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LADOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 2 MARZO 2014 NUMERO 469 CULT La copertina FABIO GAMBARO e STEFANO RODOTÀ Attacco all’umanesimo Così rischia lo spirito critico Il libro SUSANNA NIRENSTEIN Quel pittore fallito che dipinge la morte All’interno Straparlando ANTONIO GNOLI Lea Vergine “Ecco perché non capisco più l’arte di oggi” L’opera GUIDO BARBIERI Muti con Puccini toglie a “Manon” la polvere dell’Ottocento La serie WALTER SITI La Poesia del mondo L’eros infinito di Kavafis DISEGNO DI MASSIMO JATOSTI CONCITA DE GREGORIO S e quando aprite il frigo e dentro c’è un pollo ma voi vedete — sempre — un «cadavere di pollo» allora siete cresciuti con Mafalda. Se avete almeno un mappamondo in casa, perché quando ne vedete uno sul tavolo del rigattiere non potete fare a meno di pensare «come va, come te la passi?» e vi coglie un istinto irresistibile di portarvelo a casa per proteggerlo — per proteggere il mondo dal mondo — allora l’avete dimenti- cata, forse, ma lei non ha dimenticato voi. Se quando vi mettete in faccia una crema di bel- lezza, poi vi guardate allo specchio e vi trova- te uguale, e allora guardate la crema, leggete l’etichetta, e mentalmente le dite «Beh, è tut- to qui quel che sei capace di fare?» è perché Mafalda vive, imperterrita. Si è installata fra l’ipotalamo e il diaframma, si è nascosta da qualche parte là dentro, e vi parla. Scrivere di Mafalda oggi che compie cin- quant’anni, dire che cosa ha significato come ha cambiato il nostro sguardo sulle cose e per- ché non ha smesso mai di farlo, raccontare in definitiva che cosa si pensa di lei è un’impre- sa disperata della quale bisogna chiedere scusa in anticipo. Chiedere l’indulgenza di Quino che laggiù da qualche parte ci ascolta e farlo sottovoce, come un esercizio di autoanalisi privato. Co- me un’oretta di ginnastica la dome- nica mattina, che male non può fare, al massimo non cambierà nulla. Per una volta. È obbligatorio, comunque, per non procurarsi uno strappo, parti- re dall’assioma principale enunciato un giorno con scintillante chiarezza da Julio Cortazar, scrittore geniale e mafaldiano fin dal primo volo, carta d’imbarco nu- mero 01. «Non ha importanza ciò che io penso di Mafalda: Veramente importan- te è ciò che Mafalda pensa di me». Questo è: che cosa penserà Mafalda di noi? Della chirurgia estetica e della guerra in Iraq, di Bin Laden e della Merkel, della guerra del talent in tv e degli uomini della provvi- denza che arrivano a salvarci dalla rovina, dei test Invalsi a scuola e delle baby escort, di Obama, di Hollande e Julie, dei lavori infiniti nella metro, del “mi manda un amico comu- ne”, della raccolta differenziata che finisce in un camion indifferenziato, della Grande Bel- lezza di Sorrentino e di Gomorra, del cinismo e della rabbia, dei ragazzi 2.0 che “sono tor- nato su Facebook perché fuori non c’era nes- suno” cosa pensa Mafalda? Aiutaci, ragazzi- na. Torna con noi. Parlaci. (segue nelle pagine successive CON GLI AUGURI DI MASSIMO BUCCHI e ELLEKAPPA) Mafalda Quando nacque in Argentina dalla matita di Quino, per una ditta di elettrodomestici, aveva già sette anni, le caviglie grosse e un cespuglio di capelli neri sulla testa Ora che di anni ne compie cinquanta a chi le fa gli auguri risponde, impertinente, così... 50

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LA DOMENICADIREPUBBLICA DOMENICA 2 MARZO 2014

NUMERO 469

CULT

La copertina

FABIO GAMBAROe STEFANO RODOTÀ

Attaccoall’umanesimoCosì rischialo spirito critico

Il libro

SUSANNA NIRENSTEIN

Quel pittorefallitoche dipingela morte

All’interno

Straparlando

ANTONIO GNOLI

Lea Vergine“Ecco perchénon capisco piùl’arte di oggi”

L’opera

GUIDO BARBIERI

Muti con Puccinitoglie a “Manon”la polveredell’Ottocento

La serie

WALTER SITI

La Poesiadel mondoL’eros infinitodi Kavafis

DIS

EG

NO

DI M

AS

SIM

O J

ATO

STI

CONCITA DE GREGORIO

Se quandoaprite il frigo e dentro c’èun pollo ma voi vedete — sempre— un «cadavere di pollo» allorasiete cresciuti con Mafalda. Seavete almeno un mappamondo incasa, perché quando ne vedete

uno sul tavolo del rigattiere non potete fare ameno di pensare «come va, come te la passi?»e vi coglie un istinto irresistibile di portarveloa casa per proteggerlo — per proteggere ilmondo dal mondo — allora l’avete dimenti-cata, forse, ma lei non ha dimenticato voi. Sequando vi mettete in faccia una crema di bel-lezza, poi vi guardate allo specchio e vi trova-te uguale, e allora guardate la crema, leggetel’etichetta, e mentalmente le dite «Beh, è tut-to qui quel che sei capace di fare?» è perchéMafalda vive, imperterrita. Si è installata fral’ipotalamo e il diaframma, si è nascosta daqualche parte là dentro, e vi parla.

Scrivere di Mafalda oggi che compie cin-quant’anni, dire che cosa ha significato comeha cambiato il nostro sguardo sulle cose e per-ché non ha smesso mai di farlo, raccontare indefinitiva che cosa si pensa di lei è un’impre-sa disperata della quale bisogna chiederescusa in anticipo. Chiedere l’indulgenza diQuino che laggiù da qualche parte ciascolta e farlo sottovoce, come unesercizio di autoanalisi privato. Co-me un’oretta di ginnastica la dome-nica mattina, che male non può fare,al massimo non cambierà nulla. Peruna volta. È obbligatorio, comunque,per non procurarsi uno strappo, parti-re dall’assioma principale enunciato ungiorno con scintillante chiarezza da JulioCortazar, scrittore geniale e mafaldianofin dal primo volo, carta d’imbarco nu-mero 01. «Non ha importanza ciò che iopenso di Mafalda: Veramente importan-te è ciò che Mafalda pensa di me».

Questo è: che cosa penserà Mafalda dinoi? Della chirurgia estetica e della guerra inIraq, di Bin Laden e della Merkel, della guerradel talent in tv e degli uomini della provvi-denza che arrivano a salvarci dalla rovina, deitest Invalsi a scuola e delle baby escort, diObama, di Hollande e Julie, dei lavori infinitinella metro, del “mi manda un amico comu-ne”, della raccolta differenziata che finisce inun camion indifferenziato, della Grande Bel-lezza di Sorrentino e di Gomorra, del cinismoe della rabbia, dei ragazzi 2.0 che “sono tor-nato su Facebook perché fuori non c’era nes-suno” cosa pensa Mafalda? Aiutaci, ragazzi-na. Torna con noi. Parlaci.

(segue nelle pagine successive CON GLI AUGURI

DI MASSIMO BUCCHI e ELLEKAPPA)

MafaldaQuando nacque in Argentina dalla matita di Quino,per una ditta di elettrodomestici, aveva già sette anni,le caviglie grosse e un cespuglio di capelli neri sulla testaOra che di anni ne compie cinquantaa chi le fa gli auguri risponde, impertinente, così...

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LA DOMENICA■ 30DOMENICA 2 MARZO 2014

la Repubblica

La copertina

Piccola, nera, cattiva, arrabbiata e rivoluzionariaCinquant’anni fa nasceva la bambinache avrebbe cambiato per sempreil nostro modo di guardare il mondoE di cui oggi abbiamo tanto bisogno

(segue dalla copertina)

Cinquant’anni.C’è una strisciain cui lei deverispondere alladomanda di uncompito, a

scuola. «Se una persona na-sce oggi quanti anni avrà framezzo secolo?». Risposta:cinquanta. Commento:«Questo fatto che una chenasce dopo di te sia così vec-chia è davvero deprimente».

Però Quino una volta hadetto: «Non sarebbe mai di-

ventata grande, probabilmen-te. Sarebbe stata una desapare-

cida». Alla fine degli anni Settan-ta l’avrebbero portata via i milita-

ri e sarebbe scomparsa in mare co-me tutti i ragazzi che sognavano, al-

lora, un mondo più libero e più giusto.L’avrebbero soppressa, e infatti il suoautore l’ha fatta sparire prima. L’hamessa in salvo per sempre. Perché Ma-falda, per chi non lo sapesse, è argenti-na. Di origini andaluse, Spagna, italia-na di adozione, ma argentina. ComeBorges e Maradona, come il tango e ilmalcontento. Una bambina del TerzoMondo, e noi qui dal Primo tutti a im-parare da lei.

Daccapo, dunque. Partiamo da Qui-no suo padre che nasce al principio de-gli anni Trenta a Mendoza, provinciaestrema non sempre rintracciabile sulmappamondo, «sugli assegni metteràJoaquin Lavado», il suo vero nome. Qui-no-Joaquin è un bambino timido e ma-linconico, eternamente incerto, segna-to dal lutto. È un piccolo orfano, e qui dinuovo siamo chiamati a riflettere suquanti geni del Novecento siano statiorfani, quanto l’assenza dei genitori ab-bia contribuito al progresso dell’uma-nità nel ventesimo secolo. Meditate,gente. Quino perde la madre a tredicianni e il padre a sedici, nel frattempo lanonna. Vive in una casa le cui porte so-no continuamente parate a lutto, il na-stro nero al braccio, il profumo dolce difiori bianchi della veglia. Non avrà figli,come Evita Peròn che diceva «vorrei unpaese in cui i privilegiati fossero i bam-bini»: l’unico bambino di cui disponecome modello a cui ispirarsi è se stessoda piccolo.

Mafalda nasce per errore, su com-missione: un lavoretto precario, uno

1964-2014

Sono

La prima. 29 settembre 1964

In ogni suo libro, da anni, Quinoci sta dimostrando che i bambinisono i depositari della saggezzaQuello che è triste per il mondoè che man mano che cresconoperdono l’uso della ragione,a scuola dimenticanociò che sapevano alla nascita,si sposano senza amore, lavoranoper denaro, si puliscono i denti,si tagliano le unghiee alla fine,diventati adultimiserevoli, non affoganoin un bicchiere d’acquama in un piattodi minestra. Verificarequesto in ognisuo libro è la cosa che assomigliadi più alla felicità:la Quinoterapia.

GABRIELGARCÍAMÁRQUEZ

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CONCITA DE GREGORIO

le copiedi Mafalda vendutein tutto il mondo

50 milionii Paesi in cui sonostate pubblicatele sue strisce

50le lingue in cuile storie di Mafaldasono state tradotte

30gli anni in cui Quinol’ha disegnata:dal 1964 al 1973

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■ 31DOMENICA 2 MARZO 2014

la Repubblica

dei primi del ragazzo silenzioso e oc-chialuto emigrato dalla provincia a Bue-nos Aires. Una rivista gli chiede di dise-gnare il fumetto di una famiglia mediache faccia pubblicità occulta a una dittadi elettrodomestici, la Mansfield. Laprotagonista dovrà avere il nome cheinizia per emme.

La pubblicità non si farà mai, le striscedi Mafalda restano in un cassetto. Annidopo un amico, Julian Delgado, gli pro-pone di pubblicare sulla sua rivista —Primera Plana — la storia della bambi-na che dice «chi è quel cretino che ha in-ventato la minestra». È il 1964. Cin-quant’anni fa. Delgado sparirà nel ’78,sequestrato e ucciso dai militari che tor-turavano ed eliminavano la gioventù ar-gentina coperti dal rumore degli ap-plausi per il Mondiale di calcio. È cosìche nasce Mafalda.

Ancora uno sforzo di memoria, per fa-vore. Ancora un momento di concen-trazione per tornare a quegli anni. Nel1964 Barbie, la bambola Usa modello di

bellezza, adotta le ciglia finte e ingrandi-sce gli occhi, snellisce il punto vita. Gliamericani sbarcano in Vietnam. Barbieè bionda snella e buona. Mafalda è pic-cola nera e cattiva. Ha le caviglie grosse.I capelli ispidi e la bocca a ciabatta. È unabambina di sette anni che dice a sua ma-dre, capelli cotonati e gonna al ginoc-chio, quando la vede cucire con deglispilli in bocca: «È la prima volta che ve-do uscire dalla tua bocca qualcosa diacuto». Che dice a suo padre: «Il proble-ma della famiglia, qui fra gli umani, è chetutti vogliono essere il padre». Ama iBeatles, il bowling, il segretario genera-le dell’Onu che si impegna inutilmenteper la pace, vorrebbe tanto avere una tvche i genitori non comprano ma nonperché pensano che sia il demonio: per-ché non hanno abbastanza soldi. Men-tre Charlie Brown, in America, mandauna nazione intera in analisi Mafaldapunta a fare la rivoluzione, «i cespuglisono indispensabili alla guerriglia», loinsegna El Che. García Márquez la ama

subito, perché è una bambina che parlacome un’adulta, e questo anche i Pea-nuts, ma a differenza dei Peanuts è in-cazzatissima e vuole fare la rivoluzione.È una bambina impertinente e precoceche racconta il lato segreto della condi-zione umana, quello che era lì sotto gliocchi di tutti. Bastava che qualcuno loraccontasse, come Macondo.

Per l’Argentina di quegli anni, dice ilgrande Tomás Eloy Martínez, leggereQuino era come una “messa a terra”dell’impianto elettrico. Allude allarealtà ma di sbieco. Parla della strage diEzeiza dicendo alla madre, a propositodella gallina che ha appena cucinato,«le tue mani sono lorde di sangue inno-cente». Con la vita quotidiana i perso-naggi possono essere più espliciti checon la politica. D’altra parte, raccontaQuino, sua nonna quando da bambinoascoltava Sinatra gli diceva «non di-menticare che al mondo esistono Fran-co, Salazar, i colonnelli greci, Pino-chet». Mafalda parla di politica senza

nominarla, racconta la corsa agli arma-menti, il sogno piccolo borghese delbenessere, le utopie hippy e la guerra inVietnam e Peròn attraverso le passionie le felicità segrete della vita quotidia-na. Il motivo per cui negli anni la suaforza è rimasta intatta è che le notiziesono cambiate (non c’è più il Vietnam,non c’è lo sbarco sulla Luna) ma il mo-do della ragazzina di reagire all’insen-satezza è lo stesso. Vale per le guerre dioggi, per il mondo adesso: «Non farònomi per non commettere l’ingiustiziadi una dimenticanza, ma ci sono in gi-ro tanti imbecilli che non ti dico».

Mafalda è un’utopista e una protofemminista (i Beatles, i diritti delle don-ne, la pace, la rivoluzione che porta lagiustizia e che sgomina i corrotti e i po-tenti di ogni luogo) ma anche i suoiamici lo sono. L’avidità di Manolito èl’utopia capitalista. Il desiderio di ma-ternità di Susanita è l’ideale della fami-glia secondo una certa idea di natura,inesistente nella realtà. I piccoli rap-

presentano in chiave di commedia ciòche ai grandi accade in tragedia, e infi-ne ai grandi non accade mai di farequello che insegnano ai piccoli. Comedice García Márquez: «Si puliscono identi, si tagliano le unghie e diventanoadulti miserevoli».

Quino, l’orfano timido nato nel luo-go dove i ristoranti si affacciano sui ci-miteri, non ha mai capito fino in fondoil segreto del successo di Mafalda, l’haabbandonata esausto dopo dieci annisoli, nel 1973, più di quarant’anni fa. Fa-ceva una fatica immensa a farle dire unacosa al giorno: ci metteva tutti i suoigiorni, la sua vita intera. Da allora Ma-falda è stata celebrata e premiata nelmondo intero, l’Italia è stato il paese incui è stata tradotta per prima — ne han-no scritto Umberto Eco, Oreste DelBuono — e ancora adesso i bambini leg-gono le storie del piccolo Guillermo, ilfratellino col ciuccio, in italiano pur-troppo Nando, e chiedono «ma chi èquesta Brigitte Bardot di cui è innamo-rato?». Quino non sa rispondere. Con-serva la genuina modestia, l’insicurez-za, l’aria di sbalordimento di certi ar-gentini di periferia: scettici, malcon-tenti, litigiosi e discordi ma in fondo vi-sionari e saggi come i veri sapienti. C’èuna striscia di Mafalda in cui Felipe tra-vestito da chirurgo le chiede di aprire lasua bambola col bisturi per vedere dicosa sia piena. Di stoppa? Di trucioli? Digommapiuma? Lei risponde: no, io giàlo so di cosa è piena. Di inibizioni. Ce n’èun’altra, in spiaggia, in cui lei dice: «Lagente è esagerata e allarmista. “Il paeseè sull’orlo di questo e di quello!”. Poi in-vece il paese è tutto qui, sull’orlo del-l’acqua». Infine: alla maestra che lechiede un compito, esigente, la bambi-na risponde «Lei signorina deve essereuna donna molto sola».

Ha detto Antonio Gades, coreografo,una volta: Mafalda è la sola donna chemi diverta senza chiedermi niente incambio. Sporco maschilista, avrebberisposto lei con altre più illuminate pa-role. Però è così. Siamo qui, sull’orlodell’acqua, molto soli, pieni di inibizio-ni. Circondati da squali travestiti da be-nefattori. Pieni di tutto quello che man-ca. Disposti ancora a crederci, in fondodisperati. Resta con noi, ragazzina. Icinquant’anni sono l’età più bella dellavita. E se non sei scomparsa nel mareuccisa dai militari, torna. E se noi puoitornare, parlaci come parlano i mortinel soffio. Dicci cosa pensi di noi, spie-gaci come dobbiamo fare.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

BUON COMPELANNOAttraverso Repubblica gli auguri a Mafaldada parte di Ellekappa e Massimo Bucchi

SUSANITAMAFALDANANDOMIGUELITOMAMMA PAPÀFELIPEMANOLITO

una splendida cinquantenne

L’ultima. 25 giugno 1973

FESTEGGIAMENTIPer celebrare i 50 anni di Mafalda, Magazzini Salani ha allestito una mostra itinerante

che toccherà Milano (dall’8 marzo allo Spazio Wow), Napoli (dal 13 marzo al Castel dell’Ovo),Bologna (Fiera del libro per ragazzi), Torino (Salone del libro) e Mantova (Festivaletteratura)

Al Festival del fumetto di Angoulême, in Francia, fino al 10 marzosarà aperta la mostra “Mafalda, una bambina di 50 anni” che poi si trasferirà a Grenoble

Le strisce di queste pagine sono tratte da Tutto Mafalda (Salani, 600 pagine, 35 euro)

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LA DOMENICA■ 32DOMENICA 2 MARZO 2014

la Repubblica

Il reportageLe vie del Signore

Appena nominato arcivescovo di Buenos Aires ordinòa una ventina di giovani preti di vivere con i più poveriE lui stesso continuò a frequentare quelle baraccopolifino al giorno in cui fu proclamato ponteficeA un anno dal conclave siamo andatia trovare i suoi “padrecitos”

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A Villa Miseriadove abitano

gli amici del Papa

BergoglioFrancesco

Quindici anni fa l’arcivescovo di Buenos Ai-res, Jorge Mario Bergoglio, destinò a questagente una ventina di sacerdoti, tutti con me-no di quarant’anni, i migliori fra i preti delladiocesi. Il modello a cui guardare, ovvero ilprimo cura villeros, fu Carlos Mujica, sacer-dote vicino alla sinistra peronista, assassina-to l’11 maggio 1974 davanti alla chiesa di SanFrancisco Solano, nel quartiere operaio diMataderos. «Quelli che militavano in forma-zioni politiche lo consideravano un leader po-litico. Ma per la gente della villaera semplice-mente el padrecito», ha raccontato GuillermoTorre, suo successore alla chiesa di CristoObrero, a villa Retiro. Bergoglio non giudicòmai la vicinanza di Mujica alla sinistra pero-nista. Capì dal sacerdote assassinato quantofosse importante che i poveri delle villas aves-sero dei sacerdoti che vivessero assieme a lo-ro. Per un certo periodo una parte del cleroprovò a riproporre il modello dei “preti ope-rai”. Ma la loro azione non veniva compresadalla gente. Mujica capì che coi poveri non oc-correva tanto lavorare, quanto stare, viverciassieme, condividere tutto, senza seguireparticolari strategie di riscatto sociale. «È que-sta l’unica legge che Bergoglio vuole dai noipreti delle villas— dice padre Carrara — staree ricevere la vita di tutti i giorni, come viene. Ipoveri chiedono condivisione, non progetti.Io vivo con loro e imparo da loro. Se un pove-ro ha bisogno di andare in ospedale, io lo ac-compagno. Sto con lui tutto il giorno, in fila, adattendere. Non faccio altro».

Stare e imparare. L’opposto di una Chiesache, dall’alto, magari senza sporcarsi le mani,propone soluzioni. Racconta ancora padreCarrara: «Bergoglio parlava sempre della ne-cessità di stare dietro al gregge, non davanti.Ho capito cosa significa questa cosa quandoqualche mese fa mi hanno chiamato in unabaracca perché a una coppia di villeros eraappena morto il figlio di cinque anni. Mentreandavo ero preoccupato. Pensavo “e adessoche cosa dico loro?”. Arrivato nella baraccaho capito che non sono io a dover dire, a do-ver insegnare. Sono loro, i poveri, che inse-gnano a me. Il bimbo era adagiato su un pic-colo tavolo. I genitori l’avevano vestito dibianco e gli avevano attaccato alle bracciadue ali di cartone. Mi hanno detto: “Adessonostro figlio è un angelo. Vive in cielo”. Nelladisperazione più grande mi hanno insegnatocosa significa avere fede».

Poteva essere in un calda sera d’estate, oanche la mattina presto, quando le pioggetorrenziali di Baires trasformano le villas inpaludi. Bergoglio arrivava senza avvisare. Dasolo, a piedi. Non aveva paura. Prima di rag-giungere il cuore delle baraccopoli, la parroc-chia con i suoi preti, impiegava diverso tem-po. Si fermava a chiacchierare, entrava nellebaracche. A volte, dice padre Carrara, accet-tava anche di recitare una messa direttamen-te in una casupola di fortuna. Un agosto diqualche anno fa tenne un’omelia indimenti-cata. Era la festa di san Cayetano, protettoredi operai e disperati: «Vi faccio una domanda:la Chiesa è un posto aperto solo per i buoni?C’è posto per i cattivi, anche? Sì. Qui si cacciavia qualcuno perché è cattivo? No, al contra-rio, lo si accoglie con più affetto».

giusto un anno fa, Ber-goglio aveva iniziato a re-

galare anche i volumi a cuiera più affezionato. «Si stava di-

sfacendo delle sue cose — raccontaancora Walls —: da un anno e mezzo aveva

dato le dimissioni da arcivescovo e aspettavail nome del successore. Voleva ritirarsi nellacasa sacerdotale di Buenos Aires. Quandopartì per Roma provai a dirgli: “Chissà se ci ri-vedremo”. Mi rispose: “Federico, ci rivedia-mo presto”. Non pensava alla possibilità di es-sere eletto. Pensava di tornare fra la sua gentee di andare in pensione».

Intorno alla città ci sono diverse villas mise-rias, abitate da almeno trecentomila persone.Condizioni di vita difficilissime. La maggiorparte vengono dal Paraguay, Bolivia, Perù.«Gente povera: viene, si installa su un terreno,costruisce una baracca», spiega padre Carra-ra. «L’assenza dello Stato che non fornisce nul-la, né case, né luce, né gas, ha favorito il crear-si di un’organizzazione parallela. Certo, c’èanche violenza. Ci sono armi e droga. Ma c’èanche tanta luce. La luce dei poveri».

lometro da un tugurio di una villa miseria. Setu entri nell’ambito della solidarietà dellaCaritas i tuoi abiti devono cambiare. Nonpuoi permetterti lussi che prima della tuaconversione ti concedevi».

Quando nel1998 Bergogliodivenne arci-vescovo diBuenos Aires de-cise di abitare inuna piccola stan-za di tre metri perdue in cima al pa-lazzo della curia. «È daquesta piccola stanza, unletto, un armadio per i vestiti e una scrivania,che guidava la diocesi», racconta FedericoWalls, suo portavoce in diocesi. «Per annil’appartamento arcivescovile più grande è ri-masto vuoto. Si ricordava della sua esistenzasoltanto quando gli regalavano dei libri. Rin-graziava, e li mandava lì».

Già, i libri. Prima di partire alla volta del con-clave che lo avrebbe eletto “vescovo di Roma”,

BUOENOS AIRES

«Una fredda mattina d’in-verno, saranno stati treanni fa. Fuori dalla ba-racca il mio cane si mise

ad abbaiare. Non si comportava quasi mai co-sì. L’ultima volta era stato circa tre mesi prima,quando un turista si era addentrato nella villa,si era perso, e il cane, non abituato a vederesconosciuti, lo stava per azzannare. Anchequesta volta gli urlai di smetterla, ma in tutta ri-sposta abbaiò più forte. Così dovetti uscire e ri-masi di stucco. A pochi passi c’era uno scono-sciuto. Non era un turista. Era un uomo vesti-to da prete. Camminava da solo fra pozzan-ghere e fango. Appena si accorse di me, sorri-se. E mi chiese: “Vado bene per Nuestra Seño-ra de Caacupé, la parrocchia di padre CharlieOlivera?”. Gli risposi di sì. Mi sembrava di aver-lo già visto da qualche parte, ma non ricorda-vo dove. Fu lui ad avvicinarsi e a presentarsi:“Grazie, sono padre Jorge”, mi disse».

Ramon Antonio Garcia è uno dei tanti invi-sibili di Buenos Aires. Sopravvive guidandoun remis, una scalcinata auto che all’occor-renza diventa taxi privato. Va a prendere queipochi avventurieri che desiderano farsi un gi-ro nel cuore delle baraccopoli intorno allacittà, non solo la sua, la villa 21, anche altre. Sitratta quasi sempre di giornalisti, o di turistidesiderosi di curiosare dentro il lato più duroe oscuro di Baires. Chiamano Garcia perché ètroppo rischioso addentrarsi in villasenza unaccompagnatore. «Perché qui dentro — rac-conta — la vita ha poco valore; c’è sempre chiè disposto a uccidere per una manciata di pe-sos». Per questo Garcia, quando vide Bergo-glio, rimase senza parole. Ignorava il fatto cheda anni, il cardinale arcivescovo di Buenos Ai-res si comportava così. Spesso lasciava da so-lo il centro della città e, a volte in metropolita-na, altre in treno oppure in autobus, arrivavafino ai bordi di una delle villas. E poi avanti, dasolo, a piedi. Perché? «Perché qui c’è il suocuore», spiega padre Gustavo Carrara, parro-co alla villa del Bajo Flores. «Qui, fra chi non hanulla. E non altrove».

Fu Bernardo Verbitsky nel 1957 a scrivereVilla Miseria también es América. Raccontòdelle terribili condizioni di vita dei migrantiinterni durante la cosiddetta decade infame.E coniò per queste baraccopoli di lamiere enulla, il nome di villas miserias. Più volte varigoverni hanno provato a “sradicare” il feno-meno, abbattere le baracche, spostare altro-ve i suoi abitanti. Ma non ci sono mai riusciti.I poveri hanno resistito, una spina semprepronta a pungolare col suo solo esistere ilfianco dei quartieri più ricchi, i barrioscon ri-storanti di lusso nei quali Bergoglio non hamai voluto mettere piede. Nel 2009, quandola Caritas diocesana vi andò per festeggiareun collaboratore, Bergoglio non la prese be-ne. Andò in tv, sul Canal 21, e disse: «In uncentro della Caritas avvengono cose che nondovrebbero accadere. Hanno fatto una festae la festa è stata allestita in uno dei trentaseiristoranti di lusso che ci sono a Puerto Made-ro, dove la cena più economica costa 250 pe-sos. Trentasei ristoranti che stanno a un chi-

PAOLO RODARI

MADONNAIl Diario de la Virgen,periodico delle villas1, 11 e 14 e il rosariocon la Madonna che scioglie i nodi, patronadelle villas miserias

prima di

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■ 33DOMENICA 2 MARZO 2014

la Repubblica

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Non faccio altroIo vivo con loro e imparo da loro. Se un povero ha bisogno di andare in ospedale, io lo accompagno

Sto lì con lui tutto il giorno, in fila, ad attendere. Non faccio altro

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Tanta luceLo Stato è assente, non dà nulla: né case né acqua né gas. Per questo si è creata una organizzazione parallela

Certo, qui c’è violenza, ci sono armi e droga. Ma anche tanta luce

PROCESSIONE. Bergoglio nel 2000 in una delle villas miserias MESSA. Il futuro Papa celebra una funzione in strada nel 1998 CELEBRAZIONI. Padre Lorenzo De Vedia dice messa per il Papa

BENEDIZIONE. Padre Pepe Di Paola con il Papa allora cardinale CHIESA. L’esterno della Vergine dei Miracoli di Caacupé PADRECITO. Padre Gustavo Carrara dietro Bergoglio nel 2012

MURALES. Una parete decorata dai writers vicino alla Chiesa della Vergine dei Miracoli di Caacupé nella villa 21, uno degli slum di Buenos Aires frequentato da Bergoglio

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LA DOMENICA■ 34DOMENICA 2 MARZO 2014

la Repubblica

È passata alla storia per essere stata una delle amantidel grande artista. Fu in realtà anche straordinariafotografa. Lo dimostrano gli scatti raccolti per la prima voltain una mostra a Venezia da Victoria Combalía, sua ultima confidente:“Mi raccontò come lui la distrusse e come lei si fece distruggere”

La storiaLuci e ombre

PicassoDoraMaarnonostante

C’è una foto che rendegià l’idea. Picasso èseduto sulla spiaggiacon un costuminobianco e la faccia co-perta da un cranio di

bue. È in quel momento che diventa ilMinotauro. Dietro l’obiettivo — estate1937, sud della Francia — c’è la donnafinita per dieci anni nel suo labirinto. Sichiama Dora Maar. Per la storia è solol’amante più celebre di Pablo: la mujerque llora, la donna che piange delle suetele, la tradita, la gelosa, la nevrotica.Dora e il Minotauro, Dora in versionecanina, Dora con testa e naso enormi ele sembianze deformate dal cubismo.Le pareti dei musei sono piene di ritrat-ti così. Di Henriette Theodora Marko-vitch, così si chiama davvero, nata a Pa-rigi nel 1907, si ignorano un prima e undopo Picasso. Nel 1946, quando la rela-zione finisce, lei è come risucchiata daun buco nero. Si chiude in casa, veste discuro, vede poche persone. Soprattut-to il suo analista, Jacques Lacan, e unpadre spirituale. Perché «Dopo Picas-so, c’è solo Dio», dice.

A rimettere insieme i frammenti diuna vita lunga quasi un secolo — Maarmuore novantenne, nel 1997 — è stataVictoria Combalía, curatrice, storicadell’arte e, per vent’anni, detective del“caso Dora”. L’unica persona che, nel-l’ultimo periodo, ne ha raccolto diret-tamente confidenze e memorie. Il ri-sultato è una biografia uscita in Spagnanel 2013, Dora Maar. Más allá de Picas-so (pubblicata da Circe) e, adesso, unagrande mostra che apre l’8 marzo a Ve-nezia: “Dora Maar. Nonostante Picas-so” (catalogo Skira). A Palazzo Fortunysaranno esposte, per la prima volta inItalia, oltre cento opere di lei, non di lui:fotografie realizzate negli anni Trentada una donna libera, che probabil-mente sarebbe diventata una grandeartista, se non fosse finita nell’ombradel pittore più famoso del Novecento.

«Non ti risponderà mai al telefono,mi dicevano tutti — racconta Com-balía — Poi un giorno, superando lapaura, l’ho chiamata e il miracolo è ac-caduto». Dora, che non vuole incontra-re più nessuno, le parla. Tra le due ini-zia un rapporto di fiducia. «Viveva riti-rata dal mondo, ma al tempo stesso eraancora curiosa, la conversazione conlei risultava brillante. E la cosa assurdaera che, quando mi capitava di incon-trare i suoi vecchi amici di un tempo, lo-ro mi chiedevano di portarle i saluti.Ero diventata l’unico tramite con l’e-sterno». Dopo l’abbandono di Picasso,l’esilio volontario di Dora Maar si fa viavia più estremo tra gli anni Cinquanta eSessanta. Il rapporto con il più grandemaestro del secolo l’ha segnata persempre. «Per certi versi, il loro fu l’in-contro tra un sadico e una masochista— spiega la biografa —. Picasso era unsatiro, un poligamo totale, faceva sof-frire tutti quelli che gli stavano attorno.E le sue donne in particolare. Amava in-nescare situazioni esplosive. Quando,nel 1936, ha ormai cominciato la rela-zione con Dora, le fa incontrare nel suo

studio l’amante precedente, Marie-Thérèse Walter, madre della figliaMaya. Le due arrivano a picchiarsi. Lui,rimasto fermo a guardare, commen-terà: “È uno dei ricordi più belli dellamia vita”. E rinnoverà il copione qual-che anno dopo, presentando a Dora lagiovanissima pittrice Françoise Gilot,che ne prenderà il posto».

Dell’affollato gineceo di Picasso Do-ra Maar è la donna più colta, e anchequella con cui l’artista entra più in com-petizione. «Lui, che pure ne apprezza illato intellettuale, arriva a sottometter-la. Perché “le donne sono macchine co-struite per soffrire”, è il suo motto. Eser-cita il suo sadismo nella pittura: la ritraeprima bella e malinconica, poi come “ladonna che piange”, la vittima, e mano amano sempre più mostruosa. Un gior-no, lei mi ha detto: “Si comportava davero uomo, rivendicava fortemente i

suoi diritti”. Intendeva quelli sulle suedonne: un modo elegante per sottoli-neare che era estremamente maschili-sta e violento. È incredibile che Doranon abbia mai usato parole negativeper descriverlo. In casa aveva cento-trenta opere realizzate da lui. Ne era an-cora affascinata. O forse, alla fine, avevafatto pace con se stessa e con l’ex aman-te. Ricordava ancora con trasporto queigiorni del 1937, quando lui dipingevaGuernicae lei sistemava grandi lampa-de nello studio per fotografare le variefasi di lavorazione dell’opera».

Quegli scatti, ora nella collezione delReina Sofía, sono tra le opere che sa-ranno esposte a Venezia. «Perché que-sta mostra — precisa Combalía — re-stituisce a Dora Maar il suo ruolo di ar-tista negli anni Trenta, prima dell’in-contro con Picasso, di donna impegna-ta a sinistra, nella Parigi dei surrealisti e

di Georges Bataille, con cui intrecciauna breve relazione e di cui sposa leidee rivoluzionarie. La mia tesi è che, sesi guardano le sue fotografie, si capisceche sarebbe potuta diventare celebrecome Cartier-Bresson o Brassaï. Avevauno sguardo molto personale sul mon-do. Anche le sue foto più crude, quelleche ritraggono i diseredati e i mutilati diguerra, mantengono come una luce dimistero unica».

In mostra ci sono le immagini cheMaar raccoglie per le strade di un’Euro-pa nel pieno della crisi economica: bor-seggiatori, venditori ambulanti, accat-toni, ragazzini con le scarpe spaiate.Lei, che è cresciuta in una famiglia del-l’alta borghesia, diventa di casa a La Zo-ne, il quartiere delle baracche ai margi-ni di Parigi: ne ritrae la vita, i bambini, leroulotte e la povertà. Lo stesso fa in Spa-gna, dove alterna alla documentazione

della miseria la festa e i sorrisi delle ven-ditrici del mercato della Boquería diBarcellona. Nel 1934, Dora entra nelgruppo surrealista: Jacqueline, la mo-glie di André Breton, è una delle sue mi-gliori amiche e l’oggetto di alcuni scat-ti. Le influenze del movimento sonoevidenti in un fotocollage finora inedi-to come Ciechi a Versailles, dove l’arti-sta inserisce sullo sfondo della sala deire di Francia tutti i ritratti dei non ve-denti realizzati durante i suoi viaggi.

Due anni dopo, Paul Éluard le pre-senta Pablo Picasso alla prima di unfilm di Jean Renoir. Lei lo conquistagiocando a piantare un coltello sul ta-volo nello spazio tra le dita. Dirada lasua attività di fotografa, lo segue ovun-que. Dirà: «Io non sono stata l’amantedi Picasso. Lui era soltanto il mio pa-drone». Nel 1945 arrivano le crisi di ner-vi e il ricovero, l’elettrochoc e Lacan. Il

DARIO PAPPALARDO

La donna che pianseper il suo Minotauro

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Il loro fu l’incontrotra un sadicoe una masochistaLui era un satiro,un poligamo totaleche faceva soffriretutti quelliche gli stavano attornoE le sue musein particolare

pittore è ormai insieme alla Gilot. «Do-ra mi raccontò che continuò a vederePicasso fino al 1946, poi non si incon-trarono più. Tra le compagne di Pablo,Marie-Thérèse Walter si impiccò e Jac-queline Roque si sparò alla tempia. Do-ra cercò di curarsi in tutti i modi e di vi-vere. Abbracciò la fede e, da progressi-sta che era, divenne profondamenteconservatrice. Non ebbe mai più unuomo. Ho trovato dei biglietti che inviòa Picasso ancora negli anni Sessanta.Brevi messaggi: “Spero tu stia bene”.“Mi auguro che pensi anche alla tuaanima”. Voleva convertirlo al cattolice-simo. Non ho trovato le risposte di lui,posto che ci furono».

Dora Maar muore a Parigi il 16 luglio1997. Al funerale partecipano sette per-sone. La stampa titola: «Sacrificata alMinotauro».

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LA MOSTRA“Dora Maar. Nonostante Picasso”è il titolo della mostra in programmadall’8 marzo e fino al 14 luglio 2014a Palazzo Fortuny, VeneziaLa mostra, curata da Victoria Combalía(autrice di una biografia uscita in Spagnanel 2013, Dora Maar. Más allá de Picasso)con la direzione scientifica di Gabriella Belli e il progetto espositivo di Daniela Ferretti (Catalogo Skira), raccoglie per la prima voltain Italia oltre un centinaio di operedi Dora Maar, fotografie e fotocollagein particolare, con alcuni lavori ineditiUn’occasione rara di poter ammirarei lavori di un’artista per troppo temporimasta nell’ombra

LE IMMAGINIA sinistra, nella foto grande,Dora Maar ritratta da Man Ray(1936) e in alto la sua cartad’identità (1945)In questa pagina, dall’altoin senso orario, scatti di DoraMaar: Niente elemosina.Voglio un lavoro (Londra, 1934);Picasso seduto sulla spiaggiamentre regge un cranio di buedavanti al viso (estate 1937);Picasso in piedi mentre lavoraa Guernica (Parigi, 1937);Ragazzo che dorme disteso(Barcellona, 1933);Ciechi a Versailles (1936)Al centro, foto di gruppo: da sinistra Ady Fidelin, Marie Cuttol e suo marito,Man Ray, Picassoe Dora Maar (estate 1937)

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Molto più vecchio delle sue mogli e compagne, una fac-cia cattiva, nerboruto, con spaventose magliette a ri-ghe, ci si chiede: perché le donne, le ragazze, impaz-

zivano per lui? L’arte, la celebrità, i soldi, lo sguardo nero e cat-tivo, va bene. Ma se anche una donna intelligente e libera co-me Dora Maar, finita la loro relazione, si chiuse in una speciedi clausura e non trovò di meglio, per sostituirlo, che uno scrit-tore gay e la fede, la ragione doveva essere altra. Proprio quel-la a cui le donne già si ribellavano da tempo, la brutale supre-mazia del maschio, la sua capacità di sottomettere anche don-ne di grande valore, che scambiavano la crudeltà non solo psi-cologica per meravigliosa passione. Picasso era un geniale se-duttore che faceva credere alle sue donne (sette importanti,

compresa Dora) di adorarle perché uniche: quando se nestufava le distruggeva. Oggi che questi tiranni sono qua-si scomparsi, le donne scrivono e leggono avidamentestorie sadomaso di schiave e padroni. Non sarà per in-quieta, assurda nostalgia?

NUDI E CRUDI

LE SCHIAVE E I PADRONI

NATALIA ASPESI

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la Repubblica

Se da noi i “prof” hanno il volto di Silvio Orlandodevono ringraziare un film nato da un libroscritto da uno che prof lo è stato davvero (Domenico Starnone).Quel “cult” inauguròun filone e ora torna in scenaPerché purtroppo, raccontano i protagonisti,in Italia il tema fa ancora ridere

RODOLFO DI GIAMMARCO

o fatto l’insegnante per circa trent’anni. Diquell’esperienza, oltre a parecchi bei ricordi,mi è rimasta la faringite cronica, la tendenza inpubblico a ripetere lo stesso concetto tre oquattro volte, il ricorso ossessivo a intercalaricome “è chiaro?”, “mi seguite?”, e alcuni mieilibri che raccontano la scuola tra gli anni ’80 e’90 del secolo scorso. Tra questi volumetti fi-gura il testo teatrale Sottobanco (1991), del cuinuovo allestimento col titolo La scuola parlaqui sopra Silvio Orlando. Va a lui — e anche aLuigi Manconi che glielo suggerì — il merito oforse il demerito (decida chi legge) di avermispinto ad adattare per il teatro Ex cattedra, larubrica che avevo tenuto nel 1985 su il mani-festo e che era diventata un paio di anni dopo

mento. Ma non furono solo rose e fiori, arriva-rono critiche, a volte insulti. In gran parte de-gli incontri pubblici si formavano tre gruppicon giudizi divergenti. Il primo diceva: la scuo-la non è così. Il secondo diceva: la scuola è co-sì. Il terzo diceva: la scuola è assai peggio di co-sì. Poi litigavano tra loro. Le accuse rivolte a meerano: a) sputavo nel piatto in cui mangiavo;b) davo addosso agli insegnanti; c) me la pren-devo con i primi della classe e lodavo i fannul-loni; d) ridevo della scuola pubblica, gravissi-ma colpa politica; e) attingevo ai peggiori luo-ghi comuni su insegnanti e studenti.

Quelle critiche mi dispiacevano. Come in-segnante ero il frutto dei tentativi di rinnova-mento pedagogico nati tra la fine degli anni ’50e tutti gli anni ’60, le cui sintesi meglio riusciteerano state Lettera a una professoressa (1967,

don Milani) e Diario di un maestro (1972, Ber-nardini-De Seta). Da giovane avevo aspirato acontribuire alla nascita della scuola più giustaed efficace che si fosse mai vista. Ma quandocominciai a scrivere di insegnanti e alunni, sa-pevo che ormai quella cultura aveva perso, eradiventata slogan, se ne poteva fare solo il ne-crologio ironico. Come sapevo che, fallitoquello sforzo di rinnovamento, stava tornan-do in forze la vecchia scuola coi suoi luoghi co-muni, appunto. Uno dei docenti del mio testo,che vorrebbe tornare a una scuola fattiva, co-sì tratteggia il suo ruolo: «Ho spiegato io lette-ratura francese? Sì. Hai studiato tu letteraturafrancese? No. Bocciato».

Conoscevo benino, all’epoca, un po’ di rac-conti scolastici: Memorie di un vecchio profes-sore (1890) di Michele Lessona, il Socrate mo-

un libro con lo stesso titolo. Provai prima la viadel monologo, ma mi arenai. Allora passai ascrivere una commediola che aveva al centrouno scrutinio finale, il rito che chiude tuttoral’anno scolastico. Lo spettacolo andò in scenanel 1992 con la regia di Daniele Luchetti.

Oggi è abbastanza diffuso che si racconti lascuola in forma di rubrica giornalistica, ro-manzo, teatro, film, serie televisiva: è un gene-re che ricorre a tutti i media. Allora non era co-sì e sia i libri, sia il pezzo teatrale, sia i film chene derivarono (La scuola di Luchetti e Auguriprofessoredi Milani) smossero un po’ le acque,ebbero successo. Tanto per dirne una, SilvioOrlando fu per qualche tempo l’insegnanted’Italia e i giornali misero in pagina ora la suaopinione sul contratto dei presidi, ora sul pe-so della disuguaglianza sociale nell’apprendi-

Non è una rimpatriata. Oltre vent’anni dopo Silvio Orlando ritrova la suascuola, anzi la nostra, più o meno come l’aveva lasciata. Le cose, in classe,nel frattempo non sono migliorate. Tutt’altro. E quindi La scuola può per-

fino diventare un classico teatrale. «Vari aspetti sono cambiati, e più riforme sisono succedute, ma io credo — sostiene l’attore — che la scuola non perda certiconnotati sociali della classe, certi lati caratteriali (il dotato, il lavativo, il simpa-tico, l’antipatico), e tutta una serie di prototipi emotivi da Amarcord costretti astare nei banchi. Io devo tutto a un incontro in aeroporto negli anni ’80 col (futu-ro) senatore Luigi Manconi, che mi invitò a leggere Starnone. Fui travolto dallacomicità ironica e dalla tenerezza di quella letteratura sulla scuola. Venivo dallatv commerciale, non avevo fatto Il portaborse, e Starnone non sapeva chi fossi. Ciconoscemmo, trovammo una sintonia, mi prese sul serio, e scrisse in modo flu-viale una commedia che interessò trasversalmente più età». Un passo indietro.«Ho fatto lo studente al Sesto Liceo Scientifico, succursale Galileo Galilei, sezio-ne P (l’ultima) di Napoli, al Vomero. Nella prima metà degli anni ’70 ero incasel-lato in una scuola di massa che operava in strutture fatiscenti, con professoritroppo giovani o troppo vecchi che non se la sentivano mai di bocciarti, tra scio-peri, turni pomeridiani, rassegnazione, problemi da Terzo mondo, gare a chi fa-ceva di meno» racconta Orlando. «Alla didattica zero supplivo con la musica delcineforum. Un paio di insegnanti me li sono portati nel cuore, e uno era il pretedel cineforum, don Luigi Dini. È stato un periodo di latitanza, mi sono perso mol-te cose, e allora forse con le cronache di Domenico Starnone sul manifesto neglianni ’80, coi suoi tre libri, gli adattamenti teatrali e cinematografici, ho cercatodi recuperare, di saldare un conto col passato».

La commedia del 1992 e il film del 1995 su una fabbrica italiana del sape-re, su docenti e allievi, e sugli ultimi riti d’un anno scolastico hanno lasciatoun tale imprinting in lui da convincerlo a reinterpretare quel cult sulla sce-na. Così La scuola di Starnone, nell’allestimento sempre di Daniele Lu-chetti, ridebutta il 3 aprile all’Ambra Jovinelli di Roma, con un cast di cuifanno anche parte Marina Massironi, Roberto Citran, Vittorio Ciorcalo,Roberto Nobile, Antonio Petrocelli, Maria Laura Rondanini. E la pro-duzione è dello stesso Orlando, col marchio Cardellino srl.

Chissà se anche stavolta lo spettacolo susciterà le stesse reazioni.«Vent’anni fa alcuni colleghi di Starnone si stizzirono perché si davaun quadro della scuola un po’ deprimente, pessimista, ma la mag-gior parte del pubblico apprezzò che si parlasse dei ragazzi di bor-gata senza un’aura di mostruosità, con uno spirito serio, affettuoso,e divertente. Pareva un peccato non dargli la dignità di un reperto-rio moderno, e pareva bello poter fare ancora affidamento su circal’80 per cento di quelli del primo spettacolo, con in più, tra gli altri,Marina Massironi che ha sposato il progetto». Qualche cambia-mento nel testo. «Tagliate piccole cose che non stanno più in piedi,andando in profondità senza perdere lo smalto comico. Luchetti fariferimento a Cechov...». E quanto è diverso, oggi, l’amato e autole-sionista professore di Lettere che ha la sua immutabile flemma, Or-lando? «Spero di esprimere il dolore che mancava, il disincanto che ora mettein discussione il ruolo civile degli insegnanti, la coscienza recente per cui coisoldi si compra tutto. Anche, purtroppo, l’istruzione».

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SpettacoliLotta di classe

L’attore che è cresciutonella sezione P

Io che dalla mia ex cattedra ho vistoDOMENICO STARNONE

A TEATROSilvio Orlando in cattedra. La scuoladi Domenico Starnone, con la regiadi Daniele Luchetti, debutta il 3 aprilea Roma in una nuova versione

Cuore (1948)

di Duilio Coletti e Vittorio De Sica

Il maestro di Vigevano (1963)di Elio Petri

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la Repubblica

derno (1908) di Bontempelli, e naturalmenteDe Amicis, Verga, Pirandello, Sciascia, Budini,Celati, Teobaldi, pagine con la scuola al centroo sullo fondo. Moltissimi di questi libri tra ’800e ’900 potrebbero aiutare a costruire una map-pa del modo di rappresentare la scuola: la la-gna sull’istruzione per tutti e sulla cattedra chenon si nega più a nessuno; gli strafalcioni de-gli studenti; l’ignoranza, le frustrazioni, a vol-te la follia degli insegnanti; il formalismo ves-satorio dell’istituzione; la pressione ricattato-ria delle famiglie. Balzerebbe agli occhi subitoche i luoghi comuni più resistenti sono inrealtà la sintesi di problemi reali non risolti.Per esempio, oggi trionfa la convinzione divecchissima data che l’istruzione di massa sianemica delle eccellenze. Eppure basta un pic-colo sforzo per capire che solo se istruisco tut-

ti al meglio, posso essere sicuro che nessunadelle intelligenze migliori mi sfuggirà. Peresempio, gli insegnanti sono convinti che iltradizionale accanirsi contro di loro sia la peg-giore delle congiure. Eppure è proprio in quel-l’accanirsi che c’è il segno della loro centralità:non si può fare una buona scuola senza ottimiinsegnanti. Per esempio, non c’è generazioneche non si consideri migliore di quella se-guente. Eppure ogni mutazione antropologi-ca dice che il mondo sta cambiando e che ilbuon maestro resta quello che sa fare dei suoiallievi non persone identiche a lui, ma diversee migliori.

Di questi utili luoghi comuni, nella comme-dia se ne incontrano parecchi. L’azione si svol-ge in una scuola che sta cadendo letteralmen-te a pezzi. La gran parte degli studenti è una

nearsi del conflitto tra emarginati e garantiti, lasubcultura delle tv berlusconiane, il compro-messo storico fintamente risolutore di Berlin-guer e il decisionismo fintamente risolutore diCraxi, un bisogno diffuso di rifondazioni chenon rifondavano niente, il trionfo reale del ca-pitalismo su ogni alternativa ideale di sistema,l’apparizione improvvisa di oggetti misteriosicome i computer e i cellulari. Infilavo, nei pro-blemi irrisolti della tradizione, i nuovi disastri.Con quale risultato ancora oggi non so. Le co-se cambiano di segno. Oggi, quando vado aparlare di scuola, trovo giovani che mi dicono:beato lei che ha insegnato in una scuola diver-tente, piena di speranze; noi, invece. Il proble-ma urgente è mettere fine al peggio, anche se,com’è noto, al peggio non c’è mai fine.

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massa minacciosa dai comportamenti degra-dati. Gli insegnanti appaiono, a conti fatti, nondiversi dagli alunni. La gita scolastica (viaggiodi istruzione) è il trionfo del caos. Il rito degliscrutini serve solo a nascondere dietro il fintorigore un sostanziale fallimento didattico.Uno studente inafferrabile, Cardini, famosoperché l’unica cosa che sa fare bene è l’imita-zione della mosca, sembra riportare gli esseriumani al grado più basso della scala evolutiva.

Bene. Io scrivevo ventitré anni fa. Ai miei in-segnanti e ai miei studenti erano piovuti ad-dosso e piovevano gli scandali permanenti delregime democristiano, il sangue delle stragi, lacrisi economica del ’76, l’allargarsi delle disu-guaglianze (un docente guadagnava due mi-lioni di lire al mese, mille euro), il tramonto delnesso titolo di studio-lavoro sicuro, il deli-

La scuola (1995)

di Daniele Luchetti Auguri professore (1997)di Riccardo Milani

La scuola è finita (2010)

di Valerio Jalongo

i sogni infrangersi sugli scrutini

Ecco fatto (1998)

di Gabriele Muccino

Notte prima degli esami (2006)di Fausto Brizzi

Tutti giù per terra (1997)di Davide Ferrario

Caterina va in città (2003)

di Paolo Virzì

La mia classe (2014)

di Daniele Gaglianone

Scialla (2011)di Francesco Bruni

Il rosso e il blu (2011)di Giuseppe Piccioni

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la Repubblica

NextDica trentatré

Lo smartphone che rileva il battito cardiaco, il dischettomisura stress, ma anche i nano apparecchi che aiutanogli epilettici a affrontare una crisi. Le soluzioni hi-techper monitorare continuamente il propriostato di salute sono sempre più numerose e precise. Ma attenzione agli effetti collaterali

Due respiri profondi, un colpo di tosse, gambe a penzoloni da un lettino sem-pre troppo alto, e lo stetoscopio gelido contro la schiena. Alla domanda “co-me sto?”, tradizione vuole (ma anche il buon senso) che risponda il dottore.Negli ultimi anni, però, in molti hanno cominciato a chiederlo alla tecnolo-gia. Quello che sta prendendo piede è un vero e proprio boom dei dispositi-vi di automisurazione: dalla pressione alle calorie bruciate, passando per

l’ossigenazione del sangue e i livelli di stress. Non è un caso se l’ultimo smartphone presen-tato al Mobile World Congress di Barcellona annovera tra le novità la rilevazione del batti-to cardiaco. E non lo sono neppure i dati emersi dal Ces di Las Vegas, la fiera dell’elettroni-ca più importante al mondo. L’edizione di quest’anno ha visto aumentare del 40 per centogli espositori legati alla Digital Health, il business dei dispositivi che sfruttano le modernetecnologie a scopo terapeutico, o semplicemente per il benessere della persona.

Secondo le stime di Gartner, società di ricerca e analisi nel campo dell’information tech-nology, il fatturato globale del settore per il 2014 ammonterà a 1,6 miliardi di dollari. Ma co-sa correranno tutti a comprare, per avere cifre del genere? C’è solo l’imbarazzo della scelta.Scanadu Scout, per esempio, è un dischetto bianco da appoggiare alla tempia: nel giro didieci secondi rileva temperatura, battito cardiaco, respiro, pressione sanguigna, stress e os-sigenazione del sangue. Ithlete Finger Sensor invece ha un piccolo cappuccio da infilare suun dito, collegato al proprio smartphone. Richiede un po’ più di pazienza: l’esame dura unminuto, al termine del quale sapremo se siamo in forma o se stiamo per ammalarci, con an-nesse raccomandazioni del caso. Accontentati anche studenti, impiegati d’ufficio e appas-sionati di yoga, che grazie a un apparecchio chiamato Melon potranno monitorare costan-temente i propri livelli di concentrazione. Per molti altri, in realtà, non si tratta di un gioco:i dispositivi di automisurazione sono fondamentali per chi soffre di diabete (controllano iltasso di glucosio nel sangue), di epilessia (esistono orologi in grado di rilevare le convulsio-

ni e inviare un messaggio di allerta ai familiari), o per le persone anziane. Ecco perché la ri-cerca scientifica sta investendo molto su questi strumenti, che vedono al centro di tutto unacomponente fondamentale: i sensori. Arnaldo D’Amico è professore ordinario presso il di-partimento di Ingegneria elettronica dell’Università di Roma Tor Vergata, e da anni i suoistudi sono concentrati sullo sviluppo di sensori per grandezze fisiche, chimiche e biologi-che. «L’evoluzione di queste tecnologie avviene a ritmi velocissimi — spiega — e in futuronon potremo più farne a meno. Il primo aspetto su cui lavorano i ricercatori è la scienza deimateriali, che diventano sempre più nanometrici (un nanometro equivale a un miliardesi-mo di metro, ndr); il secondo invece riguarda le prestazioni dei sensori, che devono esseresempre più elevate. Per fare un esempio, è importante riuscire a ridurre il più possibile il co-siddetto “rumore chimico”. Quando una specie chimica viene assorbita da un sensore, l’as-sorbimento avviene in modo aleatorio, e presenta delle fluttuazioni. Questo è un inconve-niente che andrebbe ridotto, perché può determinare errori nell’esattezza delle rilevazio-ni». Ma non si tratta solo di spingersi sempre un po’ più in là, oltre i limiti della scienza at-tuale; esistono anche problemi di ordine pratico.

«Un altro aspetto da migliorare — continua il professore — è l’intercambiabilità dei com-ponenti, possibilmente a basso costo. Queste apparecchiature dovrebbero essere modu-lari, così da rendere più semplici le operazioni di sostituzione dei pezzi: non si può aspetta-re mesi per una riparazione, quando in gioco c’è la vita di una persona». E ancora, gli scien-ziati stanno studiando come migliorarne l’affidabilità: il buon funzionamento di questi di-spositivi deve essere costante nel tempo. Secondo D’Amico, un utilizzo integrato dei siste-mi di automisurazione potrebbe portare addirittura a una “casa amica”, pensata per assi-stere soggetti in difficoltà. Un’abitazione capace di farci un elettrocardiogramma e inviarlodirettamente al medico, o in grado di monitorare se, per esempio, una persona anziana hapreso le medicine (e se erano quelle giuste).

Al di là degli scenari futuri, però, la Digital Health sta già influenzando profondamente ilrapporto medico-paziente e la stessa percezione della cura. Michaela Liuccio, vice presi-dente del corso di Comunicazione scientifica biomedica alla Sapienza di Roma, parla di unvero e proprio cambiamento nell’idea di “salute”: «Oggi non viene più intesa come assen-za o trattamento della malattia. L’attenzione è tutta spostata sulla prevenzione, sulla ricer-ca del benessere e di un corretto stile di vita. Il soggetto diventa così protagonista nella ge-stione del proprio corpo». Si tratta di una tendenza iniziata negli anni Ottanta, quando nac-quero le prime campagne di alfabetizzazione dei cittadini in tema di profilassi e sanità. Quel-la stessa ricerca di consapevolezza è rafforzata oggi dalle nuove tecnologie, non senza con-seguenze. «Da una parte si va verso una democratizzazione della cura — spiega Liuccio —dall’altra c’è sempre il rischio dell’autodiagnosi». Con buona pace del medico di turno, chevorrebbe sapere i sintomi e in certi casi si sente proporre la terapia, smartphone alla mano.

CHIARA PANZERI

Tutti i dispositivi elettroniciche sfruttano l’hi-techa scopo terapeuticoo per il fitness

GLOSSARIO

D’ora in poi il check-upme lo faccio da me

Digital Health

Allarme epilessia

Utilizzo nel settore sanitariodi smartphone e tabletper le comunicazionitra medico e paziente

Mobile Health

Riferito alla salute,indica la responsabilizzazionecrescente del cittadino sui temidella prevenzione e della cura

Empowerment

Dispositivo meccanico o elettronico che rilevai valori di una grandezzao i suoi cambiamenti

Sensore

Le tecnologie che permettonoagli utenti di creare,immagazzinare e scambiarsiinformazioni fra loro

Information Technology

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Da usare con l’appositaapp, SmartWatchmonitora convulsioni, attacchi epilettici e tremori. Non appenaquesti si verificano, un messaggio di allarmeè inviato ai familiari, per un pronto intervento

AntistressBasta un solo minuto perché Finger Sensor rilevi il livello di affaticamentoe di stress, oppure dica che oggi siamo in forma. Il cappuccio sul dito segnala anche se qualche malattia è in arrivo

Per chi correPensata per gli sportivi,la maglietta di CityzenSciences registra la frequenza del battito,la velocità di corsa, la posizione in cui si trova man manol’atleta e la distanzache è stata percorsa

Per il cuoreScanadu Scout rileva in dieci secondi il battitocardiaco, la temperatura,la frequenza del respiro,la pressione sanguigna, l’ossigenazione, lo stressI dati sono inviati tramitebluetooth al propriosmartphone, poi inoltratial medico curante

Come sto?

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la Repubblica

ConcentratiA vederlo è solo un cerchietto da mettereintorno alle tempie In realtà è un dispositivo(collegato a una app)in grado di registrarela concentrazione di una personamentre svolgevarie attività

Mappa sanitariaSembra soloun termometro Ma Kinsa SmartThermometer è in gradodi fornire una mappain tempo reale della zonain cui ci troviamo,mostrando la diffusionelocale delle malattie

Schiena drittaLumo Back aderisce alla base della schiena e vibra leggermentetutte le volte chesi assume una posturascorretta. Collegato a una app, registra come stiamo seduti e come camminiamo

Future mammeUn vero e proprio diariodigitale della propria gravidanza. OviaPregnancy è un’app pensata per annotareman mano lo sviluppo della donna e del fetoLa mamma riceve degli avvisi in casodi rischi per la salute

Per i diabeticiCon una misurazioneogni cinque minuti, Dexcom G4 Platinumrileva i livelli di glucosionel sangue, e li convertenella curva di un graficoche mostra in temporeale l’andamentoIdeale per i diabetici

Sos incidentiDa portare al polsoSenseGiz Star rilevaautomaticamente caduteo incidenti, e grazie al collegamentocon lo smartphone inviaun segnale di allerta alla famiglia. Monitorala qualità del sonno

Calorie bruciateGli Smart Socks sonostati ideati da Sensoriaper chi ama la corsaSul display appaionola velocità, le calorie bruciate, la distanzapercorsa e quantotempo si sta impiegando per l’allenamento

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Meglio vivere un giorno da leoni, dicono. Le pecorenon si arrabbiano, miti per natura e rispettose delle leggidel gregge, che può contare anche migliaia di esemplari,come in Australia o Nuova Zelanda. Del resto, la dome-sticazione dell’ovis aries — ariete o montone per ilmaschio, pecora per la femmina (da pecus, animale

di piccolo taglio) — risale a oltre diecimila anni fa. Così facili da alle-vare — vuoi per il buon carattere, vuoi per la capacità di adattarsi adambienti e climi diversi — da essere praticamente ubiquitarie nel-la geografia agricola mondiale. Basta lasciarle brucare, con la mil-lenaria assistenza di un cane da pastore, in un terreno ampio asufficienza per sfamarle: in cambio, arriveranno latte, carne elana. Unica regola da rispettare, quella tramandata da infini-te generazioni di pastori: la pecora rende quello che mangia,adattamento ovino dell’umano “Siamo quello che mangia-mo”. Se Ludwig Feuerbach aveva teorizzato l’inscindibilerapporto tra alimentazione ed evoluzione, gli allevatorisanno misurare perfettamente le differenze di resa quali-tativa tra un gregge obbligato ad accontentarsi delle erbestentate della steppa o lasciato libero in un pascolo in-

contaminato. Questo è il loro momento: partorisco-no, allattano e si liberano del vello invernale grazie al-la tosatura, appuntamento rituale in programma tramarzo e aprile, che le consegna alla bella stagione al-leggerite nel peso e nel calore (l’umidità nel pelo e nelcibo è un nemico giurato della loro salute). Purtroppo,non tutto fila per il verso giusto, se è vero che anche que-st’anno gli agnellini (da latte, appunto) difficilmentesfuggiranno alla consueta strage pasquale, sempre menoin linea con la nuova coscienza ecologica del Terzo Mil-lennio. Così, soprattutto nelle zone ad alto tasso di pasto-rizia come Abruzzo e Sardegna, la cucina d’autore ha co-minciato a rivalutare la carne di pecora — classificata tra lecarni rosse, ma di colore rosa chiaro, consistente, poco gras-sa, digeribile — svincolandola dal solo binomio bollito-stufa-to, grazie alle selezioni genetiche e alle nuove tecniche di cot-tura, tra carpacci e farciture impensabili solo pochi anni fa.

Ma se agnello e montone continuano a farsi preferire in macel-leria, la pecora è regina del reparto latticini. Bergamasca o laticau-da, sarda o sambucana, il suo latte vanta una quantità di grasso piùche doppia rispetto a mucca e capra, che lo rende straordinario per lacaseificazione. Inoltre, grazie alla loro struttura minuta, i globuli digrasso tendono a “scappare” nel siero, residuo della produzione del for-maggio. È questa ricchezza a fare della ricotta di pecora l’ingrediente prin-cipe di alcuni tra i dolci più buoni del mondo, dalla pastiera alla cassata. Mi-te ma non stupida, dicono i pastori a proposito della pecora. E di buona me-moria, perché impara rapidamente la strada per tornare all’ovile. Addentan-do una fetta di pecorino a latte crudo con un filo di miele di corbezzolo, le suetante virtù vi saranno finalmente chiarissime. Altro che leoni.

La sua sfortunaè di esseretroppo buona

LA DOMENICA■ 40DOMENICA 2 MARZO 2014

la Repubblica

LICIA GRANELLO

Allo spiedoSulla brace bocconcinidi carne di pecoracon tocchetti di cipollae peperone e contorno di verdure

Il suo latte, più di altri grasso e saporito,è ideale per la ricotta. E ora la sua carne, tanto rosa quanto leggera,viene rivalutata dalla cucinad’autore.Che, oltre ai bolliti-stufati,propone nuovi carpacci e farciture

I saporiVerdi pascoli

Pecora© RIPRODUZIONE RISERVATA

Lanel piatto

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■ 41DOMENICA 2 MARZO 2014

la Repubblica

LA RICETTA

Una famiglia dedita alla cucinaregionale d’autore: Marcello, Bruna e il figlio Mattia in cucina, l’altro figlioAlessio in sala. A “La Bandiera” di Civitella Casanova, Pescara, la tradizione diventa attualità, come nella ricetta ideata per i lettori di Repubblica

Tortelli di pecorino con carciofi, menta e peperoncino

Gli arrosticininon fanno differenze

PastieranapoletanaPer farcire la pastafrolla, grano cotto,lavorato con zucchero,ricotta, scorza di limone, cannella,acqua d’arancia, tuorli,canditi e bianchi a neve

ArrosticiniCubettini di carneinfilati negli spiedini di legno, marinati in extravergine, limone e pepe, cotti rapidamente sulla brace. Salare e servire caldissimi

PaneFrattauFogli di pane Carasauimmersi pochi istantiin brodo di pecorabollente, alternati sul piatto con sugo di pomodoro e pecorinoSopra, uovo in camicia

UmidoSoffritto e scorza di limone, poi carnemacinata e in tocchettiRosolare con vinorosso e sugo di pomodoro, cuocereper due ore e mezzoProfumare con brandy

ImbrocciataPer il dolce còrso,impasto di ricotta(brocciu), tuorli montaticon zucchero, buccia di limone grattugiata e bianchi a neve Poi in forno per mezz’ora

PAOLO DI PAOLO

Disporre la farina a fontana, al centro mettere tre uova intere, 4 tuorli, olio e salequanto basta, impastando per ottenere una palla elastica e compatta,da far riposare un’ora. Tirare l’impasto col mattarello fino a 2 mm. di spessore,

ricavando dei dischi con un coppa-pasta da 10 cm. Preparare la farcia mescolando il pecorino con un tuorlo

e una macinata di pepe. Mettere in un sac-à-poche,distribuirne una noce su ogni disco, piegarea mezzaluna e poi chiudere le estremità, per dareforma ai tortelli Pulire i carciofi, immergerli in acqua

e limone, tagliarli fini, friggerne metà in extravergine,salare. Spadellare i carciofi restanti insieme al guanciale

Dopo qualche minuto, aggiungere uno spicchio d’aglio,zenzero e un cucchiaio di prezzemolo tritato. Frullare col brodo

e passare al setaccio fine. Cuocere i tortelli. Impiattare versando al centrola salsa di carciofi, poi i tortelli, i carciofi fritti, la ricotta salata,un pizzico di peperoncino in polvere e infine le foglioline di menta

Ingredienti per 4 persone

PER LA SFOGLIA E LA FARCIA

250 g. di farina 0250 g. di semola di grano duro5 tuorli e 3 uova intere 150 g. di pecorino fresco

PER LA SALSA

2 carciofi10 g. di zenzero fresco tritato30 g. di guanciale di maiale stagionato 100 g. di brodo vegetale 50 g. di ricotta stagionata al ginepro

L’Abruzzo mi ha sempre confuso. Le mie radici sono lì,ma nella parte montana, un piccolo paese di trecen-to abitanti arroccato nella Marsica. La neve, in certi

terribili inverni, era più alta dei portoni. Poi, un pomeriggio diluglio, mio padre disse: andiamo al mare. Fu un viaggio inter-minabile, per approdare in un luogo che era sempre Abruzzo,dove però c’erano il mare, la sabbia, il caldo e un piatto di pe-sce a tavola. Gli scarponcini erano diventati infradito e i giac-chetti erano rimasti in macchina. Lì era davvero estate. Tor-nammo a casa, in montagna, che era notte fonda: faceva ungran freddo, non sembrava più estate, bisognava correre sot-to i piumini. Fra le dita dei piedi era rimasta un po’ di sabbia.

Forse nessuna regione come l’Abruzzo è sospesa fra pae-saggi tanto diversi, a metà tra le vette d’Appenino frequenta-te dai camosci, tra i boschi presidiati da orsi e lupi e la sabbiafine delle spiagge adriatiche. Così, pure le cucine si contrad-dicono: quella dai sapori forti e ruvidi, come si dice siano gliabruzzesi di montagna; e l’altra, stretta al suo mare e non me-no decisa, se sulle cozze si spolvera lo zafferano. Ma ho più di-mestichezza con il caciocavallo e la scamorza, con i salamischiacciati, gli spaghetti alla chitarra con i ragù misti, gli arro-sticini di pecora, che non fanno differenze fra provincia e pro-vincia, fra estate e inverno. Può essere un falò di ferragosto oun fuoco grande di capodanno, fa lo stesso: l’Abruzzo puòconfondervi. Intanto, stanno arrivando le patate maritate.Ma io aspetto il dolce: le ferratelle, con quella pasta chiara arombi, che quasi si scioglie sulla lingua. Come quando entra-vo in casa di zia Adele, in quel salotto immobile e fuligginoso,e se non erano pronte, ci restavo male.

Il suo ultimo romanzo è Mandami tanta vita, Feltrinelli, 2013© RIPRODUZIONE RISERVATA

Gli indirizzi

DOVE MANGIAREIL RITROVO D’ABRUZZOContrada Bosco 16Civitella Casanova (Pescara)Tel. 085-8460019Chiuso lunedì e martedì, menù da 35 euro

LU STREGOContrada Colli 19Farindola (Pescara)Tel. 085-823104Chiuso mercoledì, menù da 20 euro

OSTERIA DEL LEONEPiazzetta XX Settembre 3Penne (Pescara)Tel. 085-8213224Chiuso lunedì, menu da 25 euro

DOVE COMPRAREEKK MERCATO TIPICOD’ABRUZZOVia Lungofino 185Città Sant’Angelo (Pescara)Tel. 085-9153108

CASERA CONSORTILEVia San RoccoFarindola (Pescara)Tel. 085-823133

BECCHERIA MACELLERIA & SPECIALITÀVia Smeraldo Vincenzo Zecca 1ChietiTel. 0871-65810

DOVE DORMIRECASTELLO CHIOLA Via degli Aquino 12Loreto Aprutino (Pescara)Tel. 085-8290690Doppia da 90 euro, colazione inclusa

HOTEL ART’ÈVia Concezio Rosa 6Castelli (Teramo)Tel. 339-2018721Doppia da 60 euro, colazione inclusa

CANTINA LOFT Strada la TorreChietiTel. 328-7148770Doppia da 85 euro, colazione inclusa

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RicottaI globuli di grasso del latte, più piccolirispetto a quelli del latte vaccino,tendono a restareanche nel siero,regalando fragranza e cremosità

ProsciuttoCosce di 3-4 kg di peso, massaggiatecon sale e spezie,stagionate almeno sei mesi. Le fettehanno colore rossobruno, profumointenso, sapore dolce

PecorinoDuemila anni di storia e cinque Dop — romano, toscano,siciliano, sardo,crotonese, di Filiano(Basilicata) — per il formaggio dal gusto inconfondibile

CarneL’età firmaconsistenza e odore,delicati negli animaligiovani, più marcati in età adultaCarré, spalla, sella, cosciotto i tagli più pregiati

RoquefortIl penicillium roqueforti trasforma in erborinato il latte crudo di pecora La maturazione avviene nelle grotte del Mont Combalou, a Roquefort-sur-Sulzon

Sulla strada

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LA DOMENICA■ 42DOMENICA 2 MARZO 2014

la Repubblica

Specializzata in ruoli regali, l’attriceaustraliana stanotte potrebbe vincerel’Oscar indossando i panni di una donnaricca e depressa. “Non avrei detto di noa Woody neanche se mi avesse proposto

di fare il cadavereE poi mi esaltanoi personaggiche mi terrorizzanoCome Jasmine, quantodi più lontano da me

si possa immaginare. Eppure è propriograzie a lei che ho imparatoa rappresentare il vuoto”

PARIGI

La statuetta per la magi-strale Blue Jasmine diWoody Allen, annunciatada mesi e rodata dai re-

centi Bafta, gli oscar britannici, e Gol-den Globe, potrebbe essere accarezza-ta dalle sue mani proprio stanotte, nel-la hollywoodiana Notte degli Oscar, apatto però che il risorto dibattito sul-l’accusa (in giudizio archiviata da oltrevent’anni) di abusi sessuali del registasu una delle figlie adottive non rovini lafesta. Con fare salomonico Cate Blan-chett, al Festival di Santa Barbara, ave-va indirizzato a Allen un auguriosince-ro: «È dunque un problema persisten-te e doloroso per gli ex familiari: speroriuscirete a risolverlo con buona pacedi tutti». A Parigi, dove Anne Fontainel’ha diretta in uno spot per Armani, dicui è diventata musa lo scorso settem-bre, l’attrice australiana evoca con vo-ce calda cosa voglia dire lavorare conAllen: «Con il suo mutismo e l’espres-sione d’eterno insoddisfatto, Woodyriesce a rendere tutto scorrrevole, na-turale, anche l’impossibile: si scostapoco dalla sceneggiatura e dalle battu-te già scritte, lasciando ciascuno di noilibero — fin troppo — di costruire ilpersonaggio, senza mai interferire».

Stanca, si sfila le scarpe dal mezzotacco («Mi scusi, non ne posso più ») eallunga le gambe sul divano, fluttuan-ti nel nero prediletto d’un tailleur-

pantalone che esalta la candida laccadella sua celebrata epidermide. Di col-po, e a piedi nudi, s’inanellano sul di-vano del Grand hôtel — immaginariadissolvenza incrociata — volti, corpi,personaggi con cui l’attrice ci ha in-cantati: Elizabeth (suo primo Oscarmancato), l’androgino Bob Dylan diI’m Not There (Coppa Volpi, ma altroOscar sfumato), Marianne nel RobinHood di Ridley Scott, Sheba nel facciaa faccia con Judi Dench in Diario diuno scandalo di Eyre (altra nomina-tion all’Oscar), la dolce Daisy nelBenjamin Button di Fincher, fino allaKatharine Hepburn (Oscar stavolta)nell’Aviator di Scorsese. In nemmenovent’anni, più di quaranta film, e neigeneri più disparati, dal fantasy al noir,con predilezione seriale per ruoli di re-gina, da Elizabeth: The Golden Age, biscon Shekhar Kapur (e altro Oscar sva-porato) a Galadriel regina degli Elfi, persei volte nelle saghe di Peter Jackson IlSignore degli Anelli e Hobbit.

Considerando, signora, la famigliaimpegnativa (marito e tre figli piccoli),una fervida attività teatrale e il traslocoda un emisfero all’altro, Sydney-LosAngeles, richiesto da quasi ogni set,due o tre film di media all’anno sonoun bella media, vero? «E quest’annosarò una valanga, non ne potrete più dime!», ride soddisfatta la Blanchett, cheil 14 maggio festeggerà i quarantacin-que anni: «Dopo The Monuments Mendi Clooney, vi toccano in blocco un th-riller di David Mamet, una love storytra donne che Todd Haynes di I’m NotThere ha tratto da Patricia Highsmith,il nuovo Terrence Malick di Knight ofCups e — indovini! — un’altra regina:la matrigna di Cenerentola secondoKenneth Branagh. Ma nessuna fatica.Fin da bambina mi sono abituata a im-bottire fino all’impossibile ogni ora delgiorno. Avevo dieci anni quando èmorto mio padre, era sergente dellamarina, un texano d’origine quebe-chese. Cominciò allora una vita di ri-strettezze per la nostra famiglia. Miamadre insegnante, mio fratello, miasorella e mia nonna vivevamo aIvanhoe, vicino Melbourne, dove hopoi frequentato l’università, imparan-do subito a dividermi tra due attività: icorsi di economia e belle arti e le recitein teatri amatoriali che hanno finitoper assorbirmi al punto di iscrivermi auna scuola d’arte drammatica».

Il teatro s’è radicato così nella sua vi-

ta: tra un film e l’altro riesce sempre ainfilare messinscene, con relativotour. L’ultima, l’estate scorsa, Les Bon-nes di Genet a Sydney, con IsabelleHuppert: «Sì, finalmente insieme!Un’idea nata due anni fa, quando è ve-nuta a vedermi a Parigi, al Théâtre de laVille, in Big and Small di BothoStrauss, con la regia di Benedict An-drews. E lui ci ha riunito. Adoro Isabel-le: è una pila elettrica, un’attrice chenon ha paura di nulla». Con il comme-diografo australiano Andrew Upton,suo marito dal 1997, lei ha diretto e ge-stito per dieci anni la Sydney TheatreCompany, quattro palcoscenici equattro cartelloni diversi. Che cosa neha tratto? «Un importante savoir-faire.E una lezione d’umiltà. Sono state sta-gioni vissute con il piacere di lavorareper il pubblico e di calamitare nellepièces (spesso novità assolute) talentiche in Australia rimangono isolati,

messi così in condizione di affrontaretournées internazionali. Ne vado piut-tosto fiera». Come ha vissuto l’espe-rienza di Elizabeth, che nel 1998 è sta-ta la miccia della sua carriera cinema-tografica? La regina scalza rispondecon una bella risata: «In realtà, dopo ifilm d’esordio, tra cui, l’anno prece-dente, Paradise Road di Bruce Bere-sford, ero convinta che la mia carrierafosse finita, prima ancora di comincia-re. Mai avrei immaginato conseguen-ze tanto lusinghiere. Sul set ero osses-sionata dalla complessità della parte edallo stuolo di splendide interpreti chemi avevano preceduto in quel perso-naggio. È stato un do or die: se avessifallito, non mi sarebbe più capitataun’opportunità simile. Ma all’iniziod’ogni percorso artistico, si ha la fortu-na di non aver nulla da perdere. Certo,c’è il puntiglio di farcela: e la responsa-bilità d’un film che porta la tua imma-gine in giro per il mondo. Ma, in caso didisastro, non cadi da una grande altez-za. E poi mi dicevo: se non ce la fai, po-trai sempre tornare al teatro.Per un’at-trice, la scena è il fondamento della vi-ta: perché il teatro ti obbliga a pensarein profondità, a provare sensazioni esentimenti nell’enfasi massima perpoi riuscire a filtrarli nella loro più quo-tidiana elementarità. Il teatro ci apre eingigantisce, perché ci allena a tornaresemplici e minuscoli: ci insegna a con-frontarci con la perdita, la mancanza,il vuoto». Come in Blue Jasmine, piècegrande schermo dove Allen, anchegrazie a lei e alle sue sorsate di bravura,d’alcol e antidepressivi, è tornato fi-nalmente cineasta dopo troppe sta-gioni da cineturista. «Non sarei mairiuscita a interpretare quel personag-gio, un’arricchita della Fifth Avenuedistrutta dai bluff finanziari e costrettaa rifugiarsi e riprendere fiato dalla so-rella proletaria a San Francisco, se pri-ma non avessi interpretato in teatroBlanche DuBois in Un tram che si chia-ma desideriodiretto nel 2009 da Liv Ul-lmann, da allora mia grande amica.Sono personaggi gemelli: che fingonoquel che sono e recitano quel che vor-rebbero essere. Appartengono a unagalleria d’altre figure teatrali che hoportato in scena anche a Parigi: HeddaGabler o l’eroina di Big and Small, tut-te donne distrutte dal confronto con larealtà. Stavolta, però, Woody Allen, cuinon avrei detto di no neanche se miavesse proposto d’interpretare un ca-

davere, mi ha indotto, con la sua aria diquello che fa finta di nulla, alla mag-giore sfida della mia vita: rappresenta-re il vuoto. Fin da Elizabeth, m’ha sem-pre esaltato interpretare personaggiche mi terrorizzano, proprio perchénon so da che parte prenderli. Non hola minima esperienza di quel che puòaver vissuto Jasmine, donna disillusa,depressa, sbriciolata: la sua cammina-ta chic, che ho dovuto inventarmi, midava la nausea. Quel che me l’ha resa,se non familiare, affascinante e aliena,è che non ha per identità che una ma-schera improvvisata, fragilissima. Èl’attrice di se stessa. Si trova per la pri-ma volta davanti a un baratro che fino-ra il denaro le aveva permesso di evita-re: se stessa, appunto. Lei non ha maisaputo chi è: perché non è». Blue Ja-smine è l’America della bancarotta,della derivaeconomica: «Sì, ci annun-cia il naufragio, attraverso il corpomartire d’una delle sue vittime: il filmè la zattera della società occidentale,della cultura Usa, materialista, far-maco-dipendente, cocktail d’ascen-sioni sociali e cadute vertiginose».Prepara o allarma i suoi figli davanti aquesta realtà? «Sono ancora abba-stanza piccoli, dai sei ai dodici anni.Continuo a aiutarmi con le favole, an-che se loro navigano tra Guerre stella-rie 007. Perciò, per darmi più autorità,m’approprio talora degli effetti spe-ciali del cinema: ho sempre a portatadi mano le orecchie da hobbit della re-gina Galadriel».

© RIPRODUZIONE RISERVATA

L’incontroRegine

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Ai miei tre figli leggo ancora le favolePer gli effetti specialiho sempre a portata di manole orecchieda hobbitdi Lady Galadriel

Cate Blanchett

MARIO SERENELLINI

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