Manuel Castells - ANARCOTRAFFICO su anarchia e... · manuel castells – Proprio così. La...

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Manuel CastellsTomás Ibáñez

Dialogo su anarchia e libertànell’era digitale

Postfazione di Andrea Staid

elèuthera

Titolo originale: El Neoanarquismo, la libertad, y la sociedad contemporánea

Traduzione dallo spagnolo di Luisa Cortese

© 2006 Manuel Castells e Tomás Ibáñezedizione italiana elèuthera 2014

rilasciata sotto licenzaCreative Commons 3.0 BY/NC/SD

Questo saggio è stato originariamente pubblicato su «Libertaria», n. 1/2, 2007

progetto grafico di Riccardo Falcinelli

il nostro sito è www.eleuthera.ite-mail: [email protected]

Indice

Dialogo su anarchia e libertà 9

Postfazione di Andrea Staid 53

Bibliografia essenziale sul neoanarchismo 65

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Questa conversazione riprende un rapporto che si era bruscamente interrotto a Parigi quasi mez-zo secolo fa, quando io e Manuel Castells siamo stati espulsi dalla Francia, nello stesso giorno del giugno 1968, perché avevamo attivamente partecipato al «Maggio». Trascrivendola abbia-mo mantenuto, in qualche misura, lo stile collo-quiale proprio di una conversazione.

Tomás Ibáñez

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Dialogo su anarchia e libertà

tomás ibáñez – Qualche tempo fa hai pubbli-cato sul quotidiano «La Vanguardia» un articolo intitolato Neoanarquismo [Barcellona, 21 mag-gio 2005] che mi ha interessato moltissimo e che ha avuto una notevole risonanza negli ambienti anarchici di numerosi paesi. Se concordi, mi pia-cerebbe riprendere le analisi e le riflessioni che hai sviluppato in quell’articolo, approfondendo ulteriormente alcuni aspetti degli argomenti af-frontati.

manuel castells – Sono d’accordo, però mi piacerebbe che lo facessimo impostando un dia-logo tra noi due sui temi che ho sollevato in quel contesto.

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tomás ibáñez – Allora diamo avvio a questo no-stro dialogo discutendo alcune delle affermazio-ni contenute nel tuo articolo. In quello scritto parti dalla constatazione che nell’epoca attuale l’ideologia anarchica sta recuperando una certa influenza. La spiegazione che dai di un tale even-to è che ciò avviene perché l’anarchismo «trova eco nell’esperienza presente». Credo che valga la pena soffermarci un po’ su che cosa sia oggi «l’e-sperienza presente», tentando di spiegare perché, effettivamente, tale esperienza sia connessa con alcune delle formulazioni principali dell’anar-chismo.

In realtà, questa relativa sintonia appare piut-tosto ovvia se pensiamo ai nuovi movimenti so-ciali e, più in specifico, ai cosiddetti movimenti altermondialisti. È difficile non essere d’accordo con te quando sottolinei che questi movimenti recuperano e riformulano – o meglio, in buona misura reinventano – talune concezioni anar-chiche sia a livello delle forme organizzative adottate, sia a livello di alcuni contenuti teori-ci espressi. Tuttavia, andando al di là di quanto avviene concretamente negli attuali movimenti sociali di resistenza, la tua nota trilogia La era de la información [Alianza Editorial, Madrid, 1996, 1997, 1998; trad. it.: L’età dell’informazione, Mi-lano, 2004] sembra indicare che è precisamente

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il momento che le nostre società stanno vivendo oggi a far sì che l’anarchismo trovi una certa eco «nell’esperienza presente». In altre parole, sareb-be proprio l’avvento dell’era digitale, in quanto elemento che definisce la nostra contemporanei-tà e in quanto fenomeno che influenza tutti gli ambiti della società, compresi ovviamente l’am-bito produttivo e la sfera economica, a fornire le condizioni adatte per questa sorta di sintonia che si è stabilita tra alcuni aspetti dell’anarchi-smo e «l’esperienza presente».

Ritieni dunque che siano le condizioni socia-li attuali, vale a dire le caratteristiche di questa nuova era digitale nella quale siamo entrati alla fine del ventesimo secolo, a spiegare la rinnovata attualità e vitalità dell’anarchismo?

manuel castells – Proprio così. La questione che hai posto è fondamentale. Per cominciare, direi che questo fenomeno in realtà non si ve-rifica soltanto all’interno dei nuovi movimenti sociali. Infatti, è sufficiente osservare il contesto in cui agiscono questi movimenti per rendersi conto che il nodo problematico che caratterizza oggi la società rimanda all’idea di libertà.

Se volessimo ridurre a una sola parola la tra-dizione storica anarchica, è evidente che questa parola non potrebbe essere altro che libertà. Non

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solo, ma la lotta per conseguire questa libertà non potrebbe mai essere intesa soltanto come li-bertà dell’individuo, bensì come libertà di tutti. E questo promuovendo un’organizzazione della società basata sul rispetto di tale libertà e non su una mediazione delegata a un «qualcosa» che a un certo punto arriverà sul terreno della libertà, ma che prima deve passare attraverso il terreno della necessità e rimanervi per un certo numero di generazioni.

Ebbene, è evidente che nella società attuale esiste un’esigenza di libertà, e questa non è un’af-fermazione ideologica, ma un’osservazione, una constatazione empirica. Il che impone di spiega-re perché questo accada, di spiegare perché esista una tale esigenza di libertà e in che modo si col-leghi agli aspetti più autentici dell’anarchismo. Quindi, piuttosto che constatare che si tratta di una lotta per la libertà, dobbiamo chiederci per-ché esiste questa lotta per la libertà.

Ovviamente, dal punto di vista storico è sem-pre stato così, ma perché oggi si osserva un’ac-centuazione di tale esigenza e, insieme, una maggiore presenza di certe idee dell’anarchismo? In primo luogo perché altri attori sociali che non pongono in maniera forte tale questione, come per esempio il movimento socialdemocratico, non riescono assolutamente a mobilitare e nep-

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pure a entusiasmare. Di fatto, non si propongo-no di cambiare il mondo, ma nel migliore dei casi soltanto di gestirlo. Ed ecco che allora l’a-narchismo torna di attualità, soprattutto perché ci troviamo in presenza di un vuoto: non ci sono altre alternative in grado di suscitare entusiasmo.

In secondo luogo, ci troviamo di fronte a cause strutturali. Per esempio, vi sono due aspetti che mettono direttamente in relazione l’era digitale con la questione della libertà e il ritorno in auge dell’anarchismo. Il primo di questi aspetti, come è facile dimostrare empiricamente, rimanda a una delle caratteristiche organizzative e culturali della nostra società, ovvero il processo di indi-vidualizzazione delle relazioni e la costituzione di reti di relazioni tra queste individualità. Qui però non ci troviamo di fronte all’atomizzazione individualista tipica del liberalismo, non si trat-ta del singolo all’interno del mercato anonimo. Niente affatto! Qui si tratta di reti di individui, quindi di un’organizzazione, non di massa, com-posta da reti interindividuali che possiamo ritro-vare in ambito lavorativo, o in ambito culturale, o in ambito educativo, o in molti altri ambiti.

Oggi l’organizzazione della società si basa sempre di più su queste reti interindividuali che utilizzano le tecnologie di comunicazione reti-colari e quindi dispongono di un’infrastruttura

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tecnologica che ne facilita la costituzione e la proliferazione.

Il secondo aspetto rimanda al fatto che que-sta capacità, da parte di individui relativamente autonomi, di funzionare in modo reticolare di-spone già di una traduzione diretta e immediata sulla scena politica. In altre parole, i movimenti sociali, soprattutto quelli più spontanei, oggi si auto-organizzano in forma reticolare e utilizza-no risorse tecnologiche proprie dell’era digitale. Senza i telefoni cellulari, non dico che non si sarebbero verificate le proteste o le mobilita-zioni, alcune delle quali in grado di penalizzare elettoralmente leader politici come José María Aznar, ma avrebbero assunto un’altra forma e probabilmente un altro livello di efficacia. Qui il punto è non solo che il cellulare rappresenta uno strumento potente – io chiamo, tu chiami e tra tutti organizziamo – ma soprattutto che il suo uso si confà all’idea di autonomia che le per-sone hanno in materia di controllo sulla società. Si tratta di un’idea che è in sintonia con quanto accade quando ricevi sul cellulare una telefonata che ti propone qualcosa: non la ricevi in maniera anonima, ma da una persona che conosci, da un amico, è una rete di reti costituita a partire dalle proprie rubriche.

Esiste dunque una base tecnologica per la mo-

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bilitazione autonoma e, al tempo stesso, siamo in presenza di un modo di funzionare della so-cietà come rete di relazioni interindividuali, che in definitiva consente l’esperienza della libertà e la relazione tra libertà condivise.

tomás ibáñez – Sono totalmente d’accordo. Le recenti mobilitazioni in Francia, che hanno co-stretto al ritiro della legge sul contratto di primo impiego hanno esemplificato in maniera molto chiara come gli usi non individualizzati ma col-lettivi e in rete delle nuove tecnologie – vale a dire, i telefoni cellulari, il web, la posta elettro-nica ecc. – vadano plasmando le nuove pratiche di lotta e modificando le mobilitazioni popolari. E questo anche se lo scenario di fondo continua a essere lo stesso: la strada e l’occupazione mas-siva degli spazi pubblici. Lo scenario continua a essere lo stesso, ma si modificano i percorsi, si modifica il coordinamento tra i partecipanti, si modificano le risposte di fronte agli interven-ti della polizia… insomma si modificano mille piccole cose all’interno dei processi e nelle mo-dalità operative di tali mobilitazioni popolari.

manuel castells – Esatto, e aggiungerei altro: la base tecnologica non solo modifica le forme di lotta, ma modifica anche le forme di organizza-

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zione. Perché, e questo è fondamentale, qui non c’è in gioco soltanto la possibilità di muoversi da un posto all’altro, o di convocare una manifesta-zione, ma la possibilità di stabilire un dibattito aperto su internet, costantemente alimentato e dotato di memoria permanente. E così si realizza quell’idea di assemblea permanente che è sempre stata parte integrante della pratica utopica anar-chica, che ora può concretizzarsi su internet con un sistema di feedback e interazione continui.

Tutto questo sta già avvenendo in numerosi movimenti, e il movimento no global, come lo chiamano i mezzi di comunicazione, o alter-mondialista, come lo chiamiamo noi, è appunto un movimento che ha in gran parte generato le proprie forme di dibattito e di organizzazione proprio attraverso internet. Si tratta di un’orga-nizzazione effimera, certo, ma democratica pro-prio perché effimera. Infatti, risulta molto diffi-cile costituire apparati di dominio all’interno di una struttura reticolare virtuale ed effimera che cambia costantemente. Si può tentare di domi-nare le idee, ma il dominio delle persone è mol-to difficile da strutturare in un contesto come questo.

Mi sembra dunque che valga la pena rimarca-re come sia la prima volta che esiste la possibilità materiale di realizzare un’organizzazione autono-

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ma che sia in grado di prendere decisioni, di ge-stire i processi in atto e, al tempo stesso, di non costituirsi in un apparato strutturato di potere con gerarchie stabilite.

tomás ibáñez – Mi sembra chiaro che determi-nati percorsi tecnologici, relativamente recen-ti, contribuiscano in maniera consistente a far sì che le forme di lotta e gli stessi movimenti sociali che le incarnano si vadano trasformando nel senso di una sempre maggiore autonomia e libertà. Ma permettimi ora di fare un po’ l’av-vocato del diavolo. Dalla lettura dei tuoi libri si può anche dedurre che, in questo cambiamen-to epocale nel quale siamo immersi, sia la stessa struttura produttiva a richiedere, per essere più efficiente di prima, un funzionamento basato su strutture organizzative non gerarchizzate, su strutture reticolari e non più verticali, su struttu-re in cui il potere, o più precisamente i rapporti di potere, siano maggiormente distribuiti.

manuel castells – Ed è proprio così.

tomás ibáñez – Ovviamente, non tutto il tes-suto produttivo presenta le stesse caratteristiche, non tutta la sfera economica sta cambiando con gli stessi ritmi, ma è evidente che una parte cre-

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scente sta adottando le nuove forme organizzati-ve e relazionali proprie dell’era digitale.

Se ci fermiamo a riflettere sui cambiamenti in corso nel modo di produzione e nel modello di sviluppo, potremmo giungere alla conclusione che persino questi stanno favorendo, o propizian-do, il recupero di impostazioni che, in qualche misura, hanno a che vedere, pur se solo a livello organizzativo, con alcune delle formulazioni e delle intuizioni proprie del pensiero anarchico. Ma se le cose stanno davvero così, allora sembra ragionevole affermare che questa rinascita dell’a-narchismo non avviene soltanto perché trova eco nelle caratteristiche dei nuovi movimenti sociali, ma anche perché si trova ad avere una qualche sintonia con alcune delle esigenze attuali del ca-pitalismo, il quale necessita per la propria effi-cacia di strutture reticolari al posto di strutture verticali…

manuel castells – Verissimo, però non userei il termine capitalismo quanto l’espressione nuo-va struttura produttiva.

tomás ibáñez – Va bene, tuttavia mi sembra pa-lese che questa nuova struttura produttiva è di tipo capitalista…

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manuel castells – Certo, oggi è capitalista, ed è assolutamente possibile che in questo momen-to in tale struttura non ci sia altro che capitali-smo. Ma proprio come non c’è necessità storica, non c’è neppure determinismo, nel senso che la nuova struttura produttiva non deve necessaria-mente essere capitalista: può esserlo o non esser-lo. La società industriale non era esclusivamente capitalista, ma capitalista e statalista al tempo stesso, ossia non si identificava con un modello unico. Ma a un certo punto qualcosa è successo se oggi non esiste, all’interno di un singolo pae-se o in vaste zone del mondo, un’organizzazione produttiva rilevante che non sia capitalista. Ol-tretutto, il capitalismo è costituito da reti, reti produttive globali che connettono ciò che ha va-lore e disconnettono ciò che non ha valore.

Ciò detto, non escludo affatto, e credo che sa-rebbe dogmatico farlo, che dalle lotte sociali e dall’evoluzione produttiva innescate dal processo informazionale in atto possano sorgere forme di produzione non capitaliste, anche se ancora non sappiamo cosa siano. Naturalmente sarebbe un grave errore analitico voler divinare ciò che verrà, tuttavia possiamo già vedere all’opera alcune for-me produttive, all’interno del capitalismo, che non si costruiscono come relazioni sociali ge-rarchizzate, né come relazioni produttive tipica-

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mente capitaliste, benché in alcuni casi vendano i propri prodotti sul mercato capitalista.

Il caso più ovvio ed evidente è il cosiddetto software open source, a volte chiamato software libero, anche se a volte è libero e a volte non lo è. Chiamiamolo quindi software open source. At-tenzione, questo tipo di software non è assoluta-mente un fenomeno marginale. Le persone che non hanno seguito da vicino la rivoluzione tec-nologica non sanno, per esempio, che due terzi dei server del World Wide Web, almeno due ter-zi, usano il sistema Apache, un sistema coopera-tivo, composto da volontari, non commerciale e non gerarchico (o meglio, tecnologicamente gerarchico, ma non socialmente gerarchico), che a differenza di quelli prodotti da Microsoft non è un sistema proprietario, non si acquista, è to-talmente libero e aperto a chiunque…

O quanto meno, tutto è iniziato con queste caratteristiche negli anni Novanta. Ma oggi mol-te aziende, compresa la stessa ibm, sono entrate a far parte di questa rete di cooperazione, con il risultato che il potenziale della ibm si è riversato nella rete di cooperazione e i suoi programmato-ri contribuiscono a sviluppare gratuitamente il software Apache. In cambio di cosa? In cambio dell’essere accolti come membri di questa rete di cooperazione e dunque avere la possibilità

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di discutere tutti gli aspetti tecnici con gli altri membri e così ottenere da Apache quella cono-scenza che le permette di perfezionare il proprio software.

Se infatti ibm non può vendere ciò che pro-duce all’interno di Apache, perché non ne de-tiene la proprietà, questo non è così importan-te perché, grazie allo straordinario sviluppo di quel sistema, guadagna ampie fette di mercato offrendo applicazioni adatte a quel sistema. Ma il nucleo centrale di Apache, il codice sorgente (questo il suo nome tecnico), continua a essere assolutamente libero. E insisto, non si tratta di un fenomeno marginale, dato che rappresenta i due terzi dei server del World Wide Web e con-tinua a espandersi.

Una storia identica si ripete con il famoso caso di Linux, che in questo momento detiene il 15 per cento del mercato mondiale di programmi operativi, continuando a essere gratuito e a com-pleta disposizione, perché le persone che lavo-rano per sviluppare Linux non guadagnano, lo fanno per soddisfare la propria creatività. Certo, so che questo può apparire molto strano in un contesto capitalista, però anche tu e io, quando facciamo una ricerca, non la facciamo per gua-dagnare. Naturalmente abbiamo bisogno di uno stipendio dall’università per poter sopravvivere,

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perché è alquanto difficile fare ricerca dormendo sotto i ponti (anche se magari è possibile), ma non calcoliamo il tempo che dedichiamo a pre-parare un corso o a compiere una ricerca, perché questo è il modo con cui esprimiamo la nostra creatività. Questa è la nostra maniera di esistere, di essere persone, di relazionarci con il mondo e con gli altri…

tomás ibáñez – È chiaro che anche nell’ambito delle attività lavorative non tutti gli incentivi e non tutte le gratificazioni sono esclusivamente di ordine materiale o monetario. Certe attività offrono una ricompensa di per sé, vale a dire per il fatto stesso di realizzarle, ma questo vale sol-tanto per certe attività.

manuel castells – Certamente. Il mio amico Pekka Himanen, un giovane filosofo finlande-se molto brillante e ora piuttosto famoso, con il quale collaboro, ha sviluppato l’idea di etica hacker, vale a dire l’etica della creatività. Non quindi quella degli hacker «cattivi» che distrug-gono (anche se a volte bisogna vedere che cosa distruggono: potrebbe non essere così male), ma appunto l’etica finalizzata a creare, quella all’o-pera, per esempio, nell’Artificial Intelligence La-boratory del mit o in altri luoghi analoghi, che

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sta alla base della creatività, dell’innovazione e della produttività caratteristiche della nostra so-cietà. Ma questa etica hacker è radicalmente di-versa dall’etica protestante legata all’ascesa del ca-pitalismo industriale, ovvero quella che affidava la salvezza delle nostre anime allo sforzo profuso nell’accumulare denaro.

Sono quindi pienamente d’accordo con il tuo punto di vista e ho citato questi esempi per avallare l’idea che al cuore del nostro sistema produttivo c’è una creatività libera che non è prioritariamente motivata dal lucro capitalista. Però è anche evidente che, nell’ambito di una struttura economica e sociale capitalista, c’è un ritorno economico di tipo capitalista, così come in strutture differenti ci possono essere ritorni di altro tipo. Per esempio, oggi molte persone utilizzano l’innovazione tecnologica esistente e i relativi software che mette a disposizione per le cose più svariate, come scaricare brani musi-cali da internet e così vivere la musica in piena libertà, o persino creare musica di tipo diverso e così via. Una cosa è certa: all’interno del sistema tecnologico attuale convivono relazioni sociali capitaliste e gerarchiche accanto a relazioni so-ciali cooperative, non gerarchiche e centrate sul valore d’uso più che sul valore di scambio.

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tomás ibáñez – Se sei d’accordo, potremmo adesso approfondire un po’ di più l’eterogeneità che caratterizza il momento attuale delle nostre società, e in particolare quella convivenza che hai appena citato tra modalità relazionali di tipo differente e persino di carattere opposto. E parto dicendo che concordo pienamente con quanto hai affermato in alcuni tuoi scritti: i movimenti sociali sono trasformativi e di conseguenza le lo-ro attività modificano i codici culturali vigenti e per ciò stesso determinano cambiamenti in spe-cifici aspetti della società.

manuel castells – Sì, ma prima di entusia-smarci per questa idea vorrei puntualizzare su-bito una cosa. Sono convinto che concordiamo anche sul fatto che i movimenti sociali non so-no necessariamente progressisti. È vero che tutti i movimenti sociali cambiano i valori costituiti, ma alcuni vanno nella direzione di distruggere i valori dell’umanità. Per esempio, i movimenti come la American Militia statunitense o i fon-damentalismi alla bin Laden sono sì movimenti che cambiano i valori, che cambiano la società, ma dal nostro punto di vista, improntato alla li-bertà, sono movimenti chiaramente distruttivi. Il che ovviamente non impedisce che continui-no a essere dei movimenti sociali.

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tomás ibáñez – Del tutto d’accordo, e comun-que nel tuo articolo sull’anarchismo citato in apertura sottolinei molto bene la contrapposi-zione tra questi due tipi di movimento che co-esistono nella fase attuale, ovvero i movimenti fondamentalisti di carattere religioso alla bin Laden da un alto e dall’altro i movimenti alter-mondialisti focalizzati sulla libertà, sul rifiuto della delega di potere e su strutture organizzative orizzontali.

Tornando a quanto stavo dicendo a proposi-to dei movimenti altermondialisti, nella misura in cui hanno acquisito un’importanza notevole, dobbiamo presumere che i loro interventi pos-sano contribuire a cambiare alcuni aspetti dei codici culturali della nostra società, orientando-li verso posizioni più vicine a quelle tipiche del pensiero libertario o anarchico. Al contempo, è possibile individuare nello stesso tessuto pro-duttivo alcune modalità e alcune relazioni che si allontanano considerevolmente dalle posizio-ni propriamente capitaliste e che si avvicinano al libertarismo. La congiunzione di queste due realtà può spiegare come mai l’anarchismo tro-vi nel contesto attuale condizioni favorevoli per una sua rinascita e attualizzazione. In sostanza, queste due realtà, peraltro non del tutto indi-pendenti e che si rafforzano vicendevolmente,

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concorrerebbero a configurare quell’«esperienza presente» propizia allo sviluppo delle posizioni anarchiche.

Tuttavia, tornando alla convivenza ricordata prima, tra gli aspetti che nell’«esperienza presen-te» non vanno tutti nella medesima direzione, o vanno addirittura in direzioni opposte, biso-gna includere le stesse tecnologie informatiche. Infatti, è facile osservare come queste siano cer-tamente capaci di favorire relazioni più libere e meno gerarchizzate, ma al tempo stesso danno una visibilità totale e costante degli individui, delle loro reti, dei loro movimenti tale da con-sentire un controllo senza precedenti nella sto-ria. Mai i poteri costituiti si sarebbero sognati di poter esercitare un controllo così capillare e pervasivo sugli individui e sulle popolazioni. E non c’è solo il controllo, la sorveglianza, l’infor-mazione esaustiva, ma anche la capacità di azio-ne immediata, quasi in tempo reale, per fronteg-giare le agitazioni e i sommovimenti sociali che potrebbero destabilizzare lo statu quo.

In conclusione, l’insieme di tutti questi fe-nomeni potrebbe sfociare in una sorta di neo-totalitarismo in grado di imprimere una propria configurazione all’«esperienza presente», che si troverebbe però a convivere e a confrontarsi con il neoanarchismo.

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Qui non si tratta di riprendere la consue-ta diatriba tra chi crede che le nuove tecnolo-gie dell’informazione e della comunicazione ci stiano portando verso un futuro apocalittico e chi invece crede che ci stiano portando verso un avvenire idilliaco. Si tratta piuttosto di os-servare se tali effetti contrapposti, che avvengo-no simultaneamente nell’«esperienza presente», si inscrivono in una dinamica di sviluppo con-giunto, se questa ambivalenza può essere pensata e analizzata nei termini di un qualche tipo di interazione tra gli elementi che la costituiscono. Un’interazione con sinergie e opposizioni, con rafforzamenti e neutralizzazioni… Non si tratta di prevedere l’Apocalisse o…

manuel castells – … l’Utopia…

tomás ibáñez – … l’Utopia o l’Eden, ma di ri-flettere su…

manuel castells – … sulla contraddizione…

tomás ibáñez – Esatto, sulla contraddizione, sull’ambivalenza, sul conflitto, sugli intrecci, sul-le tensioni che contraddistinguono il momento attuale. Non sto suggerendo di sviluppare una prospettiva su come sarà il futuro, ma di concen-

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trarci sulla coesistenza di queste due dinamiche contrapposte.

manuel castells – No, no, sai già che non par-lo mai del futuro, e credo nemmeno tu: le per-sone serie non parlano del futuro, costruiscono il futuro, ma non ne parlano. La tua posizione è giustissima: tentiamo di approfondirla insieme.

Ci sono due aspetti che bisogna esplicita-re preventivamente per sgombrare il campo da equivoci. Per un verso, va detto che non c’è deter-minismo tecnologico: deve essere ben chiaro che la tecnologia non può essere concepita come un determinante, bensì come una mediazione. Ma per un altro verso, la tecnologia è indiscutibil-mente essenziale, ha una propria specificità ed è assolutamente indispensabile tenerne conto per capire come funziona la società. È del tutto evi-dente che, a seconda del tipo di tecnologia che utilizziamo, sono molte le cose che cambiano nella società. La tecnologia esprime la società. La esprime e organizza le relazioni sociali di potere, le interazioni che avvengono nella società.

Di fatto, la tecnologia è malleabile, e la tec-nologia dell’informazione lo è ancora di più, è flessibile, e questo fa sì che le tecnologie come internet, vale a dire di comunicazione elettro-nica orizzontale, proprio perché sono tecnolo-

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gie di individualizzazione e di autonomia, sono tecnologie di libertà… Il che non significa che le tecnologie, di per sé, producano libertà, pro-ducano autonomia. Oltretutto, come hai fatto bene a evidenziare, in questo processo che mira a integrare tutto il mondo nelle reti di comuni-cazione elettronica, la sorveglianza digitale offer-ta da queste reti dà una capacità di controllo e di intervento sui flussi della comunicazione che non ha precedenti nella storia.

È dunque un dato di fatto che si producano movimenti che vanno in entrambe le direzioni. Per esempio, la straordinaria tecnologia militare degli Stati Uniti ha elaborato le famose «bombe intelligenti», grazie alle quali i bombardamen-ti dovrebbero produrre meno morti tra la po-polazione civile. Tranne che ogni tanto queste bombe sbagliano e uccidono i civili. E quando questo accade, i danni collaterali sono enormi. Dunque, non solo non sono così intelligenti co-me dicono, ma l’ideologia che ci sta dietro, con-vinta di poter condurre guerre «chirurgiche», in realtà porta a guerre ancora più devastanti.

Pertanto, bisogna immediatamente abbando-nare l’idea che le nuove tecnologie della comu-nicazione siano tecnologie che promuovono, di per sé, un cambiamento sociale positivo. O, per essere più precisi, è vero che consentono un ta-

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le cambiamento, ma sono i processi sociali e le decisioni politiche a dettare le regole circa la di-rezione da imboccare e le modalità da seguire. È un dato di fatto, però, che tali tecnologie possa-no essere utilizzate per una cosa o per l’altra, che consentano al contempo più autonomia per un verso e più sorveglianza per l’altro.

Questo, come appare ovvio, è un ragionamen-to facile, improntato al senso comune; ma su un piano più serio e analitico è necessario spingersi oltre. La domanda che dobbiamo porci è la se-guente: qual è la tendenza dominante? Qui sì che mi azzardo a dire qualcosa di più e ad affermare che la tendenza dominante si muove in direzio-ne della libertà. E perché? Perché, pur essendo vero che esiste un sistema di controllo, tuttavia la specificità tecnologica di tale controllo ci mo-stra che il sistema non è poi così onnipotente come la gente crede.

È indiscutibile che in questo sistema ci sono i dati di tutti noi. Ma quali dati? Per comincia-re, si tratta principalmente di dati relativi a cer-te transazioni individuali che tutti mettiamo in atto, come per esempio pagare con le carte di credito. La prima fonte di informazione, quel-la che fornisce i dati basilari attraverso i quali stabiliscono i nostri profili e ci tengono sotto controllo per tutta la vita, è la carta di credito.

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Se facessimo come i narcotrafficanti e pagassimo tutto in contanti, automaticamente scompari-rebbe una gran parte dell’informazione. Potrei elencare una lunga serie di esempi utili per il-lustrare come un comportamento improntato all’auto-controllo (teso a rendere la propria vita meno trasparente) possa utilizzare tali tecnolo-gie per potenziare le spinte verso la libertà, senza per questo favorire lo sviluppo di meccanismi di controllo sistematico.

La seconda idea da abbandonare è che il pote-re disponga effettivamente della totalità delle in-formazioni e che possa intervenire prontamente per reprimere. Ebbene, questo non è così ovvio, ma per capirlo è sufficiente osservare il funziona-mento dei sistemi di controllo come Carnivore dell’fbi o come quelli utilizzati oggi in Cina. So-no robot, robot che si basano su sistemi di anali-si automatica del contenuto delle comunicazioni a partire da parole chiave e da contesti. Pertanto, è sufficiente comportarsi come si comportano gli attivisti cinesi, che non usano parolacce come democrazia, sesso e altri termini simili.

In fondo, ne converrai, le cose stanno come stavano una volta in Spagna quando c’era il fran-chismo, quando scrivevamo articoli che doveva-no essere sottoposti alla censura. Bastava sempli-cemente non commettere la sciocchezza di dire

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in modo esplicito certe cose e invece ricorrere a giri di parole o a doppi sensi. Una volta, per esempio, ero intervenuto a un convegno che si svolgeva in piena dittatura brasiliana e che vede-va la partecipazione di tutti gli intellettuali mar-xisti brasiliani. Il convegno trattava temi molti teorici collegati alle posizioni di Louis Althusser e io terminai il mio intervento affermando, con grande ingenuità, che non dovevamo fermarci né al marxismo né al leninismo, ma che era ne-cessario superare entrambi… Ovviamente era presente un poliziotto che, per quanto stupido, non era un robot (o quasi), e appena sentì i ter-mini «marxismo» e «leninismo» pensò: ecco, ci siamo, la rivoluzione! E subito chiamò la poli-zia militare, che arrivò in forze e ci arrestò tutti quanti.

Quello che intendo dire è che non bisogna esagerare l’efficacia dei sistemi di controllo. Ab-biamo anche lo storico esempio del kgb sovieti-co, che disponeva di informazioni complete su tutti i cittadini. Non avevano internet, ma re-gistravano tutto, redigevano rapporti su tutto e sguinzagliavano una moltitudine di agenti dap-pertutto… poi però non erano affatto in grado (come oggi sappiamo perfettamente grazie agli studi compiuti) di elaborare una tale quantità di informazioni.

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tomás ibáñez – Certo, tanto che si potrebbe so-stenere – qui come altrove – che l’eccesso di in-formazioni genera disinformazione. Anzi risulta più che evidente che a quell’epoca la quantità di informazioni immagazzinate ha mandato in tilt i servizi del kgb e ne ha diminuito l’efficienza. Ma con gli attuali sistemi di monitoraggio delle in-formazioni potrebbe sembrare che le cose siano cambiate in maniera sostanziale.

manuel castells – Non è affatto detto che oggi sarebbero riusciti a elaborare quella gran massa di informazioni. Non è detto perché trattare una simile quantità di informazioni avrebbe richie-sto la messa a punto di sistemi automatizzati, che però non sono in grado di comprendere il contesto. Così, anche se si registra tutto, si con-trolla tutto e via dicendo, non è possibile elabo-rare tutto, soprattutto se le persone evitano di utilizzare certe parole chiave e non si dispone del codice per individuare quelle usate al loro posto. Dunque, pur senza sminuire il pericolo rappre-sentato dalla sorveglianza elettronica, è chiaro che vi sono considerevoli difficoltà per metterla in pratica.

In ogni caso, la dialettica tra i due poli che in questo momento coesistono – maggiore libertà e maggiore controllo – deve sollecitare la nostra

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attenzione verso alcune battaglie fondamentali, cui a mio avviso la gente non attribuisce l’im-portanza dovuta.

Per esempio, un modo per sfuggire alla sor-veglianza messa in atto dagli apparati di potere sulla comunicazione in rete è il ricorso ai mes-saggi crittati, anche se è ovvio che lanciare un movimento di massa per l’adozione di sistemi crittati è per lo meno complicato. Ma prima o poi i movimenti sociali dovranno cominciare a focalizzarsi su quelle che sono le battaglie davvero importanti. Innanzi tutto la battaglia per mante-nere internet un sistema di comunicazione libera e dunque la battaglia per la sua libertà da ogni interferenza giudiziaria. Poi la battaglia per impe-dire che i monopoli della comunicazione – in via di espansione in tutto il mondo – inizino ad ac-quistare le imprese che operano su internet, riu-scendo di conseguenza a imporre una legislazione a loro favore. E infine la battaglia sulla proprietà intellettuale, come quella in corso per esempio in Spagna, dove la Società degli autori sta facendo forti pressioni sul ministero della Cultura affin-ché promulghi una legge assolutamente retriva sul controllo dei diritti di proprietà intellettua-le. Un intervento legislativo del genere potrebbe vanificare la creatività condivisa e distruggere la libera circolazione dei contenuti su internet.

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Le battaglie per la libertà nel nuovo sistema di comunicazione sono battaglie più importanti di quelle sul salario minimo o cose simili. Attenzio-ne, non sto contrapponendo la lotta per la liber-tà alla lotta per il salario minimo, ma sostengo che per difendere il salario minimo è necessario mettere a disposizione della libertà gli strumenti adatti.

Ma il problema è che – a eccezione di alcuni segmenti assai minoritari – in generale il movi-mento sociale, sia in Italia, sia in Spagna, sia in molti altri paesi, non riconosce l’importanza di tali battaglie. E invece, nel Forum sociale mon-diale che si è tenuto a Porto Alegre nel 2005 abbiamo organizzato un dibattito sul software libero e sulla libertà in materia di proprietà intel-lettuale, dibattendo con persone come Lawrence Lessig, o come il musicista e attivista Gilberto Gil, all’epoca ministro della Cultura brasiliano, o ancora come John Perry Barlow. Bene, era la prima volta che in una situazione come quella di Porto Alegre si poneva con forza un proble-ma del genere: il dibattito è iniziato alle otto del mattino e hanno partecipato tremila persone che si sono messe a discutere appassionatamente. Era la prima volta che il movimento altermon-dialista si entusiasmava all’idea che la difesa della libertà in internet è qualcosa di fondamentale.

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Ma in definitiva, com’è cambiata la situazio-ne? In pratica è chiaro che controllano e repri-mono. Tuttavia, avendo a che fare con tecnolo-gie di libertà, quello che effettivamente accade è questo: a meno che non disconnettano inter-net – cosa molto costosa in termini economici per le imprese e in termini politici per i governi – l’unica cosa che possono fare è sopprimere il messaggero, ma non il messaggio. Certo, se sei il messaggero il fatto ti pone un problema molto serio, ma se sei il messaggio, vivi e continui a diffonderti intellettualmente in tutto il mondo. Dunque c’è repressione, certo, ci sono vittime della repressione, altrettanto certo, ma il messag-gio passa sempre.

D’altronde, in tutta la storia c’è sempre stato il controllo della comunicazione e dell’informa-zione come base del potere. È questa la regola aurea della storia. Perché? Perché il potere sta nel-la mente delle persone, e se controlli il modo in cui la gente si informa e comunica, allora con-trolli il potere. Se non controlli il modo di pen-sare e di comunicare, gli apparati repressivi e gli stessi eserciti finiscono per sfaldarsi: non posso-no vincere, perché non dispongono di un potere sufficiente da contrapporre a quello delle menti. Non vi è alcun dubbio: la battaglia cruciale è la battaglia delle menti.

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Questa struttura di comunicazione orizzon-tale, autonoma, fornita dalle nuove tecnologie aumenta la capacità di autonomia delle menti rispetto alla capacità di manipolazione del pote-re. Tutto qui. Io non sto qui sostenendo che tale struttura ci porti la libertà, o che sia la libertà, dico semplicemente che questa accresce le nostre possibilità di difendere ed espandere l’autono-mia e la libertà.

tomás ibáñez – Dato che hai appena toccato il tema del potere, vorrei continuare a svolgere il mio ruolo di avvocato del diavolo anche su questo tema, indubbiamente fondamentale per il pensiero anarchico.

Da quanto detto si deduce che, se paragonia-mo il funzionamento a rete dell’attuale contesto sociale e tecnologico a quello di altri modelli di funzionamento, di norma il primo è giudicato più efficace e produttivo dei secondi. Credo che tu stesso lo dica più o meno in questi termini, che cito a memoria: «Le organizzazioni reticolari raggiungono una maggior efficacia, indipenden-temente da quali siano le loro finalità».

manuel castells – Proprio così. Anche se l’e-spressione che preferisco usare in proposito, pro-prio perché ci ho messo molto tempo per riuscire

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a formularla, è: «Le reti amano o uccidono, non hanno problemi personali», cioè sono neutre.

tomás ibáñez – In effetti, è un’espressione meta-forica che sintetizza nel minor numero di parole possibile un’idea cruciale. Ma che cosa implica esattamente quell’affermazione? Implica che an-che i meccanismi repressivi sono più efficaci nel contesto attuale se adottano una forma retico-lare. Vale a dire che una struttura di potere non verticale, non gerarchizzata, ovvero una strut-tura di potere orizzontale, di potere distribuito, oggi può servire meglio alla repressione delle strutture verticali. È una cosa piuttosto contro-intuitiva per il pensiero anarchico classico, che associa strettamente i fenomeni di esercizio del potere con le strutture gerarchizzate.

C’è però un secondo aspetto che è ancor più preoccupante dal punto di vista della coerenza del pensiero anarchico. Infatti, se il funziona-mento a rete risulta in genere più efficace, se ne dovrebbe dedurre che anche i rapporti di potere che passano attraverso strutture di tipo retico-lare possano conseguire una maggiore efficacia. Ma ipotizzare che i meccanismi di potere possa-no essere più efficaci quando si costituiscono in strutture di potere distribuito, in strutture non gerarchiche che in linea di principio conferisco-

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no una maggiore autonomia agli elementi che ne fanno parte, per l’anarchismo risulta ancora più contro-intuitivo dell’aspetto citato prima. In altre parole, se eliminiamo la gerarchia, il potere non solo può continuare a funzionare, ma può anche funzionare con maggiore efficacia che in strutture rigide e verticali. Il che mette in discus-sione una delle fondamentali affermazioni anar-chiche, vale a dire che il «male» sono le gerarchie e le strutture analoghe.

In effetti, io sono convinto che entrambi gli estremi siano possibili: sia che apparati di po-tere, adottando strutture reticolari, raggiungano una maggiore efficienza repressiva, sia che i rap-porti di potere, passando attraverso strutture re-ticolari, possano essere più efficaci. Ma se questo è vero, allora è chiaro che sul nodo problematico del potere il pensiero anarchico dovrebbe essere profondamente rinnovato, dovrebbe essere rifor-mulato in maniera radicale, alla luce dei profon-di cambiamenti sociali che si sono verificati in questi ultimi anni. In altre parole, è a mio avviso urgente per la riflessione anarchica contempo-ranea impegnarsi in questa nuova teorizzazione del fenomeno del potere, altrimenti rischia di restare ancorata a schemi predeterminati propri del diciannovesimo secolo.

È possibile che ciò stia già avvenendo sotto

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altre sigle, o senza sigle, all’interno dei nuovi movimenti sociali, anche se non ne sono a cono-scenza. Ma cosa ne pensi tu di questa necessità di attualizzare l’anarchismo?

manuel castells – Sono assolutamente d’ac-cordo. Di nuovo poni dei problemi fondamen-tali, ma, prima di addentrarci, permettimi di dire che, quando parliamo di neoanarchismo, dobbiamo prendere molto sul serio il prefisso «neo». Dobbiamo cioè evitare di cadere in quel-la visione arcaica che consiste nel dire: bene, c’è stato l’anarchismo, il movimento anarchico del diciannovesimo secolo e della prima metà del ventesimo, e questo anarchismo è quello vero, quello della rivoluzione e dei grandi ideali... Poi però il capitalismo e lo stalinismo lo hanno stri-tolato, e la democrazia lo ha infine annientato. Ma nonostante tutto l’anarchismo è vivo e sem-pre vivrà, e nuove giovani forze raccoglieranno la sua fiamma imperitura… e via di questo passo. No, questa è una visione assolutamente mitica e idealistica della storia che va respinta. Magari a volte ha anche degli effetti positivi, come quello di fornire alle giovani generazioni alcuni punti di riferimento che li ricollegano a persone che hanno davvero lottato per la libertà, e non sol-tanto, per parlar chiaro, per una riorganizzazio-

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ne più sociale della produzione capitalista. Ma detto ciò, dobbiamo fare di tutto per allontanar-ci da questa visione prometeica di un anarchi-smo immutabile che attraversa la storia e che un giorno trionferà ponendosi alla testa della vera rivoluzione.

D’altronde, se non lo facessimo, finiremmo su posizioni in totale contraddizione, non dico con l’ideologia, ma con le stesse analisi anarchi-che più serie. Per esempio, Michail Bakunin non avrebbe mai detto qualcosa di questo tipo. Di fatto Bakunin aveva una visione più materiale della storia, e dello sviluppo della storia, dello stesso Karl Marx, il quale ha sempre pensato che il giorno in cui le forze produttive si fossero suf-ficientemente sviluppate, tutti avremmo potuto andare a pescare ed essere felici. E a chi non pia-cerebbe andare a pescare?

Torniamo ora al tema centrale da te sollevato: se l’esercizio del potere diventa più efficace quan-do funziona in una struttura reticolare, allora è necessario riattualizzare le posizioni anarchiche sul potere. La mia risposta è sì, ma con un’osser-vazione preliminare che adesso sviluppo.

L’osservazione è la seguente: gli Stati, i gran-di Stati imperialisti o militaristi come gli usa, e le grandi imprese capitaliste sanno già che, dal punto di vista di una maggiore efficacia nella ge-

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stione del loro potere, le strutture in rete rappre-sentano un vantaggio palese, e infatti sono già all’opera per sviluppare tali reti. Ma cosa succe-de? Succede che è molto difficile. L’esempio più chiaro che mi viene in mente è quello della Rand Corporation statunitense, dove lavorano degli esperti fantastici, estremamente intelligenti, sui quali ho imparato molte cose leggendo quanto scrivono. Già nei primi anni Novanta, vale a di-re prima di tutti gli altri, questi esperti aveva-no capito come i neozapatisti fossero un’inedita guerriglia informazionale strutturata in forma reticolare. E da qui hanno sviluppato un’intera teoria sugli apparati bellici strutturati in forma reticolare, lanciando l’idea di un decentramento così configurato delle stesse forze armate statuni-tensi, a partire da alcune unità dei marines!

Tutto quello di cui stiamo discutendo è dun-que già stato pensato e analizzato. Ma allora per-ché non viene realizzato? Semplicemente perché a frapporsi c’è tutto l’enorme apparato gerarchi-co, con la sua zavorra di generali, ammiragli e divisioni. Insomma, perché il Pentagono non è d’accordo. O meglio, gli analisti più intelligenti dell’esercito statunitense vorrebbero procedere verso una simile ristrutturazione reticolare, ma poi nella pratica devono fare riferimento alle divisioni esistenti. Così, dispongono di alcuni

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comandi con queste caratteristiche, ma tali uni-tà autonome servono solo a indicare al bombar-diere dove bombardare. Poi arriva il bombarda-mento brutale e distrugge tutto, facendo a pezzi anche questa politica intelligente e decentrata raccomandata dagli specialisti. In definitiva, la logica schiacciante della gerarchia continua a es-sere la stessa.

Con le grandi imprese accade in parte la me-desima cosa. Una delle ragioni per cui le gran-di aziende hanno utilizzato in qualche modo le teorie che ho elaborato su queste modalità reti-colari è perché vi hanno individuato la possibi-lità di creare strutture più dinamiche e flessibili. Esattamente come sostenevano le analisi da me compiute a partire dai loro esperimenti. Ma che succede poi? Succede che nelle aziende più dina-miche si riescono effettivamente a creare strut-ture di questo tipo, ma in molte grandi imprese le strutture verticali, burocratiche e corporative, basate sugli interessi dei grandi manager e dei dirigenti di medio livello, ovviamente si oppon-gono a una trasformazione di questa struttura di dominio, che è la struttura all’interno della quale sono in grado di operare.

tomás ibáñez – A quanto pare qui siamo in presenza di un’aporia. Infatti, se per modificare

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una struttura con una notevole concentrazione di potere, occorre esercitare ancora più potere, ovvero disporre di maggiori risorse di potere di quella struttura, chi, come noi, è contrario a uti-lizzare i meccanismi di potere non può facilmen-te eliminare gli apparati di potere.

manuel castells – È simile a quello che consta-tavo in Cile nel periodo che ha preceduto il gol-pe, quando i miei amici cileni, che poco dopo sarebbero stati decimati, mi dicevano: «Bisogna disarmare l’esercito», e io ribattevo: «Sì? E con quali armi disarmi l’esercito?».

Concludendo l’osservazione preliminare, quello che volevo chiarire è che un apparato di potere, anche se tenta di adeguarsi alla logi-ca dell’autonomia, della rete e della libertà, ha una struttura, una cultura e degli interessi che non gli lasciano molto margine di manovra. Può in parte modificarsi, ma fondamentalmen-te le strutture di dominio operanti nel mondo continuano a essere gerarchiche. Pertanto, lun-gi dall’affermare che se eliminiamo la gerarchia eliminiamo anche il dominio, perché in questo la tua analisi è assolutamente corretta, possiamo però ritenere che se eliminiamo le gerarchie si apre tutto un campo di possibilità per cambiare anche i rapporti di potere.

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Tornando ora al problema che hai posto pri-ma, cioè alla necessità di rinnovare il pensiero anarchico sul potere, vediamo se colgo l’essen-ziale del tuo pensiero. A tuo avviso, la riflessio-ne anarchica sul potere era focalizzata sulla di-struzione delle gerarchie e degli apparati verti-cali di dominio, ma adesso risulta evidente che il dominio si esercita anche mediante altri tipi di configurazioni organizzative, per cui bisogna abbandonare lo schema secondo cui bisogna combattere solo le strutture di potere verticale e assumerne un altro più articolato.

Ho già detto di essere d’accordo. Ma in che senso sono d’accordo con questa impostazione? Tornerei qui al mio tema centrale, e cioè che il dominio degli apparati è solo l’espressione di un dominio più profondo: il dominio delle men-ti. Infatti, per accettare la delega, ovvero per ac-cettare che la libertà e la democrazia consistano nello scegliere ogni quattro anni, tramite il voto, quale tra due persone sia quella che propone la formula migliore, tra formule che generalmente non soddisfano nessuno, occorre che le persone abbiano interiorizzato quella riduzione del va-lore della democrazia alla semplice democrazia parlamentare. E questa è una condizione preli-minare. Perché se la gente non fosse convinta che la democrazia sia proprio quella cosa lì, allo-

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ra il sistema semplicemente non funzionerebbe. Pertanto, la lotta per l’egemonia, per utilizza-

re un termine gramsciano, è assolutamente pri-mordiale. Antonio Gramsci è rimasto comunista perché lo hanno chiuso in galera, ma tutto ciò che funziona in Gramsci, come i temi della li-bertà e del dominio culturale, o appunto il tema fondamentale dell’egemonia, va ben oltre le po-sizioni classiche del comunismo. In ultima istan-za, egemonia significa che si è vinta la battaglia delle menti, cioè la battaglia cruciale.

tomás ibáñez – Chiaro, perché quando sei riu-scito a plasmare le coscienze degli altri con i tuoi valori, dissimulando con abilità che quei valori sono soltanto «tuoi» e così ottenendo che ven-gano assunti come propri, quando sei riuscito a farli apparire naturali e di conseguenza univer-sali, allora non hai più bisogno di ricorrere alla forza per imporli.

manuel castells – Esatto. L’anarchismo ha fat-to della lotta contro lo Stato il centro della pro-pria ideologia e della propria pratica. Tuttavia, io sono convinto che oggi lo Stato come strumen-to di dominio sia secondario. Ovviamente non è uno strumento secondario quando si tratta di reprimere e ammazzare, che in ultima istanza è

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quello a cui serve lo Stato, dato che continua a detenere il monopolio della violenza. Ma diven-ta secondario rispetto alle nuove modalità di dif-fusione del dominio, che oggi transita soprattut-to attraverso i canali culturali attivi nel mondo della comunicazione. Qui non mi riferisco soltanto alla televisione

e ai mezzi di comunicazione di massa, ma an-che a quei luoghi in cui avviene la produzione delle idee. E non sto parlando dell’università, perché in questo momento l’università (in Spa-gna o in Italia) produce poco, a parte posti di lavoro. Quello che ho in mente sono i tanti tipi di apparati culturali attualmente esistenti. E sta qui la chiave di tutto. Oggi è necessario passare da una lotta per il controllo dello Stato o per la distruzione dello Stato a una lotta focalizzata sugli strumenti che controllano le menti e sulla costruzione di sistemi di libertà e di comunica-zione autonoma. Ed è questo, secondo me, il confine che deve varcare il neoanarchismo.Tutto quello che abbiamo detto sui mezzi di

comunicazione, su internet, sui cellulari, non è dunque un banale tema di tattica tecnologi-ca, ma è un tema che rinvia all’autonomia della produzione di contenuti, all’autonomia della pro-duzione e diffusione delle idee. Sono convinto che passi da qui la nuova formulazione delle idee

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sulla lotta per la libertà, che le si voglia chiamare anarchiche o in altro modo.

tomás ibáñez – Certamente le questioni che ri-mandano alla libertà, al potere e alle forme non gerarchiche di organizzazione sociale sono aspet-ti fondamentali dell’anarchismo. Ma c’è un’altra questione che occupa un posto centrale nella sensibilità anarchica, ed è la questione dell’etica. Vale a dire, per esempio, l’attenzione data al-la relazione tra mezzi e fini, o alla necessità di far coincidere il dire e il fare, ossia la teoria e la pratica, anche nell’ambito della vita concreta, quotidiana. Si tratta di un insieme di considera-zioni, alcune delle quali trovano probabilmente le proprie radici nel contesto giudaico-cristiano, che mette in evidenza l’importanza dell’etica per l’anarchismo. Se sei d’accordo, potremmo con-cludere questo dialogo con alcune brevi rifles-sioni sull’etica anarchica. Partiamo dall’azzecca-ta espressione metaforica da te coniata che ab-biamo citato prima: «Le reti amano o uccidono, non hanno problemi personali»...

manuel castells – Ovvero non hanno pregiu-dizi, sono neutrali.

tomás ibáñez – Ma che significa questo? Signi-

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fica che ci sono mezzi più efficaci di altri, indi-pendentemente dalle finalità che si vogliono rag-giungere. Se si arriva alla conclusione che certi mezzi, in questo caso le reti, possono essere usati per qualunque fine, allora si spezza quel rapporto mezzi/fini fondamentale per la dimensione eti-ca del pensiero anarchico. Nella misura in cui il progressivo configurarsi dell’era digitale vanifica l’esistenza di una determinazione reciproca e di una mutua dipendenza tra mezzi e fini, si fa im-mediatamente strada la domanda se «l’esperien-za presente» stia davvero portando acqua al mu-lino dell’anarchismo, favorendone la rinascita, oppure se quello che sta facendo è costringerci a creare un sistema di idee completamente nuovo, a margine di quelli elaborati nel diciannovesimo secolo.

manuel castells – È impossibile, in questo contesto, sviscerare il tema in profondità, ma vorrei almeno abbozzare un’indicazione di mas-sima. Storicamente l’anarchismo ha sempre re-spinto l’idea di costruire uno Stato per farla fini-ta con lo Stato, perché il mezzo utilizzato, la co-struzione di uno Stato, era contraddittorio con il fine perseguito, l’abolizione dello Stato. E questa è stata, in termini operativi, la debolezza storica dell’anarchismo, anche se, per un altro verso, la

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trovo di una bellezza tragica: in nome dell’etica rinunciare alla politica...

tomás ibáñez – Anche Jean-Paul Sartre ha in parte affrontato questioni simili in opere come Le mani sporche o Il diavolo e il buon Dio...

manuel castells – Certamente Sartre poneva la questione in termini molto più profondi e fi-losofici, ma il contenuto è pur sempre lo stesso dell’assai più prosaica considerazione di Stalin: «Per fare la frittata, bisogna rompere le uova». D’altronde, il più coerente leader del marxismo-leninismo è stato proprio Stalin. Ma tornando al nostro argomento, nella misura in cui è accerta-to che le reti autonome e auto-configurabili sono reti di libertà, tecnologie di libertà, il nuovo rap-porto mezzi/fini può eliminare, nel migliore dei casi, il dilemma che poni. Certo, ciò non esclude che queste stesse tecnologie di libertà, sovvertite da una logica di dominio, consentano agli appa-rati di potere di essere ancora più potenti perché usano la tua libertà per controllarti. Ma in so-stanza non si deve rinunciare a uno strumento, a un mezzo, solo perché questo rende possibile più di una finalità ed è ambivalente rispetto ai suoi effetti. Non bisogna poi dimenticare che le reti si auto-configurano in rapporto al tipo di evolu-

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zione che hanno i valori della società. Se dunque operiamo affinché tali valori vadano nella dire-zione della libertà, allora si tratta semplicemente di lasciare che le reti si espandano senza coartare la loro libertà e di lasciare che i mezzi di costru-zione autonoma funzionino senza ingerenze.

tomás ibáñez – E questo ci riporta a quello che dicevi prima sulle due configurazioni principali dell’era digitale, sostenendo che la tendenza do-minante, ovvero la configurazione prevalente, è in ultima istanza quella che vede un’espansione della libertà.

manuel castells – Proprio così: nella struttura organizzativa creata dalla società digitale conta di più la libertà. E dunque non ha senso porti il problema se utilizzare o no internet nel timore che ti possano sorvegliare... Sì, è vero, ti possono sorvegliare, ma anche se non utilizzi internet ti possono sorvegliare in vari altri modi, con i satel-liti, i poliziotti e così via. Se invece utilizzi inter-net, anche tu li puoi sorvegliare, e questo cambia molte cose. Ma, appunto, questa è solo un’indi-cazione di massima a proposito delle questioni cruciali che ponevi. Forse dobbiamo affrontare l’argomento più a fondo e cercare un’altra occa-sione per continuare il nostro dialogo.

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Postfazione

di Andrea Staid

Se lo Scià finirà per cadere, ciò sarà in gran parte dovuto alle cassette.Michel Foucault, riferendosi alla rapida circolazione dei discorsi di Khomeini sotto forma di audiocassette, 1978.

Partiamo da un concetto fondamentale per de-finire il nuovo anarchismo, o quanto meno per darne la mia interpretazione: l’anarchismo de-ve essere pluralista, non può essere riproposto uguale in tutto il mondo, non è universale ed è portatore di una concezione relativista critica.

Il pensiero libertario deve essere legato al con-testo della sua produzione, è mutevole, peren-

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nemente in transito, se si fermasse diventerebbe un dogma e sarebbe destinato a morte certa. Il pensare anarchico è programmaticamente insta-bile, non cerca riposo, ma è incessantemente in divenire. Da sempre gli anarchici si sono occu-pati di divulgare le loro idee attraverso la stam-pa di periodici e libri, volantini e fanzine. Sono passati parecchi secoli da quando il vecchio Gu-tenberg inventò il torchio tipografico per stam-pare i caratteri mobili su pagine di carta, ma mai come negli ultimi vent’anni è cambiato il modo di comunicare. La quantità di messaggi inviati, di post, commenti, tweet pubblicati negli ultimi anni è qualcosa che anche solo dieci anni fa era difficilmente immaginabile. In un minuto in re-te vengono mandati all’incirca centomila tweet, condivisi un milione e mezzo tra aggiornamenti e commenti Facebook e inviate oltre centoset-tanta milioni di mail. La velocità di cambia-mento del mondo dei mass media ha raggiunto picchi incredibilmente elevati e fino a oggi sco-nosciuti. Un’affermazione di Manuel Castells, divenuta ormai celebre, mette a confronto la velocità odierna con il ritmo di cambiamento precedente: «Negli Stati Uniti la radio ha impie-gato trent’anni per raggiungere sessanta milioni di persone, la televisione ha raggiunto questo li-vello di diffusione in quindici anni, internet lo

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ha fatto in soli tre anni dalla nascita del World Wide Web» [Castells, La nascita della società in rete, Milano, 2008, p. 382]. Per quanto Castells si riferisca specificamente a internet, questa os-servazione può essere estesa a tutte quelle inno-vazioni tecnologiche che vanno in genere sotto il nome di ict (Information and Communication Technology) e definiscono il campo dei new me-dia, che si sono affermati in un periodo di tem-po molto breve, rivoluzionando l’intero ambito dei mezzi della comunicazione di massa, inclusi i più vecchi e consolidati.

Tutta la storia dei mezzi di comunicazione di massa può essere letta come una trasforma-zione continua e senza significative interruzio-ni che ha portato dalla scarsità di informazioni all’abbondanza, per arrivare a un vero e proprio ingorgo di informazioni difficili da analizzare e valutare. Nei primi anni della comunicazio-ne di massa, ovvero per tutta la prima metà del Novecento, i mezzi e i messaggi in circolazione raggiungevano un numero molto limitato, si era in una situazione di scarsità, con poche fonti di comunicazione e con un universo simbolico non così affollato di messaggi come oggi. Con il passare degli anni, soprattutto grazie all’inno-vazione tecnologica, il numero delle emittenti e il numero dei messaggi è aumentato in maniera

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portentosa, tanto che oggi siamo letteralmente sommersi dalle informazioni.

Tuttavia, dobbiamo prestare molta attenzione nell’analisi delle nuove reti di comunicazione, perché sarebbe troppo superficiale concepire la rete come la ricetta che mette nelle mani delle masse il cambiamento globale. Non dimenti-chiamo poi che le rivoluzioni, i movimenti socia-li, le proteste di piazza accadevano anche prima di internet, dei social media e della rete. Questo non vuol dire che i media non fossero importan-ti per la mobilitazione. Se diamo uno sguardo ai movimenti sociali del passato ci accorgiamo della loro importanza in ogni rivoluzione e in ogni protesta. Internet e i social media rappre-sentano soltanto l’ultima fermata di un lungo processo storico in cui i media hanno avuto un ruolo fondamentale nella diffusione delle idee tra i movimenti sociali di opposizione. Da Lute-ro in avanti, non c’è rivoluzione politica che non si sia costruita sul medium dell’epoca. Facciamo qualche esempio: nel 1517 il protestantesimo si diffuse rapidamente anche grazie a Gutenberg e alla sua rivoluzione della stampa; nel 1789 le idee della Rivoluzione francese si propagarono, soprattutto nei primi anni, attraverso un enorme aumento di libelli, pamphlet e giornali; nell’U-nione Sovietica degli anni Sessanta la comuni-

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cazione clandestina viaggiò attraverso i giornali fatti in casa e i samizdat, che, passati di mano in mano, impiegavano mesi per raggiungere le città più periferiche; nel 1968 le tecnologie di comu-nicazione che più aiutarono i movimenti di con-testazione furono la radio, i graffiti e il ciclostile. A Parigi, nei primi giorni del maggio 1968 la protesta si propagò via radio, grazie ai transistor portati sulle barricate dagli studenti.

Ma se nel 1968 parigino e nel 1977 bolognese i manifestanti usavano le radio a transistor per capire come non finire tra le braccia della poli-zia, nel 2013 a Istanbul sono le mappe geoloca-lizzate e aggiornate in tempo reale, da consultare sui propri smartphone, a guidare i manifestanti verso i punti wi-fi (molti negozianti hanno aper-to le loro reti), i punti di soccorso (alcune mo-schee hanno aperto le porte ai feriti), le barricate e i blocchi della polizia (http://doppiozero.com/materiali/web-analysis/occupygezi-istanbul-re-volution-will-be-tweeted).

Se dunque i media hanno sempre svolto un ruolo fondamentale nei movimenti sociali, nelle rivoluzioni, il libro che avete tra le mani, que-sto dialogo su anarchia e comunicazione tra Manuel Castells e Tomás Ibáñez, si concentra sull’impatto avuto dalla rete sui nuovi movi-menti e sulle potenzialità e problematiche che

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ne sono derivate. Eppure, nonostante i pochi anni che ci separano da questo dialogo, scritto nel 2006, ci si accorge di quanto questo breve lasso di tempo equivalga a una vera e propria «era» nel mondo della comunicazione. Negli ul-timi anni sono infatti cambiate moltissime co-se nel mondo della rete e della comunicazione, basti pensare all’avvento dei social network, di Facebook e di Twitter e al ruolo che questi mezzi di comunicazione hanno avuto nelle recenti ri-volte scoppiate a livello internazionale, dai paesi arabi agli Stati Uniti.

Qualcuno le ha già definite «wikirivolte», pro-prio perché i social media hanno avuto un ruolo essenziale nel rendere efficaci sul terreno e visibi-li in tutto il mondo questi nuovi movimenti in-surrezionali che, nati nel più assoluto silenzio in vari paesi africani e mediorientali, sono stati in grado di trasformarsi in strumenti di disintegra-zione politica, sociale ed economica dalle conse-guenze imprevedibili. Il tutto nel più completo stupore delle democrazie occidentali. Probabil-mente è proprio questo il dato più sconcertante degli avvenimenti che si sono consumati nello scenario del Mediterraneo: lo sbigottimento dei paesi europei e degli stessi Stati Uniti.

Chi mai avrebbe previsto che dittature tanto longeve e resistenti potessero crollare nel giro di

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pochi giorni, grazie all’attacco lanciato da blog, forum e chat? Nessuno. E probabilmente nes-suno si è posto il problema di analizzare i con-tenuti dei messaggi che circolavano nei social network, ovvero gli strumenti che sono stati capaci di innescare le rivolte in molti paesi del continente africano. I tumulti che hanno incen-diato il Nord Africa sono partiti dalla Tunisia per poi diffondersi in Egitto, Sudan, Yemen, Al-geria, Iran, Libia, Arabia Saudita. Non sono da sottovalutare neanche le proteste minori che si stanno consumando più silenziosamente in altri paesi del mondo. Altri tumulti si stanno infat-ti diffondendo tramite Facebook e Twitter an-che in Camerun, Qatar e Kuwait. È importante però sottolineare come tutte queste rivolte non nascano grazie ai social media ma nascano gra-zie alla voglia di cambiamento reale che vive nei corpi degli individui oppressi. I social media, e più in generale la rete, sono un supporto, uno strumento per veicolare la rivolta, che prima di tutto nasce nelle strade, nelle piazze, tra la gen-te. Nonostante tutto, la condivisione fisica delle emozioni rimane molto più forte della condivi-sone virtuale di un messaggio.

Oltretutto, non dobbiamo sottovalutare, co-me è stato opportunamente evidenziato nel dia-logo precedente, l’utilizzo della rete anche da

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parte di chi governa e reprime i movimenti so-ciali di opposizione, né dobbiamo dimenticare chi lucra sui social network all’interno di proget-ti politici neoliberali che stanno nel cuore stesso di questi nuovi strumenti. Il numero dei pro-duttori di comunicazione aumenta proporzio-nalmente all’aumento del numero di messaggi in circolazione, che di conseguenza fa aumentare anche il numero di poliziotti informatici. In più, bisogna stare attenti a non utilizzare con troppa leggerezza e ingenuità questi mezzi di comuni-cazione, perché non sono neutri e perché sono molto utili per chi osserva e controlla. In speci-fico Facebook, uno dei social media più utiliz-zati nel pianeta, ha una politica particolarmente pericolosa. I suoi utenti si espongono infatti a ogni sorta di sopruso e violazione della privacy. Un account su Twitter, Google+ o Facebook non è mai di proprietà dell’utente, ma è uno spazio messo gratuitamente a sua disposizione in cam-bio della sua disponibilità a farsi sezionare in porzioni merceologicamente interessanti.

Oltre all’aspetto commerciale, questi mezzi sviluppano anche potenti e insidiose applicazio-ni, come per esempio il riconoscimento faccia-le, ideato ovviamente per il «bene degli utenti», come taggare gli amici in un post o proteggere i bravi cittadini dai pericolosi terroristi. Ma il

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potenziale repressivo di una simile tecnologia è terrificante: nello scenario peggiore, ovvero in un regime autoritario, si possono schedare in maniera semiautomatica i dissidenti fotografati in piazza, mettere in atto una sorveglianza capil-lare e colpire quando lo si ritiene opportuno, ma lo stesso vale anche per il regime democratico e le sue polizie informatiche [Ippolita, Nell’acqua-rio di Facebook, 2012, pp. 65-66]. Il fenomeno al quale bisogna prestare più attenzione è quella vera e propria mutazione antropologica innesca-ta dai media, che sono capaci di far dimenticare la propria caratteristica di mediazione, di inter-posizione fra i corpi e la percezione della realtà.

Per sfuggire a questa radicale mutazione dei mezzi di comunicazione, non serve nasconder-si dietro un manto di purezza a-tecnologica: il cambiamento avvenuto nella comunicazione tra esseri umani è uno dei più radicali degli ultimi secoli ed è impossibile sottrarsene. Rispetto in-fatti all’epoca della comunicazione analogica, l’abbinamento tra trasmissione digitale, compu-ter, fibra ottica e satellite ha prodotto due con-seguenze principali, che hanno rivoluzionato completamente le precedenti logiche comunica-tive. La prima conseguenza è che, mentre l’era della comunicazione di massa era caratterizzata dall’unidirezionalità del messaggio (il ricettore

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non aveva alcuna possibilità di risposta, se non mediata da altri strumenti, per esempio il tele-fono nella comunicazione radiotelevisiva), l’era della rete e dei social network è caratterizzata dall’interattività. Emittente e ricevente hanno la possibilità di interloquire e, appunto, il ricevente può abbandonare quel ruolo meramente passivo che gli assegnava la comunicazione di massa. Il ricevente può rispondere al messaggio, può sce-gliere tra una pluralità di prodotti offerti dalla stessa emittente, può, in altre parole, diventare esso stesso emittente. Certo, nella rete virtuale, ma potrebbe essere un primo passo se ha rica-dute nella vita reale. La seconda conseguenza è ancora più traumatica rispetto alle logiche della comunicazione di massa, imperniata, come dice la parola stessa, su una comunicazione da uno a molti. Ora questa logica cambia, le ict con-sentono una comunicazione da uno a uno. Non siamo più di fronte a una relazione tra un’unica fonte e una pluralità, più o meno vasta, di con-sumatori: ogni utente di internet può essere fon-te di messaggi e indirizzarsi a singoli, così come a moltitudini di altri utenti.

Questi cambiamenti in atto, come scrivono Castells e Ibáñez, sono delle ottime opportuni-tà per il pensiero libertario e la sua volontà di comunicare ai più l’urgenza del cambiamen-

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to sociale. E in questo breve dialogo sono stati toccati alcuni punti fondamentali per compren-dere i nuovi media e le potenzialità che hanno messo a disposizione dei nuovi movimenti. Non dobbiamo però commettere l’errore di pensare che sarà la rete a salvarci, a generare rivoluzioni sociali e momenti insurrezionali. Il cambiamen-to, l’azione diretta, l’autogestione, continuano a realizzarsi tramite il lavoro costante con e tra la gente. Per questo è necessario un lavoro lungo e profondo di delegittimazione dell’autorità, in grado di rompere le asimmetrie nelle relazioni funzionali e scatenare un processo di mutazione culturale dal basso difficilmente innescabile da casa, comodamente seduti davanti a uno scher-mo. Non saranno né la rete né i social network a produrre una mutazione libertaria capace di decostruire il dominio. Non basterà internet per risolvere il problema dello sfruttamento dell’uo-mo sull’uomo, sugli animali e sulla terra. La mu-tazione culturale libertaria deve essere in grado di penetrare nelle reti di rapporti reali fra esseri umani. Per questo i nuovi movimenti vivono l’urgenza del cambiamento qui e ora, vivono la necessità di una rivoluzione che sappia realizzar-si nel quotidiano oltre che nel possibile futuro. Niente di nuovo, basta pensare a quando Gustav Landauer, agli inizi del Novecento, scriveva che

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«l’anarchia non è cosa del futuro, ma del presen-te; non è fatta di rivendicazioni ma di vita». Una vita che non attende il giorno della rivoluzione, o meglio che vede la rivoluzione come qualcosa in perenne movimento e aperta al cambiamento durante il suo percorso.

Il nuovo anarchismo, le mutazioni del mondo contemporaneo, ci spingono sempre più a intra-prendere un percorso di riflessione e sperimenta-zione collettiva che nasce dall’esigenza comune di risolvere una frattura tra quella che è la teoria, la tradizione anarchica che abbiamo ereditato, e i tentativi pratici di risolvere e superare le con-traddizioni e i conflitti che si presentano nella società di oggi.

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Bibliografia essenzialesul neoanarchismo

AA.VV., Rivoluzione?, Asperimenti, Milano, 2011.Hakim Bey, T.A.Z. Zone temporaneamente autono-

me, Shake, Milano, 1993.Benedict Anderson, Sotto tre bandiere. Anarchia e

immaginario anticoloniale, Manifesto libri, Roma, 2008.

Stefano Boni, Culture e poteri, un approccio antropo-logico, elèuthera, Milano, 2011.

Noam Chomsky, Anarchismo. Contro i modelli cultu-rali imposti, Tropea, Milano, 2008.

Richard J.F. Day, Gramsci è morto, i nuovi movimen-ti dall’egemonia all’affinità, elèuthera, Milano, 2008.

David Graeber, Frammenti di antropologia anarchica, elèuthera, Milano, 2006.

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David Graeber, Critica della democrazia occidentale, nuovi movimenti, crisi dello Stato, democrazia di-retta, elèuthera, Milano, 2012.

David Graeber, La rivoluzione che viene, Manni, Ce-sario di Lecce, 2012.

David Graeber, Rivoluzione: istruzioni per l’uso, Bur Rizzoli, Milano, 2012.

David Graeber, Debito, i primi 5000 anni, il Saggia-tore, Milano, 2012.

David Graeber, Oltre il potere e la burocrazia, l’im-maginazione contro la violenza, l’ignoranza e la stu-pidità, elèuthera, Milano, 2013.

Samuele Grassi, Anarchismo queer. Un’introduzione, ets, Pisa, 2013.

Gustav Landauer, La comunità anarchica, a cura di Gianfranco Ragona, elèuthera, Milano, 2012.

Todd May, Anarchismo e post-strutturalismo, da Ba-kunin a Foucault, elèuthera, Milano,1998.

Saul Newman, Fantasie rivoluzionarie e zone auto-nome, post-anarchismo e spazio politico, elèuthera, Milano, 2013.

Michel Onfray, Il post-anarchismo spiegato a mia nonna, elèuthera, Milano, 2013.

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Gianfranco Ragona, Anarchismo. Le idee e il movi-mento, Laterza, Bari-Roma, 2013.

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Robert Paul Wolff, In difesa dell’anarchia, critica del-la democrazia rappresentativa, elèuthera, Milano, 1999.

titoli affini dal catalogo elèuthera

Michael AlbertOltre il capitalismo

Harold B. BarclayLo Stato, breve storia del Leviatano

Giampietro N. BertiUn’idea esagerata di libertà

introduzione al pensiero anarchico

Murray BookchinL’ecologia della libertà

emergenza e dissoluzione della gerarchia

Murray BookchinDemocrazia diretta

Albert CamusMi rivolto dunque siamo, scritti politici

Cornelius CastoriadisRelativismo e democrazia

dibattito con il mauss

Cornelius CastoriadisFinestra sul caos

scritti su arte e società

Cornelius Castoriadis, Christopher LaschLa cultura dell’egoismo

l’anima umana sotto il capitalismo

Noam ChomskyIllusioni necessarie

mass media e democrazia

Pierre ClastresL’anarchia selvaggia

le società senza stato, senza fede, senza legge, senza re

Eduardo ColomboL’immaginario capovolto

Eduardo Colombo Lo spazio politico dell’anarchia

Alex ComfortPotere e delinquenza

saggio di psicologia sociale

Vittorio DiniTolleranza e libertà

Jacques EllulAnarchia e cristianesimo

William GodwinL’eutanasia dello Stato

Paul GoodmanIndividuo e comunità

Tomás IbáñezIl libero pensiero, elogio del relativismo

Serge LatoucheLa fine del sogno occidentale

saggio sull’americanizzazione del mondo

Bruno LatourNon siamo mai stati moderni

saggio di antropologia simmetrica

René LourauLo Stato incosciente

Jean-Claude MichéaIl vicolo cieco dell’economia

sull’impossibilità di sorpassare a sinistra il capitalismo

Pierre-Joseph ProudhonCritica della proprietà e dello Stato

Marshall SahlinsUn grosso sbaglio

l’idea occidentale di natura umana

James C. ScottIl dominio e l’arte della resistenza

Pietro M. ToescaTeoria del potere diffuso

municipalismo e federalismo

Colin WardL’anarchia

un approccio essenziale

Finito di stampare nel mese di febbraio 2014presso Printì, Manocalzati (AV)

per conto di elèuthera, via Rovetta 27, Milano