salvare la situazione, e anche in seguito furono i miliziani anarchici, nonostante laloro indisciplina, a essere famosi come i migliori combattenti tra tutte le forzeinteramente spagnole. Dal febbraio 1937 in poi gli anarchici e il POUM potevanoessere in un certo modo considerati un solo blocco. Se gli anarchici, il POUM e isocialisti di sinistra avessero avuto la saggezza di allearsi sin dal principio e di farepressioni per l’adozione di una linea realistica, la storia della guerra avrebbe potutoessere diversa. Ma nel primo periodo, quando i partiti rivoluzionari sembravanoavere in mano le sorti della partita, la cosa sembrava impossibile. Tra anarchici esocialisti c’erano antiche gelosie, i membri del POUM, in quanto marxisti, eranoscettici nei confronti degli anarchici, mentre dal punto di vista dell’anarchia pura il“trockijsmo” del POUM non era poi tanto meglio dello “stalinismo” dei comunisti.Nondimeno, le tattiche adottate dai comunisti tendevano a spingere i due partiti adallearsi. Quando il POUM si gettò nei disastrosi scontri di maggio a Barcellona, fusoprattutto per l’istintiva reazione di schierarsi al fianco della CNT, e in seguito,quando il POUM fu soppresso, gli anarchici furono gli unici che osarono levare leproprie voci in sua difesa.

Insomma, a grandi linee, lo schieramento delle forze era questo: da una parte laCNT-FAI, il POUM e un settore dei socialisti a favore del potere operaio; dall’altra isocialisti di destra, i liberali e i comunisti che sostenevano un governo centralizzato eun esercito convenzionale e militarizzato.

Si può facilmente comprendere come mai, in quel periodo, io preferissi il punto divista dei comunisti a quello del POUM. I comunisti avevano una linea politica chiara epragmatica, chiaramente migliore dal punto di vista del buonsenso che guardaalmeno all’immediato futuro. E di sicuro il comportamento politico quotidiano delPOUM, la sua propaganda eccetera, erano indicibilmente sbagliati; per lo meno deveessere stato così, altrimenti avrebbero attirato un seguito di massa ben piùconsistente. Ma il fatto determinante era che i comunisti – a quanto mi pareva –continuavano a portare avanti la guerra mentre noi e gli anarchici sembravamomarcare il passo. Questa era la sensazione che tutti avevano all’epoca. I comunistiavevano guadagnato potere e un cospicuo aumento di adesioni in parte facendoappello ai ceti medi contro i rivoluzionari, ma in parte anche perché erano le unichepersone che sembravano in grado di vincere la guerra. Le armi russe e la magnificadifesa di Madrid da parte di truppe controllate in gran parte dai comunisti liavevano resi gli eroi di Spagna. Come ha detto qualcuno, ogni aereo russo che civolava sopra la testa faceva propaganda ai comunisti. Il purismo rivoluzionario delPOUM, per quanto ne intravedessi la logica interna, mi pareva piuttosto futile. Dopotutto, l’unica cosa che contava era vincere la guerra.

Nel frattempo però c’era la diabolica faida interpartitica che trovava espressionesoprattutto sui giornali, negli opuscoli, nei manifesti, nei libri – insommadappertutto. In questo periodo i giornali che leggevo più spesso erano quelli delPOUM, «La Batalla» e «Adelante»; il loro continuo prendersela con i“controrivoluzionari” del PSUC mi sembrava un po’ arrogante, snob e noioso. Inseguito, quando esaminai più da vicino la stampa del PSUC e quella filocomunista, miresi conto che il POUM era quasi innocente a confronto con i suoi avversari. A partetutto, il POUM aveva molte meno opportunità di esprimersi. Al contrario deicomunisti, non aveva alcuna influenza nella stampa al di fuori della Spagna, e ancheall’interno era enormemente svantaggiato perché la censura sulla stampa era quasi

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tutta in mano ai comunisti, il che significava che i giornali del POUM correvano ilrischio di essere cancellati o multati se avessero detto qualcosa di pericoloso. Peressere giusti nei confronti del POUM bisogna anche aggiungere che per quanto i suoidirigenti potessero fare delle prediche infinite sulla rivoluzione e citare Lenin finoalla nausea, di solito non scendevano sul piano della calunnia personale. Inoltrelimitavano la polemica agli articoli di giornale. I loro manifesti variopinti, destinati aun pubblico più vasto (i manifesti sono importanti in Spagna, vista l’enormediffusione dell’analfabetismo), non attaccavano mai i partiti rivali, ma eranosemplicemente antifascisti o astrattamente rivoluzionari; altrettanto dicasi dei cantidei miliziani. Gli attacchi dei comunisti erano di tutt’altro genere. Ne parlerò piùampiamente in un’altra parte del libro. Qui posso fare solo un breve accenno allaloro linea di attacco.

In superficie il contrasto tra i comunisti e il POUM era una questione di tattichediverse. Il POUM era favorevole a una rivoluzione immediata, i comunisti no. E finqui tutto bene; ci sono molti argomenti a favore dell’una e dell’altra posizione.Inoltre i comunisti sostenevano che la propaganda del POUM divideva e indeboliva leforze governative, mettendo così in pericolo l’andamento della guerra; anche questa,per quanto in definitiva non sia d’accordo, è una tesi che può essere sostenuta dabuoni argomenti. Ma è a questo punto che intervengono le peculiarità della tatticacomunista. Dapprima in modo incerto, poi via via sempre più forte, i comunisticominciarono a sostenere che il POUM stava dividendo le forze governative non perdissennatezza politica, ma secondo un piano premeditato. Il POUM fu denunciatocome nient’altro che una banda di fascisti travestiti, al soldo di Franco e di Hitler,che spingevano per una politica pseudorivoluzionaria solo per aiutare la causafascista. Il POUM era un’organizzazione “trockijsta” e “la quinta colonna di Franco”.Questo voleva dire che decine di migliaia di appartenenti alla classe operaia,compresi otto-diecimila soldati che stavano gelando nelle trincee in prima linea e lecentinaia di stranieri che erano venuti in Spagna per combattere il fascismo, spessosacrificando per questo il proprio posto di lavoro e la propria cittadinanza, nonerano altro che traditori al soldo del nemico. Questa storia veniva diffusa in tutta laSpagna con manifesti eccetera, e ribadita più volte dalla stampa comunista efilocomunista di tutto il mondo. Potrei riempire mezza dozzina di libri con citazionipertinenti, se solo volessi raccoglierle.

Dunque era questo che dicevano di noi: eravamo trockijsti, fascisti, traditori,assassini, vigliacchi, spie e così via. Ammetto che non era affatto piacevole,specialmente quando si pensava ad alcune delle persone che erano responsabili diquesta campagna. Non è una bella cosa vedere un ragazzo spagnolo di quindici anniportato in barella dalla prima linea, col volto pallido e attonito che spunta dallecoperte, e pensare allo stesso tempo alle persone eleganti che a Londra e a Parigisono intente a scrivere opuscoli propagandistici per provare che questo ragazzino èun fascista mascherato. Uno degli aspetti più orrendi della guerra è proprio che lapropaganda bellica, le grida, le menzogne e l’odio provengono invariabilmente dapersone che non combattono. I miliziani del PSUC che ho conosciuto al fronte, icomunisti delle Brigate Internazionali che ho incontrato di tanto in tanto, non mihanno mai chiamato trockijsta o traditore; lasciavano quel tipo di cosa ai giornalistinelle retrovie. La gente che scriveva opuscoli contro di noi e ci insultava sui giornalise ne stava a casa al sicuro, o al massimo nelle redazioni di Valencia, a centinaia dichilometri dalle pallottole e dal fango. E a parte le calunnie della faida tra i partiti,

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tutte le solite cose che accompagnano la guerra, i colpi di grancassa, gliatteggiamenti eroici, lo svilimento del nemico – tutte queste cose erano, come alsolito, opera di gente che non combatteva e che in molti casi sarebbe scappata a centochilometri di distanza piuttosto che combattere. Uno degli effetti più terribili diquesta guerra è stato apprendere che la stampa di sinistra è falsa e disonesta quantoquella di destra. g Credo seriamente che da parte nostra – dalla parte cioè delgoverno – questa guerra sia stata diversa dalle normali guerre a carattereimperialistico; ma dal tenore della propaganda bellica non si sarebbe mai riusciti acapirlo. I combattimenti erano appena iniziati che i giornali di sinistra e di destra sierano tuffati con perfetta simmetria nella stessa fogna di insulti. Ricordiamo tutti ilmanifesto del «Daily Mail»: I ROSSI CROCEFIGGONO LE SUORE, mentre secondo il«Daily Worker» la Legione Straniera di Franco era “composta da assassini,organizzatori della tratta delle bianche, tossicodipendenti e la feccia di ogni paeseeuropeo”. Fino all’ottobre 1937 il «New Statesman» ci propinava ancora storie dibarricate fasciste erette con i corpi di bambini vivi (un materiale quanto maiscomodo per erigere barricate), mentre Arthur Bryant dichiarava che segar via legambe ai commercianti conservatori era “una pratica comune” nella Spagna lealista.La gente che scrive questo genere di cose non combatte mai; magari è convinta chescrivere sia un succedaneo del combattere. Accade lo stesso in tutte le guerre; isoldati combattono, i giornalisti strillano e nessun vero patriota si avvicina mai a unatrincea di prima linea, tranne forse per un brevissimo giro di propaganda. A volteper me è una consolazione pensare che l’aeroplano sta modificando le condizionidella guerra. Forse quando scoppierà la prossima grande guerra potremmo vedereuno spettacolo che non ha precedenti in tutta la storia: un fanfarone patriotticotrapassato da una pallottola.

Per quanto riguarda la parte giornalistica, questa guerra effettivamente è stata ungrande imbroglio come tutte le guerre. Ma una differenza in fondo c’era: laddove disolito i giornalisti riservano le loro peggiori invettive per il nemico, in questo caso, amano a mano che passava il tempo, i comunisti e il POUM arrivarono a scrivere piùaspramente gli uni degli altri di quanto non facessero nei confronti dei fascisti.Nondimeno all’epoca non riuscivo a convincermi a prendere la cosa molto sul serio.La faida tra i partiti mi dava fastidio e perfino disgusto, ma mi sembrava una speciedi lite in famiglia. Non credevo che avrebbe cambiato niente o che dietro ci fosserodue linee politiche veramente inconciliabili. Riuscivo a capire che i comunisti e iliberali si erano messi in testa di non lasciare che la rivoluzione andasse avanti;quello che non riuscivo a capire era che potessero essere in grado di farla addiritturatornare indietro.

C’era un buon motivo per questo. In tutto quel periodo io mi trovavo al fronte e lìl’atmosfera sociale e politica non cambiò mai. Avevo lasciato Barcellona ai primi digennaio e non vi feci ritorno in licenza fino alla fine di aprile; e in tutto questoperiodo – anzi, anche dopo – nella striscia di Aragona controllata dagli anarchici edal POUM, rimasero in vigore le stesse condizioni, per lo meno all’esterno.L’atmosfera rivoluzionaria restava quella che avevo conosciuto al principio.Generale e soldato semplice, contadino e miliziano s’incontravano ancora alla pari.Tutti prendevano lo stesso salario, indossavano gli stessi vestiti, mangiavano lostesso cibo e si davano del “tu”, chiamandosi “compagno”; non c’era una classedirigente e una classe umile, non c’erano mendicanti, prostitute, avvocati, preti,nessuno leccava le scarpe di altri, nessuno si levava il cappello davanti a un altro.

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Respiravo l’aria dell’eguaglianza ed ero abbastanza ingenuo da immaginare che lastessa aria spirasse in tutta la Spagna. Non mi ero reso conto che, più o meno percaso, ero rimasto isolato nel settore più rivoluzionario della classe operaia spagnola.

Così, quando i miei compagni politicamente più preparati mi dicevano chenessuno poteva considerare la guerra da un punto di vista puramente militare e chel’alternativa era tra rivoluzione e fascismo, tendevo a burlarmi di loro. A grandi lineeaccettavo la prospettiva dei comunisti che, ridotta all’osso, diceva pressappoco:“Non si può parlare di rivoluzione finché non si vince la guerra”, invece di quelladel POUM che, ridotta all’osso, diceva: “O si va avanti o si torna indietro”. Quando inseguito decisi che aveva ragione il POUM, o perlomeno aveva più ragione deicomunisti, il cambiamento di opinione non fu esattamente dovuto a un argomentoteorico. Sulla carta, l’ipotesi dei comunisti continuava ad avere una certa validità; ilguaio era che il loro comportamento in pratica rendeva estremamente difficilecredere che fossero in buona fede. Lo slogan continuamente ripetuto: “Prima laguerra, poi la rivoluzione”, per quanto convincente fosse per il miliziano medio delPSUC, che in tutta onestà credeva davvero che la rivoluzione sarebbe continuata dopoche la guerra fosse stata vinta, non era che fumo negli occhi. Quello per cui icomunisti stavano lavorando non era rimandare la rivoluzione spagnola a tempimigliori, ma assicurarsi che non avesse mai luogo. Questo divenne sempre piùchiaro a mano a mano che il tempo passava e il potere veniva strappato sempre piùdalle mani della classe operaia, e rivoluzionari di ogni tipo venivano gettati inprigione in numero sempre maggiore. Ogni mossa era fatta in nome delle esigenzemilitari, perché in un certo senso il pretesto era già pronto, ma l’effetto fu quello disospingere nuovamente indietro i lavoratori da una posizione di vantaggio percacciarli in una da cui, a guerra finita, sarebbe stato per loro impossibile opporsi allareintroduzione del capitalismo. Vi prego di notare che non sto dicendo niente dinegativo sui militanti di base comunisti e men che mai delle migliaia di loro che sonomorti nell’eroica difesa di Madrid. Ma quelli non erano certo gli uomini chedettavano la linea politica del partito. Quanto ai dirigenti veri e propri, non èconcepibile che stessero agendo senza rendersene conto.

Comunque, tutto sommato, valeva la pena di vincere la guerra anche se larivoluzione era perduta. Ma alla fine cominciai a dubitare che, in una prospettiva alungo termine, la strategia dei comunisti avrebbe portato alla vittoria. Pochissimepersone sembrano aver riflettuto che una strategia politica diversa può essere adattaa diverse fasi della guerra. Con ogni probabilità gli anarchici salvarono la situazionenei primi due mesi, ma poi furono incapaci di organizzare la resistenza oltre un certopunto; probabilmente i comunisti salvarono la situazione tra ottobre e dicembre, maper vincere la guerra c’era bisogno di tutt’altro. In Inghilterra la strategia politica deicomunisti per portare avanti la guerra è stata accettata senza discussione, perché apochissime posizioni critiche nei suoi confronti è stato permesso di apparire sullastampa e anche perché la sua linea generale – sbarazzarsi del caos rivoluzionario,accelerare la produzione, militarizzare l’esercito – sembrava realistica ed efficiente.Ma vale la pena indicare le sue debolezze interne.

Per controllare qualsiasi tendenza rivoluzionaria e rendere la guerra quanto piùnormale possibile è stato necessario sprecare delle opportunità strategiche che sisono effettivamente presentate. Ho già descritto come fossimo armati, o meglio nonarmati, sul fronte aragonese. Non c’è più il minimo dubbio che le armi fosserodeliberatamente tenute lontane da questo fronte per impedire che finissero in

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quantità eccessive nelle mani degli anarchici, i quali in seguito avrebbero potutousarle a scopi rivoluzionari; di conseguenza la grande offensiva sul fronte aragonese,che avrebbe potuto far ritirare Franco da Bilbao e forse anche da Madrid, non ebbemai luogo. Ma questo era un problema relativamente minore. La cosa piùimportante era che una volta ridotta la guerra a una “lotta per la democrazia”divenne impossibile lanciare un più ampio appello all’estero per ottenere l’aiutodella classe operaia. Se affrontiamo apertamente i fatti dobbiamo ammettere che laclasse operaia mondiale ha considerato la guerra di Spagna con un certo distacco.Decine di migliaia di individui sono venuti a combattere, ma decine di milioni dialtri alle loro spalle sono rimasti apatici. Si calcola che nel corso del primo anno diguerra in tutta l’Inghilterra i versamenti nei vari fondi di “aiuto alla Spagna” sianoammontati a un quarto di milione di sterline – probabilmente meno di quanto gliinglesi spendono in una settimana per andare al cinema. Il modo in cui la classeoperaia degli stati democratici avrebbe potuto davvero aiutare i compagni spagnoliera attraverso iniziative di azione industriale, cioè scioperi e boicottaggi. Niente delgenere è mai stato tentato. Ovunque, i dirigenti laburisti e comunisti hannodichiarato che era una cosa impensabile e avevano indubbiamente ragione, fintantoche continuavano a strillare a gola spiegata che la Spagna “rossa” non era affatto“rossa”. Già dal 1914-18 la frase “guerra per la democrazia” ha avuto un’eco sinistra.Da anni ormai gli stessi comunisti insegnavano agli operai militanti di tutto il mondoche “democrazia” non è altro che un eufemismo per dire capitalismo. Dire prima “lademocrazia è una truffa” e poi “combattete per la democrazia!” non mi pare unabuona tattica. Se, con l’appoggio dell’enorme prestigio dell’Unione Sovietica, sifossero appellati ai lavoratori del mondo in nome della “Spagna rivoluzionaria”invece che della “Spagna democratica”, è difficile credere che non avrebberoricevuto una risposta positiva.

Ma la cosa più importante è che con una linea politica non rivoluzionaria eradifficile, se non impossibile, colpire Franco alle spalle. Nell’estate del 1937 Francoteneva sotto il suo controllo una popolazione maggiore di quella sotto il controllo delgoverno – molto più grande se si contavano anche le colonie – con un numero ditruppe pressoché equivalente. Come tutti sanno, con una popolazione ostile allespalle è impossibile tenere in campo un esercito senza avere un altro esercito diproporzioni analoghe che controlli le linee di comunicazione, reprima i sabotaggi ecosì via. Era evidente, perciò, che nelle retrovie franchiste non c’era un vero eproprio movimento popolare. Era inconcepibile che nel territorio da lui controllato lagente, per lo meno gli operai urbani e i braccianti più poveri, provasse simpatia perFranco o lo volesse, ma con ogni successivo spostamento a destra la superiorità delleforze governative diventava sempre meno apparente. L’argomento che dimostrasenza possibilità di dubbio questa ipotesi è il caso del Marocco. Perché non ci fualcuna ribellione in Marocco? Franco stava cercando di organizzare un’infamedittatura e davvero i marocchini preferivano lui al governo del Fronte Popolare? Laverità tangibile è che non c’è stato alcun tentativo di fomentare una rivolta inMarocco perché farlo avrebbe caratterizzato la guerra in senso rivoluzionario. Laprima esigenza per convincere i marocchini della buona fede del governo avrebbedovuto essere proclamare la liberazione del Marocco. E possiamo immaginarequanto sarebbero stati contenti i francesi di una cosa del genere! La miglioreopportunità strategica dell’intero conflitto è stata buttata al vento nella vanasperanza di tranquillizzare il capitalismo francese e quello britannico. La tendenza di

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tutta la linea politica comunista è stata di ridurre il conflitto al livello di una guerranormale e non rivoluzionaria, e questo ha finito per svantaggiare gravemente ilgoverno. Perché una guerra di questo tipo deve essere vinta con mezzi puramentemeccanici, cioè, in definitiva, da rifornimenti di armi senza limitazione alcuna; e ilprincipale fornitore di armi del governo, l’URSS, era geograficamente moltosvantaggiato rispetto all’Italia e alla Germania. Forse lo slogan degli anarchici e delPOUM: “Guerra e rivoluzione sono inseparabili” era meno visionario di quanto nonsembri.

Ho esposto i motivi che ritengo giustifichino la mia convinzione che la lineaantirivoluzionaria dei comunisti fosse sbagliata, ma per quanto riguarda gli effettiche essa potrà avere sull’andamento del conflitto non spero certo di aver ragione.Anzi spero mille volte di avere torto. Desidero con tutto il cuore vedere la guerravinta a qualsiasi costo. Ma naturalmente non possiamo ancora prevedere che cosasuccederà. Il governo può ancora compiere una nuova svolta a sinistra, i marocchinipossono ancora ribellarsi autonomamente. L’Inghilterra potrebbe decidere di pagarel’Italia perché si ritiri, la guerra può essere vinta sul piano strettamente militare –non si può mai sapere. Lascio che il tempo decida se le opinioni sopra esposte sianoo meno giuste.

Ma nel febbraio del 1937 non vedevo certo le cose in questa luce. Ero stufo enauseato dall’inazione sul fronte aragonese e soprattutto consapevole di non averfatto del tutto la mia parte come combattente. Pensavo al manifesto di reclutamentoche avevo visto a Barcellona e che perentoriamente chiedeva al passante: “E tu checosa hai fatto per la democrazia?”, e l’unica risposta che mi sentivo di dare era: “Horitirato le mie razioni”. Quando mi ero arruolato nella milizia mi ero ripromesso diammazzare almeno un fascista – dopotutto, se ognuno ne avesse ammazzato almenouno si sarebbero presto estinti – e invece ancora non ci ero riuscito e anzi quasi nonavevo neanche avuto la possibilità di farlo. E poi naturalmente volevo andare aMadrid. Questo avrebbe probabilmente significato passare nella ColonnaInternazionale, in quanto il POUM aveva ormai pochissimi uomini su quel fronte e glianarchici meno di quanti ne avessero prima.

Ma per il momento, è ovvio, bisognava starsene al proprio posto al fronte; peròdicevo a tutti che appena fossimo andati in licenza avrei tentato, se possibile, dipassare nella Colonna Internazionale, il che avrebbe significato mettermi sotto ilcontrollo comunista. Varie persone cercarono di dissuadermi, ma nessuno tentò diinterferire con le mie decisioni. È giusto notare che all’interno del POUM c’erapochissima caccia all’eretico, forse addirittura non abbastanza, considerando leparticolari condizioni in cui si trovavano; a meno che uno non fosse filofascista,nessuno era penalizzato per avere opinioni politiche sbagliate. Parecchio del tempopassato nelle file della milizia l’ho usato per criticare aspramente la linea politica delPOUM, ma questo non mi ha mai procurato il minimo guaio. Non c’era neanchealcuna pressione perché si prendesse la tessera del partito, anche se credo che lamaggior parte dei miliziani abbiano poi finito per farlo. Quanto a me, non mi sonomai iscritto – cosa di cui poi in seguito, quando il POUM è stato sciolto, mi sonoabbastanza pentito.

a. Quiroga, Barrio e Giral. I primi due si rifiutarono di distribuire armi ai sindacati.

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b. Comité Central de Milicias Antifascistas. I delegati erano scelti in proporzione ai numeri di appartenenti allevarie organizzazioni. Nove delegati rappresentavano i sindacati, tre i partiti liberali catalani e due i vari partitimarxisti (POUM, i comunisti e gli altri).

c. Ecco perché c’erano così poche armi russe sul fronte aragonese, dove le truppe erano principalmenteanarchiche. Fino all’aprile 1937 l’unica arma russa che io abbia visto – a parte qualche aereo che poteva essere,ma anche non essere, di fabbricazione sovietica – fu una solitaria mitraglietta.

d. Discorso alla Camera dei Deputati, marzo 1935.e. Per un ottimo resoconto dell’interrelazione tra i vari partiti della coalizione governativa si veda The Spanish

Cockpit di Franz Borkenau. Questo è di gran lunga il miglior libro che sia finora apparso sulla Guerra civilespagnola.

f. Le cifre delle adesioni al POUM sono le seguenti: luglio 1936, diecimila; dicembre 1936, settantamila; giugno

1937, quarantamila. Ma queste sono di fonte POUM, una stima avversaria le dividerebbe probabilmente per

quattro. L’unica cosa che posso dire con certezza sulla forza dei partiti politici spagnoli è che ognuno di essitende a sovrastimare i propri iscritti.

g. Vorrei fare un’eccezione per il «Manchester Guardian». Per scrivere questo libro ho dovuto esaminare gliarchivi di un buon numero di giornali inglesi. Tra tutti i giornali più importanti il «Manchester Guardian» èl’unico che mi lascia con un accresciuto rispetto per la sua onestà.

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Appendice II

Se non siete interessati alle controversie politiche e alla folla di partiti e sotto-partitidai nomi che si confondono tra loro (un po’ come i nomi dei generali in una guerracinese), saltate pure questa parte. Dover entrare nei dettagli delle polemicheinterpartitiche è una cosa orribile: è come doversi tuffare in una fogna. Però ènecessario, per quanto possibile, tentare di ristabilire la verità. Questa squallida rissain una città lontana è più importante di quanto possa apparire a prima vista.

Ottenere un resoconto quanto mai accurato e imparziale degli scontri diBarcellona non sarà mai possibile perché non esistono i documenti necessari perfarlo. Gli storici del futuro non avranno niente su cui basarsi se non una massa diaccuse e di propaganda di partito. Io stesso ho pochissimi dati oltre a quelli che horaccolto con i miei stessi occhi o che ho appreso da altri testimoni diretti che ritengoaffidabili. A ogni modo, sono in grado di smentire alcune delle menzogne piùlampanti e di contribuire a mettere i fatti in una certa prospettiva.

Prima di tutto, cos’è accaduto veramente?Già da diverso tempo tutta la Catalogna era percorsa da forti tensioni. In una

parte precedente del libro ho spiegato la lotta in corso tra comunisti e anarchici. Nelmaggio 1937 le cose avevano raggiunto un punto tale da ritenere ormai inevitabilequalche esplosione di violenza. La causa immediata di contrasto fu l’ordinanzagovernativa di consegnare tutte le armi private, coincisa con la decisione di costituireuna forza di polizia “non-politica” armata pesantemente e da cui sarebbero statiesclusi gli iscritti ai sindacati. Il senso di questa mossa era evidente a tutti, ed eraaltrettanto chiaro che la mossa successiva sarebbe stata quella di impadronirsi dialcune delle industrie-chiave controllate dalla CNT. In aggiunta, c’era anche un certorisentimento che serpeggiava nella classe operaia per il crescente contrasto traricchezza e povertà e la vaga, ma diffusa impressione che la rivoluzione fosse statasabotata. Parecchie persone rimasero piacevolmente sorprese quando il Primomaggio non ci furono scontri di piazza. Il 3 maggio il governo decise diimpossessarsi della centrale telefonica che sin dall’inizio della guerra era stata fattafunzionare soprattutto da operai della CNT; circolavano voci che fosse mal gestita eche le telefonate ufficiali fossero intercettate. Salas, il capo della polizia (forsetravalicando gli ordini ricevuti, forse no), spedì tre camion pieni di Guardied’Assalto armate a occupare l’edificio, mentre le strade immediatamente adiacentivenivano sgombrate da poliziotti armati in abiti civili. Circa nello stesso momentobande di Guardie d’Assalto occuparono vari altri palazzi in punti strategici delcentro. Quali che fossero le vere intenzioni dietro quell’operazione, ci fu la diffusaimpressione che rappresentasse il segnale per un attacco generalizzato alla CNT daparte delle Guardie d’Assalto del PSUC (comunisti e socialisti). La notizia che gliedifici in mano agli operai erano sotto attacco fece rapidamente il giro della città,anarchici armati apparvero nelle strade, il lavoro si fermò e gli scontri cominciaronoimmediatamente. Quella notte e il mattino dopo furono erette barricate in tutta la

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città e gli scontri proseguirono senza tregua fino al mattino del 6 maggio. Icombattimenti, comunque, furono principalmente difensivi da entrambe le parti. Gliedifici erano assediati, ma per quanto mi consta, non furono mai presi d’assalto enon si fece mai ricorso all’artiglieria. Grosso modo le forze della CNT-FAI e del POUMcontrollavano le periferie operaie mentre le forze armate della polizia e del PSUCcontrollavano la parte ufficiale e centrale della città. Il 6 maggio ci fu un armistizio,ma i combattimenti ripresero subito dopo, probabilmente a causa di tentativiprematuri da parte delle Guardie d’Assalto di disarmare operai della CNT. Il mattinodopo, comunque, la gente cominciò a lasciare spontaneamente le barricate. Fino allanotte del 5 maggio, all’incirca, la CNT aveva avuto la meglio e un gran numero diGuardie d’Assalto si era arreso. Ma non c’era un comando accettato da tutti e nessunpiano prestabilito – anzi, da quanto si poteva vedere, nessun piano tranne unagenerica determinazione a resistere alle Guardie d’Assalto. I dirigenti ufficiali dellaCNT si erano uniti a quelli della UGT nell’implorare tutti perché tornassero a lavorare;soprattutto, il cibo cominciava a scarseggiare. In circostanze come queste nessunoera sicuro di come sarebbe andata a finire se si continuava a combattere. Ilpomeriggio del 7 le condizioni erano pressoché tornate alla normalità. Quella serastessa seimila Guardie d’Assalto, arrivate da Valencia via mare, presero il controllodella città. Il governo emise un’ordinanza per la consegna immediata di tutte le armia eccezione di quelle in dotazione alle forze regolari, e nel corso delle giornatesuccessive furono sequestrate grosse quantità di armi. Il numero delle vittime nelcorso degli scontri fu ufficialmente fissato: quattrocento morti e un migliaio circa diferiti. È possibile che la cifra di quattrocento morti sia un po’ esagerata, ma dato chenon c’è modo di verificarla dobbiamo accettarla come esatta.

In secondo luogo, per quanto riguarda le conseguenze degli scontri è chiaramenteimpossibile dire con assoluta certezza quali siano state. Non c’è nessuna prova chegli scontri abbiano avuto alcun effetto diretto sull’andamento della guerra, anche seè chiaro che lo avrebbero senz’altro avuto se fossero continuati ancora per qualchegiorno. Questa fu la scusa ufficiale per portare la Catalogna sotto il controllo direttodel governo di Valencia, per accelerare lo scioglimento delle milizie e per la messafuorilegge del POUM, e non c’è dubbio che contribuì anche alla caduta del governoCaballero. Ma possiamo dare per certo che queste cose sarebbero accadute in ognicaso. Il vero problema è stabilire se gli operai della CNT che scesero in piazza abbianovinto o perso nel mostrare la loro combattività in questa occasione. La materia èmolto opinabile, ma io sono convinto che abbiano guadagnato più di quanto abbianoperso. L’occupazione della centrale telefonica di Barcellona rappresentavasemplicemente un incidente in un più ampio processo. Sin dall’anno precedenteerano in corso manovre per togliere il controllo diretto dalle mani dei sindacati e latendenza generale era quella di riportare il potere nelle mani di un governocentralizzato togliendolo alla classe operaia, per andare verso un qualche tipo dicapitalismo di stato o addirittura verso la reintroduzione del capitalismo privato. Ilfatto che a questo punto ci fosse un minimo di resistenza ha probabilmente rallentatoquesto processo. A un anno dallo scoppio della guerra i lavoratori catalani avevanoperso gran parte del loro potere, ma la loro posizione era ancora relativamente forte.Lo sarebbe stata molto di meno se avessero dimostrato di restare passivi di fronte aqualsiasi provocazione. Ci sono occasioni in cui conviene combattere ed esseresconfitti piuttosto che non reagire affatto.

In terzo luogo, quale proposito c’era, se c’era, dietro allo scoppio delle ostilità? Si

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trattava di una sorta di colpo di stato o di un tentativo rivoluzionario? Aveva comescopo precipuo quello di rovesciare il governo? Era stato preparato in anticipo?

La mia opinione è che gli scontri erano stati preparati in anticipo soltanto nelsenso che ormai tutti se li aspettavano. Non ci sono prove di un piano preciso epreordinato da nessuna delle due parti. L’azione da parte anarchica fu quasicertamente spontanea, perché fu condotta soprattutto dalla base. Le persone sceseronelle strade e i loro dirigenti politici le seguirono con riluttanza o addirittura non leseguirono affatto. Gli unici militanti che si limitarono a parlare con accentirivoluzionari furono gli Amici di Durruti, gruppuscolo estremista all’interno dellaFAI, e il POUM. Ma ancora una volta seguivano e non dirigevano. Gli Amici di Durrutidistribuirono una specie di volantino rivoluzionario, ma questo non apparve fino al5 maggio e perciò non si può certo dire che abbia causato gli scontri, cominciatiindipendentemente due giorni prima. I dirigenti ufficiali della CNT si dissociaronodall’intera faccenda sin dall’inizio. C’erano diversi motivi per questa presa diposizione. Tanto per cominciare, il fatto che la CNT fosse ancora rappresentata inseno al governo e alla Generalitat faceva sì che i suoi dirigenti fossero piùconservatori dei loro seguaci. In secondo luogo, l’obiettivo principale della dirigenzadella CNT era quello di allearsi con la UGT, quando invece gli scontri non avrebberofatto altro che approfondire l’abisso tra le due centrali sindacali, per lo menonell’immediato. In terzo luogo – anche se all’epoca non era noto a tutti – i dirigentianarchici temevano che se le cose fossero andate oltre un certo punto e i lavoratori sifossero impadroniti della città, come forse avevano la possibilità di fare il 5 maggio,ci sarebbe stato un intervento straniero. Un incrociatore e due cacciatorpedinierebritannici si erano avvicinati al porto e senza dubbio c’erano altre navi da guerra nonmolto lontano. I giornali inglesi sostenevano che queste navi avanzavano versoBarcellona “per proteggere gli interessi britannici”, ma in realtà non presero alcunainiziativa in questo senso; in altre parole non fecero sbarcare soldati né imbarcaronoprofughi. Non si può avere alcuna certezza in proposito, ma si può ritenere cheprobabilmente il governo britannico, che non aveva alzato un dito per proteggerequello spagnolo da Franco, sarebbe intervenuto abbastanza rapidamente per salvarlodalla propria classe operaia.

I dirigenti del POUM non si dissociarono dagli incidenti, anzi esortarono i propriseguaci a presidiare le barricate e si spinsero addirittura a esprimere la propriaapprovazione (su «La Batalla» del 6 maggio) al volantino estremista stilato dagliAmici di Durruti. (Su questo volantino, di cui ora nessuno riesce a tirare fuori unacopia, sussistono parecchie incertezze.) Su alcuni giornali stranieri viene descrittocome “un manifesto incendiario” di cui tutta la città sarebbe stata “tappezzata”. Disicuro un manifesto del genere non è mai apparso. Mettendo a confronto varietestimonianze direi che il volantino rivendicava 1) la formazione di un consigliorivoluzionario (junta); 2) la fucilazione dei responsabili dell’attacco alla centraletelefonica; 3) il disarmo delle Guardie d’Assalto. C’è qualche incertezza persino sufino a che punto «La Batalla» espresse accordo con questo volantino. Personalmentenon ho visto né il volantino né «La Batalla» di quel giorno. L’unico volantino che hoavuto tra le mani nel corso degli scontri era uno preparato da un gruppuscolotrockijsta (i “bolscevico-leninisti”) e datato 4 maggio. Si limitava a dire: “Tutti allebarricate! Sciopero generale di tutte le industrie tranne quelle di interesse bellico”.(In altre parole, auspicava soltanto quello che stava già succedendo.) In realtàl’atteggiamento dei dirigenti del POUM fu pieno di esitazioni. Non avevano mai visto

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di buon occhio un’insurrezione, finché la guerra contro Franco non fosse stata vinta;d’altra parte però i lavoratori erano scesi in strada e la dirigenza del POUM seguì inmaniera piuttosto pedante la linea marxista che indica come preciso dovere deipartiti rivoluzionari quello di stare con i lavoratori quando questi scendono instrada. Per questo, nonostante pronunciassero slogan rivoluzionari sul “risvegliodello spirito del 19 luglio” e così via, fecero del loro meglio per limitare l’azione deglioperai in funzione difensiva. Per esempio non ordinarono mai di prendere d’assaltoalcun edificio; si limitarono a ordinare ai propri seguaci di vigilare e, come ho avutomodo di dire nel capitolo IX, di non aprire il fuoco se si poteva evitare di farlo. «LaBatalla» pubblicò anche precise istruzioni perché le truppe non abbandonassero ilfronte. a Nella misura in cui si possono valutare certe cose, direi che tutta laresponsabilità che si può attribuire al POUM si limiti all’aver esortato tutti a rimaneresulle barricate e con ogni probabilità ad aver convinto un certo numero di persone arimanerci più di quanto non avrebbero fatto altrimenti. Chi è stato direttamente incontatto con i dirigenti del POUM in quel momento (io non lo ero) mi ha riferito che inrealtà erano rimasti sgomenti dall’intera faccenda, ma avevano ritenuto loro precisodovere rimanere al fianco dei militanti. In seguito, com’è naturale, gli avvenimentifurono politicamente sfruttati nel solito modo. Gorkin, uno dei dirigenti del POUM,più tardi ne parlò come delle “gloriose giornate di maggio”. Dal punto di vista dellapropaganda politica questo poteva essere l’atteggiamento giusto da assumere; disicuro le adesioni al POUM aumentarono di misura nel breve periodo precedente alsuo scioglimento. Tatticamente, però, forse fu un errore solidarizzare col volantinodegli Amici di Durruti, che era una piccola formazione e di solito ostile nei confrontidel POUM. Considerando lo stato di eccitazione generale e le cose che si dicevano daentrambe le parti, il volantino in realtà non affermava molto altro che “Rimanetesulle barricate”; ma con l’appoggio manifestato nei suoi confronti (mentre«Solidaridad Obrera», l’organo ufficiale degli anarchici, se ne dissociava), i dirigentidel POUM facilitarono il compito della stampa comunista, la quale sosteneva che gliscontri fossero una sorta di insurrezione ispirata soltanto dal POUM. A ogni modopossiamo star sicuri che la stampa comunista si sarebbe comunque espressa in questitermini. Questa accusa non era niente in confronto alle altre mosse sia prima chedopo sulla base di prove ancor più inconsistenti. I dirigenti della CNT non hannocerto guadagnato molto con il loro atteggiamento più cauto; sono stati sì lodati per laloro fedeltà, ma poi, alla prima occasione, sono stati ugualmente scalzati dalle loroposizioni in seno al governo e alla Generalitat.

A quanto si può giudicare da quello che la gente diceva all’epoca, non è che vifossero in realtà delle intenzioni rivoluzionarie da parte di nessuno. Coloro chepresidiavano le barricate erano semplici operai della CNT, e magari in mezzo a loroc’era anche qualche membro dell’UGT, e ciò che si proponevano di fare non era tantorovesciare il governo quanto opporre resistenza a quello che, a torto o a ragione,ritenevano fosse un attacco da parte della polizia. La loro azione era essenzialmentedifensiva e dubito molto che possa essere descritta, come hanno fatto quasi tutti igiornali stranieri, come una “rivolta”. Una rivolta implica un’azione di attacco e unpiano preciso. Più esattamente si trattò di una serie di disordini – molto sanguinosiperché entrambe le parti avevano a disposizione armi da fuoco e una gran voglia diusarle.

Ma che dire delle intenzioni dell’altra parte in conflitto? Se non era un colpo di

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stato d’ispirazione anarchica, si trattava forse di un colpo di stato comunista – unosforzo programmato per distruggere in un sol colpo il potere della CNT?

Secondo me non si è trattato di questo, anche se certe cose potrebbero far venirequesto sospetto. È significativo che qualcosa del genere (occupazione della centraletelefonica da parte di poliziotti armati che agivano su ordini provenienti daBarcellona) ebbe luogo anche a Tarragona due giorni dopo. E anche a Barcellonal’irruzione nella centrale telefonica non fu un’azione isolata. In varie parti della cittàbande di Guardie d’Assalto locali e aderenti al PSUC s’impossessarono di edificisituati in posizioni strategiche, se non proprio prima dello scoppio degli scontri,perlomeno con sorprendente prontezza. Ma bisogna anche ricordare che queste cosesuccedevano in Spagna e non in Inghilterra. Barcellona è una città che ha una lungastoria di insurrezioni e scontri di piazza. In posti come questi le cose accadono infretta, le fazioni sono già pronte, tutti conoscono bene la geografia locale, e quando learmi cominciano a far fuoco la gente prende posizione quasi come si farebbe nelcorso di un’esercitazione antincendio. Si può presumere che i responsabilidell’occupazione della centrale telefonica si aspettassero una reazione – anche semagari non delle dimensioni che poi in realtà ebbe – e che si fossero preparati afronteggiarla. Ma da ciò non consegue necessariamente che avessero pianificato unattacco generalizzato nei confronti della CNT. I motivi per cui credo che nessuna delledue parti si fosse preparata a una battaglia su larga scala sono essenzialmente due:

1) Nessuna delle due parti aveva concentrato truppe a Barcellona prima degliscontri. I combattimenti si svolsero tra gente che si trovava già in città, soprattuttotra civili e poliziotti.

2) I viveri cominciarono a scarseggiare sin da subito. Chiunque abbia prestatoservizio militare in Spagna sa che l’unica operazione che gli spagnoli sanno condurrein maniera eccellente è nutrire i propri soldati. È molto improbabile che severamente una delle due parti avesse previsto una settimana o due di combattimentiper le strade e uno sciopero generale non avrebbe accumulato scorte di cibo primadegli incidenti.

Esaminiamo infine i torti e le ragioni dell’intera vicenda.La stampa antifascista mondiale ha sollevato un gran polverone sul caso, ma

come al solito si è dato ascolto a una sola campana. Di conseguenza gli scontri diBarcellona sono stati descritti come un’insurrezione da parte di anarchici e trockijstiinfedeli che “pugnalavano il governo alla schiena” eccetera eccetera. La questionenon era certo così semplice. Non c’è dubbio che quando si è in guerra con un nemicomortale è meglio non cominciare a litigare tra alleati; ma vale la pena ricordare cheper litigare bisogna essere in due e che la gente non innalza barricate a meno che nonabbia ricevuto quella che considera una grave provocazione.

Gli incidenti scoppiarono spontanei in seguito all’ordinanza del governo affinchégli anarchici consegnassero le armi. Sulla stampa inglese questo fu tradotto intermini inglesi e prese questa forma: sul fronte aragonese c’era un disperato bisognodi armi, ma non potevano essere inviate perché gli anarchici antipatriottici letrattenevano. Mettere la faccenda in questi termini significava ignorare la realesituazione in Spagna. Tutti sapevano che sia gli anarchici sia il PSUC stavanoaccumulando armi, e quando scoppiarono gli scontri a Barcellona la cosa divenneancor più evidente; entrambe le parti tirarono fuori una gran quantità di armi. Glianarchici erano ben consci che se anche avessero ceduto le loro armi, il PSUC, la forzaallora predominante in Catalogna, avrebbe conservato il proprio arsenale; e infatti

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questo fu esattamente quello che accadde appena cessati gli scontri. Nel frattempoerano ben visibili nelle strade grandi quantità di armi che sarebbero state molto benaccolte al fronte, ma che erano trattenute nelle retrovie a disposizione delle forze dipolizia “non-politica”. E sotto a tutto questo c’era l’inconciliabile dissidio tracomunisti e anarchici, che prima o poi doveva sfociare in qualche forma di scontro.Dall’inizio della guerra il Partito comunista spagnolo era smisuratamente cresciutoin termini di aderenti e aveva accentrato gran parte del potere politico; inoltre inSpagna erano arrivati migliaia di comunisti stranieri, molti dei quali avevanoapertamente espresso la loro intenzione di “liquidare” gli anarchici appena la guerracontro Franco fosse stata vinta. Date queste circostanze, non ci si poteva certoattendere che gli anarchici avrebbero ceduto le armi di cui si erano impossessatinell’estate del 1936.

L’occupazione della centrale telefonica non fu altro che il fiammifero che innescòuna bomba già esistente. Forse si può pensare che i responsabili dell’iniziativa nonimmaginassero che essa avrebbe portato a uno scontro aperto. Si dice cheCompanys, il presidente catalano, avesse allegramente dichiarato, solo alcuni giorniprima, che gli anarchici avrebbero sopportato pazientemente qualsiasi cosa. b Macerto non fu una mossa molto saggia. Erano ormai mesi che in varie parti del paeseandava avanti tutta una serie di piccoli scontri armati tra anarchici e comunisti. LaCatalogna, e Barcellona in particolare, era già in uno stato tale di tensione chec’erano state risse per le strade, assassinii politici e così via. Improvvisamente per lacittà circolò la notizia che uomini armati stavano attaccando gli edifici che gli operaiavevano occupato durante gli scontri di luglio e a cui attribuivano grande valoresentimentale. Bisogna anche ricordare che la Guardia Civil non era amata dallaclasse operaia. Per generazioni di lavoratori ormai la guardia non era stata altro cheun’appendice del latifondista o del padrone e oltretutto era doppiamente odiataperché sospettata, a ragione, di avere una lealtà dubbia e di simpatizzare sotto sottocon i fascisti. c È probabile che le emozioni che portarono la gente in strada nelleprime ore fossero praticamente le stesse che l’avevano spinta a opporre resistenza aigenerali ribelli all’inizio della guerra. Naturalmente si può sostenere che gli operaidella CNT avrebbero dovuto sgomberare la centrale telefonica senza protestare.L’opinione di ciascuno su questo punto sarà condizionata dall’atteggiamentopersonale nei confronti del dilemma tra governo centralizzato e controllo direttodella classe operaia. Ma, cosa ancora più importante, si potrebbe obiettare: “Va bene,anche ammesso che la CNT avesse ragione, non si può dimenticare che dopo tuttoc’era una guerra in corso e quindi non avevano il diritto di innescare una battagliadel genere dietro le linee”. Questo mi trova del tutto d’accordo. Qualsiasi conflittointerno aveva molte probabilità di aiutare Franco. Ma che cosa fece precipitare ilconflitto? Il governo poteva avere o meno il diritto di occupare la centrale telefonica;il punto è che in quelle circostanze una mossa del genere non poteva far altro cheportare a uno scontro. Fu un gesto provocatorio che in pratica sembrava dire, epresumibilmente voleva proprio dire: “Il vostro potere è ormai finito – adesso tocca anoi”. Andava contro ogni buon senso aspettarsi che non ci sarebbe stata resistenza.Basta mantenere un minimo di senso delle proporzioni per rendersi conto che lecolpe non stavano – e in una questione del genere, non potevano stare – tutte da unaparte. Il motivo per cui è stata accettata una versione unilaterale dei fatti èsemplicemente che i partiti rivoluzionari spagnoli non hanno alcuna influenza sullastampa internazionale. Su quella inglese, in particolare, bisogna cercare a lungo

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prima di trovare il minimo riferimento positivo, in qualsiasi fase del conflitto, aglianarchici spagnoli. Sono stati sistematicamente denigrati e, come so bene peresperienza personale, è quasi impossibile convincere chiunque a stampare qualcosain loro difesa.

Ho tentato di descrivere gli scontri di Barcellona in maniera obiettiva anche se, èovvio, nessuno può mai essere completamente obiettivo su una questione del genere.Si è praticamente obbligati a schierarsi e deve essere ormai abbastanza chiaro da cheparte sono schierato io. Ripeto, è inevitabile che anch’io abbia commesso degli erroridi fatto, non solo su questo punto, ma anche in altre parti di questa narrazione.Scrivere in maniera accurata sulla guerra di Spagna è difficilissimo a causadell’assoluta mancanza di documenti che non siano propagandistici. Metto tutti inguardia sulla mia partigianeria e sui miei possibili errori. Eppure ho fatto del miomeglio per essere onesto. Ma risulterà evidente che il mio resoconto ècompletamente diverso da quello apparso sulla stampa internazionale especialmente su quella comunista. È quindi necessario esaminare la versionecomunista, perché è stata pubblicata e diffusa in tutto il mondo, è stata da alloracostantemente aggiornata ed è probabilmente quella più accettata su larga scala.

Nella stampa comunista e filocomunista tutta la colpa per gli scontri di Barcellonaè stata attribuita al POUM. Gli incidenti non sono stati presentati come un’esplosionespontanea, bensì come un’insurrezione contro il governo, premeditata eprogrammata, di cui il POUM sarebbe stato l’unico artefice con la complicità di pochielementi “incontrollabili” e traviati. Anzi di più: si sarebbe trattato di un complottofascista, portato a compimento su direttive dei fascisti allo scopo di far scoppiare unconflitto civile nelle retrovie e paralizzare così il governo. Il POUM era “la quintacolonna di Franco” – un’organizzazione trockijsta che lavorava in combutta con ifascisti. Secondo il «Daily Worker» (11 maggio):

Gli agenti tedeschi e italiani che si sono riversati a Barcellona con la scusa di “preparare” ilfamigerato “Congresso della Quarta Internazionale”, avevano un compito importante. Era questo:

In collaborazione con i trockijsti locali dovevano creare una situazione di disordine espargimento di sangue, in modo che fosse possibile per i tedeschi e gli italiani dichiarare che,essendo “impossibilitati a esercitare un controllo navale efficace della costa catalana a causa deidisordini di Barcellona”, si trovavano costretti “a sbarcare in forze a Barcellona”.

In altre parole, quella che si stava preparando era una situazione in cui i governi tedesco eitaliano potessero apertamente far sbarcare truppe e fanteria marina sulle coste catalane,dichiarando di essere costretti a farlo “allo scopo di ristabilire l’ordine”…

Lo strumento per fare tutto questo era a disposizione dei tedeschi e degli italiani sotto formadell’organizzazione trockijsta nota come POUM.

Il POUM, agendo in combutta con ben noti elementi criminali, e con certi altri illusi delle

organizzazioni anarchiche, ha programmato, organizzato e capeggiato l’attacco nelle retrovie,accuratamente sincronizzato per coincidere con l’attacco sul fronte di Bilbao eccetera eccetera.

Più avanti nello stesso articolo gli scontri di Barcellona diventano “l’attaccosferrato dal POUM” e in un altro articolo dello stesso numero si dichiara che “non c’èalcun dubbio che la responsabilità dello spargimento di sangue in Catalogna debbaessere addossata al POUM”. L’«Inprecor» 13 del 29 maggio dichiara che coloro chehanno eretto le barricate di Barcellona “erano esclusivamente militanti del POUMappositamente addestrati dal partito a questo scopo”.

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Potrei fare molte altre citazioni, ma queste sono già abbastanza chiare. Il POUM eral’unico responsabile e il POUM agiva dietro ordine dei fascisti. Tra un attimo citeròaltri brani dai resoconti apparsi nella stampa comunista; si vedrà che sono talmentecontraddittori da essere assolutamente privi di valore. Ma prima di farlo vale la penaindicare alcuni motivi a priori per cui questa versione degli scontri di maggio comeinsurrezione fascista organizzata dal POUM è a tutti gli effetti incredibile.

1) Il POUM non aveva né i numeri né l’influenza necessari a provocare disordini diquella grandezza. Ancor meno aveva la possibilità di proclamare uno scioperogenerale. Era un’organizzazione politica senza una vera e propria base sindacale enon sarebbe certo stata in grado di organizzare uno sciopero in tutta Barcellona piùdi quanto, mettiamo, il Partito comunista inglese sarebbe in grado di proclamarneuno a Glasgow. Come ho già detto, l’atteggiamento assunto dai dirigenti del partitopuò aver contribuito a far durare gli scontri oltre un certo punto; ma non avrebberomai potuto organizzarli neanche se lo avessero voluto.

2) Il presunto complotto fascista resta basato su una pura asserzione, mentre tuttele prove sembrano indicare l’ipotesi opposta. Si sostiene che il piano prevedeva losbarco di truppe tedesche e italiane in Catalogna; ma le navi da guerra tedesche eitaliane neanche si avvicinarono alle coste catalane. Quanto al “Congresso dellaQuarta Internazionale” e agli “agenti tedeschi e italiani”, sono dei miti belli e buoni.Per quanto mi risulta non si era neanche parlato di un Congresso della QuartaInternazionale. C’era sì qualche vago programma di tenere un Congresso del POUM edei suoi partiti fratelli (l’inglese ILP, il tedesco SAP eccetera); era statoprovvisoriamente fissato per luglio (due mesi dopo) e nessun delegato era ancoraarrivato. Gli “agenti tedeschi e italiani” non hanno alcuna esistenza al di fuori dellepagine del «Daily Worker». Chiunque abbia attraversato la frontiera in quel periodosa bene che non era tanto facile “riversarsi” in Spagna e neanche uscirne, se è perquesto.

3) Non accadde niente né a Lérida, la principale roccaforte del POUM, né al fronte.È chiaro che se i dirigenti del POUM avessero veramente voluto aiutare i fascistiavrebbero ordinato alla propria milizia di abbandonare la prima linea, lasciando vialibera alle truppe fasciste. Ma niente del genere fu fatto e nemmeno suggerito. Eneanche furono ritirati preventivamente uomini dal fronte, anche se sarebbe statoabbastanza facile portare, per esempio, un migliaio o due di miliziani a Barcellonacon vari pretesti. E non ci fu neppure un tentativo di sabotaggio, nemmeno indiretto,sul fronte. Il trasporto di cibo, munizioni e così via continuò come al solito. L’hoverificato a posteriori con una mia inchiesta personale. Ma soprattutto, una rivoltaprogrammata del tipo di quella che si vuole accreditare avrebbe avuto bisogno dimesi di preparazione, di propaganda sovversiva tra i miliziani eccetera eccetera. Manon ci fu voce né segno di una cosa del genere. Il fatto che la milizia al fronte nonebbe alcun ruolo nella “rivolta” dovrebbe porre fine alla discussione. Se il POUMavesse veramente preparato un colpo di stato è inconcepibile che non avrebbe usato icirca diecimila uomini armati che erano l’unica forza d’urto di cui disponesse.

Da quanto detto emerge chiaramente che la tesi comunista di una “rivolta”scatenata dal POUM su ordine dei fascisti è basata su ancor meno che niente.Aggiungerò ora qualche altra citazione dalla stampa comunista. I resoconti che essapresentò dell’incidente d’apertura, l’irruzione alla centrale telefonica, sonoilluminanti; non concordano in alcun dettaglio tranne che nell’attribuire tutta lacolpa all’altra parte. Da notare che sui giornali comunisti inglesi la colpa viene

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addossata prima agli anarchici e solo in seguito al POUM. Il motivo di questo èabbastanza evidente. Non tutti in Inghilterra hanno sentito parlare di “trockijsmo”,mentre invece ogni buon anglofono rabbrividisce alla sola menzione di “anarchia”.Basta quindi far sapere che ci sono di mezzo gli “anarchici” e si è preparata la giustaatmosfera di pregiudizio; dopodiché la colpa può essere tranquillamente trasferita ai“trockijsti”. Il «Daily Worker» così comincia il 6 maggio:

Lunedì e martedì una banda della minoranza anarchica si è impadronita e ha tentato di occuparele centrali del telefono e del telegrafo, aprendo il fuoco per la strada.

Non c’è niente di meglio per cominciare che un bel rovesciamento di ruoli. LeGuardie d’Assalto locali attaccano un edificio occupato dalla CNT; e allora la CNTviene rappresentata mentre prende d’assalto un proprio edificio – a tutti gli effetti siattacca da sola. D’altra parte, però, lo stesso giornale l’11 maggio dichiara:

Il ministro catalano di sinistra per la Pubblica Sicurezza, Ayguadé, e il Commissario generale perl’Ordine Pubblico, Rodrigue Salas, dei Socialisti Uniti, hanno inviato delle guardie repubblicanearmate nell’edificio della Telefónica per disarmarne gli impiegati, la maggior parte dei qualiappartenenti alla CNT.

Questo resoconto non sembra andar molto d’accordo con la prima dichiarazione;nondimeno nel «Daily Worker» non c’è traccia di ammissione che il primo resocontoera sbagliato. Lo stesso giornale dichiara l’11 maggio che i volantini degli Amici diDurruti, che la CNT aveva ripudiato, sono apparsi il 4 e il 5 maggio, quando icombattimenti erano già in corso. L’«Inprecor» del 22 maggio dichiara invece chefecero la loro comparsa il 3 maggio, prima degli incidenti e aggiunge che “in vista diquesti fatti” (la circolazione di vari volantini)

gli agenti, guidati dal prefetto di polizia in persona, hanno occupato la centrale del telefono nelpomeriggio del 3 maggio. I poliziotti sono stati fatti segno di numerosi colpi di arma da fuocomentre compivano il proprio dovere. Questo è stato il segnale perché i provocatori dessero inizio asparatorie in tutta la città.

Ed ecco cosa dice invece l’«Inprecor» del 29 maggio:

Alle tre del pomeriggio il Commissario di Pubblica Sicurezza, il compagno Salas, si è recato nellacentrale telefonica che la notte precedente era stata invasa da cinquanta appartenenti al POUM e da

vari elementi incontrollabili.

La cosa appare piuttosto strana. L’occupazione della centrale telefonica da partedi cinquanta appartenenti al POUM è quella che si potrebbe definire una circostanzapittoresca e magari ci si aspetterebbe che qualcuno l’avesse notata all’epoca. Eppure,a quanto pare, è stata scoperta solo tre o quattro settimane più tardi. In un altronumero dello stesso organo i cinquanta membri del POUM diventano addiritturacinquanta miliziani dello stesso partito. Pare difficile mettere insieme piùcontraddizioni di quante ne siano contenute nei brevi brani citati. A un certo puntola CNT attacca l’edificio, poi in realtà viene attaccata; un volantino appare primadell’occupazione della centrale e ne è la causa, oppure, se si preferisce, appare dopo

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e ne è l’effetto; gli occupanti della centrale telefonica sono a volte membri della CNT ea volte del POUM… e via di questo passo. E in un numero successivo del «DailyWorker» (3 giugno) il signor J.R. Campbell ci informa che il governo si èimpadronito della centrale telefonica solo perché erano state già erette dellebarricate!

Per ragioni di spazio ho scelto solo dei resoconti che si riferiscono a un soloincidente, ma analoghe discrepanze si possono riscontrare in tutti gli articoli dellastampa comunista. Inoltre ci sono varie dichiarazioni che sono evidentemente pureinvenzioni. Ecco, per esempio, una citazione riportata dal «Daily Worker» del 7maggio, la cui fonte viene indicata in ambienti dell’ambasciata spagnola a Parigi:

Un aspetto importante della rivolta è stata l’apparizione della vecchia bandiera monarchica issatasui balconi di varie case di Barcellona, senza dubbio nella convinzione che i rivoltosi avessero giàpreso il controllo della situazione.

Molto probabilmente il giornale ha riportato questa dichiarazione in buona fede,ma i responsabili dell’ambasciata spagnola a cui viene attribuita devono aversicuramente mentito in maniera deliberata. Qualsiasi spagnolo avrebbe compreso lasituazione interna molto meglio di così. Una bandiera monarchica a Barcellona!Sarebbe stata l’unica cosa che avrebbe riunito le fazioni in guerra in un solo istante.Persino i comunisti presenti sul luogo furono costretti a sorridere alla lettura di unatale baggianata. Lo stesso dicasi dei vari resoconti apparsi sui giornali comunisti aproposito delle armi che si dice il POUM abbia usato nel corso della “rivolta”.Sarebbero credibili solo a patto di ignorare completamente come stavano i fatti. Nel«Daily Worker» del 17 maggio il signor Frank Pitcairn dichiara:

In effetti nel perpetrare questo crimine hanno usato ogni genere di armi. Erano le armi cheavevano rubato nei mesi passati e che avevano nascosto; vi erano anche dei carri armati, sottrattinelle caserme all’inizio della rivolta. È chiaro che dozzine di mitragliatrici e diverse migliaia difucili sono ancora in loro possesso.

L’«Inprecor», il 29 maggio, rincara la dose:

Il 3 maggio il POUM aveva a disposizione dozzine di mitragliatrici e diverse migliaia di fucili…

Sulla plaza de España i trockijsti hanno messo in azione batterie di cannoni da 75 mm che eranodestinati al fronte aragonese e che la milizia aveva accuratamente nascosto nelle sue sedi.

Il signor Pitcairn non ci spiega come e quando è apparso chiaro che dozzine dimitragliatrici e diverse migliaia di fucili erano in possesso del POUM. Io ho fornitouna stima delle armi presenti in tre delle sedi principali del POUM – in tutto,un’ottantina di fucili, qualche bomba a mano e nessuna mitragliatrice; cioè, laquantità appena necessaria al presidio armato che, all’epoca, tutti i partiti politiciponevano a guardia delle loro sedi. Appare strano che in seguito, quando il POUM fudichiarato fuorilegge e tutti i suoi edifici confiscati, queste migliaia di armi non sianomai venute alla luce; specialmente i carri armati e i cannoni da campagna, che nonsono esattamente il genere di cose che si possono nascondere nel caminetto. Mal’aspetto più rivelatore è la completa ignoranza delle effettive circostanze locali chetraspare dalle due dichiarazioni sopra riportate. A sentire il signor Pitcairn il POUM

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avrebbe sottratto i carri armati dalle “caserme”. Intanto non ci dice da quali caserme.I miliziani del POUM che si trovavano ancora a Barcellona (ormai relativamentepochi, dato che il reclutamento diretto nelle milizie di partito era cessato del tutto)condividevano la caserma Lenin con un numero considerevolmente più ampio ditruppe dell’Esercito Popolare. In pratica il signor Pitcairn ci chiede perciò di credereche il POUM si è impadronito di carri armati con la connivenza dell’Esercito Popolare.Lo stesso dicasi per le “sedi” dove erano stati nascosti i cannoni da 75 mm. Non civiene detto di quali sedi si tratta. Quelle batterie di cannoni che hanno aperto ilfuoco sulla plaza de España sono apparse in vari resoconti giornalistici, ma credoche si possa affermare con certezza che in realtà non sono mai esistite. Come hodetto in precedenza, nel corso degli scontri non si è mai udito fuoco di artiglieria,anche se la plaza de España distava un chilometro e mezzo dal luogo dove mitrovavo. Qualche giorno dopo ho osservato plaza de España e non ho potuto notarealcun edificio che mostrasse segni di essere stato preso a cannonate. E un testimoneoculare che è rimasto nei paraggi per tutta la durata degli scontri mi ha dichiaratoche lì i cannoni non si sono mai visti. (Sia detto per inciso, la storia dei cannoni rubatipuò esser venuta da Antonov-Ovseenko, il console generale russo. Perlomeno è luiche l’ha comunicata a un noto giornalista inglese il quale in seguito l’ha pubblicata,in buona fede, su un settimanale. Nel frattempo Antonov-Ovseenko è stato vittimadi una “purga”. Non so quanto questo fatto possa influire sulla sua credibilità.)Naturalmente, la verità è che queste favole su carri armati, cannoni eccetera, sonostate inventate solo perché altrimenti sarebbe stato difficile conciliare la proporzionedegli incidenti di Barcellona con le esigue forze del POUM. Era necessario sostenereche il POUM era il solo responsabile degli scontri; c’era altresì bisogno di ribadire cheera un partitino insignificante, senza seguito popolare e che consisteva solo di“poche migliaia di iscritti”, secondo l’«Inprecor». L’unica speranza di renderecredibili entrambe le dichiarazioni era fingere che il POUM disponesse delle armi diun moderno esercito meccanizzato.

È impossibile leggere i resoconti della stampa comunista senza rendersi conto chesono consapevolmente mirati a un pubblico che ignora i fatti e che non hanno altroscopo se non quello di far aumentare i pregiudizi. Su questo è basata, per esempio, ladichiarazione che il signor Pitcairn fa sul «Daily Worker» dell’11 maggio, secondo ilquale la “rivolta” fu repressa dall’Esercito Popolare. L’idea è di dare agli estraneil’impressione che la Catalogna abbia reagito compatta agli attacchi dei “trockijsti”.Invece l’Esercito Popolare mantenne un’impeccabile neutralità per tutta la duratadegli scontri; a Barcellona lo sapevano tutti ed è difficile credere che non lo sapesseanche il signor Pitcairn. Oppure i giochi che la stampa comunista ha fatto con le cifredei morti e dei feriti allo scopo di esagerare la portata dei disordini. Díaz, segretariogenerale del Partito comunista spagnolo, diffusamente citato dalla stampa di partito,ha fornito un bilancio di novecento morti e duemilacinquecento feriti. Il ministerodella Propaganda catalano, che certo non può essere sospettato di fornire una stimaper difetto, ha parlato di quattrocento morti e mille feriti. Il Partito comunistaraddoppia la cifra e aggiunge qualche altro centinaio di unità per fare buon peso.

La stampa capitalista straniera, in generale, ha addossato la responsabilità degliscontri agli anarchici, ma c’è anche stato qualche giornale che ha seguito la lineacomunista. Uno di questi è l’inglese «News Chronicle», il cui corrispondente, ilsignor John Langdon-Davies, era presente a Barcellona all’epoca dei fatti. Cito qui diseguito alcuni brani del suo articolo:

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RIVOLTA TROCKIJSTA

… Non si è trattato di una sollevazione anarchica, bensì di un putsch frustrato dei trockijsti delPOUM, in combutta con le organizzazioni da loro controllate, gli “Amici di Durruti” e la Gioventù

Libertaria… La tragedia ha avuto inizio il lunedì pomeriggio quando il governo ha inviato agentiarmati all’interno dell’edificio dei telefoni, per disarmare gli addetti che lo controllavano, per lamaggior parte aderenti alla CNT. Gravi irregolarità nel servizio avevano destato scandalo da

qualche tempo. Una grande folla si era nel frattempo radunata fuori nella plaza de Cataluña,mentre gli uomini della CNT opponevano resistenza, ritirandosi piano dopo piano fino alla

terrazza dell’edificio… L’incidente presenta parecchi lati oscuri, ma si è sparsa la voce che ilgoverno stava attaccando gli anarchici. Le strade si sono riempite di uomini armati… Al calar delsole ogni centro operaio e ogni edificio governativo era barricato, e alle dieci di sera si sono sentitele prime scariche di fucileria e le prime ambulanze si sono fatte largo scampanellando nelle strade.All’alba tutta Barcellona era ormai sotto il fuoco… A mano a mano che procedeva la mattinata e icaduti si contavano già oltre il centinaio, si poteva azzardare un’ipotesi su quello che stavaaccadendo. Le centrali sindacali, la CNT anarchica e la UGT socialista, tecnicamente non erano

“scese in strada”. Fintanto che rimanevano dietro le barricate si limitavano a vigilare, in attesa, unatteggiamento che prevedeva anche di aprire il fuoco su qualsiasi gruppo armato si muovesseapertamente per le strade… gli scambi generalizzati di spari erano invariabilmente aggravati daipacos – individui isolati e nascosti, di solito fascisti, che sparavano dai tetti senza un obiettivoparticolare se non quello di fare di tutto per aumentare il panico generale… Mercoledì sera, a ognimodo, cominciò a essere chiaro chi stava dietro alla rivolta. Tutti i muri erano tappezzati da unmanifesto incendiario che invocava la rivoluzione immediata e la fucilazione dei dirigentirepubblicani e socialisti. Era firmato dagli “Amici di Durruti”. Il giovedì mattina il quotidianoanarchico smentiva di esserne a conoscenza o di simpatizzare con l’iniziativa, mentre «La Batalla»,l’organo del POUM, ristampava il documento con lodi sperticate. Barcellona, la prima città della

Spagna, era stata gettata in un bagno di sangue da un pugno di agents provocateurs che si sonoserviti di questa organizzazione sovversiva.

Questo resoconto non coincide del tutto con le versioni comuniste che ho citato inprecedenza, ma si vedrà che anche così riesce a cadere in notevoli contraddizioni.Prima la vicenda viene descritta come una “rivolta trockijsta”, poi si dimostra comesia stata il risultato dell’irruzione alla centrale del telefono e della convinzionegenerale “che il governo stava attaccando gli anarchici”. La città si barrica e sia laCNT sia la UGT presidiano le barricate; due giorni dopo appare il “manifestoincendiario” (in realtà si trattava di un volantino) e si dichiara implicitamente che èquesto che ha dato inizio a tutta la faccenda – l’effetto che precede la causa. Maoltretutto ci troviamo di fronte a un grave esempio di travisamento. Il signorLangdon-Davies descrive gli Amici di Durruti e la Gioventù Libertaria come“organizzazioni controllate” dal POUM. In realtà erano entrambe organizzazionianarchiche e non avevano alcun collegamento con il POUM. La Gioventù Libertariaera la lega giovanile degli anarchici e corrispondeva alla JSU del PSUC eccetera. GliAmici di Durruti erano un gruppuscolo all’interno della FAI e in generale eranoaspramente ostili nei confronti del POUM. Da quanto ho potuto appurare, non c’eranessuno che appartenesse a entrambe le organizzazioni. Sarebbe altrettanto veroaffermare che la Lega Socialista è un’organizzazione “controllata” dal partito liberaleinglese. Possibile che il signor Langdon-Davies non lo sapesse? Se veramente non lo

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sapeva avrebbe dovuto essere molto più cauto nello scrivere su questa intricatavicenda.

Non sto mettendo in dubbio la buona fede del signor Langdon-Davies; ma per suastessa ammissione egli ha lasciato Barcellona appena cessati gli scontri, cioè nelmomento stesso in cui avrebbe potuto cominciare una seria inchiesta, e in tutto il suoresoconto ci sono evidenti segni che egli ha accettato la versione ufficiale di una“rivolta trockijsta” senza averla sufficientemente verificata. Questo risulta chiaroanche nell’estratto da me citato. “Al calar del sole” le barricate sono già erette e “alledieci di sera” si sparano le prime salve. Queste non sono parole di un testimoneoculare. Da questo resoconto si evince che di solito si aspetta che il proprioavversario sia barricato per bene prima di aprire il fuoco su di lui. L’impressione chesi dà è che siano passate delle ore tra l’erezione delle barricate e i primi spari; invece– naturalmente – è successo esattamente il contrario. Io stesso, insieme a molti altri,ho visto che le prime fucilate sono volate nel primo pomeriggio. Di nuovo ci sonopoi individui isolati, “di solito fascisti”, che aprono il fuoco dai tetti. Il signorLangdon-Davies non spiega come fa a sapere che questi individui sono fascisti. Èpresumibile che non sia salito sui tetti a domandarglielo. Sta semplicementeripetendo cose che gli hanno riferito e, siccome si accordano con la versione ufficiale,non le mette neanche in dubbio. In realtà indica una delle probabili fonti di granparte delle sue informazioni in un incauto riferimento, all’inizio del suo articolo, alministero della Propaganda. I giornalisti stranieri in Spagna erano senza scampo inbalia di questo ministero, anche se si potrebbe pensare che il solo nome sarebbebastato per metterli in guardia. Le probabilità che il ministero della Propagandadesse una versione oggettiva degli incidenti di Barcellona erano naturalmente lestesse che, per esempio, lo scomparso Lord Carson potesse stendere un rapportoobiettivo sulla rivolta di Dublino del 1916.

Mi pare di aver fornito motivi sufficienti per credere che la versione comunistadegli scontri di Barcellona non possa esser presa sul serio. Inoltre devo aggiungerequalcosa in merito all’accusa generica che il POUM fosse un’organizzazione segretafascista al soldo di Franco e di Hitler.

Questa accusa è stata ripetuta senza posa sulla stampa comunista, specialmentedall’inizio del 1937 in poi. Faceva parte di una campagna mondiale che il Partitocomunista ufficiale portava avanti contro il “trockijsmo”, il presunto rappresentantedel quale, in Spagna, era il POUM. “Il trockijsmo” secondo «Frente Rojo» (il giornalecomunista di Valencia) “non è una dottrina politica. Esso è un’organizzazioneufficiale del capitalismo, una banda fascista di terroristi che si occupa di crimini esabotaggi contro il popolo.” Il POUM era dunque un’organizzazione “trockijsta” incombutta con i fascisti e parte della “quinta colonna franchista”. La cosa che saltavaagli occhi sin dall’inizio era che non veniva offerta alcuna prova a sostegno di questaaccusa; la cosa era semplicemente asserita con aria di grande autorità. E l’attaccoveniva sferrato facendo largo ricorso alla calunnia personale e con completairresponsabilità riguardo a qualsiasi effetto esso potesse avere nella conduzione dellaguerra. Pur di calunniare il POUM molti giornalisti comunisti a quanto pareconsideravano poco importante perfino rivelare segreti militari. In un numero difebbraio del «Daily Worker» per esempio, alla giornalista Winifred Bates si permettedi dichiarare che il POUM aveva soltanto la metà delle truppe che diceva di averenella sezione del fronte che gli era stata assegnata. La cosa non era vera, mapresumibilmente la giornalista credeva che lo fosse. Sia lei che il suo giornale erano

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perciò perfettamente disposti a offrire al nemico una delle informazioni piùimportanti che si possano trovare sulle colonne di un giornale. Su «New Republic» ilsignor Ralph Bates ha dichiarato che le truppe del POUM “giocavano a pallone con ifascisti nella terra di nessuno” in un periodo in cui, in realtà, le milizie del POUMstavano subendo gravi perdite e un gran numero di miei amici furono uccisi e feriti.E di nuovo circolava la caricatura maligna, ampiamente diffusa prima a Madrid epoi anche a Barcellona, che ritraeva il POUM mentre si toglie la maschera con la falcee il martello per rivelare il vero volto con la svastica. Se il governo non fosse statosotto il controllo virtuale dei comunisti non avrebbe mai permesso che una cosa delgenere venisse diffusa in tempo di guerra. Era un colpo premeditato al morale nonsolo della milizia del POUM, ma anche di chiunque altro fosse loro vicino; perché nonè esattamente una cosa incoraggiante sentirsi dire che le truppe che sono in primalinea accanto a voi sono dei traditori. In realtà, dubito molto che gli insulti lanciaticontro di loro dalle retrovie abbiano mai avuto l’effetto di demoralizzare la miliziadel POUM. Ma non c’è dubbio che dietro ci fosse questa intenzione e i responsabili diquesta calunniosa campagna devono essere considerati colpevoli di aver preferitodar sfogo all’astio politico piuttosto che sostenere l’unità antifascista.

Insomma, le accuse contro il POUM potevano essere riassunte così: un insieme dialcune decine di migliaia di persone, quasi tutte provenienti dalla classe operaia, piùnumerosi simpatizzanti e collaboratori stranieri, gran parte dei quali profughi dapaesi sotto il fascismo, e migliaia di miliziani non erano altro che una vasta rete dispie al soldo dei fascisti. La cosa faceva a pugni con il buonsenso, e la storia passatadel POUM bastava a renderla incredibile. Tutti i dirigenti del POUM avevano unastoria rivoluzionaria alle spalle. Alcuni di loro erano stati coinvolti nella ribellionedel 1934 e la maggior parte era stata in galera per attività socialista sotto il governoLerroux o sotto la monarchia. Nel 1936 il leader di allora, Joaquín Maurín, era statouno dei deputati che avevano messo in guardia le Cortes sull’imminenteammutinamento di Franco. Subito dopo lo scoppio della guerra civile era stato fattoprigioniero dai fascisti mentre cercava di organizzare la resistenza dietro le lineefranchiste. Quando scoppiò la ribellione dei generali il POUM ebbe unimportantissimo ruolo nella resistenza e, a Madrid in particolare, molti suoi membrifurono uccisi nei combattimenti per le strade. Fu uno dei primi partiti a reclutarecolonne di miliziani sia in Catalogna che a Madrid. Sembra quasi impossibilespiegare queste iniziative come azioni di un partito al soldo dei fascisti. Un partitodel genere avrebbe fatto prima a passare armi e bagagli dall’altra parte.

E non ci sono stati neanche segni di attività filofasciste nel corso della guerra. Sipuò discutere – anche se in fondo non sono d’accordo – se nello spingere per unalinea più decisamente rivoluzionaria il POUM abbia diviso le forze governative e cosìabbia indirettamente aiutato i fascisti; secondo me, qualsiasi governo riformistaavrebbe ragione di considerare un partito come il POUM una spina nel fianco. Maquesta è una cosa ben diversa dal tradimento vero e proprio. Non c’è modo dispiegare come mai, se il POUM era davvero un’organizzazione fascista, la sua miliziarimase fedele al governo. Insomma, c’erano otto o diecimila soldati checontrollavano parti importanti del fronte nelle intollerabili condizioni dell’inverno1936-37. Molti di loro rimasero in trincea quattro o cinque mesi di fila. È difficilecapire come mai non abbiano semplicemente abbandonato il fronte o non sianoaddirittura passati al nemico. Avrebbero sempre avuto la possibilità di farlo, e in

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qualche caso l’effetto di una tale mossa avrebbe potuto essere decisivo. Eppureavevano continuato a combattere e fu poco dopo lo scioglimento del POUM comepartito politico, quando l’evento era ancora fresco nella memoria di tutti, che lamilizia – non ancora riassorbita all’interno dell’Esercito Popolare – prese parte alsanguinoso attacco sul versante orientale di Huesca in cui diverse migliaia di uominicaddero in uno o due giorni di combattimenti. Come minimo ci si sarebbe aspettatiqualche forma di fraternizzazione con il nemico e un flusso costante di diserzioni.Ma come ho già avuto modo di rilevare, il numero di diserzioni dalle file dellamilizia fu sempre eccezionalmente ridotto. Ancora, ci si sarebbe aspettati forme dipropaganda filofascista, “disfattismo” e cose del genere. Eppure non ci fu traccia ditutto questo. È chiaro che devono esserci stati spie e agenti provocatori fascistiinfiltrati nel POUM; elementi del genere sono presenti in tutte le organizzazioni disinistra; ma non c’è alcuna prova che nel POUM questi fossero più numerosi chealtrove.

È pur vero che alcuni degli attacchi della stampa comunista ammettevano a dentistretti che solo i dirigenti del POUM erano al soldo dei fascisti e non i militanti di base.Ma questo non era altro che un goffo tentativo di staccare la base dal vertice. Lanatura stessa dell’accusa implicava che militanti comuni, miliziani e via dicendofacessero tutti parte del complotto; perché se era ovvio che Nin, Gorkin e gli altridirigenti fossero al soldo dei fascisti, era ancora più ovvio che i seguaci a strettocontatto con loro ne fossero a conoscenza meglio dei giornalisti di Londra, Parigi oNew York. E in ogni caso, quando il POUM fu messo fuorilegge, la polizia segretacontrollata dai comunisti agì in base al presupposto che tutti fossero colpevoli allostesso grado e arrestò tutti coloro comunque collegati con il POUM su cui riuscì amettere le mani, compresi feriti, infermieri, mogli di iscritti al POUM e in alcuni casiperfino bambini.

Alla fine, dunque, il 15-16 giugno, il POUM fu sciolto d’autorità e dichiaratoillegale. Questa fu una delle prime iniziative prese dal governo Negrín insediatosi amaggio. Quando ormai il comitato esecutivo del POUM era già finito in prigione, lastampa comunista tirò fuori quella che riteneva essere la scoperta di una vastacongiura fascista. Per qualche tempo la stampa comunista di tutto il mondo siinfiammò davanti a questo genere di notizie. Ecco come il «Daily Worker» del 21giugno riassumeva gli articoli di vari giornali comunisti spagnoli:

I TROCKIJSTI SPAGNOLI COMPLOTTAVANO CON FRANCO

In seguito all’arresto di un gran numero di importanti trockijsti a Barcellona e in altre parti delpaese… nel corso del fine settimana sono venuti alla luce i particolari di uno dei più spaventosicasi di spionaggio in tempo di guerra che si siano mai conosciuti e di uno dei peggiori esempi ditradimento trockijsta fino a oggi… Documenti in mano alla polizia, insieme alle piene confessionidi non meno di duecento persone arrestate, provano… eccetera eccetera.

Ciò che queste rivelazioni “provano” era che i dirigenti del POUM trasmettevanovia radio segreti militari al generale Franco, erano in contatto con Berlino e agivanoin collaborazione con un’organizzazione segreta fascista di Madrid. Inoltre, c’eranodei dettagli sensazionali su messaggi segreti scritti con l’inchiostro simpatico, unmisterioso documento siglato con la lettera N (per Nin) e via dicendo.

Ma il risultato finale fu questo: sei mesi dopo l’evento, mentre scrivo, la maggiorparte dei dirigenti del POUM sono ancora in galera, ma non sono mai stati processati

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e le accuse di comunicare via radio con Franco eccetera non sono mai state nemmenoformalizzate. Se fossero effettivamente colpevoli di spionaggio essi sarebbero statiprocessati e fucilati nel giro di una settimana, come è successo già a tante spiefasciste. Ma non è mai stato presentato neanche uno straccio di prova a parte ledichiarazioni, prive di qualsiasi riscontro, stampate dai giornali comunisti. Quantoalle duecento “piene confessioni” che, se fossero veramente esistite, sarebberobastate a condannare chiunque, non se n’è più sentito parlare. In realtà, si trattava diduecento sforzi creativi di qualche mente fantasiosa.

Oltretutto, la maggior parte dei membri del governo spagnolo hanno negato dicredere alle accuse mosse al POUM. Recentemente il gabinetto ha deciso con cinquevoti contro due di rilasciare tutti i prigionieri politici antifascisti; naturalmente i dueministri dissenzienti erano i membri comunisti dell’esecutivo. In agosto unadelegazione internazionale capeggiata dal deputato inglese James Maxton si è recatain Spagna per indagare sulle accuse mosse al POUM e sulla scomparsa di Andrés Nin.Prieto, ministro della Difesa Nazionale, Irujo, ministro della Giustizia, Zugazagoitia,ministro degli Interni, Ortega y Gasset, procuratore generale, Prat-García e altrihanno tutti negato di credere che i dirigenti del POUM fossero colpevoli dispionaggio. Irujo ha aggiunto di aver esaminato tutti i dossier del caso e che nessunadelle cosiddette “prove” reggerebbe in tribunale, mentre il documento che sisuppone sia stato siglato da Nin “non ha alcun valore”, ossia è un falso. Prietoconsidera i dirigenti del POUM responsabili degli scontri di maggio a Barcellona, maha rigettato l’idea che fossero spie fasciste. «Quel che è più grave» ha aggiunto «è chel’arresto dei vertici del POUM non è stato deciso dal governo e che la polizia li haeseguiti di propria iniziativa. I responsabili non sono neanche i capi della polizia, mail loro entourage, che è stato infiltrato dai comunisti secondo il solito sistema.» Haanche citato altri casi di arresti illegali compiuti dalla polizia. Analogamente Irujo hadichiarato che la polizia era diventata “quasi indipendente” ed era in realtàcontrollata da elementi comunisti stranieri. Prieto ha fatto capire piuttostochiaramente alla delegazione di non potersi permettere di offendere il Partitocomunista fintanto che i russi continuavano a rifornirli di armi. Quando un’altradelegazione, presieduta dal deputato John McGovern, si è recata in Spagna adicembre, ha ricevuto le stesse risposte, e Zugazagoitia, il ministro degli Interni, hasviluppato in termini ancora più chiari quello che Prieto aveva sottinteso: «Abbiamoricevuto aiuti dalla Russia e abbiamo dovuto permettere certe azioni che non ci sonopiaciute». Come esempio dell’autonomia della polizia, è interessante venire aconoscenza del fatto che nemmeno con un ordine firmato dal direttore delle prigionie dal ministro della Giustizia, McGovern e gli altri sono riusciti ad avere accesso auna delle “prigioni segrete” gestite dal Partito comunista a Barcellona d

Credo che quanto detto basti a chiarire il problema. L’accusa di spionaggio controil POUM si basa soltanto su articoli apparsi sulla stampa comunista e sulle attivitàdella polizia segreta controllata dai comunisti. I dirigenti del POUM e centinaia oaddirittura migliaia di loro seguaci sono ancora in prigione e per i sei mesi passati lastampa comunista ha continuato a invocare a gran voce l’esecuzione dei “traditori”.Ma Negrín e gli altri hanno mantenuto la testa sulle spalle e si sono rifiutati dimettere in scena un massacro all’ingrosso di “trockijsti”. Considerate le pressioni acui sono stati sottoposti, il fatto che abbiano resistito va senz’altro a loro credito. Nelfrattempo, alla luce di quanto citato in precedenza, diventa molto difficile credereche il POUM fosse davvero un’organizzazione di spionaggio fascista, a meno che non

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si creda che anche Maxton, McGovern, Prieto, Irujo, Zugazagoitia e gli altri siano alsoldo dei fascisti.

Per finire, affrontiamo ora l’accusa che il POUM fosse un’organizzazione“trockijsta”. Questa parola viene oggi sventolata in giro con grande facilità e usata inmaniera molto fuorviante anche perché spesso si vuole che lo sia. Vale la penafermarsi un attimo per definirla. La parola trockijsta è usata per indicare tre cosemolto distinte:

1) Una persona che, al pari di Trockij, combatte per “una rivoluzione su scalamondiale” in contrapposizione al “socialismo in un solo paese”. Più in generale, unrivoluzionario estremista.

2) Un membro dell’organizzazione vera e propria di cui Trockij è a capo.3) Un fascista mascherato da rivoluzionario che agisce soprattutto attraverso atti

di sabotaggio in URSS, ma anche, in generale, spaccando e indebolendo le forze disinistra.

Nel significato 1) è probabile che si possa descrivere il POUM come trockijsta. Macosì possono essere definiti anche l’ILP inglese, il SAP tedesco, i socialisti di sinistra inFrancia e così via. Ma il POUM non aveva alcun collegamento con Trockij o leorganizzazioni trockijste (i “bolscevico-leninisti”). Quando è scoppiata la guerracivile i trockijsti stranieri che arrivarono in Spagna (quindici-venti in tutto)lavorarono per un certo periodo nel POUM, perché era il partito più vicino al loropunto di vista, ma senza aderire a esso; in seguito Trockij ordinò ai suoi seguaci diattaccare la linea politica del POUM e i trockijsti stranieri furono cacciati dagli ufficidel partito, anche se alcuni di loro rimasero nelle file della milizia. Nin, diventatodirigente del POUM dopo la cattura di Maurín da parte dei fascisti, un tempo erastato segretario di Trockij, ma l’aveva abbandonato diversi anni prima e avevaformato il POUM amalgamando vari gruppi di comunisti di opposizione con unpartito preesistente, il Blocco degli operai e dei contadini. Il fatto che Nin abbialavorato con Trockij per un certo periodo è stato sfruttato dalla stampa comunistaper dimostrare che il POUM era effettivamente un’organizzazione trockijsta. Con lostesso tipo di argomento si potrebbe dimostrare che il Partito comunista inglese èeffettivamente un’organizzazione fascista, dato che il signor John Strachey in passatoha lavorato al fianco di Sir Oswald Mosley.

Nel significato 2), l’unico senso esatto della parola, il POUM non era certotrockijsta. È importante fare questa distinzione, perché la gran maggioranza deicomunisti dà per scontato che un trockijsta nel senso 2) sia invariabilmente untrockijsta nel senso 3) – cioè che tutta l’organizzazione trockijsta non sia altro che unamacchina spionistica fascista. Il termine “trockijsmo” è giunto all’attenzionedell’opinione pubblica all’epoca dei grandi processi per sabotaggio in Russia echiamare trockijsta una persona equivale in pratica a chiamarla assassino, agenteprovocatore eccetera. Ma allo stesso tempo, chiunque critichi la linea politicacomunista da sinistra rischia di essere denunciato come trockijsta. Si vuole dunquesostenere che chiunque professi idee rivoluzionarie estremiste è al soldo dei fascisti?

In pratica lo è o non lo è, secondo quel che conviene fare localmente. QuandoMaxton è andato in Spagna con la delegazione che ho ricordato in precedenza,«Verdad», «Frente Rojo» e altri giornali comunisti spagnoli lo hanno subito bollato

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come “trockij-fascista”, spia della Gestapo e via insultando. Tuttavia i comunistiinglesi sono stati bene attenti a non ripetere queste accuse. Nella stampa comunistainglese Maxton diventa soltanto “un reazionario nemico della classe operaia”, che èuna definizione convenientemente vaga. La ragione di ciò, non c’è bisogno di dirlo, èche diverse aspre lezioni hanno infuso nei comunisti inglesi un sacro terrore dellalegge contro la diffamazione. Il fatto che l’accusa non sia stata ripetuta in un paesedove avrebbe dovuto essere provata è confessione sufficiente che si tratta di unamenzogna.

Si può avere l’impressione che mi sia soffermato a discutere delle accuse rivolte alPOUM più di quanto sarebbe stato necessario. Paragonate alle enormi sofferenzeprovocate da una guerra civile, questo tipo di risse interne tra partiti, con le loroinevitabili ingiustizie e false accuse, possono sembrare banali. Non è proprio così.Sono convinto che la diffamazione e le campagne stampa di questo genere, insiemealle abitudini mentali di cui sono specchio, sono in grado di arrecare un dannomortale alla causa antifascista.

Chiunque abbia dato anche una sola occhiata all’argomento sa bene che la tatticacomunista di sbarazzarsi degli avversari politici usando accuse gonfiate ad arte nonè certo nuova. Oggi la parola chiave è “trockij-fascista”; ieri era “socialfascista”. Sonopassati solo sei o sette anni da quando i processi di stato russi hanno “provato” che idirigenti della Seconda Internazionale, tra cui, per esempio, Léon Blum e importantilaburisti inglesi, stavano complottando un gigantesco piano per l’invasione militaredell’URSS. Eppure oggi i comunisti francesi sono lieti di accettare Blum come lorodirigente e i comunisti inglesi stanno smuovendo cielo e terra per entrare nel partitolaburista. Ho molti dubbi che una cosa del genere convenga, anche dal punto di vistastrettamente settario. Nel frattempo non c’è possibilità di dubbio sull’odio e ildissenso che queste accuse di “trockijfascismo” stanno provocando. Militanticomunisti di base di ogni paese sono fuorviati in un’insensata caccia alle streghecontro i presunti “trockijsti”, mentre partiti del tipo del POUM vengono ricacciatinella posizione terribilmente sterile di essere semplici partitini anticomunisti. C’è giàl’inizio di una pericolosa spaccatura nel movimento operaio mondiale. Ancoraqualche altra calunnia lanciata contro militanti socialisti che lo sono da una vita,ancora qualche montatura come le accuse lanciate contro il POUM e la rottura puòdiventare insanabile. L’unica speranza è quella di mantenere la controversia politicasu un piano che permetta una discussione approfondita dei problemi. Tra icomunisti e quelli che si pongono o dicono di porsi alla loro sinistra c’è unadifferenza reale. I comunisti sostengono che il fascismo si può battere alleandosi consettori della classe capitalista (la politica del cosiddetto Fronte Popolare); i loroavversari sostengono invece che questa manovra non fa altro che fornire nuoviterreni di coltura al fascismo. La questione deve essere risolta; prendere unadecisione sbagliata può voler dire farci finire in regimi semischiavistici magari persecoli. Ma fintanto che si ricorrerà come unico argomento all’insulto urlato di“trockijfascista!”, la discussione non potrà neanche iniziare. Sarebbe impossibile perme, per esempio, partecipare a un dibattito sui torti e le ragioni degli scontri diBarcellona con un membro del Partito comunista, perché nessun comunista – cioè,nessun “buon” comunista – potrà mai ammettere che io abbia fornito un resocontoveritiero dei fatti. Se seguisse zelantemente la “linea” del suo partito sarebbecostretto a dichiarare che ho mentito o, nella migliore delle ipotesi, che sono statofuorviato senza speranza e che chiunque abbia gettato un’occhiata ai titoli del «Daily

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Worker» a mille miglia di distanza dalla scena degli avvenimenti ne sa più di me suquanto accadeva a Barcellona. In circostanze del genere non ci può esserediscussione; il minimo terreno d’incontro necessario non può essere raggiunto. Chescopo ci può essere nel dire che uomini come Maxton sono al soldo dei fascisti? Soloquello di rendere impossibile una discussione seria. Sarebbe come se nel bel mezzodi una gara di scacchi un partecipante si dovesse improvvisamente mettere a strillareche il suo avversario è un incendiario o un bigamo. Il punto effettivamente indiscussione non viene neanche affrontato. La calunnia non risolve un bel niente.

a. Un recente numero dell’«Inprecor» dichiara l’esatto contrario – cioè che «La Batalla» ordinò alle truppe delPOUM di abbandonare il fronte! La contraddizione può essere facilmente risolta consultando «La Batalla» della

data in questione.b. Cfr. «New Statesman», 14 maggio.c. Allo scoppio della guerra civile quasi dappertutto la Guardia Civil si era schierata con il più forte. In diverse

occasioni, nel corso del conflitto, per esempio a Santander, la Guardia Civil locale era passata armi e bagagli alcampo fascista.

d. Per i rapporti delle due delegazioni si vedano «Le Populaire» del 7 settembre, «La Flèche» del 18 settembre, ilrapporto della delegazione Maxton pubblicato da «Independent News» (219 Rue Saint-Denis, Parigi) el’opuscolo di McGovern, Terror in Spain.

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Note

1. Orwell annotò anni dopo, nel suo elenco di errata: “Ora non sono del tutto certo di aver visto i fascisti innalzarela bandiera repubblicana, anche se mi pare che qualche volta la usassero dopo averci applicato sopra unapiccola svastica” (CW VI, nota a p. 94).

2. Nel testo inglese Public school OTC (Officer Training Corps, Corpo Istruzione Ufficiali): era l’addestramento di

tipo militare a cui venivano sottoposti gli studenti inglesi nei prestigiosi istituti superiori privati.3. Il testo originale menziona il DSO (Distinguished Service Order, Decorazione al Merito), sigla che però i soldati

usavano, con umorismo piuttosto peculiare, come acronimo di Dickie Shot Off (“pisello asportato daiproiettili”).

4. Termine di derivazione hindi: sono le alte piattaforme usate in India per la caccia alla tigre.5. Anche in questo caso Orwell ebbe qualche ripensamento. Nella sua lista di errata troviamo scritto: “Non ho

prove certe che la prostituzione sia diminuita del 75% nei primi giorni della guerra, e credo che gli anarchiciabbiano agito in base al principio di ‘collettivizzare’ i bordelli piuttosto che sopprimerli. Ma ci fu una tendenzaavversa alla prostituzione (manifesti eccetera), ed è comunque certo che i bordelli di lusso e gli spettacoli dicabaret con nudo furono chiusi nei primi mesi della guerra e riaperti dopo circa un anno” (CW VI, nota a p.94).

6. Originariamente furono chiamate così le truppe speciali arruolate dalla polizia reale irlandese per reprimere larivolta del 1920. L’espressione fu poi usata in Irlanda per indicare i poliziotti armati in generale.

7. Fondata nel 1922, la GPU (“Amministrazione politica di Stato”) era la polizia politica che operò in Unione

Sovietica fino al 1934, anno in cui fu ribattezzata NKDV (“Commissariato del popolo per gli affari interni”).

8. Il testo originale ha: “The dog it was that died”. Si tratta di una citazione da An Elegy on the Death of a Mad Dog(Elegia sulla morte di un cane idrofobo) di Oliver Goldsmith.

9. Il testo originale fa cenno al Red Letter scare (“panico della Lettera Rossa”), un episodio risalente al 1924.Sembrava che Zinov’ev, capo del Presidium della Terza Internazionale, avesse invitato per lettera il Partitocomunista britannico a intensificare le azioni rivoluzionarie e la propaganda sovversiva tra le forze armate.Pubblicata il 25 ottobre, cioè quattro giorni prima delle elezioni politiche, la lettera aveva suscitato un allarmeanticomunista che rese ancor più cospicua la vittoria (peraltro scontata) dei conservatori. Nel 1966 si confermòil sospetto, già avanzato all’epoca della pubblicazione, che il documento fosse un falso dovuto ad alcuni russibianchi.

10. Il «News Chronicle» era un giornale liberale, mentre il «New Statesman and Nation» era schierato suposizioni di sinistra.

11. Il colonnello Blimp, personaggio disegnato da David Low (1891-1965), caricaturista del «ManchesterGuardian» e dell’«Evening Standard», rappresenta la quintessenza del militarismo reazionario e mentalmenteottuso.

12. Fondato nel 1930, era il quotidiano comunista.13. Negli anni Venti l’«Inprecor» veniva pubblicata a Vienna e Berlino come «Inprekorr» («Internationale

Pressekorrespondenz»). Dal settembre 1927 al settembre 1929, e poi dal marzo 1933 al giugno 1938, fupubblicata a Londra come «International Press Correspondence». Al tempo in cui Orwell si trovava aBarcellona, era un foglio comunista che avversava il POUM. Oggi è un notiziario periodico della Quarta

Internazionale (CW XVI, p. 126, nota 1).

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PostfazioneVagabondaggio ed esilio:

George Orwell e la guerra di Spagnadi Mario Maffi

In un romanzo del 1936, Fiorirà l’aspidistra, George Orwell aveva narrato le vicendedi Gordon Comstock, londinese trentenne che si lascia andare alla deriva, desiderososolo di toccare il fondo e sottrarsi così agli obblighi e rituali dell’ambiente da cuiproviene:

Voleva scendere sempre più in basso, […] tagliare i lacci del suo rispetto di sé, sommergersiinteramente, sprofondare […]. Era tutto associato nella sua mente al pensiero di essere sotto terra. Glipiaceva pensare alla gente perduta, alla gente del sottosuolo, vagabondi, mendicanti, criminali,prostitute. È un mondo buono quello in cui vivono nelle loro fetide pensioncine equivoche, nelleloro infermerie d’ospizio. Gli piaceva pensare che sotto il mondo del denaro si stendono i vastibassifondi della sporcizia e della degradazione, dove sconfitta o riuscita non hanno più significatoalcuno; una specie di regno di spettri, dove tutti sono uguali. Ecco dove desiderare essere, giù nelregno spettrale, al di sotto dell’ambizione. Lo consolava in certo qual modo pensare agli slums velatidal fumo dei quartieri meridionali di Londra estendentisi all’infinito, immenso deserto implacabiledove ti puoi perdere per sempre.

Questo desiderio di non-appartenenza, di “sprofondamento”, di identificazionecon la “gente del sottosuolo”, era stato anche di George Orwell (nato Eric Blair eeducato nella prestigiosa Eton) fin da quando, nel ’28, era tornato in Europa dopocinque anni di servizio nell’Indian Imperial Police in Birmania. Da quel periodo diristrettezze e di vagabondaggi era nato Senza un soldo a Parigi e a Londra (1933), unlibro che – con i suoi mendicanti, le sue prostitute, i suoi ladruncoli, i suoi emarginatiche sbarcano il lunario come possono – ricorda per tanti versi le pagine di un JackLondon, di un Henry Miller, di un John Clellon Holmes e – anche – di un JackKerouac.

Ma, come dirà qualche anno dopo in La strada di Wigan Pier (1937),

sfortunatamente non si risolve il problema classista diventando amici di vagabondi. Al massimo,facendolo, ci si libera di qualche pregiudizio di classe.

E, in fondo, anche La strada di Wigan Pier nasce da un’esperienza di contatto con la“gente del sottosuolo”, un sottosuolo questa volta non più metaforico ma reale: leminiere di carbone dell’Inghilterra settentrionale. I minatori di Wigan Pierrappresentano per Orwell la scoperta della condizione operaia.

Dietro a tutto ciò, esiste senza dubbio una lunga tradizione, e non solo inglese. Èla tradizione dell’artista déraciné, da Lord Byron ad Arthur Rimbaud, che rifiuta ognifedeltà al proprio mondo d’origine; una tradizione, poi, squisitamente vittoriana: inartisti, romanzieri (Arthur Morrison, George Gissing), giornalisti (StephenReynolds), sociologi ante litteram (Henry Mayhew, George Sims, Charles Booth),ritroviamo le medesime tattiche del travestimento e dell’esplorazione di un mondo

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sommerso, lo stesso fascino per l’esotico e il diverso, lo stesso rapporto ambiguo con“le masse”. E anche gli Stati Uniti diedero il loro contributo, come testimoniano inomi di Edward Crapsey, Josiah Flynt, Jack London.

Orwell però non s’accontenta di “sommergersi”: cerca d’andare oltre. Si favagabondo per poter diventare esule, come mostra Raymond Williams: a ritira lapropria adesione alla classe da cui proviene, e da vagabondo attraversa la società,registrandone la struttura, cogliendo al suo interno il moto molecolare degliindividui e dei gruppi. La guerra civile in Spagna, dopo la Birmania, dopo Parigi eLondra, dopo Wigan Pier, è l’occasione per Orwell di ritrovare una propriacollocazione sociale, politica, culturale, psicologica.

La Spagna segnò una svolta per molti intellettuali, di tutt’e due le spondedell’Atlantico. Da Stephen Spender a W.H. Auden, da Christopher Caudwell aGeorge Orwell, da Ernest Hemingway a John Dos Passos, artisti e scrittori sischierarono con le forze repubblicane, andarono in Spagna, combatterono, morirono,scrissero romanzi e reportages, osservarono, raccontarono… La Spagna offrìl’opportunità di sfuggire al nada, al “nulla” d’un mondo che sembrava aver esauritostimoli e grandi illusioni; d’obbedire al richiamo della lotta, dell’azione, dello scontrocon un nemico chiaramente individuabile; di rivalutare il ruolo dell’intellettualecome attore e non come spettatore passivo di eventi storici che scorrono davanti aisuoi occhi. Fu un grande “appuntamento etico”, gravido delle “suggestioni di unacrociata”; b 2 e in questo appuntamento ciascuno finì per cercare, portare, ritrovare ciòche più gli era congeniale: i fantasmi di morte di personaggi agonizzanti, larigenerazione della cultura, la visione quasi religiosa del futuro dell’umanità… Nonfu tanto l’adesione incondizionata ad una causa, quanto piuttosto un atto estremod’individualismo, una ricerca di conferme, nell’azione, alle proprie concezioni socialie artistiche.

Come dice il Runcini,

l’impegno politico degli scrittori della “sinistra” si muoveva così nell’ambito di unainteriorizzazione del marxismo, dove, anche al primo sguardo, non sfugge la particolareangolatura di élite nella coscienza della problematica sociale. c3

Proprio questa “interiorizzazione del marxismo”, questa dimensione esistenzialedell’impegno politico, questa interpretazione della guerra civile spagnola comeapertura d’un nuovo futuro, staranno alla base di tante abiure, di tanti pentimentisuccessivi. La tragedia spagnola – il suo essere l’ultimo disperato sussulto di unaparte del proletariato internazionale davanti alla sconfitta inferta dalla reazioneborghese e dalla degenerazione staliniana – travolse con sé artisti e scrittori accorsi inSpagna per rispondere a quei richiami e a quegli appelli.

Per Orwell, quell’esperienza segnò il culmine della sua vicenda di vagabondaggioed esilio, e gli permise di stringere meglio il proprio legame – almeno sul pianopsicologico – con quell’altra classe che aveva cominciato a conoscere nei tunnel, nellestrade, nelle catapecchie di Wigan Pier. Nelle trincee della Catalogna, Orwell sipreparava a diventare, da esule, transfuga della classe dominante. Ma la tragedia incui ben presto si trasformò la guerra civile interruppe con un taglio netto e dolorosoquesto processo.

Orwell giunge in Spagna nel dicembre 1936, a sei mesi dallo scoppio delle ostilità;s’arruola nella milizia del POUM, piccola formazione di sinistra dai confini incerti che

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comprende dissidenti dal partito staliniano, ex trockijsti, anarco-sindacalisti, e che –dagli avversari – viene sbrigativamente definita come “organizzazione trockijsta”.Dopo settimane di addestramento approssimativo, viene inviato al fronte, dove loattendono altre settimane di snervante inattività, nel fango, nel freddo, tra gliescrementi, male equipaggiato e male armato. Torna in licenza nelle retrovie e siritrova a Barcellona in tempo per vivere le giornate del maggio 1937, primo atto dellaguerra scatenata dal partito staliniano contro le formazioni alla sua sinistra. Dinuovo al fronte, viene ferito seriamente nell’assedio di Huesca; durante la suaconvalescenza, il POUM – di cui Orwell non ha mai fatto veramente parte – vienemesso fuori legge: lo scrittore deve nascondersi; eppure, rischiando l’arresto, fa ditutto per ottenere la liberazione di militanti imprigionati. Infine, riunitosi allamoglie, ripara in Francia e di qui fa ritorno in Gran Bretagna.

L’esperienza spagnola di Orwell è dunque segnata da una progressivadisillusione: nei confronti di forze politiche che alla prova dei fatti si mostranostrumenti di conservazione e di disarmo ideologico e materiale delle masse in lotta(gli staliniani), e nei confronti di formazioni di sinistra dai contorni siaorganizzativamente sia programmaticamente confusi che contribuiscono adaccrescere la sensazione di caos sul piano politico come su quello militare, anche arischio d’esserne le prime vittime (gli anarchici, lo stesso POUM).

Le pagine di Omaggio alla Catalogna – uno dei libri più appassionanti su queglieventi – mostrano questa progressiva disillusione, l’amarezza nel cogliere il nettomutamento d’atmosfera nel giro di pochi mesi (dall’entusiasmo rivoluzionario degliinizi al clima soffocante di sospetto e disgregazione, in cui borghesia e piccola-borghesia possono rialzare sfacciatamente la testa), il fastidio fisico per ladisorganizzazione e la superficialità con cui sono condotte le azioni di guerra, ildisgusto per l’opportunismo delle forze che hanno in pugno il destino di proletari econtadini. Ma accanto a ciò, da un lato si fa strada – lenta e dolorosa conquista – unacomprensione sempre più lucida delle forze in campo, al di là dei confini ristrettidell’esperienza diretta, in prima persona, e dall’altro, corre un sentimento diemozione, di ammirazione per la straordinaria generosità mostrata dalle masse inarmi, il senso di aver trovato, finalmente, un punto di riferimento, un approdo in cuipor termine al vagabondaggio e all’esilio.

Abbiamo allora le pagine più affascinanti di Omaggio alla Catalogna, quelle chedescrivono i visi dei miliziani (“Era un giovanottone dall’aspetto rude diventicinque-ventisei anni, dai capelli biondo-rossicci e un gran paio di spalle.Portava il berretto di cuoio con la visiera minacciosamente inclinato su un occhio[…]”), le giornate in trincea a scrutare il nemico o sui tetti di Barcellona afraternizzare con quanti fino a ieri erano compagni di lotta, le spedizioni a cercarlegna nelle valli in terra di nessuno, le improvvise sortite notturne, l’atmosferaequivoca dei grandi alberghi della città catalana (“Appena lo scontro nelle strade siera scatenato, l’albergo si era riempito di una straordinaria folla di persone […]”), ipaesaggi e i colori dell’inverno e della primavera, le sensazioni del ferimento, latensione della clandestinità e della fuga… Pagine che ricordano la penna del migliorHemingway, del miglior Graham Greene. Fino a quell’ultimo brano amaro in cuisembra che le acque si richiudano su George Orwell, sulla sua esperienza in terra diSpagna, sul suo tentativo di uscire dall’esilio:

E poi l’Inghilterra – l’Inghilterra meridionale, probabilmente il paesaggio più soave del mondo.

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Quando si passa da quelle parti, specialmente se ci si sta tranquillamente riprendendo dal mal dimare con i soffici cuscini di un treno sotto il sedere, è difficile credere che qualcosa stia veramentesuccedendo da qualche altra parte del mondo. Terremoti in Giappone, carestie in Cina erivoluzioni in Messico? Non vi preoccupate: la bottiglia del latte sarà davanti alla porta di casadomattina e il «New Statesman» uscirà di venerdì. Le città industriali erano lontane, una macchiadi fumo e di sofferenza nascosta dalla curvatura della terra. Qui si era ancora nell’Inghilterra cheho conosciuto nella mia infanzia: le scarpate lungo la ferrovia ricoperte di fiori selvatici, i pratidall’erba alta dove grandi cavalli lustri brucano e meditano, i lenti ruscelli in mezzo ai salici, leverdi distese di olmi, la speronella nei giardini delle casette di campagna; e poi il grande desertotranquillo della periferia londinese, le chiatte sul fiume fangoso, le strade familiari, i manifesti cheannunciano gli incontri di cricket e i matrimoni della famiglia reale, i signori in bombetta, ipiccioni di Trafalgar Square, gli autobus rossi, i poliziotti in blu – tutti addormentati nel profondo,profondissimo sonno dell’Inghilterra, da cui a volte temo non ci sveglieremo mai finché non nesaremo strappati di colpo dal boato delle bombe.

Le acque dunque si richiusero su Orwell. Non gli fu dato di comprendere che lastrategia di coloro che in Omaggio alla Catalogna chiama “comunisti” era in realtà lapratica della degenerazione e della controrivoluzione, che non si trattava delfallimento del marxismo, ma d’una sua sconfitta sul campo di battaglia contronemici esterni e interni. La delusione fu bruciante, ma l’amarezza della disfatta nonlo spinse nelle schiere di coloro che – con la stessa facilità con cui avevanoabbracciato il comunismo – fecero in seguito dietrofront, denunciandolo come “il dioche è fallito”. Una sostanziale coerenza, un’“integrità personale e politica di stampoprotestante” d glielo impedirono, e non gli rimasero che gli incubi amari di AnimalFarm (1945) e Nineteen Eighty-Four (1949).

Leggendo le pagine di Omaggio alla Catalogna, viene istintivo pensare al John Reedin Insurgent Mexico. Per molti versi e fino a un certo punto, le due parabole sonosimili, nel succedersi di sradicamento, immersione, vagabondaggio, esilio dallapropria classe. Orwell ebbe la sfortuna di muoversi lungo la fase calante delmovimento rivoluzionario, mentre Reed dopo la vittoria della rivoluzione bolscevicae del partito di Lenin e Trockij. Negli ultimi anni della sua vita, John Reed potédiventare un transfuga della classe dominante; George Orwell morì invece esule interra di nessuno.

a. Raymond Williams, Cultura e rivoluzione industriale, Einaudi, Torino 1968, pp. 337-338.b. Romolo Runcini, Illusione e paura nel mondo borghese da Dickens a Orwell, Laterza, Bari 1968, p. 332.c. Romolo Runcini, op. cit., p. 330.d. Geoffrey Gorer, recensione a Homage to Catalonia, in «Time and Tide», 30 aprile 1938.

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Omaggio alla Catalognadi George Orwell© 1938 by Eric Blair© 1986 by The Estate of the late Sonia Brownell OrwellTitolo originale dell’opera: Homage to Catalonia© 2015 Mondadori Libri S.p.A., MilanoEbook ISBN 9788852060366

COPERTINA || COVER DESIGN: LEFTLOFT | ILLUSTRAZIONE DI PATRICK SEYMOUR