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DOMENICA 28 MARZO 2010 D omenica La di Repubblica i sapori La cucina on the road dei pellegrini LICIA GRANELLO e MARINO NIOLA l’incontro Caterina Murino, elogio dell’infelicità RODOLFO DI GIAMMARCO spettacoli La sfida dei musical kolossal ANGELO AQUARO cultura Fotoromanzi rossi, l’happy end del Pci NELLO AJELLO la memoria I segreti del Grand Hotel Montecitorio FILIPPO CECCARELLI e GIOVANNI VALENTINI il 03.01.1997 mangiò qualche patatina da un’amica; il 01.02.1998 guardò fuori dalla finestra. Vide la sua vicina Urszu- la Krzywoñ scendere da un taxi. Nella routine quotidiana succede sempre qualcosa. Sbrighiamo un’infinità di piccole incombenze senza aspettarci che lascino trac- cia nella nostra memoria, e ancor meno in quella degli altri. Le no- stre azioni non vengono infatti svolte per restare nel ricordo, ma per necessità. Col tempo ogni fatica intrapresa in questo nostro quoti- diano affaccendarsi viene consegnata all’oblio. Janina Turek, casalinga di Cracovia, aveva scelto come oggetto delle sue osservazioni proprio ciò che è quotidiano, e che pertanto passa inosservato. Se n’è accorta per prima sua figlia. Dopo la mor- te della madre, nell’autunno 2000, Ewa Janeczek ha aperto un ar- madio e ha trovato delle pile di quaderni. (Ce n’erano 728, e più tar- di ne sarebbero venuti fuori altri venti). Ha scoperto in questo mo- do che sua madre era solita prendere nota di tutto ciò che faceva. (segue nelle pagine successive) MARIUSZ SZCZYGIEL Lo straordinario “racconto vero” e inedito dello scrittore polacco Mariusz Szczygiel, considerato l’erede di Kapuscinski ILLUSTRAZIONE DI GIPI I l 01.10.1996 Janina Turek, madre di tre figli, pranzò con una zuppa di funghi e pastina, spezzatino con contorno di pata- te e barbabietole rosse stufate, e uva per dessert. Anche qua- rant’anni prima, il 19.02.1956, aveva consumato un pranzo semplice e nutriente: una salsiccia calda con senape dolce, pane, composta di mele, un pezzo di cioccolato e torta di no- ci e frutta secca. Il 21.03.1973 ricevette due telefonate mute; il 21.06.1976 trovò per strada un paio di calzini elasticizzati da bambino non usati; il 15.08.1981 cedette al figlio i suoi tagliandi di razionamento per la carne; il 02.01.1982 sua figlia le portò qualche mela; il 07.12.1983 il suo ex marito le portò da leggere due vecchie rivi- ste; il 03.02.1985 un estraneo bussò a casa sua, aveva sbagliato porta; La donna che spiava se stessa Repubblica Nazionale

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DOMENICA 28MARZO 2010

DomenicaLa

di Repubblica

i sapori

La cucina on the road dei pellegriniLICIA GRANELLO e MARINO NIOLA

l’incontro

Caterina Murino, elogio dell’infelicitàRODOLFO DI GIAMMARCO

spettacoli

La sfida dei musical kolossalANGELO AQUARO

cultura

Fotoromanzi rossi, l’happy end del PciNELLO AJELLO

la memoria

I segreti del Grand Hotel MontecitorioFILIPPO CECCARELLI e GIOVANNI VALENTINI

il 03.01.1997 mangiò qualche patatina da un’amica; il 01.02.1998 guardò fuori dalla finestra. Vide la sua vicina Urszu-

la Krzywoñ scendere da un taxi. Nella routine quotidiana succede sempre qualcosa. Sbrighiamo

un’infinità di piccole incombenze senza aspettarci che lascino trac-cia nella nostra memoria, e ancor meno in quella degli altri. Le no-stre azioni non vengono infatti svolte per restare nel ricordo, ma pernecessità. Col tempo ogni fatica intrapresa in questo nostro quoti-diano affaccendarsi viene consegnata all’oblio.

Janina Turek, casalinga di Cracovia, aveva scelto come oggettodelle sue osservazioni proprio ciò che è quotidiano, e che pertantopassa inosservato. Se n’è accorta per prima sua figlia. Dopo la mor-te della madre, nell’autunno 2000, Ewa Janeczek ha aperto un ar-madio e ha trovato delle pile di quaderni. (Ce n’erano 728, e più tar-di ne sarebbero venuti fuori altri venti). Ha scoperto in questo mo-do che sua madre era solita prendere nota di tutto ciò che faceva.

(segue nelle pagine successive)

MARIUSZ SZCZYGIEL

Lo straordinario “racconto vero” e ineditodello scrittore polacco Mariusz Szczygiel,considerato l’erede di Kapuscinski

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Il 01.10.1996 Janina Turek, madre di tre figli, pranzò con unazuppa di funghi e pastina, spezzatino con contorno di pata-te e barbabietole rosse stufate, e uva per dessert. Anche qua-rant’anni prima, il 19.02.1956, aveva consumato un pranzosemplice e nutriente: una salsiccia calda con senape dolce,pane, composta di mele, un pezzo di cioccolato e torta di no-

ci e frutta secca. Il 21.03.1973 ricevette due telefonate mute; il 21.06.1976 trovò per strada un paio di calzini elasticizzati da

bambino non usati; il 15.08.1981 cedette al figlio i suoi tagliandi di razionamento per

la carne; il 02.01.1982 sua figlia le portò qualche mela; il 07.12.1983 il suo ex marito le portò da leggere due vecchie rivi-

ste; il 03.02.1985 un estraneo bussò a casa sua, aveva sbagliato porta;

La donnache spiava

se stessa

Repubblica Nazionale

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po’ a una ranocchia; 7.756: via Parkowa, Aniela Ryszkowa (in precedenza erroneamente

registrata con il nome di Nowakowa); 7.908: via Parkowa, un ragazzino assai carino; 17.110: via Parkowa, Ewa (Ewunia) e Jacek Rodak (Jacuœ) con la lo-

ro figlioletta (in precedenza registrata come “neonata”); 19.539: piazza del Mercato di Podgórze, la moglie (di una giovane

coppia che ha tre cani lupo) con uno dei cani lupo; 19.945: via Parkowa, una coppia di sposi dall’aspetto modernista; 69.896: via Parkowa, una ragazza che è il ritratto sputato di Grecia

Colmenares (attrice argentina che recita negli sceneggiati Mariae Ma-nuela);

80.825: via Parkowa, la signora Sulichowa con il cane Misiek (in pre-cedenza: “cagnolino”);

Il 18.09.1998, all’alba, il signor Wysocki seduto nella sua macchinacon una donna che non è sua moglie. Janina Turek vedeva molte cose,ma le teneva per sé. Si guardava bene dall’interpretare i fatti. Ben lungidall’insinuare che qualcuno avesse passeggiato di notte con un’aman-te, si limitava tutt’al più a osservare: «Con una signora della cui esi-stenza la moglie presumibilmente non è ancora al corrente».

Alcune volte annotò di aver visto passare per strada il professor Alek-sander Krawczuk.

Con il suo vezzo di fare domande dava sui nervi dapprima ai suoi fi-gli, e in seguito ai nipoti adolescenti. Non era certo un’impicciona, lepiaceva tuttavia accertare lo stato di fatto delle cose. «Quando la non-na passava a trovarci» racconta sua nipote Luiza «e incontrava da noiuna persona che non conosceva, per esempio una mia amica, non ap-pena quella usciva la nonna iniziava a interrogarmi su chi fosse quel-l’amica e come si chiamasse. “Perché lo vuoi sapere, nonna?” le chie-devo, e in effetti non riuscii mai a capacitarmi come mai volesse cono-scere i nomi delle persone che aveva visto per un minuto a dir tanto».

«Ci faceva uscire letteralmente dai gangheri ogni volta che cercava,gentilmente ma con insistenza, di farsi dire quel nome» ricorda sua fi-glia Ewa. «A quel punto si stizziva e dichiarava che la nostra generazio-ne era caduta davvero in basso se riuscivamo a sederci allo stesso tavo-lo di un ristorante con qualcuno di cui ignoravamo il nome».

4.

Da giovane Janina, nata Gurtler, sognava di laurearsi in farmacia.Quando aveva diciott’anni scoppiò la Seconda guerra mondiale, nonpoté quindi conseguire la maturità. Sua madre si occupava della casa,suo padre era impiegato alla centrale elettrica e insegnava disegno inun liceo artistico.

Janina ricalcò la vita della madre: fece la casalinga. Una casalinga conambizioni. Completò per esempio il corso di inglese avanzato. CzeslawTurek era ingegnere, costruiva strade e ponti, riceveva onorificenze.Era un bell’uomo e piaceva alle donne. Janina e Czeslaw si sposarononel 1941, divorziarono nel 1958. Restarono amici. Nella rubrica “Rega-li ricevuti” Janina annotava regolarmente le riviste che lui le portava do-po averle lette. Czeslaw morì nel 1988. Avevano avuto tre figli: la figliaEwa e due maschi: Leslaw, diventato poi linotipista, e Jurek che si sta-bilì in Austria.

In via Parkowa tutti si ricordano di Janina Turek: era cordiale e nondava a vedere di provenire da una famiglia che aveva una domestica.Organizzava serate danzanti, tavolate di bridge ed escursioni. Per unbreve periodo aveva lavorato come segretaria. Non dava a vederenemmeno che le mancava suo marito. Ewa racconta che dopo il divor-zio sua madre non aveva mai portato un altro uomo in casa.

Per la festa di San Nicola del 1946 Janina aveva regalato a suo mari-to: «1. le sigarette americane Chelsea, 2. le sigarette polacche Baltyk, 3.la statuina in zucchero di San Nicola. Il tutto in un sacchettino traspa-rente decorato in alto con una piccola rosa argentata ornata da riccio-li verdi, e legato con un nastro rosa pallido al quale è attaccato un pac-chetto di sigarette americane Raleigh».

Quando una sconosciuta su un treno le offrì un mandarino, Janinaannotò questo gesto nel quaderno “Regali ricevuti”. Chiamava regaloindifferentemente sia un servizio per dodici persone in porcellana, siaun piccolo fiore di campo portato da sua nipote. Nella categoria di “Re-gali fatti” rientravano allo stesso titolo le mance al postino e i ritagli diprosciutto offerti al cane («Regalo al cane Dzokus»).

La meticolosità nell’annotare i regali non vuol dire che Janina Turekavesse un carattere insopportabile come quello, tanto per dire, di Tho-mas Mann. I diari dello scrittore tedesco svelano il suo estremo ego-centrismo. Mann segnava tutte le sue visite dal dentista e dal barbiere,le «costipazioni persistenti», le vampate di calore, le mance ai dome-stici, il prezzo del vino bevuto etc. Dagli appunti di Janina si può rica-vare che era una persona socievole e dedita agli altri. Le piaceva festeg-giare e fare regali. Catalogò come “evento mondano” la panna cottamangiata in un caffè sulla passeggiata della stazione termale di RabkaZdrój. L’aveva contrassegnato con un numero progressivo e nel calco-lo finale era considerato alla stessa stregua del passaggio del corteo diFidel Castro attraverso Cracovia al quale Janina aveva assistito daun’aiuola.

Janina Turek contemplava la propria quotidianità con oggettività.Osservava se stessa da fuori, con il distacco e la freddezza di un conta-bile. Quando nel 1960 scorse in fondo alla strada suo figlio Leslaw in

compagnia di un collega, annotò quel fatto con imparzialità, nella ru-brica “Persone viste di sfuggita” al n. 36.364: «Leslaw Turek (detto Le-siu) e Bogdan Zaleski». Non una parola che lasciasse capire che si trat-tava del figlio maggiore.

Davanti a tale impassibilità la figlia, Ewa, è rimasta interdetta. Suopadre, Czeslaw Turek, era sopravvissuto a ben due campi di concen-tramento. Com’è comprensibile, la prima data che Ewa è andata a cer-care nei quaderni di sua madre era quella del ritorno a casa del padre.È venuto fuori che Janina non aveva scritto nulla di ciò che ci si potreb-be aspettare, come per esempio: «Il ritorno dall’Auschwitz del mioamatissimo marito che mi aveva fatto stare tanto in pena». Janina Tu-rek si era limitata a registrare la «visita di Czeslaw Turek (detto Slawek)».Nella rubrica “Visite non annunciate”.

Ma non è tutto. Usa la terza persona anche quando si riferisce a sestessa: il 23.03.1974, «Una serata di bridge a casa di Janina Turek (dettaAæka) in via Parkowa».

5.

In realtà non scriveva mai di se stessa. Quando registrava i pasti, nonera che una mera enumerazione di vivande senza specificare se le fos-sero piaciute o meno. Se rubricava un oggetto trovato per caso, si limi-tava a indicare l’oggetto in questione senza menzionare se trovarlo leavesse fatto un particolare piacere.

Ci domandiamo, la figlia e io, come mai a sua madre fosse venuta l’i-dea di catalogare i fatti quotidiani. «Forse a causa di un trauma» riflet-te Ewa Janeczek. «Da adolescente, prima della guerra, nel 1938, miamadre teneva un diario. Un giorno la nonna lo trovò e lo lesse. Il diarioscomparve per sempre. A un certo punto nel diario mia madre parlavadi un’orgia a cui aveva preso parte insieme ad alcuni amici. Senonchétutta quell’orgia non era altro che una danza su un tavolo. La nonna lefece una scenata davanti a un ragazzo. In seguito la mamma scrisse chel’uso delle parole improprie era la sua rovina, e che probabilmente “or-gia” voleva dire un’altra cosa».

Dopo la violazione del suo diario intimo la sedicenne Aæka si era sen-tita come una «strega condannata al rogo». «Si sarebbe detto che il san-gue mi abbia inondato il cervello» scrisse. Da quel momento smise diaffidare le proprie confidenze alla carta.

30 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 28MARZO 2010

la copertinaRealtà da romanzo

Janina Turek, casalinga di Cracovia, dal 1943 al 2000 registròin 748 quaderni soltanto le minuzie quotidiane: i libri letti, i film visti,gli ospiti ricevuti, i cibi mangiati. Nulla sulla Storia che le passavaaccanto: l’occupazione nazista, il regime comunista, SolidarnoscMariusz Szczygiel, vincitore dell’European Book Prize,in questi giorni in Italia, ne ha ricavato un racconto magistrale

MARIUSZ SZCZYGIEL

(segue dalla copertina)

Dal 1943 al 2000, senza interruzioni, aveva registrato:quante telefonate a casa aveva ricevuto e chi aveva chia-mato (38.196); quante volte aveva telefonato a qualcu-no (6.257 volte); dove e chi aveva incontrato per caso esalutato con un “Buongiorno” (23.397); quanti appun-tamenti aveva fissato (1.922);

quanti regali aveva fatto, a chi e di che genere (5.817); quanti regali aveva ricevuto (10.868); quante volte aveva giocato a bridge (1.500); quante volte aveva giocato a domino (19); quante volte era andata a teatro (110); quanti programmi televisivi aveva visto (70.042) e via discorrendo. Giorno dopo giorno, per oltre mezzo secolo Janina Turek aveva an-

notato e numerato tutti i ricevimenti, gite, serate danzanti, oggetti tro-vati, lettere, letture, uscite al cinema, notti passate fuori casa, visite ri-cevute, visite fatte, colazioni, pranzi, cene. In un primo momento regi-strava tutto quanto nello stesso quaderno, in seguito usava un quader-no diverso per ogni attività. Per annotare i pasti aveva adottato un si-stema: un anno registrava solo le colazioni, l’anno dopo i pranzi e inquello dopo ancora le cene. Passati i tre anni cominciava da capo, e cioèdalle colazioni. In definitiva conosciamo 4.463 colazioni di Janina Tu-rek, 5.387 pranzi, 5.936 cene.

Si prendeva addirittura la briga di annotare gli spot che vedeva allatelevisione. Per ogni trasmissione specificava se era in bianco e nero oa colori, e su quale apparecchio l’aveva guardata. Negli ultimi tempi suun Elemis.

La cosa sarebbe piaciuta molto alla filosofa Jolanta Brach-Czainache si era occupata della dimensione metafisica del quotidiano. Se-condo la studiosa polacca alla base dell’esistenza umana sta un affac-cendamento irriflesso. «Non dobbiamo accettare il ruolo di ignari brac-cianti addetti alle incombenze esistenziali. In nome della propria au-todifesa occorre inseguire il senso della quotidianità quasi fosse un de-linquente» invocava la filosofa.

Janina Turek aveva teso un agguato alla propria quotidianità. Tra i3.517 libri che aveva letto, non ce n’era nemmeno uno di Jolanta Bra-ch-Czaina. Ciononostante, per sua scelta personale, aveva comincia-to intuitivamente a nobilitare il proprio tran tran quotidiano. Ogni sin-golo fatto della sua vita, per quanto banale, veniva registrato nel suo

diario e provvisto di un numero. Nell’annotare un film si dava premura di segnare anche il nome del

cinema in cui l’aveva visto. Mentre Stalin moriva, Janina Turek era inuna sala a vedere Fanfan la Tulipe. Quando entrava al cinema “Wan-da” Stalin era ancora in vita, quando usciva lui aveva già tirato le cuoia.

La figlia ha iniziato a leggere i suoi quaderni l’anno scorso e non haancora finito. [...]

3.

Fin dagli anni della Seconda guerra mondiale abitava al numero 6 divia Parkowa, al pianterreno di una palazzina ottocentesca di tre piani.In un primo tempo con il marito e i figli, poi solo col marito, e per gli ul-timi trent’anni da sola. Aveva tre finestre che davano sulla strada.Quando si sporgeva da una di quelle, poteva vedere la piazza di Podgór-ze con la chiesa sulla sinistra, e il parco sulla destra. Quello era il suo mi-crocosmo. Per lei solo chi attraversava il suo campo visivo assumevaimportanza.

Le “Persone viste di sfuggita” erano quelle che conosceva di perso-na oppure di vista, e che incontrava per strada senza però scambiarciparola. Non vanno confuse con le “Persone viste per caso”. In quell’ul-timo gruppo classificava coloro con i quali aveva scambiato qualcheparola o un saluto.

Complessivamente aveva visto passare nelle vicinanze dellasua casa 84.523 conoscenti:

7.713: via Parkowa, una bionda alta e prosperosa cheuna volta lavorava come commessa all’alimen-tari in via Limanowskiego;

7.685: via Parkowa, una si-gnora che somiglia un

Diario di una donnasenza qualità

Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 31DOMENICA 28MARZO 2010

mangiato pane nero e bevuto caffè nero. Di notte aveva letto HermannHesse. L’indomani, prima della colazione tracciò sulla pagina del suoquaderno una linea trasversale. Sotto la riga scrisse: «Polonia, già Go-vernatorato Generale», più in basso annotò di aver mangiato una cara-mella al latte e malto.

7.

Le offerte fatte durante la messa: 1955: 2 zl;1965: 5 zl;1977: 10 zl; 1981: 20 zl;1986: 50 zl;1990: 500 zl; 1991: 2.000 zl;1991: 10.000 zl; 1993: 50.000 zl;1995: 2 zl;1997: 5 zl. Dopo smise di andare in chiesa.

8.

Dopo la morte di Janina i quaderni sono stati trasferiti a casa della fi-glia, in una grande villa con attiguo un rinomato panificio locale di pro-prietà del marito di Ewa. Una stanza al primo piano è stata destinata aospitare i diari di Janina, ammonticchiati in pile sugli scaffali e sul pa-vimento, e divisi per argomenti.

Ewa Janeczek («una vera signora, tale quale sua madre» dicono i vi-cini), munita di guanti di gomma, mette in ordine la casa della madre.Sta raccogliendo i materiali per il Guiness dei Primati: ci sono delle buo-ne chance nella categoria “Il diario tenuto più a lungo”.

Vengono alla luce nuovi segreti. «Ho trovato qualcosa! Le cartoline scritte dalla mamma» mi informa

per telefono. «Non le spediva mai a nessuno» constata sorpresa un attimo dopo.

Salta fuori che ci sono delle cartoline illustrate che sua madre sembraaver scritto a se stessa. Finalmente Janina Turek parla con la propria vo-ce.

Sulla cartolina del 1957, scritta all’età di trentasei anni, ancora primadel divorzio, si legge: «Non esigere troppo. Non parlare troppo di sé».

Su un’altra, scritta poco dopo Pasqua del 1976: «Le feste sono passa-te. Le ho trascorse allegramente in compagnia dei Figli e del loro Padre.E dire che sono ormai diciott’anni e mezzo che siamo separati. Diffici-le adattarsi».

Nell’estate del 1976, a cinquantacinque anni appunta: «A RabkaZdrój. Ho comprato una camicia da notte che porterò come vestito. Sene avrò il coraggio». La stessa estate: «Abbiamo fatto una visita non an-nunciata. È una cosa che detesto».

Sulla cartolina scritta a cinquantanove anni appena compiuti: «Dadove viene quel desiderio di non so cosa, quella strana insoddisfazio-ne nel cuore? Devo mantenere un grande autocontrollo. Non esterna-re i miei bisogni».

Nel maggio 1981 scrive: «Giorni di canicola. Mi manca qualcosa chestento persino a capire e a esprimere a parole. Vorrei andare lontanocon qualcuno che mi somiglia. Nella realtà non c’è posto per le illusio-ni. Sono inchiodata in via Parkowa che, fortunatamente, in estate èmolto bella e diversa dalle altre vie».

In luglio, durante lo stato di guerra: «In vacanza a Slawa. Non lonta-no da qui c’è una base di aerei a reazione. Si sente il rombo dei motori.Come in guerra. Conosco la guerra sin da quando avevo diciott’anni.Non ci voglio nemmeno pensare!!!».

Poi, su una cartolina scritta prima del sessantunesimo compleanno:«Nella solitudine ho una compagna: una mosca. Ogni volta che man-gio qualcosa e quando fa caldo, lei svolazza per la stanza. È qui da qual-che settimana ormai».

Due anni più tardi: «Di domenica sono quasi sempre sola. Il temposcorre silenzioso, non voglio niente, non aspetto niente. Tutto sarà co-me deve essere, non tenterò più di ribellarmi».

Un anno dopo: «Quante sono le donne che vivono in attesa, tagliatefuori dal mondo? Vivo, o fingo di vivere? Tutti questi appunti, questestatistiche, non sono solo un modo per ingannarmi? Se smettessi discrivere, dovrei ritornare a me stessa».

La cartolina scritta a sei mesi dalla morte: «Sono sul confine tra la vi-ta e la morte. A settantotto anni e mezzo non è più il caso di prendere larincorsa, bisogna piuttosto iniziate a frenare. Ho sofferto molto nel cor-so della mia esistenza. La metafisica mi ha accompagnato quasi sem-pre, a volte non è stato facile venirne a capo. Volevo amare, ma ancheessere amata. Ed è lì che ho trovato delle grosse difficoltà. Risultato? Lasolitudine!!!».

Trentatré giorni prima di morire: «Ho imboccato una brutta dire-zione. A poco a poco l’ottimismo si va spegnendo, lasciando il posto al-la rassegnazione. La mia barca naviga così vicina al termine del giorno».L’ultima cartolina, mancano trentadue giorni alla morte: «Ieri mi è ca-duto per terra il telecomando del televisore: disperazione».

9.

11.11.2000, sabato. Janina Turek trascorse l’ultima serata della suavita davanti alla televisione. Il giorno dopo uscì di casa ed ebbe un in-farto. Morì sul colpo. I passanti chiamarono l’ambulanza. All’alba ave-va scritto su un bigliettino: «Ewa, tesoro mio, dalle tre di notte mi fa mol-to male il cuore. Sicuramente è un infarto. Ho preso delle pillole». Pri-ma delle tre Janina aveva ancora fatto in tempo a guardare:

71.040: il notiziario Panorama; 71.041: La Parola della Domenica; 71.042: il film Giocando nei campi del signore.

© by Mariusz SzczygielTraduzione dal polacco di Marzena Borejczuk

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Mariusz SzczygielMariusz Szczygiel, nato nel 1966, si è lau-reato in Giornalismo e Scienze politiche al-l’Università di Varsavia. A sedici anni di-venne reporter per il settimanale Na prze-laj. Malgrado la censura comunista, riuscì afarvi pubblicare la scioccante collezione direportage The Shrift sulla gioventù gay e le-sbica polacca. Nel 2002 ha cominciato ascrivere sulla Gazeta Wyborcza. È citato in

ogni antologia del giornalismo polacco contempora-neo ed è considerato l’erede di Ryszard Kapuscinski. Ilsuo Gottland, tradotto in Italia da Nottetempo e che gliè valso l’“European Book Prize”, è stato definito daAdam Michnik il primo reportage cubista del mondo.Questa mattina alle 11, Szczygiel sarà a “Libri Come” al-l’Auditorium Parco della Musica di Roma a presentareGottland con Goffredo Fofi e Leonetta Bentivoglio (Se-zione Garage, officina 4). Martedì 30 marzo alle 19 saràalla libreria Centofiori di Milano per un’altra presenta-zione con Demetrio Volcic e Francesco M. Cataluccio.

THOMASMANNCi sono svariateragioni per tenereun diarioLo scrittoretedesco ThomasMann lo facevaossessivamenteperchégli piaceva“trattenereil giornoche fugge”

FERNANDOPESSOA“Far divenirela mia vitaproprietàdell’umanità”Il contabileSoares,personaggiodi Pessoa,teneva inveceun diario perché“è meglio scrivereche osare vivere”

BLAISEPASCALSecondoBlaise Pascal,il meticolosoannotarela sequenzadei fattiquotidianisi poteva definirelo “stile in cuiil passatosi dissolvelentamente”

KATHERINEMANSFIELDNelle paginedel suo Diario

si legge:“Se mi fossepermessodi lanciareun solo gridoa Dio,questo gridosarebbe:voglio esserevera!”

È probabile che i segreti di Janina Turek siano nascosti nei suoi si-lenzi.

Ci sono diverse ragioni per tenere un diario. Il poeta polacco Jan Le-choñ prendeva nota delle sue giornate a scopo di autoterapia. ThomasMann lo faceva perché gli piaceva «trattenere il giorno che fugge». Fer-nando Pessoa perché voleva «far divenire la sua vita proprietà dell’u-manità», mentre il suo protagonista, il contabile Soares, perché «è me-glio scrivere che osare vivere». Gombrowicz teneva il diario per risol-vere il più grande problema della sua vita: «Me stesso». Attraverso lascrittura del diario lo scrittore e giornalista polacco Leopold Tyrmandvoleva «mettersi alla prova, che è il tipico desiderio degli emarginati».Per Pascal il meticoloso annotare dei fatti quotidiani era lo «stile in cuiil passato si dissolve lentamente».

Le ragioni per cui Janina Turek tenesse un diario ci restano ignote. Un psicoterapeuta non avrebbe dubbi: era affetta da nevrosi osses-

siva. Per la famiglia di Janina ciò non è altrettanto ovvio. Se così fosse,anche Claude Monet che dipinse le stesse ninfee per ventun anniavrebbe sofferto di una nevrosi ossessiva. Ewa continua a sfogliare i do-cumenti, le fotografie, i quaderni.

Janina scriveva di nascosto. Non desiderava che si sapesse dell’esi-stenza dei suoi diari. Quando era fuori casa, ospite di qualcuno, la serasi metteva da parte e prendeva appunti su dei foglietti di carta. Non an-notò nessuna opinione soggettiva. I fatti rubricati e numerati non fu-rono mai accompagnati da alcuna riflessione di carattere personale.

Forse incasellare la vita in diversi ambiti e aggiungere ogni giornonuove voci in ciascuna casella la tranquillizzava? Secondo l’opinionedi alcuni ricercatori, i classici diari intimi tenuti dalle donne di estra-zione borghese dopo la Rivoluzione Francese rivestivano una funzio-ne terapeutica, ansiolitica e rilassante. L’impegno della scrittura quo-tidiana dava loro un maggiore senso di sicurezza. Malgrado la moda discrivere di sé fosse assai diffusa nell’Ottocento, le donne continuaronoa farlo di nascosto.

A Janina Turek capitava forse di rileggere i vecchi appunti per rivive-re alcuni momenti della sua vita? «Non so» risponde sua figlia. «Non so»risponde sua nipote. «Non ne sappiano niente» risponde suo genero.

6.

Quando iniziò a compilare il diario della sua vita non aveva ancoracompiuto venticinque anni. All’epoca Cracovia era la capitale del Go-vernatorato Generale, e la piazza principale della città era stata ribat-tezzata dai nazisti Adolf Hitler-Platz.

Cominciò a buttare giù i primi appunti poco dopo che la Gestapoaveva arrestato suo marito. È probabile che qualcuno l’abbia denun-ciato come membro della resistenza clandestina. All’epoca Janina eraal quinto mese di gravidanza. Portava in grembo il loro primogenito.Abitava coi genitori al numero 4 di via Sloneczna, in uno di quei rari ap-partamenti di Cracovia dell’epoca dotati di bagno. Un giorno i tedeschirequisirono la palazzina e fecero trasferire gli inquilini in via Parkowa,nei pressi della piazza centrale di Podgórze: un quartiere povero sullariva destra della Vistola. A Podgórze solo poche case avevano acqua cor-rente e gas. Persino le strade non erano lastricate. Fino alla fine JaninaTurek si sarebbe lamentata di avere freddo in casa. Si sentiva degrada-ta da quel quartiere. A pochi passi da casa sua c’era uno dei quattro por-toni d’accesso al ghetto.

Nel giugno 1943 partorì suo figlio Leslaw. I tedeschi chiesero soldi per liberare suo marito. Janina girò tra pa-

renti e amici cercando di raggranellare la somma necessaria. Quandosi recò alla Gestapo scoprì che Czeslaw Turek non si trovava più nel car-cere di via Montelupi. Era stato trasferito ad Auschwitz e non c’era piùniente da fare. Ogni due giorni e mezzo Janina finiva di leggere un libro.Nel corso del 1943 ne lesse ben centoquarantotto.

Quando in autunno riempiva il suo primo quaderno diviso in casel-le: “Cinema”, “Letture”, “Gite”, “Spettacoli”, l’allora governatore nazi-sta di Cracovia Hans Frank proclamò lo stato d’assedio. Da quel mo-mento la legge permetteva di ammazzare la gente liberamente. La vitae la morte delle persone erano nelle mani di un poliziotto qualunque.«Non ho esitato a dichiarare al Führer che per ciascun tedesco uccisosarebbero stati fucilati cento polacchi» scrisse Frank nel suo diario. «Losconforto è tale che non si riesce a descriverlo» annotò nel suo diarioLudwik Landau, un abitante di Varsavia, il 18.10.1943. Lo stesso giornoJanina Turek appuntò sul suo quaderno di essere andata al cinema “Sz-tuka” a vedere Valzer d’amore.

Due giorni dopo in via Wielicka ci fu un’esecuzione di massa. Le re-tate si moltiplicarono. Janina dedicò quelle due sere alla lettura del Dia-riodi Katherine Mansfield. La scrittrice inglese era morta giovane. Ave-va trascorso la maggior parte della sua esistenza a letto, al margine de-gli avvenimenti. «Se mi fosse permesso di lanciare un solo grido a Dio»scriveva la Mansfield, «questo grido sarebbe: voglio essere vera!».

Janina Turek deve essersi soffermata su quella frase diverse volte, vi-sto che ancor oggi il libro si apre su quella pagina.

Intanto i tedeschi facevano come se la vita scorresse normalmente.In ottobre cambiarono l’ora legale in ora solare, aprirono a Cracovia lascuola per pescatori, organizzarono un’esposizione dedicata ai suc-cessi nel settore tessile e un’altra su Chopin, per dimostrare che il gran-de compositore era tedesco. Janina era stata cinque volte al cinema edue volte a delle feste. A casa dei genitori erano finiti i soldi. Iniziaronoa sostituire il tè con una bevanda a base di zucchero caramellato. Lozucchero veniva tostato sulla padella finché non diventava marrone epoi, dopo che si era rappreso, bisognava scioglierlo nell’acqua. Certigiorni mangiavano quasi esclusivamente la marmellata di amarene. Ilpranzo: acqua con marmellata di amarene, pane con marmellata diamarene.

Forse Janina pensava che quando suo marito fosse tornato a casa, leigli avrebbe mostrato l’elenco delle cose accadute durante la sua assen-za? Forse si era convinta che finché avesse continuato a scrivere suomarito non sarebbe morto? Allora perché non aveva smesso quando luiera di nuovo accanto a lei?

Il giorno della liberazione di Cracovia, il 18.01.1945, Janina aveva

LA FOTONella foto sotto,Janina Turek,la protagonistadel raccontopubblicatoin queste pagine

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ROMA

Di questi tempi, al termine diuna campagna elettorale tu-multuosa e caotica come unabolgia infernale, forse al pove-

ro cittadino confuso e disorientato potrà esse-re di qualche conforto sapere che già a cavallodel Settecento e Ottocento dal balcone princi-pale di Montecitorio, oggi sede della Cameradei deputati, veniva gridata alla folla l’estra-zione dei numeri del lotto. Lo documenta ine-quivocabilmente un quadro dipinto da Gio-vanni Paolo Pannini, datato 1743-1744, cheappare nel primo dei due volumi pubblicatirecentemente dalla stessa Camera e da Electa,uno sul palazzo barocco e l’altro sul palazzo li-berty. Curata dagli architetti Paolo Portoghesie Renata Cristina Mazzantini, l’opera verràpresentata ufficialmente dopo Pasqua — e so-prattutto dopo le elezioni regionali — nel-l’ambito di una mostra che raccoglierà le foto-grafie artistiche di Massimo Listri.

Il palazzo di Montecitorio, come sanno be-ne gli addetti ai lavori, è il Palazzo per antono-masia, l’ombelico della vita politica italiana.L’epicentro dei piccoli e grandi movimenti tel-lurici che quotidianamente la scuo-tono e la rendono precaria.Ma, a parte i nu-meri del lotto,anche questa èuna caratteristicadel palazzo, unacostante della suastoria lunga e trava-gliata.

«Montecitorio —spiega l’architettoMazzantini, docentedi Paesaggi culturali al-l’Università Iulm e con-sulente artistica dellaCamera, guidandoci concompetenza e passione inuna visita virtuale — sorgesul colle dove i cittadini ro-mani, riuniti in centurie,erano chiamati a votare. Neisotterranei, infatti, sono con-servati i resti dell’Ustrinum —cioè il crematorio — dell’impe-ratore Marco Aurelio». Poi il pa-lazzo diventò la sede della Curia Innocenzia-na, il tribunale pontificio: ai lati del portoneprincipale, si possono notare ancora due bas-sorilievi che raffigurano la Giustizia e la Carità.Per questo, l’imponente edificio è coronato daun campanile a vela, da cui rintoccava la cam-pana maggiore per annunciare le udienze. Og-gi suona solo per l’elezione del presidente del-la Repubblica.

La scelta di Montecitorio per la nuova sededella Camera dei deputati rappresentò, dun-que, da un lato una nemesi storica nei con-fronti del potere temporale del papato; dall’al-tro, la volontà di collocare la casa della rappre-sentanza nazionale in un luogo simbolico ametà strada tra il Quirinale e il Campidoglio.Ma, dopo il trasferimento della Capitale da To-rino a Firenze e infine a Roma, la nascente de-mocrazia italiana stentò a trovare pace e l’as-semblea dei deputati si spostò altre tre volte.Nel primo mezzo secolo del Regno d’Italia, leperegrinazioni continue dell’aula diventaro-no così una leggenda.

Fu dunque una condizione di provvisorietàa caratterizzare l’avvio della Camera dei depu-tati, lasciando forse un segno indelebile nellavita dell’assemblea. La fretta imponeva di ar-rangiarsi alla meglio e le prime aule, appron-tate in tempi record, si rivelarono scomodeprima ancora di diventare vecchie e perciò ve-nivano abbandonate poco dopo essere stateterminate. Proprio all’atmosfera soffocantedella prima aula post-risorgimentale di Mon-tecitorio, detta Comotto dal nome del suo pro-gettista, risale la “cerimonia del ventaglio” chesi ripete ogni anno per celebrare i rapporti trala stampa parlamentare e il mondo politico. Inseguito, i deputati si accamparono nella stori-ca Sala della Lupa al primo piano, dove nell’e-state del 1924 si riunirono gli Aventiniani in se-

gno di protesta contro la violenza fascista; pertrasferirsi poi in una specie di prefabbricato invia della Missione e finalmente, al termine del-la Prima guerra mondiale, nell’aula attuale.

Ma ancora più numerosi e interessanti so-no i “segreti di Montecitorio” di natura artisti-ca e architettonica, descritti nei due volumi eampiamente illustrati da foto, alcune inedite ealtre poco conosciute, riproduzioni e disegni.A cominciare dalla facciata di Basile, lo sfondotradizionale delle riprese televisive davanti al-la Camera, in cui si nascondono elementi na-turalistici scolpiti nel travertino, espressioneeccelsa della poetica barocca del Bernini. Peralzare lo sguardo fino alle torri laterali, ele-menti colti dell’architettura laica e militare,destinate nelle intenzioni del progettista aequilibrare la densità delle cupole nello skyli-

ne capitolino.Nella documentazione d’archivio che ar-

ricchirà la mostra fotografica, non mancaqualche sorpresa. Come l’immagine dell’a-quila fascista che fu installata nell’aula, nelmaggio del 1936, per celebrare la nascita del-l’impero. O quella del velario originale, in cuitroneggia lo stemma di Casa Savoia, rimossodopo la guerra. Ugo Ojetti, giornalista, scritto-re e critico d’arte, paragonava Montecitorio aun grande albergo e forse non aveva torto: an-che qui si entra e si esce in continuazione, lestorie si incrociano, i destini si intrecciano. Esebbene manchi la porta girevole, come narraVicki Baum nel suo Grand Hotel, qui ogni stan-za, ogni angolo, ogni particolare ha qualcosada raccontare.

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32 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 28MARZO 2010

la memoriaLuoghi della politica

Tutti i segreti del palazzo sede della Camera dei deputati,il “Palazzo” per definizione. Li raccontano due volumiche stanno per essere presentati, curati da Paolo Portoghesie Renata Cristina Mazzantini. Dove si scopre che nel Settecento,dal balcone principale, si gridava alla folla riunita in piazzal’estrazione dei numeri del lotto

Grand Hotel MontecitorioGIOVANNI VALENTINI

I LIBRII due volumi intitolati Palazzo

Montecitorio (Il palazzo

barocco e Il palazzo liberty)sono pubblicati a curadella Camera dei deputatie di Electa e costano 80 euro

LE IMMAGINIQui accanto,L’Italia che avanza,particolaredel fregio dell’auladi Montecitoriodipinto da GiulioAristide SartorioAttorno, foto,piante e schizziprogettualitratti dai volumidi Electa

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 33DOMENICA 28MARZO 2010

«Fratutto li più mejo palazzoni, Monte-scitorio è un pez-zo signorile»... A sfogliare i due bei volumi fotograficial Gran Palazzo dei palazzi di Roma, a perdersi nel

vuoto di quelle immagini d’arte e necessariamente senza vita,chi ha lavorato a lungo a Montecitorio è colto da una sensazio-ne spettrale — e un po’ anche da tristi premonizioni sul futurodel Parlamento.

Per uscirne viene subito in soccorso la memoria, che riempiequei luoghi deserti e li colma di sonetti belliani, figure bizzarre,oggetti impensabili, atmosfere drammatiche, ma anche frivolee a tratti grottesche e ripugnanti.

Così, senza nemmeno entrare, all’angolo di via della Missio-ne spararono a Togliatti; mentre sotto l’obelisco di Psammeti-co II, quando calava il buio e gli autisti degli onorevoli andava-no a cena, ecco che i terremotati del Belice entravano quattiquatti nelle auto blu e vi facevano i loro bisogni. Su quel prege-vole lampione liberty si sono incatenate generazioni di prote-statari, di ogni genere, compreso un socialista friulano che so-spettava brogli ai suoi danni. Ai tempi di Tangentopoli sposta-vano le transenne ogni giorno più indietro per evitare che i lan-ci di verdure andassero a segno dei deputati che entravano euscivano. Lo scalone di dietro, d’altra parte, è sempre chiusoperché si sospetta che porti jella: effettivamente proprio lì nel-la prima metà del secolo scorso furono registrati frequenti e il-lustri collassi, infarti, colpi secchi e fulminanti.

Nell’atrio, intorno alla portineria, avvenne la disfida indi-menticabile tra i giganteschi commessi e le agguerrite guardiedel corpo di Arafat che durante la visita non volevano deposita-re le armi. Una rivoltella, in compenso, fu ritrovata una dozzinad’anni orsono su un lavandino dei bagni (definiti “del faraone”per quanto vennero a costare): dapprima si pensò a un avverti-mento terroristico, poi venne fuori che se l’era dimenticata lì, do-po essersi lavato le mani, un ex giudice divenuto parlamentare.

Non c’è posto più carico di ricordi vivi. Non c’è pietra — e aRoma è tutto dire — che non ispiri storie, storielle e storielline. Acominciare dalla facciata, che nel corso della sua carriera ognigiornalista parlamentare ha fatto a tempo a vedere restaurata eridipinta dalle cinque alle sei volte, comprese le “romanelle” cioèle tinteggiature alla buona. La penultima volta pare di ricordareche nel corso dei lavori trovò sede tra le impalcature un enormemosaico di Guernica che un onorevole questore della Lega — ahRoma ladrona! — aveva fatto acquistare a caro prezzo nel suo col-legio per farne dono alle Cortes, ma che gli spagnoli avevano sde-gnosamente rifiutato. La terzultima volta il deputato Borgheziopiantò una grana pazzesca perché gli operai non portavano il ca-sco. E durante una elezione presidenziale alcune pie giornalisteadottarono un gattino che viveva nel cantiere e gli misero nomeOscar.

Ha scritto l’ex funzionario Mario Pacelli in uno straordinarioe imperdibile saggio di antropologia parlamentare, Bella gente,(ed. del Gallo, 1992) che nei sotterranei di Montecitorio, occupatidall’Ustrinum, vivono «enormi gatti che del felino domesticopoco hanno conservato: una grande testa, il pelo folto e irto, le

pupille dilatate di esseri che non vedono mai la luce». Unavolta Mario Capanna liberò in aula una colomba, simbolo

della pace, e la bestia si mise a passeggiare sotto il fregiodel Sartorio, nel quale i cavalli imbizzarriti rendono piùscomodi gli scambi orgiastico-allegorici che sembranosvolgersi tra quell’immane ammasso di carni nude, fi-gure per i cui volti l’artista s’ispirò ai dagherrotipi prove-

nienti da un ospedale psichiatrico.A parte i topi e gli scarrafoni a suo tempo segnalati dal-

le parti della buvette, alla Camera di solito le bestie recanopresagi. Vedi il pipistrello ritrovatosi nel Transatlantico du-

rante il varo del governo Prodi bis; o la papera precipitatal’altro giorno nel cortile dei fumatori, dove un tempo era si-tuata l’aula Comotto, gelida e bollente, e dove la scorsa le-gislatura l’onorevole Caruso sostenne di aver piantato

cannabis indica. Né mancano ovviamente i fanta-smi lì dentro, nelle due versioni clericale e laica,

trattandosi di un fratone e di alcuni garibaldi-ni imprigionati nel palazzo dopo la battagliadi Mentana.

Sul balcone da cui si gridavano i numeri dellotto il giovane anticlericale Rutelli piantò

un giorno la bandiera del Vati-cano; nella sala della

Regina aitempi della Bi-

camerale fumontato una

specie di tronocon pedana e

panneggi perD’Alema; nel vici-

no attaccapanniPannella e Cossutta

si scambiarono ilcappotto; nella sala

della Lupa, sede del-l’Aventino e della pro-

clamazione dei risulta-ti del referendum mo-

narchia-repubblica, fusventato in extremis un

furto di preziosi repertietruschi; nei corridoio dei

busti c’era un deputato delMsi, Tassi, che sistematica-

mente molestava quello diTogliatti; e negli ascensori bloccati al piano, Pacelli scripsit, siamoreggiava focosamente. Forse accade ancora oggi e per unPalazzo che intenda restare vivo e pieno di memoria resta pursempre una risorsa di continuità.

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Deputati, gatti e fantasmiabitano sale e corridoi

FILIPPO CECCARELLI

Repubblica Nazionale

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carte bolognesi traboccano. Le riserveopposte dai comunisti di mezzo mondoalla diffusione della pubblicistica popo-lare di derivazione yankee (e perciò peri-colosamente “borghese”) vengono quiscavalcate a piè pari. E a chi consulta l’ar-chivio può accadere di divertirsi. Induco-no al sorriso, per cominciare, i fascicoli astampa che la Fondazione bologneseconserva come esempi di propaganda asfondo erotico-sociale. Sto parlando del-la serie di fumetti a dispense, prima dise-

CULTURA*

34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 28MARZO 2010

razione bolognese e venduta a lire cin-quanta grazie a una “diffusione militan-te”. Il plot è elementare. Mentre divam-pano le consuete peripezie all’interno diuna giovane coppia senza lavoro, il tem-poraneo ritorno a Bologna del padre del-la ragazza, che era emigrato in Belgio co-me minatore, ristabilisce la pace fra i due.

Il genitore deve rientrare al suo duro la-voro all’estero pur senza illudersi (dichia-ra) che «il governo democristiano sipreoccupi di difendere i diritti dei mina-

tori italiani». Ma fa in tempo a richiamarei giovani al dovere di partito. Infuria in-tanto la campagna per le politiche del1958. Nel finale del plot irrompono i seg-gi elettorali. Adesso la coppia, redenta erianimata, sa cosa fare nel segreto del-l’urna.

Non è un caso isolato. L’happy end diciascuna storia lascia una traccia sulleschede. Anche nei fascicoli a puntate in-titolati Più forte del destino, da deus exmachina funziona un anziano del parti-

NELLO AJELLO

gnati al tratto e poi fotografici — sulla sciadei fotoromanzi, inventati nel 1946 dal-l’editore marchigiano Cino del Duca e dalui introdotti in Francia con l’etichetta dipresse du coeur — che negli anni Cin-quanta si avviano a sedurre il pubblico,specie femminile, sotto ogni latitudine.

L’“altra metà del cielo comunista” dieducazione emiliana se ne lascia conqui-stare. Un amore contrastato agita le tavo-le in bianco e nero della story intitolata Lagrande speranza, edita a cura della fede-

Tra le cartedella federazionebolognese spunta

la propaganda popdel partito: racconti

sulla vittoriadel proletariato, gialli

satirici sulla Dclettere mielose del rude

sindaco Dozza

BOLOGNA

Il primo documento che ti mostra-no le archiviste della FondazioneGramsci è un fascio di cartoline il-lustrate, in cui si vedono coppie

impegnate a scambiarsi soavi effusioni.La firma che si legge sul rovescio, in calceal testo, è sempre la stessa: «Il tuo Pippo».Il mittente è Giuseppe Dozza, detto ap-punto Pippo, il futuro sindaco di Bolo-gna, a quel tempo (nel 1918 o nel ‘19: cosìindicano le date postali) è appena uscitodall’adolescenza. La desti-nataria è Tina, cioèSanta Dall’Osso,bolognese anchelei, che ne condivi-derà, da moglie, letumultuose peripe-zie di oppositore po-litico sotto il fascio,accompagnando poila sua lunga apoteosinel comunismo emi-liano. Se di Dozza nonconoscessimo l’indolecombattiva — a quat-tordici anni, nel ‘15, eragià iscritto al Psi e a ven-ti, nel Pci appena nato,esordì come seguace diAmadeo Bordiga, diven-tando segretario della fe-derazione bolognese — lostile di questi cimeli ci ri-corderebbe i biglietti cheavvolgono i cioccolatini, dimarca e non.

«Amoruccio mio, ieri se-ra corsi, corsi tanto che alledieci precise ero alla porta dicasa tua», così Pippo scrive,per esempio, alla ragazza,«ma tu te ne eri già andata. Ri-masi sconcertato e deluso, mene andai a letto alquanto ma-linconico. Che cosa facevi tumentre il tuo Pippetto se ne tor-nava dolente alla sua casuccia? Probabil-mente pensavi a lui. Gradirei che me lo di-cessi, donnino mio». «Tina mia», incalzaun’altra cartolina rosa, «ho ancora da-vanti a me il ricordo di ieri sera. Quantogrande è il tuo cuore, Tinuccia!».

Le tre donne impegnate a riordinarel’archivio provinciale e regionale del Pcibolognese — Siriana Suprani, direttricedella Fondazione Gramsci, Simona Gra-nelli, addetta alla documentazione estampa, e l’archivista professionale SaraVerrini — maneggiano simili carte quasisi trattasse di materiali decisivi per la sto-ria del proletariato. Non è il caso, quindi,di mostrarsi sconcertati. E da che cosa,poi? Se Dozza fu per decenni — dal ‘45 al‘66, a volerne considerare solo il ruolo disindaco — al vertice della sinistra emilia-na fino a modellarla a propria immagine,testimonianze di questo tipo assumonoun valore antropologico e “di massa”.L’aggettivo “comunista” si carica d’ungusto speciale gemellandosi con l’agget-tivo “bolognese”. Il tutto si rivela una spiaper scrutare pensieri e opere della più im-portante federazione “rossa” dell’Occi-dente. Amputato da simili reliquie di vis-suto, qualunque archivio rischia di somi-gliare a un ammasso di polvere: nel capo-luogo emiliano questa eventualità è evi-tata in partenza. È lecito, semmai, avvici-narsi a tali reperti con la nostalgia delcome eravamo. O meglio del «come era-no».

Di vissuto, e perfino di colore locale, le

FotoromanzoRosso

L’happy end secondo il Pci

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35DOMENICA 28MARZO 2010

gna non è mica la periferiadell’impero italcomuni-sta: è la patria di un model-lo etico-politico, l’opifi-cio d’un linguaggio co-municativo, e il localepopolo comunista lo sa.Ci si arrampica su ogni

ramo della pubblicistica pop deltempo: la fortuna dei gialli Mondadoritrova una replica in chiave bolognese concolorite vicende sottogovernative dellaDc, «il partito degli scandali e della corru-zione». Gli intrecci possono intitolarsi Ilcolpo dei 993 miliardi e mezzo, oppure,evocando turpi personaggi della cronacacoeva, Un Sindaco, due Ministri, un Ve-scovo.

In quarta di copertina, sopra l’invito alvoto, figura stavolta un cruciverba “pro-letario”. Confesso d’essermi provato a ri-solverlo. Al quesito «Bisogna metterci iguerrafondai», sei lettere, cosa risponde-re se non «galera»? A «Lo è Fanfani davan-ti al presidente della Confindustria» horeagito con l’aggettivo «prono». La do-manda «Qual è la risposta della Dc alla ri-chiesta di riforme?», due lettere, mi è par-so suggerisse un «no». Ecco, dopo tutto,un esercizio che ti ringiovanisce.

LE IMMAGINIA destra, due fotoromanzie un cruciverba. In alto a destra,il fumetto sulla vita di Di Vittorioe la nascita di GramsciImmagini della FondazioneGramsci di Bologna

CARTOLINENella fotogrande, una ragazzabionda invitasu unmanifesto a votare il PciAttorno,le cartolinedel sindaco Dozza

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to, Antonio. È lui a suggerire a Giorgio eSandra — coppia in rituale difficoltà e conun figlio appena nato — la soluzione.«Pensa, Sandra» ricorda il maturo mili-tante alla neo-madre, «a Bologna il Co-mune ha messo in ogni quartiere un cen-tro d’assistenza. Là il disoccupato puòmangiare gratis alla mensa, e le donne co-me te hanno un aiuto prima e dopo il par-to». Nel fotogramma finale l’entusiasmodei due giovani prorompe: «Ora che An-tonio ci ha dettato la strada, non ci restache seguirla fino in fondo e votare per chici protegge e ci difende». “Velina” in anti-cipo sui tempi o cover-girl che sia, nellacontrocopertina un «donnino» biondocompleto di rotondità impetuose ripetel’invito accanto a un emblema con falce emartello: «Vota così».

Una variante si coglie al termine di unapuntata della stessa serie, in cui la nasci-ta di una piccola erede viene praticamen-te a coincidere con le elezioni. Come lachiameremo?, si domanda la puerpera,fiduciosa del responso delle urne. «Chia-miamola Vittoria. Il suo nome sarà il sim-bolo di quell’avvenire di libertà e di ri-spetto che avrà avanti a sé».

Ottimismo a comando, in partenza daBotteghe Oscure? Non si può dubitareche sia quella l’origine prima. Ma Bolo-

Nell’archivio Gramscitormenti d’amor borghese

AllaFondazione Antonio Gramsci del-l’Emilia-Romagna sono stati conse-gnati gli archivi dei comitati provin-

ciale e regionale del Pci bolognese, e il lorospoglio sta per concludersi. Sono consulta-bili le carte di Giuseppe Dozza, quelle di Val-do Magnani e la corrispondenza che siscambiarono i militanti comunisti Lea Gia-cagli e Paolo Betti, dal carcere al quale li ave-vano condannati i fascisti. La coppia, local-mente molto nota, era assai legata a Dozza ea sua moglie: durante la detenzione dei ge-nitori furono i Dozza ad ospitare la loro figliaLuce. Luce si chiamerà poi una figlia del sin-daco bolognese. Un fondo custodito alGramsci riguarda le “autobiografie”, che imilitanti compilavano iscrivendosi al Pci.Esse assumevano maggior valore alla vigiliadell’ammissione in una scuola di partitocom’era, a Bologna, l’istituto Marabini.

A proposito di questa scuola, si legge in un

verbale custodito al Gramsci, e datato 27agosto 1949, la denunzia riguardante due al-lieve «che danno la caccia all’uomo, chiun-que sia». Si tratta d’un «comportamentomorale deplorevole»: equivale a «considera-re l’amore nella sua veste borghese». Qual-cuno propone di istituire corsi femminili se-parati, ma riscuote recise obiezioni da alcu-ne compagne presenti. Non se ne fa nulla,anche se alla controversia prenderà partePietro Secchia, responsabile dell’organizza-zione e animato da umori assai più rigidi diquelli prevalenti a Bologna. Secchia è con-trario alle scuole di partito miste perché, co-sì scrive, «la paglia accanto al fuoco brucia».Di vivo interesse su simili temi è un saggio diSandro Bellassai, La morale comunista, edi-to nel 2000 da Carocci nella collana intesta-ta all’Istituto Gramsci dell’Emilia Romagna.

(n. a.)

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C’è anche il cruciverbaper i militanti“Bisogna mettercii guerrafondai”,sei lettere: “galera”“Lo è Fanfanidavantialla Confindustria”,cinque lettere:“prono”

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36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 28MARZO 2010

Musikolossal

Sempre più star del cinema - da Jude Law a Denzel Washington,passando per Scarlett Johansson - si misurano con i palcoscenicidi New York. Nascono così produzioni dai budget milionari

in un prolifico scambio tra schermo e teatro. Whoopi Goldberg riprende il velo in un nuovoclassico, già film, come “Sister Act”, ma intanto si prepara “Spiderman”,con le musiche di Bono e The Edge. E anche Steven Spielberg ha un’idea in testa...

SPETTACOLI

NEW YORK

Magari adesso il fanta-sma di James Deanpotrà finalmentetrovare pace. Non

sapete la storia del fantasma di JamesDean? Beh, si capisce, in fondo è uno deisegreti più custoditi di New York, unastoria che mai immaginereste nel cuo-re della Grande Mela. Del resto c’è volu-to mezzo secolo perché, alla fine, il divoche voleva sfondare a Broadway — e finìper schiantarsi dalle parti di Hollywood— fosse vendicato. Oggi Hollywood fa lafila per inginoc-chiarsi a Broadwaye Broadway si sco-pre kolossal. Lastrada dei teatri piùfamosi del mondosembra ormai unaWalk of Fame e i tu-risti in fila per i bi-glietti low cost albotteghino “Tkts”di Times Squarecercano gli showinseguendo il no-me dei divi. C’è posto da ScarlettJohansson? E da Catherine Zeta-Jones?E da Cate Blanchett? Mica dicono Unosguardo dal ponte. O A littlenight music.O Un tram che si chiama desiderio...

L’ultimo in dirittura d’arrivo è un cer-to Denzel Washington. Tra meno di unmese, il primo afroamericano dopoSidney Poitier a vincere un Oscar comeprotagonista calcherà il palcoscenicodel Cort Theatre. Fences è il capolavorodi August Wilson — e del teatro di pro-testa black: ma se a portarlo in scenanon fosse il divo di American Gangster,chissà se sarebbe comunque circonda-to dalla spasmodica attesa di questigiorni. «Per me è un grande onore tor-nare qui a Broadway, quando Kenny

Leon, il regista, mi ha dato lo script, l’horiletto in una notte per il provino delgiorno dopo, ricordo quando ero anco-ra uno studente di teatro e andai a ve-derlo in scena per la prima volta, c’eraJames Earl Jones, che emozione in ca-merino...». Parlano tutti così, i divi,quando parlano di Broadway: la defe-renza dei pivellini, la testa bassa, dov’èfinita la spocchia delle interviste lucci-canti e prepotenti che i press agent or-chestrano sotto il sole di California? AHollywood il lupo diventa agnello. Delresto paga. Jude Law (Hamlet), l’ex fi-danzata Sienna Miller (After Miss Julie),Daniel Craig e Hugh Jackman (A SteadyRain), Phillip Seymour Hoffman

(Othello), Chri-stopher Walken (ABehanding inSpokane), AlfredMolina (Rothko)...Tutti a risciacqua-re i panni nel-l’Hudson: ancheperché così saràpiù facile, dopo, farlevitare il cachetsul set.

Per carità: loscambio è alla pari.

L’afflusso di divi da Hollywood è riusci-to a ridare linfa a una pianta che appas-sita non è stata mai, ma quattro volte sucinque non fiorisce quanto il giardinie-re si sarebbe aspettato. «Le celebritànon garantiscono il successo finanzia-rio ma l’attenzione almeno sì», dice ildirettore esecutivo della BroadwayLeague, l’associazione dei teatri, Char-lotte St. Martin.

E infatti. “Hollywood goes toBroadway” titola l’inglese The Guar-dian. “Hollywood se instala enBroadway” riecheggia lo spagnolo ElPaís. Il Daily News, che resta il quotidia-no più venduto di New York, la mette sulcampanilismo e titola non propriosportivamente: «Le celebrità rubano il

Smith producono Fela!, il musical sulgrande musicista africano Fela Kuti cheresta tra i successi dell’anno — e la pro-va di cosa vuol dire quando Hollywoodscende in campo per trasformare unpiccolo cult andato già in scena Off-Broadway (cioè nel circuito seconda-rio) in un kolossal senza pari. Che non acaso il West End inglese si è già accapar-rato per il prossimo anno. E un’attricedal grande appeal popolare comeWhoopi Goldberg pensa addirittura aportare ben due megashow il prossimoanno a New York: Sister Act, tratto dalsuo film che stratrionfò al botteghino, eil più impegnato White Noise, che nel-l’America di Barack Obama sbandie-rerà il tabù del segregazionismo.

Certo: il kolossal dei kolossal, e l’in-crocio perfetto dei due mondi, è quelloche ancora si fa attendere. Annunciatoe rimandato già due volte, Spiderman,per la regia di Julie Taymor (Il Re Leonea Broadway, Across the Universe suiBeatles ad Hollywood) e le musiche diBono e The Edge degli U2, è lo spettaco-lo che da solo illuminerebbe una sta-gione. Peccato che proprio la confezio-ne kolossal — ben oltre i due milioni emezzo di budget di una normale rap-presentazione — abbia finito per risuc-chiare sempre più soldi. Anche qui, co-me con i divi di sopra, è toccato a Bonoaprire il portafoglio, sporgendosi in uninvestimento in cui per poter assicura-re il rientro adesso si sussurra addirittu-ra di una sua partecipazione on stage.

Tra profumo di business e brivido delrischio l’unica cosa certa, insomma, èche il legame tra le due vecchie rivali sistia sempre più rinsaldando. Una riva-lità vecchia di novant’anni. È dai tempimitici di Tin Pan Alley (la fabbrica deisuccessi musicali che prendeva il nomedalla strada di New York) che il cinemadrena risorse al palcoscenico. In fondouno dei più grandi successi di Hol-lywood, il musical, è un furto in pienaregola, il “calco” preciso di una formu-

palcoscenico a Broadway». Il New YorkTimes mette l’accento su un altro feno-meno ancora: le celebrità che aBroadway si fanno vedere ma non sulpalco: in platea. Non solo divi: anchecantanti e personaggi tv puntano sulteatro finanziariamente parlando. E poimagari sfilano tra il pubblico per essere

paparazzati e richiamare l’attenzionesullo show: non è un insegnamento diHollywood anche questo?

Elton John ha speso centinaia di mi-lioni di dollari nella produzione di quelNext Fall di Geoffrey Nauffts che sem-pre il Times ha salutato come il nuovoNeil Simon (in salsa gay). Jay Z e Will

Elton John ha investitouna cifra stellare

per finanziare“Next Fall”, nuovo

show alla Neil Simonin salsa gay

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Hollywood conquista Broadway

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Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37DOMENICA 28MARZO 2010

la del successo nata 2.500 miglia e tre oredi fuso orario più a est. E il primo divo delcinema parlante, che poi era cantante,fu rapito, anche lui, dall’Atlantico al Pa-cifico: si chiamava Al Jolson (per la ve-rità si chiamava Asa Yoelson ed eraebreo e mica nero) e diventò il primo di-vo musicale con lo storico The Jazz Sin-

ger (1927). Guerra passata? Pacefatta? Dovremmo arrenderci all’irresi-stibile trionfo di quel coacervo a cuidobbiamo soltanto dare un nome? Hol-liway? Brolliwood?

Non bestemmiate alle orecchie diLaurence Maslon. Il professore è un’au-torità in materia. Grazie alla cattedra al-

la New York University, certo, ma so-prattutto alla monumentale serie tele-visiva, Broadway: The American Musi-cal, che insieme al regista Michael Kan-tor ha trasformato in un altrettanto mo-numentale volume, 470 pagine chescorrono come un film, pardon, comeuno show. «La verità è che ancheBroadway è entrata nel Ventunesimosecolo e nel mercato di nicchia. Fino avent’anni fa c’era ancora quello che sichiamava il pubblico di Broadway. OggiInternet ha cambiato tutto. Non devi

più vivere a New York per sapere cosaaccade su quella scena. Non devi essereun appassionato per finire a teatro: tro-verai comunque uno spettacolo confe-zionato per te. Se ami la danza hai BillyElliott, se ami i cartoon avrai La famigliaAddams, se ti piacciono i fumetti arrivaSpiderman, se cerchi Hollywood eccotiDenzel Washington». Solo marketing?

L’ultima barriera cadrà se va in portoil sogno di Steven Spielberg: realizzareun film, anzi una serie televisiva, su co-me si costruisce uno show. È davvero ilcerchio che si chiude. Spielberg, che aHollywood è giusto un gradino sottoDio, ha già preso contatti con Craig Za-dan e Neil Meron, che hanno già pro-dotto la versione teatrale di Prova aprendermi, il film con Leonardo Di Ca-prio. Anzi. Il regista sogna anche più inalto: perché dopo la presentazione in tvvorrebbe riportare lo show proprio aBroadway.

Altro che vendetta. Per il fantasma diJames Dean sarebbe l’apoteosi: potreb-be davvero tornarsene, finalmente inpace, lassù. Ah, già, non sapete ancora lastoria. Dunque: c’era una volta un gio-vane attore pazzo per il teatro, che peròa Broadway non fece in tempo a sfonda-re, giusto una particina nell’Immorali-stadi Gide. E quando a Hollywood gli of-frirono una particina, ci andò giusto perprovare a sbarcare il lunario, in quell’e-state del ’54. Pensava di ritornarci pre-sto, nella sua New York: per questo man-tenne l’affitto di quella stanza al secon-do piano del civico 19, sulla Sessantotte-sima strada west, a un passo da CentralPark, allora zona malfamatissima.

Beh, com’è finita - questo sì - lo sap-piamo tutti. Ma c’è chi dice (Cheri Re-vai, Haunted New York) che nelle sered’estate il suo fantasma compaia anco-ra in quella casa che lui non volle lascia-re mai. Sperando che qualcuno lo ri-chiamasse indietro. Da Hollywood aBroadway. E stavolta per sempre.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Il regista di “E.T”pensa a una grandeserie tv da adattarepoi sulla scena

SPIDERMANIn alto a sinistral’Uomo Ragnoche sarà direttosulla scenada Julie Taymor,regista di Across

the universe

SopraAfter Miss Julie

è interpretatodall’attriceSienna Miller

In alto,da sinistrain senso orario,Next Fall,Behandingin Spokane,Fela! (il musicalsu Fela Kuti)e Sister Act

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Alla ricerca della “Perduta Pa-tria Celeste” a suon di zuppe.Le giornate che precedonoPasqua attivano le energie re-sidue dei viandanti della fede:il traguardo del peregrinare

cristiano — a scelta fra Gerusalemme, Romae Santiago de Compostela — a un passo dal-la conquista, dopo tanto camminare (o pe-dalare).

Che il viaggio cominci alle fonti stesse deipellegrinaggi — Canterbury, Calais, il confi-ne italo-francese — venga agguantato a metàpercorso o ancora più in là, straordinario ècomunque il mutare delle cartoline, sottoforma di paesaggi e menù, passo dopo passo,paese dopo paese. Una sequenza ininterrot-ta di ospizi e monasteri, locande e ricoveri,ostelli e chiostri, dove riposare, rifocillarsi, ri-pensare alla strada fatta, immaginare quellafutura. Il tutto, con l’indispensabile accom-pagnamento del cibo, commistione impre-vedibile di provviste portate da casa e ali-menti locali.

I pellegrini si sono sempre fatti forti di ca-rità e solidarietà per procedere nel camminogeografico e spirituale, fin da quando l’Edit-to di Costantinopoli proclamò la libertà diculto, anche se l’esplosione del fenomenosarebbe arrivata solo all’inizio del secondomillennio. Al di là dei penitenti più abbienti— in grado di godere dei piaceri della tavolain taverne attrezzate — i mangiari di stradadei percorsi devoti sono stati quasi semprepoveri, a volte poverissimi. Qualche bricioladi lardo per insaporire le verdure — aglio, ci-polla e porri, in primis, e poi cavoli, patate, er-bette — da annegare poi in acqua e pane raf-fermo. Minestre trasformate, a seconda del-le quantità degli ingredienti, nella sopa de ajobasca, nellasoupe aux oignonsdella tradizio-ne monastica francese o nella supa barbettavaldese.

Già nel Dodicesimo secolo, una guida perpellegrini citava ben quattro rotte alternati-ve per collegare la Francia con la Spagna. Al-lo stesso modo, chi voleva raggiungere laTerra Santa allungava l’itinerario della viaFrancigena oltre Roma, fino al porto di Brin-disi: un prolungamento firmato dai Crociatiche avevano eletto San Michele del Garganoa luogo di incontro prima della traversata. Inquesto modo, le contaminazioni alimentarilegate al procedere del cammino diventaro-no viaggio nel viaggio.

È così che poco dopo il Mille i fedeli italia-ni incamminati verso i Paesi Baschi scopri-rono la setosa tessitura delle Conchiglie diSan Giacomo, i molluschi cotti sulla brace, leconchiglie cucite sulle cappe a testimonian-za dell’approdo raggiunto. E poi i dolcettitutto burro dei seguaci di San Michele parti-ti dall’abbazia di Mont Saint-Michel, i panispeziati dei monaci di Cluny, i pesci essicca-ti al seguito dei fedeli catalani, le spezie nellebisacce di turchi e greci. Una miscellanea in-credibile destinata a incrementare in manie-ra esponenziale la varietà di ingredienti co-nosciuti e praticati una volta rientrati dalviaggio.

Se l’idea vi attrae, regalatevi qualche gior-no di cammino sulla via di Santiago (San Gia-como in spagnolo). Che partiate dalla Cata-logna o vi inerpichiate dalla Navarra, la vo-stra strada sarà costellata di tappe gastrono-miche, grazie alla dislocazione di alcuni tra imigliori ristoranti di Spagna. Avrete tempoper la penitenza quando tornate a casa.

38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 28 MARZO 2010

Tempo di PasquaLe mete erano Roma, Gerusalemme, Santiago de CompostelaLungo i “cammini” oggi tornati di moda, i viandanti della fedemischiavano i cibi portati nella bisacciacon i sapori locali di monasteri,ostelli e locandeUna fusionante litteramche ha prodottostraordinari“mangiaridi strada”

i sapori

LICIA GRANELLO

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Fantasiadi ricetteon the road

pellegriniCucinaLa

dei

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39DOMENICA 28 MARZO 2010

PissaladiereL’impasto di farina, acquae sale lievitato viene steso

e farcito con un impastodi cipolle stufate,

profumate grazie a timoe aglio, insaporite a fine

cottura da capperi,olive e acciugheSi gusta fredda

o appena sfornata

Pici con le bricioleLa pasta fresca

della tradizione contadinatoscana offerta

ai penitenti lungola via Francigena -

farina, acqua, olio e uova -dopo la bollitura si ripassa

in padella con olio, aglio,mollica di pane

e pecorino grattugiato

Focaccette di AullaFarina di grano

e granoturco per preparare le millenarie focacce

all’acqua della Lunigiana,cotte tra dischi di terracotta

scaldati su fuoco di legna e scottatesulla fiamma viva

prima di servirlecon formaggi e salumi

Zuppa di lenticchieI legumi, con il loro carico

di proteine vegetali,rappresentano l’alternativa

ideale alla carne, spessoesclusa dai menù

dei pellegrinaggi. Carote,sedano e cipolla

per insaporire il brodo,un filo d’olio prima

di mandare in tavola

SorbettoHa origini medievaliil rinfrescante a basedi scorza di limonegrattugiata, bollitacon acqua e zuccheroLo sciroppo, raffreddatoe filtrato, si mescolacon succo di limonee buccia conservata primadi metterlo in ghiaccio

itinerariMarcosCerqueirogestiscecon Iago Pazosun piccolo,goloso ristorante

nel Mercado de Abastosdi SantiagoIn menù, anche i piattidi tradizionepellegrina rivisitati

Santiago de Compostela Reims Monte Sant’Angelo

l’iniziativaNuova vita per il cammino

di Santiago versionegourmand. Gli uffici turistici

di Catalogna e Paesi Baschi,infatti, hanno appena messo

a punto un’edizione ripensatadel percorso che attraversa la Spagna da parte a parte

correndo lungo i PireneiTappe storiche e nuove soste

hanno come contrappuntogoloso alcuni dei migliori

ristoranti iberici, tra ricettemedievali rivisitate,

materie prime riscopertee creazioni inedite

Raccolta intorno alla cattedraledell’Undicesimo secolo, la cittadinagaliziana è meta di un pellegrinaggiomillenario, il cui percorsoè patrimonio dell’umanità Unesco

DOVE DORMIRESAN FRANCISCO HOTEL MONUMENTOCampillo de San Francisco 3Tel. (+34) 981-581634Camera doppia da 100 euro

DOVE MANGIAREEL ASESINOPraza Universidade 16Tel. (+34) 981-581568Chiuso domenica,menù da 25 euro

DOVE COMPRAREMERCADO DE ABASTOSRua AmeásTel. (+34) 981-583438

Capitale dello Champagne e importante sosta sulla viaFrancigena, il cammino che nel 990portò l’arcivescovo di CanterburySigerid da Calais a Roma

DOVE DORMIREGRAND HÔTEL TEMPLIERS22 Rue des TempliersTel. (+33) 03-26885508Camera doppia da 150 euro

DOVE MANGIARELE MILLÉNAIRE4 Rue BertinTel. (+33) 03-26082662Chiuso sabato a pranzo e domenica, menù da 50 euro

DOVE COMPRAREBISCUITS FOSSIER25 Cours Jean Baptiste LangletTel. (+33) 03-26475984

Ha più di mille anni, la cittadinacostruita su uno sperone del Gargano, meta dei crociati direttiin Terrasanta e dei pellegrini devotia San Michele Arcangelo

DOVE DORMIREHOTEL MICHAEL (con cucina)Via Reale Basilica 86 Tel. 0884-565519Camera doppia da 60 euro,colazione inclusa

DOVE MANGIAREMEDIOEVOVia Castello 21Tel. 0884-565356Chiuso lunedì, menù da 25 euro

DOVE COMPRAREANTICO FORNO FRISOLIViale Manfredi 86Tel. 0884-565008

Quei picnic sacrosantihanno fatto l’Europa

MARINO NIOLA

La grande cucina europea? In realtà è roba da pellegrini. È l’incrociodei grandi cammini che portano a Roma, a Santiago de Composte-la, a Gerusalemme a far nascere le gastronomie del vecchio conti-

nente. Gli infaticabili camminatori della fede, i romei, gli jacopei, i pal-mieri, sono stati i primi ambasciatori del gusto e al tempo stesso gli artefi-ci di un silenzioso, secolare import-export cucinario che ha fatto l’unitàeuropea a partire dalla tavola.

Con pane e vino si fa il cammino. È il motto alimentare del pellegrinag-gio cristiano che a partire dall’associazione evangelica dei due cibi euca-ristici costruisce a forza di scambi, di prestiti, di imitazioni, di aggiunte, diinnovazioni uno straordinario patrimonio comune. Una gourmandisedella carità, una cucina della misericordia. Non a caso alloggiare i pelle-grini è una delle sette opere di misericordia corporale.

In realtà il pellegrinaggio non era un semplice viaggio, ma l’avventuradi una vita. Un’esperienza che poteva durare anni e metteva il viandantea contatto con terre, abitudini, umanità e prodotti completamente nuo-vi. Prima di partire si faceva testamento, si pagavano i debiti e si indossa-vano le vesti del cammino: il mantello, il bordone e il cappello. Con la bi-saccia che diventava l’indispensabile dispensa del pellegrino. Pane nero,erbe aromatiche, aglio, carne affumicata e pesce secco. Una riserva con-tinuamente alimentata negli ospizi, nei monasteri, nelle case del pellegri-no in cui le schiere dei transumanti della fede, un esercito a metà tra la cor-te dei miracoli e l’armata Brancaleone, si ristoravano con zuppe, brodi, po-tages, panunti, pancotti. Mentre i pellegrini eccellenti si deliziavano conmanicaretti di carne e di pesce conditi con salse divenute celebri come laBéarnaise, invenzione dei monaci di Béarn.

Ma spesso i pellegrini il cibo se lo procuravano da soli e lo cucinavano amodo loro. Come quelli che concludevano il cammino di Santiago rag-giungendo le spiagge del Finisterre, proprio dove l’apostolo Giacomo, ve-nuto a evangelizzare la Galizia, raccoglieva le conchiglie che portano an-cora il suo nome per donarle ai convertiti come contrassegno di fede. Inonore del santo gli jacopei sacrificavano i molluschi sulle braci o sotto lacenere e riportavano a casa la conchiglia bivalve, simbolo dei due precet-ti della carità: amare Dio su tutte le cose e il prossimo come se stessi. Da al-lora quella che il naturalista Linneo battezzò pecten jacobaeus, e che in Ita-lia chiamiamo capasanta, cappa pellegrina, santarella, cozzula del pelle-grino è l’emblema stesso dell’itinerario galiziano.

Comunque quello dei pellegrini, ieri come oggi, è cibo da asporto. Fo-cacce, pizze bianche, schiacciate, testaroli, farinate, torte salate, pasqua-line, casatelli, pissaladières, empanadas. Tutti street food da consumaredurante le romeríe, cioè i pellegrinaggi di una giornata, quelli ai santuarifuori porta che a partire dal Concilio di Trento affiancano i grandi cammi-ni. E così l’andar per campi, che è l’antico significato della parola peregri-nare, si fa letterale. E diventa scampagnata, picnic, dejeuner sur l’herbe. Inostri cammini della domenica.

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PancottoIl recupero del paneraffermo grazie al brodo– di carne in versione ricca,o vegetale – vienesupportato da tocchettidi patate, qualchepomodoro o una manciatadi fagioli. Si rimangiaanche il giorno dopo,senza scaldarlo

Tarta del pellegrinoPer addolcire la finedella cena, il dolce di farina,zucchero e cannellaSulla sfoglia, stesasottilissima, le mandorlesbollentate, spellate e tritate finemente insiemealla scorza del limonee amalgamatecon tuorli d’uovo

Capesante gratinateAppuntate alle cappedei pellegrini,da cui il nome, le conchiglieatlantiche di San Giacomosi infornano due volte: prima per cuocerleal naturale,poi per far rapprenderela salsa di uovo, aglio,olio e limone

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le tendenzeDivise sexy

Pantaloni grigio-verde, canotte da assalto,tubini realizzati con tessuti da paracaduteLa donna dell’estate 2010 va al fronte,ma solo quello del fashion. E riscopre,

ancora una volta, che militare è bello

40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 28MARZO 2010

DIORC’è tutta

la leggerezzadello chiffon

negli abitidi Dior dedicati

a reclute chicche in libera

uscitamostranole gambe

MASON’SCamicie sahariana

dall’aria vissutaper Mason’s, marchio

da sempre fedeleall’abbigliamento

di gusto militare

ALVIERO MARTINIAnche le ballerine delle donnedi Alviero Martini adottanolo stile sportivo-mimetico

BULGARISono fondamentaligli occhiali scuri,come quelli propostida Bulgari, per le donneimpegnate in missionispeciali

PRADAIl bauletto firmatoPrada. È la borsa,

con chiusurazippata, che meglioesprime il concetto

dello stile militar-chic

JOHN RICHMONDLa couturedi John Richmond,tra stampe militarie accessori punkche rendonola donna grintosae molto elegante

Adorano i tessuti mimetici ma non inneggiano alla guerra. Anzi. Illoro spirito è totalmente pacifista e molto edonista. Per gli stilistisi è aperta una nuova stagione: è quella del “military style”. Ma inquesto proliferare di frange e mostrine mescolate a pizzi e chiffon,non c’è nulla di bellicoso. Il camouflage è chic, piace molto e tro-va spazio nei guardaroba delle ragazzine, ma anche in quello, ul-

tra-rigoroso, di molte signore borghesi. Sahariane da incursioni nel deser-to, pantaloni grigio-verde, canotte da assalto, tubini fatti con tessuti da para-

cadute e abiti da sera con paillettes mimetiche tornano a far bella mostra di sénelle vetrine, contaminando non solo i guardaroba ma anche gli accessori e per-sino l’arredo di casa.

Nella storia della moda, a nobilitare, tra i primi, gli abiti militari dismessisono stati i giovani contestatori negli anni Settanta. Nei cortei, si vedevanosfilare ragazzi e ragazze con eskimi, camicie e pantaloni presi ai mercatinidell’usato. Quelli di Livorno e di Forcella, erano i più gettonati. Era lì che sitrovavano le divise dismesse dell’esercito americano. Tutta roba che ve-niva acquistata a poco prezzo e che poi i giovani personalizzavano con col-lane e bracciali, complice Elio Fiorucci, abilissimo nel pescare in giro per ilmondo tutto quello che c’era di allegro, stravagante e inedito. I ragazzi ve-stivano così in segno di protesta, per sottolineare il loro essere contro il siste-ma. Ma poi gli stilisti hanno fatto proprio questo stile, trasformandolo in untrend, sempre totalmente sganciato da qualsiasi spirito guerrafondaio. E ora,

che siamo in pieno revival, il camouflage impazza. Da Blumarine a Dior,da Emporio Armani a Celine, da Kenzo a John Richmond, da Louis

Vuitton a Prada, da Cesare Paciotti fino a Bulgari la moda usa i colo-ri e le fogge militari in chiave moderna e sexy, con proporzioni nuo-ve, più asciutte e aderenti al corpo. Anche alle recenti sfilate di Mi-lano, Parigi e New York il richiamo alla divisa è stato fortissimo equindi la scia militare che accompagnerà l’abbigliamento estivosi prolungherà anche nel prossimo inverno. Ma da dove nasce

questa attrazione che accomuna gli stilisti di tutto il mondo? A fa-re da collante è insieme il rigore e la versatilità delle divise, elemen-

to che contraddistingue griffe storiche come Burberry, che ha fatto del“militar chic” la sua bandiera, ma anche marchi prestigiosi come

quelli dei Dolce & Gabbana, Versace, Ferré, Etro, Ermanno Scervino,Max Mara e Iceberg. Il genere militare si insinua nel dettaglio di

una scarpa, nel bavero di un cappotto, nel taglio diuna gonna, nell’uso di certe cappe,

nei colori e nelle forme delle borseda portare a tracolla. Elementi che si ritro-vano anche nelle collezioni di Jean PaulGaultier, Moschino, Marc Jacobs, Celine.L’Army va forte e segna anche il tempocon gli orologi mimetici di Toy Watch.

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Alla guerra del lookCon la mimetica

LAURA ASNAGHI

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41DOMENICA 28MARZO 2010

“Leggerezza, ironia, seduzionela mia formula per la soldatessa chic”

Intervista a Anna Molinari, stilista di Blumarine

Anna Molinari, la stilista di Blumari-ne, è una delle grandi interpreti del-lo stile mimetico. A lei abbiamo chie-

sto come una donna può essere femminilecon abiti militari.

Esiste un lato sexy negli abiti camoufla-ge?

«Certo, basta caricarli di ironia e di legge-rezza. Ecco perché ho reinventato i tessutimimetici con colori fluo, usando il fucsia, ilverde e l’arancio».

Vero, ma quando si parla di stile milita-re la gente pensa alla divisa con le mostri-ne.

«Ma nella moda non è più così. In questiabiti non c’è nulla di aggressivo o di serioso.Tutto è centrato sulla seduzione. E non a ca-so le silhouette che propongo accarezzanoil corpo, lo esaltano e lo mostrano con scol-li e spacchi strategici».

Ma questi abiti dai colori pop possonoessere considerati un inno alla pace?

«Come stilista questo è il mio modo con-creto per schierarmi con chi vuole la pace,contro le guerre che insanguinano il mon-do».

Quando ha disegnato questi abiti si èispirata a una donna in particolare?

«Io seguo sempre l’istinto, non mi piacefare riferimenti al passato o a donne speci-fiche. La moda funziona quando è contem-

poranea e rispecchia i desideri delle donnevere».

Da adesso all’estate, vestiremo comesoldatesse-chic?

«Sì, anche se il bello di questa moda è chenon fa caserma, ma crea donne affascinan-ti in tessuti mimetici».

Cosa ne pensa delle divise, quelle vere,indossate dalle donne poliziotto o dalle vi-gilesse?

«Di quelle divise penso tutto il male pos-sibile».

Perché? Non sono decorose?«No, sono nate per gli uomini e poi ria-

dattate malamente alle donne. Ma così l’al-tra metà del cielo ne esce mortificata al mas-simo».

E come le ridisegnerebbe?«Direi basta ai giacconi informi e ai pan-

taloni dalla gamba ampia. Le donne devo-no essere più femminili anche quando por-tano la divisa».

Quindi forme più accostate al corpo?«E perché no? Sono convinta che con una

bella divisa una donna possa diventare an-che più autorevole e far rispettare meglio lalegge. Provare per credere».

Le piacciono le mostrine?«Sì, ma io le farei tempestate di strass».

(l. a.)

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CALZEDONIAAnche i bikini di Calzedoniavanno in guerra e adottano

le stampe camouflagein tutte le versioni

ESERCITO ITALIANOInno in grande stile alla divisa

quello del marchio Esercitoitaliano, con un guardaroba

militare al cento per cento

GHERARDINIAnche la borsaiperclassicadi Gherardini,per una donnachic, si converteal trend militarecon tantodi mostrinee stellette

BLUMARINELe sexy soldatesse

di Blumarine,disegnate da Anna

Molinari, amanoil mimetico pop

con tutti i colori fluo

SPORTMAXRagazze in grigio-verdecon mantelle paracaduteda Sportmax. Anchegli stivaletti,come la cintura,sono un remakedegli accessori militari

SANTONILe sneakerdi Santoniabbraccianola causa militaree giocanoalla guerracon le stampemimetiche

CASTANER MIGUELSuole in corda per il mocassinodi Castaner perfettamentein linea con il trendda guerriglia estiva

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42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 28MARZO 2010

l’incontro

‘‘

Bond Girl

La solitudine fa partedella mia vitaE tra felicitàe infelicitàio interpreto megliola seconda:che è una cosache non finisci maidi scoprire

Dalla Sardegna a 007. In mezzo,la cagliaritana trentaduenne che adessointerpreta Dona Flor in teatro, è stataletterina di Gerry Scotti, modella

e cacciatrice di esperienzein giro per il mondo:«A diciotto anni sonopartita. Non fuggivoda nulla. Ma dovevoandare, avventurarmi,sperimentare»

Eppure ora sogna un ritorno sull’isola:per portare al cinema“La vedova scalza” di Niffoi

ROMA

«Io il dolore fisico lo ve-do, lo riconosco, manon m’ha mai ferito.Ne ho un’idea, ma non

una lacerazione. Il dolore mentale eemotivo, quello invece non puoi fuggir-lo. Però un antidoto ce l’ho: la mia indi-pendenza. Ho cominciato ad essere ta-gliata fuori dal mondo da zero a sei anni,cresciuta nell’isolotto di Sant’Antioco, asud-ovest della Sardegna, perché miopadre lavorava a Portovesme, vicino aCarbonia e Iglesias. Un’infanzia felice,per strada. E mia madre racconta che giàa due anni non volevo essere cullata, ri-fiutavo che qualcuno mi portasse a let-to. Ho sviluppato subito un’autonomiada ninna nanne e coccole, da ragazzinanon vedevo l’ora che scattasse il mo-mento della colonia, del campeggio,della libertà. E a diciott’anni, proprioper quella voglia di conoscere il mondoche credo d’aver ereditato da mamma,sono andata via senza pensarci due vol-te, a Milano. Non sono fuggita da nien-te: la famiglia in fondo era stata straordi-naria, l’educazione bellissima, il sole e ilmare unici, e al di là della testardagginee dell’orgoglio che sono il marchio dellasardità tengo a dire che il carattere chiu-so e schivo inculcato dalla mia terra èprezioso perché permette di capire me-glio chi abbiamo davanti. Ma io dovevoandare, avventurarmi, sperimentare, efare i conti con altri posti, altre persone,altre culture. A volte mi chiedo se tuttoquesto può avere a che fare con una na-tura lunatica. Una natura il cui rovesciodella medaglia è il mio carattere ritroso,riservato».

Nel parlare, Caterina Murino ha oc-

chi carichi d’una malinconia avida, oc-chi pieni d’una curiosità antica, impe-netrabile. E ha un corpo linearmentefermo, salvo piccoli gesti felini (peresempio, un rapporto assiduo coi lun-ghi capelli). Sorride come un’Irene Pa-pas giovane. Quando glielo faccio nota-re le brilla il volto, le sfugge che in futuronon è escluso che ci sia un film dove lei ela Papas debbano figurare assieme, evorrebbe che io non lo riferissi, ma comesi fa a tacere una cosa talmente sugge-stiva (e, a pensarci bene, giusta)?

«All’inizio le ho provate tutte. Ho ten-tato inutilmente di studiare da pediatra.Ho fatto la letterina televisiva per GerryScotti, la modella, per un po’ di tempomi sono guadagnata come potevo lagiornata a Londra pur d’avere i soldi perandare ogni sera a teatro, poi ho studia-to io stessa recitazione da Francesca DeSapio a Roma, ho debuttato in palco-scenico a Milano facendo VeraClaythorne in Dieci piccoli indiani diAgatha Christie davanti a cento, massi-mo centocinquanta spettatori (la Chri-stie l’affronterà nel 2007 anche al cine-ma, in Le grand alibi di Pascal Bonitzer,ndr), e quando nel 2000 andai a un pro-vino di Dino Risi per Le ragazze di MissItalia inaspettatamente mi prese».

Un anno dopo era con Harvey Keitele Angela Molina in Nowhere con la regiadi Luis Sepúlveda, tre anni più in là eraprotagonista in un film di Alain Berbe-rian con Jean Reno, e sei anni più tardiera una Bond girl, partner di DanielCraig in Casino Royale di Martin Camp-bell, per poi trovarsi via via accanto adattori come Colin Firth, come Jack Hu-ston. «Craig è un artista quasi irresistibi-le per cultura e humour anche se con oc-chi di ghiaccio, e pure Firth è un mostro.Ma chi mi ha colpito di più per fascino ebravura è Stéphane Freiss, uno che vie-ne dalla Comédie-Française, con cui hotrascorso tre mesi di lavoro in Grecia peril film-tv Des jours et des nuits di TierryChabert: con lui dimenticavo che c’era-no le telecamere, non recitavamo più, ciamavamo e ci scannavamo per una sto-ria di reincarnazione. Poi c’è l’attrattivache emanano i figli d’arte belli e male-detti come Jack Huston e AlessandroGassman». Viene da chiedersi chi siastato, all’incontrario, il partner attoremaggiormente sensibile a questa am-basciatrice della sardità. «A detta di tut-ti, Colin Firth manifestava un gran cam-biamento, quando avevamo scene incomune sul set».

S’esprime con cautela, quasi con di-stacco. In tanti l’hanno assediata a cac-cia di pareri, confronti e aneddoti uo-mo-donna, specialmente a propositodegli scenari internazionali del suo la-

voro. E si è invece constatato che ades-so, da noi, a teatro, nei panni del perso-naggio del titolo di Dona Flor e i suoi duemariti tratto (ad opera di EmanuelaGiordano) dal romanzo di Jorge Amado,lei coscientemente non sprigiona affat-to l’erotismo sudamericano che la fan-tasia popolare attribuirebbe a quella ve-dova insaziabile, affermando semmai,in scena, quella sua tipica femminilitàisolana, onnivora di dentro, impertur-babile per destino, per umore contem-plativo. «Lo so, io Dona Flor l’ho un po’uccisa ed è un po’ rimasta in camerino,ma proporne una faccia inquieta e qua-si ascetica è stato per me ancora più in-teressante, mi dà quasi più piacere.Troppo spesso è accaduto che registi dicinema m’abbiano scartata giudican-domi sensuale in eccesso».

Ammettendo d’aver dato un freno al-l’immaginario che la associava solo abellezza e a seduzione, mentre conver-siamo Caterina Murino emana un mistodi grazia impulsiva e di dignità remota,come incarnasse un ruolo frenato an-

che da un’aura di meditazione. «Io noncerco qualcosa che mi faccia capire chec’è spiritualità. Io trovo evidenti segni diDio in un mondo pur pieno di ingiusti-zie inspiegabili, un Dio con tanti nomidiversi in altrettante religioni. A me ca-pita d’andare a messa, ma non entro inchiesa per domandare. A Parigi, doveabito da cinque anni, ci vado per ascol-tare canti sacri, e penso alla reincarna-zione, al bene e al male che a turno ci ca-piteranno». C’è rispetto di idee, fedi erazze, in lei, con un’apertura che è ancheimpegno. «Mi do da fare per l’Amref, edè una lotta faticosissima, per ottenere avolte una goccia in mezzo al mare.Quando so d’andare in Africa chiedofondi per cisterne, ospedali e scuole. Male cose non cambieranno affatto nelbreve tempo. Una cosa resta certa: c’èuna soglia oltre la quale la sofferenza delprossimo non è più sopportabile».

Lo spirito civile di Caterina Murino,cagliaritana classe 1977, è tutt’uno colcosmopolitismo dei suoi sentimentiprivati. Finora s’è legata («mai per più ditre anni») a compagni di nazionalità li-banese, francese e italiana. Di culture emestieri più sbilanciati nelle pratichesportive: uno studente, un calciatore,un produttore, un cameraman e (attual-mente) un rugbista. «Ho un blocco ri-guardo a droghe e alcol. La mia drogaconsiste casomai nel sentire la vita deglialtri. Calandomi nei panni dei perso-naggi che mi capitano. Stordendomi aBuenos Aires fino alle cinque della mat-tina con la milonga. Innamorandomi digente che non c’entrava nulla con me.Invece ho imparato molto in questi ulti-mi anni dal rispetto umano e professio-nale, e dall’integrazione verso gli stra-nieri, che sono cose all’ordine del gior-no in Francia».

Si dice emozionabile. «Arrossisco perun complimento. Mi metto a nudo conun avvampamento che mi si stampasulle guance. L’encomio più bello dellagioventù me lo fecero quando avevoquattordici anni: “Il dieci lo do solo allaMadonna. A te do il nove”. L’omaggiopiù poetico l’ho ricevuto tra il Kenya e laTanzania dai Masai che mi diedero il no-me Nashipae, che in lingua swahili si-gnifica “portatrice di gioia”. Mi viene dapiangere ma anche da incazzarmi per ledevastazioni mostrate dai tg. Mi com-muovo per Ghost con Patrick Swayze eDemi Moore, o per L’ultimo re di Sco-zia».

Ha un conciliato rapporto con i corpiche ci sono nel suo corpo. «Sono cre-sciuta con un fisico da adulta, e più vadoavanti più ho un fisico da bambina. Na-sco brutto anatroccolo, divento MissSardegna, poi esplodo con una taglia da

pacioccona, e da un certo punto in poim’asciugo e invecchio alla rovescia».Adora dormire. «Quando feci la lunghis-sima fila per visitare le spoglie di papaWojtyla soffrii di terribili attacchi di son-no. In aereo sono una pessima compa-gna di viaggio. E m’addormento anchein macchina». Le capita d’essere ghiottafino all’inverosimile. «Ho un gran pro-blema col cibo. A volte divoro dolci ecioccolata». E in qualche frangente col-tiva avidità assai più costose. «In certeepoche non smettevo di compraregioielli. Credo molto nell’energia cheviene trasmessa da pietre, oro e metal-li». Ha un difetto che non nasconde. «Semi fanno qualcosa di brutto, non riescoa passarci sopra».

Sa di riversare la propria vita persona-le nel lavoro. «Quasi tutti gli approcci aipersonaggi li attingo dal mio Io, un’au-toidentificazione che spesso mascheropiuttosto bene». E chi è lei? «Beh, unaonesta, una sincera, una che può anchenon essere brava ma che di sicuro met-te sentimento in quello che fa, una chesotto sotto preferisce ritenersi un’attri-ce di teatro prestata al cinema. Appenafinito di stare sul set di Casino Royale, horecitato in palcoscenico a Milano, perassai meno spettatori, in Saluti daBertha di Tennessee Williams». Diceche spera di fare al cinema La vedovascalza tratta dal libro di Salvatore Niffoi,storia intensa dell’entroterra sardo.«Ma non mi dispiacerebbe affrontarlaanche in scena. Perché m’interessa in-contrare la gente. Sono stata di fronte al-la regina d’Inghilterra ma contano di piùi ragazzini africani. La retorica non c’en-tra. È che la solitudine fa parte della miavita». Interpreta meglio la felicità o l’in-felicità? «L’infelicità. Che è una cosa chenon finisci mai di scoprire».

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RODOLFO DI GIAMMARCO

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Caterina Murino

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