Dilettanti per forza, anzi per legge. (D La Repubblica)

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Q uando inizi a fare sport, da piccola, non ti chiedi se un giorno sarai così brava da trasformare la tua passio- ne in carriera e se avrai mai una pensione. Col tempo, però, capisci che essere donna e atleta implica tanti, forse troppi compromessi». Mara Invernizzi ha 32 anni ed è una giocatrice della Pilot Italia Biassono - basket, serie A2, dopo anni in A1 e anche in Nazionale - e di compro- messi ne ha dovuti fare tanti: «Clausole antimaternità, stipendio di 10 mensilità, spesso camuffato da rimborso spese, assicurazioni da integrare personalmente e fondi pensione autonomi. Molte di noi si devono far aiutare dai genitori oppure hanno un secondo lavoro, che però sottrae tempo agli allenamenti. I nostri colleghi maschi, invece, a questi livelli sono considerati professionisti per legge e godono di tutte le tutele del caso». Perché pochi lo sanno, ma in Italia nessuna delle stelle più o meno famose dello sport femminile può dirsi dav- vero professionista. Pellegrini? Schiavone? Cagnotto? Semplici dilettanti. Soltanto la Federazione pugilistica prevede un settore professionistico femminile, attual- mente composto da otto atlete. Per capirci: il dilettanti- smo «forzato» impedisce alle atlete di avvalersi della leg- ge 91/81, quella che regola i rapporti con le società sotto ogni aspetto, dall’assistenza sanitaria al trattamento pen- sionistico e dunque «le esclude dalle tutele previdenziali previste dall’Enpals per i professionisti, non riconosce lo- ro il diritto a un contratto tipo, né all’eventuale Tfr», come spiega Luisa Rizzitelli, presidente di Assist, l’associazione italiana per la tutela delle sportive. Ma le donne sono an- che assenti a livello dirigenziale: né il Coni, né le 45 Fe- derazione sportive riconosciute hanno infatti mai avuto un presidente donna. SETTEROSA E SETTEBELLO Le discriminazioni sono anche economiche: «Spesso i premi federali femminili valgono meno della metà di quelli maschili», dice Vera Carrara, 30 anni, campiones- 30 OTTOBRE 2010 D 169 DILETTANTI PER FORZA ANZI PER LEGGE NO WOMAN NO PRO Medaglie, record e vittorie non bastano. In Italia le atlete rimangono sempre in serie B di Federica Seneghini Foto di B. Finke/Gallerystock

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Medaglie, record e vittorie non bastano. In Italia le atlete rimangono sempre in serie B

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Quando inizi a fare sport, da piccola,non ti chiedi se un giorno sarai cosìbrava da trasformare la tua passio-ne in carriera e se avrai mai unapensione. Col tempo, però, capisciche essere donna e atleta implicatanti, forse troppi compromessi».Mara Invernizzi ha 32 anni ed è una

giocatrice della Pilot Italia Biassono - basket, serie A2,dopo anni in A1 e anche in Nazionale - e di compro-messi ne ha dovuti fare tanti: «Clausole antimaternità,stipendio di 10 mensilità, spesso camuffato da rimborsospese, assicurazioni da integrare personalmente e fondipensione autonomi. Molte di noi si devono far aiutaredai genitori oppure hanno un secondo lavoro, che peròsottrae tempo agli allenamenti. I nostri colleghi maschi,invece, a questi livelli sono considerati professionisti perlegge e godono di tutte le tutele del caso». Perché pochi lo sanno, ma in Italia nessuna delle stellepiù o meno famose dello sport femminile può dirsi dav-vero professionista. Pellegrini? Schiavone? Cagnotto?Semplici dilettanti. Soltanto la Federazione pugilisticaprevede un settore professionistico femminile, attual-mente composto da otto atlete. Per capirci: il dilettanti-smo «forzato» impedisce alle atlete di avvalersi della leg-ge 91/81, quella che regola i rapporti con le società sottoogni aspetto, dall’assistenza sanitaria al trattamento pen-

sionistico e dunque «le esclude dalle tutele previdenzialipreviste dall’Enpals per i professionisti, non riconosce lo-ro il diritto a un contratto tipo, né all’eventuale Tfr», comespiega Luisa Rizzitelli, presidente di Assist, l’associazioneitaliana per la tutela delle sportive. Ma le donne sono an-che assenti a livello dirigenziale: né il Coni, né le 45 Fe-derazione sportive riconosciute hanno infatti mai avutoun presidente donna.

SETTEROSA E SETTEBELLOLe discriminazioni sono anche economiche: «Spesso ipremi federali femminili valgono meno della metà diquelli maschili», dice Vera Carrara, 30 anni, campiones-

30 OTTOBRE 2010 D 169

DILETTANTI PER FORZA

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NO WOMAN NO PRO

Medaglie, record e vittorie non bastano.

In Italia le atlete rimangono

sempre in serie Bdi Federica Seneghini

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sa di ciclismo su pista (specialità «corsa a punti») e vin-citrice di sette medaglie. «L’oro dei Mondiali, per esem-pio, valeva 20mila euro, contro gli 80mila della gara ma-schile». Ma anche in altre discipline il divario è imbaraz-zante. «Nonostante i divieti della Federazione atleticaleggera», spiega ancora Rizzitelli, «alcune gare podisti-che continuano a prevedere, a parità di regole e chilome-tri percorsi, premi maschili superiori rispetto a quelli fem-minili». Come la Maratona di Padova, che nel 2009 grati-ficava il primo classificato con 6mila euro, e soltanto2mila per la vincitrice. Si registrano disparità di tratta-mento, a livello nazionale, anche quando le prestazionidelle donne sono migliori di quelle dei loro colleghi. Co-me nel 2001 ai Mondiali di Fukuoka, quando il Settero-sa, Nazionale femminile di pallanuoto, conquistò l’oroper la seconda volta di fila: il premio previsto dalla Feder-nuoto (Fin) era di 26 milioni, contro i 40 che sarebberoandati agli uomini in caso di vittoria. Ma già l’anno prece-dente la Fin aveva abolito il «gettone» di qualifica-zione femminile (nonostante la Nazionale fossecampione del mondo e d’Europa in carica) perl’Olimpiade di Sydney, mantenendo invece quellomaschile. D’altronde, i pochi studi fatti sul tema parlano chia-ro: secondo un’indagine nazionale del 2007 (Losport femminile tra promozione e diritti, Publica-ReS), il 45% delle sportive ritiene di essere trattata

in modo «non uguale» agli uomini, il 21% denuncia epi-sodi di discriminazione. E soltanto il 29% viene retribuitaper svolgere l’attività sportiva agonistica. Di queste, solo il14% ha una retribuzione fissa.

NON RESTA CHE LA DIVISABasta parlare con le atlete per rendersene conto: «Quan-do giocavo in A2, un anno su dieci mensilità ne ho presesolo quattro», racconta la pallavolista Marta Confalonieri,25 anni, oggi in B1:«Tra allenamenti quotidiani e partitenei weekend resta poco tempo per lavorare, ma molte tranoi lo devono comunque fare». Anche Vera Carrara nesa qualcosa: «Fino ai 24 anni mi allenavo e facevo garenon sapendo se a fine anno sarei stata pagata: ma nonavevo le spalle coperte, e quando ho avuto un incidentemi è toccato pagare di tasca mia le spese». Poi, la sceltadi arruolarsi nelle Fiamme Gialle. «Mi ha garantito unacerta sicurezza, potevo dedicare tutto il mio tempo allo

sport». Perché i gruppi sportivi delleForze Armate, dei Corpi di Polizia edei Vigili del Fuoco, sono ammini-strazioni pubbliche autorizzate all’as-sunzione diretta di atleti di interessenazionale (legge 78/2000). Il risultatoè che a oggi circa il 75% delle meda-glie italiane vengono vinte da atletiche fanno parte dei gruppi militari:due anni fa, a Pechino, 34 su 43. Grazie all’arruolamento, le donne go-dono delle necessarie tutele, a co-minciare dal diritto alla maternità:«Nelle serie minori si sottoscrivonoancora scritture private con clausoleantimaternità, io stessa per 15 anniho firmato contratti del genere», spie-ga Rizzitelli, ex pallavolista. «Ma nelpercorso verso la parità ci sono an-che esempi virtuosi, come la scher-ma, dove a fronte della mancanzagiuridica di regole moderne sono statifatti i giusti passi». Altre volte, invece, è meglio far fintadi niente. Come nel caso di JosefaIdem - canoista da cinque medaglieolimpiche e altrettanti titoli mondiali -che ha ammesso di aver nascosto lasua gravidanza durante i Mondiali.«Non ho osato sperimentare su mestessa l’assenza di regole: ho dispu-tato il mio mondiale incinta, perchéin Italia non ci sono leggi che tutela-no quello che di fatto per molte di noiè un lavoro a tutti gli effetti».

UNA QUESTIONE DI SHARE?Un passo avanti è stato fatto nel2007, quando il Coni ha varato l’arti-colo 29 dei principi fondamentali de-gli statuti delle Federazioni, sulla «tu-tela sportiva delle atlete in materni-

30 OTTOBRE 2010

«Il mio oro ai Mondiali valeva 20mila euro. Quello

maschile, 80mila»

Si chiama ASSIST ed è l’associazione

nata (nel 2000, con il sostegno di sei

“nazionali” tra cuiManuela Benelli

e Carolina Morace) per tutelare i diritti

delle atlete italiane. (tel 06.97601017).

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tà». In pratica, chiede di garantire la po-sizione sportiva delle atlete per tutto ilperiodo della gravidanza e fino al rientroall’attività, mantenendo loro il posto insquadra e facendo congelare i meriti ac-quisti. «Ma bisogna fare di più e in unquadro più ampio», dice ancora Rizzitel-li. «Atleti e atlete che praticano lo sportcome attività prevalente debbono avereuna legge che riconosca il loro lavoro». La pensa diversamente Manuela Di Cen-ta, 47 anni, ex campionessa dello sci difondo, oggi deputato del Pdl: «Sarebbeprioritario pensare alla tutela previdenziale a prescinderedall’inquadramento tra i professionisti o i dilettanti. Stia-mo cercando di arrivare a un emendamento di legge chetuteli le donne sotto questo aspetto». Uno dei motivi chefa percepire lo sport femminile come minore è comun-que la mancanza di visibilità. «Le notizie che riguardanole attività sportive delle donne rappresentano l’11% deltotale», spiega Valeria Ottonelli, del Dipartimento di filo-sofia dell’Università di Genova, che ha coordinato la par-te italiana dello studio Sports, Media and Stereotypes,promosso dal Centre for Gender Equality islandese. «Tol-te le notizie sui pochi eroi femminili e gli stereotipi di ge-nere, rimane davvero poco». Eppure, se il pubblico neha la possibilità lo sport femminile lo segue eccome. Unesempio? Le partite del World Grand Prix della Nazionaledi pallavolo femminile, che in estate sono state trasmes-se in chiaro su La7: in un pomeriggio torrido di metàagosto Italia-Brasile ha totalizzato 1,8 milioni di contatti,con picco del 6,22% di share. Spesso, invece, l’assenzadi visibilità mediatica ha ripercussioni nel già scarso inte-resse degli sponsor, anche verso squadre vincenti aimassimi livelli. Per salvarsi si arriva a fare di tutto. Come le atlete olan-desi che, nel 2003, posarono nude per finanziarsi la par-

tecipazione alle Olimpiadi; o come le Matildas, la Nazio-nale australiana di calcio, che con un calendario pagaro-no la propria spedizione al Mondiale. Lo stesso hannofatto le atlete del Palermo Volley, serie A1, per salvare lapropria società che rischiava di chiudere a causa delpassivo finanziario.

TRA SPONSOR E PREGIUDIZIPerché senza sponsor non si va lontano e, «come acca-de sempre, anche nello sport in tempo di crisi le prime apagare sono le donne», dice Marcella Valentini, assesso-re alle Pari opportunità della Provincia di Modena. Nel 2009 le squadre femminili del Basket Cavezzo e delSassuolo Volley hanno dovuto rinunciare al campionatodi A1 per mancanza di fondi. «Tra costi in aumento escarsa visibilità era davvero impossibile continuare», de-nuncia Enrico Corsini, presidente del Cavezzo. «La Rai pretendeva perfino di essere pagata dalle societàper venire a filmare le partite, che poi però trasmetteva atarda notte sul canale satellitare. Il servizio pubblico nonci aiuta».Molti pensano che questi sport non abbiano «sufficiente

traino di pubblico». Veroo falso? «In realtà questesono squadre legate alterritorio, cresciute gra-zie a un vivaio seguitocon cura che ha unafunzione sociale di ag-gregazione ed educazio-ne importante», aggiun-ge Valentini. «La parteci-pazione al campionatodi A1 avrebbe potuto di-ventare un investimentoper le realtà locali, an-

che in termini promozionali e di ritorno di immagine». Insomma, se lo sport è donna, tutto cambia. «E stride con la platealità di queste differenze, la consue-tudine di leggere le difficoltà delle sportive in chiave indi-viduale, familiare, più connessa a dinamiche psicologi-che che all’azione di meccanismi sociali», si legge in unaricerca del CIRSDe dell’Università di Torino, il Centro in-terdisciplinare di ricerche e studi delle donne. Perché poiil luogo comune, anzi il pregiudizio secondo il quale ledonne nello sport restano lontane dalle posizioni di verti-ce, dall’agonismo ai massimi livelli e dalle responsabilità,«per proprie inclinazioni naturali, che le orientano versoruoli in cui riescono meglio» in campo, in pista oppure inpiscina, non ha davvero riscontro. Anche se le pari op-portunità rimangono lontane.

1933: calci, sottane e fasci littori

Il primo club femminile di calcio nasce in pieno

fascismo, nel 1933, a Milano: le ragazze giocavano

indossando delle sottane. Soli otto mesi dopo

il Coni vieta le esibizioni pubbliche di calcio

femminile ritenendo che sia opportuno che

«in Italia non si faciliti, almeno per ora, la istituzione

di una speciale Federazione sportiva femminile.

Non si desidera fomentare una tendenza

il cui sviluppo va anzi severamente arginato»

(da Il Littoriale, 22/11/1933).

Per le donne, gli sport permessi e «utili alla

integrazione morale e fisica delle migliori qualità

muliebri» sono «il fioretto per la scherma,

il pattinaggio artistico, la ginnastica collettiva,

alcune prove di nuoto e il tennis». Nemmeno

a parlare, insomma, di «professionismo» oppure

di «obbligatorietà». Ma settant’anni dopo,

per le atlete in Italia non è cambiato molto.

«Stipendi ridotti e camuffati darimborsi, clausoleantimaternità e niente Enpals»

«Almeno tu fossi diventatoricco e famoso».

«Invece... Povero e ignoto».«Scemo...».

«Nemmeno... Normale, che è peggio». (“La prima cosa bella”, 2010)