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LADOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 24 FEBBRAIO 2013 NUMERO 416 La copertina LANCE HOSEY e PAOLO LEGRENZI C’è l’amore per la bellezza nascosto nei nostri geni Il libro DARIA GALATERIA Il ricordo dei profumi di un mondo ormai finito All’interno Straparlando ANTONIO GNOLI Carlo Cecchi “L’attore è solo una fantasia gettata sulla terra” L’opera GUIDO BARBIERI La Walkiria contro papà Wotan la famiglia in crisi anche nel Walhalla L’arte MELANIA MAZZUCCO Il museo del mondo Piero di Cosimo animale fragile DISEGNO DI MASSIMO JATOSTI CULT Io, il Muro e Richard Burton O gni volta che ripenso al mio primo incontro con Martin Ritt, il regista americano di innumerevoli film, fra cui La spia che venne dal freddo, arrossisco nel ricordare il mo- do improponibile in cui ero vestito. Era il 1963. Il mio ro- manzo non era ancora stato pubblicato. Ritt aveva ac- quistato i diritti per farne un film basandosi su un datti- loscritto passatogli sottobanco dal mio agente letterario o dal mio edi- tore, o magari da qualche anima illuminata dell’ufficio copisteria che aveva un amico nello studio di produzione (la Paramount). In seguito Ritt si vantò di aver ottenuto i diritti per niente. Dopo l’ho pensato an- ch’io, ma all’epoca lo vedevo come un uomo di smisurata generosità, che si era preso il disturbo di venire in aereo addirittura da Los Angeles insieme a qualche amico suo simile per offrirmi un pranzo in quell’al- tare del lusso edoardiano che è il londinese Connaught Hotel e parlar- mi del mio libro in toni elogiativi. E io ero arrivato in aereo da Bonn, capitale della Germania Ovest, a spese di Sua Maestà la Regina Elisabetta. Ero un funzionario diploma- tico di trentadue anni e non avevo mai incontrato gente del cinema pri- ma di allora. Da ragazzino, come tutti i miei coetanei dell’epoca, mi ero perdutamente innamorato di Deanna Durbin e piegato in due dalle ri- sate quando guardavo I tre marmittoni. Nel buio delle sale, durante la guerra, avevo abbattuto aerei tedeschi pilotati da Eric Portman e avevo sconfitto la Gestapo al fianco di Leslie Howard. (segue nelle pagine successive) JOHN LE CARRÉ Cinquant’anni fa il libro che lo rese famoso Oggi la spia che divenne scrittore racconta a “Repubblica” i retroscena del successo DISEGNO DI FERENC PINTÈR Repubblica Nazionale

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  • LA DOMENICADIREPUBBLICA DOMENICA 24 FEBBRAIO 2013NUMERO 416

    La copertina

    LANCE HOSEY e PAOLO LEGRENZI

    C’è l’amoreper la bellezzanascostonei nostri geni

    Il libro

    DARIA GALATERIA

    Il ricordodei profumidi un mondoormai finito

    All’interno

    Straparlando

    ANTONIO GNOLI

    Carlo Cecchi“L’attore è solouna fantasiagettata sulla terra”

    L’opera

    GUIDO BARBIERI

    La Walkiriacontro papà Wotanla famiglia in crisianche nel Walhalla

    L’arte

    MELANIA MAZZUCCO

    Il museodel mondoPiero di Cosimoanimale fragile

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    CULT

    Io, il Muro e Richard Burton

    Ogni volta che ripenso al mio primo incontro con MartinRitt, il regista americano di innumerevoli film, fra cui Laspia che venne dal freddo, arrossisco nel ricordare il mo-do improponibile in cui ero vestito. Era il 1963. Il mio ro-manzo non era ancora stato pubblicato. Ritt aveva ac-quistato i diritti per farne un film basandosi su un datti-

    loscritto passatogli sottobanco dal mio agente letterario o dal mio edi-tore, o magari da qualche anima illuminata dell’ufficio copisteria cheaveva un amico nello studio di produzione (la Paramount). In seguitoRitt si vantò di aver ottenuto i diritti per niente. Dopo l’ho pensato an-ch’io, ma all’epoca lo vedevo come un uomo di smisurata generosità,che si era preso il disturbo di venire in aereo addirittura da Los Angelesinsieme a qualche amico suo simile per offrirmi un pranzo in quell’al-tare del lusso edoardiano che è il londinese Connaught Hotel e parlar-mi del mio libro in toni elogiativi.

    E io ero arrivato in aereo da Bonn, capitale della Germania Ovest, aspese di Sua Maestà la Regina Elisabetta. Ero un funzionario diploma-tico di trentadue anni e non avevo mai incontrato gente del cinema pri-ma di allora. Da ragazzino, come tutti i miei coetanei dell’epoca, mi eroperdutamente innamorato di Deanna Durbin e piegato in due dalle ri-sate quando guardavo I tre marmittoni. Nel buio delle sale, durante laguerra, avevo abbattuto aerei tedeschi pilotati da Eric Portman e avevosconfitto la Gestapo al fianco di Leslie Howard.

    (segue nelle pagine successive)

    JOHN LE CARRÉ

    Cinquant’anni fail libro che lo rese famosoOggi la spiache divenne scrittoreraccontaa “Repubblica”i retroscenadel successo

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    DOMENICA 24 FEBBRAIO 2013

    (segue dalla copertina)

    Ma poi, tra un matrimonio precoce, i figli piccoli epochissimi soldi in tasca, di film non ne avevo vi-sti più tanti. Avevo un amabile agente letterario aLondra, uno della vecchia scuola, la cui ambizio-ne nella vita, se avesse avuto il coraggio di perse-guirla, era suonare la batteria in un gruppo jazz. La

    sua conoscenza del mondo del cinema sicuramente era più ampiadella mia, ma (sospetto) non così tanto di più. Comunque sia, era sta-to lui che aveva preparato l’accordo per la cessione dei diritti ed erostato io, dopo un pranzo conviviale con lui, che l’avevo firmato.

    Come secondo segretario dell’ambasciata del Regno Unito aBonn, fra i miei compiti avevo quello di accompagnare gli alti fun-zionari tedeschi in visita nei loro incontri con esponenti del governobritannico e dell’opposizione parlamentare, ed era per questo che mitrovavo a Londra. E questo spiega perché, svignandomela dagli im-pegni ufficiali per incontrarmi a pranzo con Martin Ritt al Connau-ght Hotel, indossavo una giacca nera stretta, un panciotto nero, unacravatta argentata e dei pantaloni a righe grigie e nere, un completoche i tedeschi chiamano Stresemann dal nome di uno statista prus-siano che ebbe la breve sventura di guidare la Repubblica di Weimar.E spiega anche perché Ritt mi domandò, con chiassosa cordialità,mentre ci stringevamo la mano, perché accidenti mai avessi decisodi conciarmi come un maître d’hotel.

    E invece com’era vestito Ritt, dal momento che si sentiva libero difarmi questa domanda provocatoria? Nella sala da pranzo del Con-naught Hotel vigevano regole rigide sull’abbigliamento, ma nella sa-la Grill, oramai eravamo nel 1963, avevano imparato con una certa ri-luttanza a chiudere un occhio. Rannicchiato in un angolo della salaGrill e affiancato da quattro venerandi miliziani dell’industria cine-matografica, Martin Ritt, più grande di me di diciassette anni piùqualche secolo, indossava una camicia nera da rivoluzionario, ab-bottonata fino al collo, e un paio di pantaloni larghi con l’elastico invita e stretti alle caviglie. E — cosa ancor più straordinaria ai miei oc-chi — un basco in testa con la punta rivolta in su, quando inveceavrebbe dovuto essere rivolta in giù. Ma indossato al chiuso, capite

    quello che intendo?, una cosa che nella mia diplomatica Inghilterradi quei giorni era accettabile più o meno quanto accompagnare i pi-selli alla bocca con il coltello. E tutto ciò sopra una sgraziata corpora-tura da vecchio calciatore appesantito, con una faccia larga e ab-bronzata da mitteleuropeo incisa dal dolore degli anni, capelli folti ebrizzolati raccolti sulla nuca e occhi neri come la pece che ti fissava-no attenti dietro un paio d’occhiali dalla montatura nera.

    «Ve l’avevo detto o no che doveva essere uno giovane?», fece tuttoorgoglioso ai suoi scherani mentre io mi affannavo a spiegare perchéaccidenti mai avessi deciso di conciarmi come un maître d’hotel.

    L’avevi detto, Marty, l’avevi detto, ammisero loro, perché i registi,come ormai so anch’io, hanno sempre ragione.

    * * *

    E Marty Ritt — anche se mi ci è voluto un po’ per scoprirlo, perchéa quell’epoca non c’era Google e io, come si lamentano sempre i di-plomatici, non ero stato adeguatamente briffato per quell’incontro— aveva più ragione della maggior parte dei registi. Era un registaesperto, con un grande cuore e un’esperienza di vita impressionan-te. Aveva servito nelle forze armate degli Stati Uniti durante la Secon-da guerra mondiale. Era stato, se non un membro del Partito comu-nista, quanto meno uno dei suoi più devoti compagni di strada. Lasua spudorata ammirazione per Karl Marx gli aveva provocato l’o-stracismo dell’industria televisiva, dove pure aveva recitato e direttocose eccellenti. Aveva fatto anche tantissime regie teatrali, in granparte roba impegnata di sinistra, fra cui uno spettacolo per il RussianWar Relief al Madison Square Garden. Aveva diretto dieci lungome-traggi uno dietro l’altro, in particolare Hud il selvaggiocon Paul New-man, due anni prima. E dal momento in cui ci eravamo accomodatia tavola non faceva che ripetermi che aveva visto nel mio romanzouna sorta di punto di convergenza fra le sue convinzioni passate e ilsuo attuale disgusto impotente verso il maccartismo, la vigliaccheriadi troppi suoi colleghi e compagni al banco dei testimoni, il fallimen-to del comunismo e la nauseante sterilità della Guerra Fredda.

    E Ritt, come si affrettò a dirmi, era ebreo fino al midollo. Se la sua

    famiglia non aveva sofferto direttamente per l’Olocausto — ma io so-no convinto del contrario — lui personalmente aveva sofferto, e con-tinuava a soffrire, per tutta la sua razza. La sua identità ebraica era untema ricorrente, da lui articolato con passione e incisività. E acquisìancora più peso quando cominciammo a parlare del film che inten-deva ricavare dal mio romanzo. Nella Spia che venne dal freddo duecomunisti pieni di ideali, un’innocente bibliotecaria londinese e unagente dei servizi segreti della Germania Est, vengono cinicamentesacrificati in nome del bene superiore della causa occidentale (e ca-pitalista). Tutti e due sono ebrei.

    Per Marty Ritt quel film stava prendendo una piega personale. E io?Quali titoli acquisiti nella grande università della vita avevo da offrirein cambio? Il mio Stresemann? Gli studi — peraltro incompiuti — inuna scuola privata inglese? Un romanzo che avevo inventato basan-domi su frammenti di esperienze vissute da altri? O il fatto inquie-tante, che grazie a Dio non potevo svelargli, che avevo passato unafetta importante degli ultimi anni della mia vita a sgobbare nei recin-ti protetti dei servizi segreti britannici, combattendo proprio quellacausa a cui lui, per sua stessa e franca ammissione, aderiva con cosìtanto entusiasmo? Ma c’è qualcos’altro che ho imparato col tempo.Non tanto il fatto che anch’io cominciassi allora a mettere in discus-sione le mie facili convinzioni giovanili. Quanto la scoperta che il ci-nema è il collante perfetto di opposti inconciliabili. E ciò mi fu chiaropiù che mai quando il ruolo principale, quello di Alec Leamas, fu as-segnato a Richard Burton.

    * * *

    Non ricordo più esattamente il momento in cui appresi che Bur-ton aveva avuto la parte. Durante il nostro pranzo al ConnaughtHotel, Marty Ritt mi aveva chiesto un parere sull’attore che avreb-be dovuto impersonare Leamas, e io avevo suggerito TrevorHoward; o Peter Finch, ma solo a condizione che fosse disposto ainterpretare il personaggio come un inglese e non come un au-straliano, perché per me questa era una storia inglesissima, cheparlava di inglesissime consuetudini segrete. Ritt, che era un bra-vo ascoltatore, disse che aveva capito la mia posizione e che ap-prezzava tutti e due gli attori che avevo citato, ma temeva che nonfossero nomi abbastanza grossi per un film di quel budget. Qual-

    che settimana dopo, quando tornai di nuovo a Londra, questa vol-ta a spese della Paramount per visionare le location, mi disse cheaveva offerto il ruolo a Burt Lancaster.

    Per fare la parte di un inglese, Marty? Canadese. Burt è un attore che funziona. Burt farà la parte di un ca-

    nadese, David. (David Cornwell, il vero nome di John Le Carré, ndt)Non c’era granché da replicare. Era vero che Lancaster funziona-

    va come attore, ma il mio Leamas non funzionava come canadese.Ma ormai era già subentrato il Grande Silenzio Senza Spiegazioni.

    Ogni volta che è stata realizzata — o non è stata realizzata — unatrasposizione cinematografica di una mia opera, c’è stata una primafase di Entusiasmo Iniziale, seguita regolarmente dal Grande Silen-zio Senza Spiegazioni. Quest’ultima fase può durare un tempo inde-finito, da qualche mese a parecchi anni, o anche per sempre. Il pro-getto è a un punto morto oppure sta andando avanti a tutta velocitàe nessuno me l’ha detto? Al riparo degli sguardi del volgo, somme didenaro enormi circolano, copioni vengono commissionati, redatti erifiutati, agenti incrociano le spade e raccontano bugie. Dentro stan-ze sigillate ragazzi imberbi con la cravatta cercano di sopraffarsi a vi-cenda con perle di creatività giovanile. Ma fuori dalle mura di CampHollywood ottenere informazioni affidabili è quasi impossibile: perla valida ragione che — citando le immortali parole di William Gold-man — nessuno sa niente.

    Richard Burton venne fuori, è tutto quello che sono in grado di di-re. Niente concerti di violino ad annunciare il suo arrivo, solo uno sbi-gottito: «David, ho delle notizie per te. Richard Burton ha firmato perinterpretare Leamas». E non era Marty Ritt a parlarmi dall’altro latodella cornetta, ma il mio editore americano Jack Geoghegan, presoda un fermento di estasi religiosa: «E soprattutto, David, stai per in-contrarlo!». Geoghegan era un veterano della vendita di libri, uno del-la vecchia scuola. Aveva cominciato come piazzista di scarpe in pel-le salendo fino al posto di direttore delle vendite alla Doubleday. Vi-cino alla pensione, aveva acquistato una sua piccola casa editrice, laCoward McCann. L’inverosimile successo del mio romanzo e l’ag-giunta di Richard Burton per lui erano un sogno che diventava realtà.

    Tutto questo succedeva alla fine del 1964, quando ormai avevosmesso di lavorare per il governo e mi ero dedicato a tempo pieno,prima in Grecia e poi a Vienna, alla scrittura. Mi stavo preparando perla mia prima visita negli Stati Uniti e Burton in quel momento stava

    interpretando l’Amleto in un teatro di Broadway, con Gielgud comecoregista e voce dello Spettro. La produzione era descritta come unaprova generale, da trasmettere sull’antesignana della tv via cavo.Geoghegan mi avrebbe portato a vederla e poi mi avrebbe presenta-to a Burton nel suo camerino: neanche se avessimo avuto un’udien-za dal papa sarebbe stato così emozionato.

    E la performance di Burton fu epica. E noi avevamo i posti miglio-ri. E nel suo camerino fu molto affabile e mi disse che il mio libro erala cosa migliore da non so più che cosa. E io gli dissi che il suo Amletoera migliore di quello di Olivier — migliore perfino di quello di Giel-gud, proseguii scriteriatamente, anche se Gielgud si trovava lì, perquanto ne so — migliore di qualunque cosa mi venisse in mente. Main mezzo a quell’alluvione di complimenti reciproci ciò che segreta-mente mi chiedevo era: questa meravigliosa, tonante voce da barito-no gallese e questo travolgente talento da triplo maschio alfa comepotranno mai calarsi nel personaggio di una spia inglese di mezza etàin balìa degli eventi, che non possiede fra i suoi tratti distintivi né ca-risma, né eloquio classico, né un aspetto da dio greco butterato? E an-che se all’epoca non lo sapevo, lo stesso dubbio tormentava Ritt, per-ché una delle sue prime battaglie, fra le tante che condusse nella guer-ra che ne seguì, riguardava come mettere la sordina alla voce di Bur-ton, una cosa che Burton non era particolarmente disposto a fare.

    * * *

    A questo punto eravamo nel 1965 e io avevo sentito per caso —non avevo ancora un agente cinematografico, evidentemente ave-vo una spia da qualche parte — che nell’ultima versione della sce-neggiatura del mio romanzo, Alec Leamas, il personaggio che Bur-ton doveva interpretare, invece di prendere a pugni un droghiere efinire per questo in galera veniva confinato in un ospedale psichia-trico e fuggiva attraverso la finestra di una stanza al primo piano. IlLeamas del mio romanzo non si sarebbe avvicinato a un ospedalepsichiatrico neanche per salvarsi la vita, perciò che ci faceva là? Larisposta, a quanto sembra, era che agli occhi di Hollywood la psi-chiatria era più sexy del penitenziario.

    JOHN LE CARRÉ

    C’era stata ovviamente una fasedi Entusiasmo Iniziale cui aveva fattoseguito, però, quella del GrandeSilenzio Senza SpiegazioniÈuna fase che può durare alcuni giorni o addirittura per sempre...

    La copertinaJohn Le Carré

    Da Vienna a Hollywoodla mia prima vera missione

    “La spia che venne dal freddo” è del ’63ma a rendere celebre lo scrittore

    ci pensò un pranzo al Connaught Hotel

    L’AUTORE

    John le Carré (David JohnMoore Cornwell il suo veronome), è nato a Poole, in Inghilterra, 81 anni faÈ stato un agente segretodel MI6 britannico, primadi divenire un celebre scrittoredi spy story. Oltre a La spia che venne dal freddo,tra i suoi 24 romanzi, i più famosi sono La talpa, La casa Russiae Il sarto di Panama

    Repubblica Nazionale

  • neva. E trangugiava ricche sorsate ogni volta che la solitudine diven-tava troppo pesante per lui, anche se — come ben presto fu evidente— l’unica cosa che Leamas aveva e Burton assolutamente no era lacapacità di reggere l’alcol.

    Che influenza avesse tutto questo sulla sua vita domestica non hoidea, al di là delle occasionali chiacchiere di poco conto davanti a unbicchierino di scotch: un disastro, Elizabeth non era per niente con-tenta. Ma non davo molto credito a queste confidenze. Burton, comemolti attori, non si dava pace finché non aveva trasformato istanta-neamente in amico per la pelle chiunque si trovasse davanti, comesapevo avendolo osservato esercitare il suo fascino su chiunque, dalcapo elettricista alla ragazza del tè, con palese irritazione del nostroregista.

    D’altra parte, Liz Taylor forse aveva le sue ragioni per non essereper niente contenta. Burton aveva fatto pressioni su Ritt perché des-se a lei la parte della protagonista femminile, ma Ritt aveva scelto in-vece Claire Bloom, con cui, secondo le voci che circolavano, Burtonuna volta aveva avuto un’avventura.E anche se la Bloom appena finite leriprese si rinchiudeva risolutamen-te dentro la sua roulotte, la sdegnataElizabeth probabilmente non gra-diva molto vedere quei due che flir-tavano sul set.

    * * *

    Immaginate ora una piazza illu-minata a giorno dai riflettori, a Du-blino, e il Muro di Berlino in tutta lasua odiosa verosimiglianza — co-struito con blocchi di calcestruzzo grigio e filo spinato — che la tagliada una parte all’altra. I pub stanno chiudendo e tutta Dublino è ac-corsa a godersi lo spettacolo, e come dargli torto? Per una volta tantonon piove e una squadra di pompieri locali è pronta con gli idranti: aOswald Morris, il nostro direttore della fotografia, le strade notturnepiacciono bagnate. Lungo il Muro, scenografi e tecnici apportano gliultimi affannosi ritocchi. C’è un punto dove dei paletti di ferro for-mano una scala rudimentale, quasi invisibile. Oswald Morris e Ritt lastanno studiando con attenzione.

    Tra pochi minuti Leamas salirà su questa scala, scosterà il filo spi-nato e, sdraiato sulla cima del Muro, fisserà inorridito il cadavere del-la povera donna che era stato convinto con l’inganno a tradire, stesadall’altro lato. Nel romanzo questa donna si chiama Liz, ma nel film,per ragioni troppo ovvie per star qui a doverle spiegare, è stata ribat-tezzata Nan.

    Tra pochi minuti, un aiuto regista o un altro funzionario scenderài gradini dello squallido seminterrato dove io e Burton ci siamo rin-chiusi nelle ultime due ore. Da qui emergerà Alec Leamas, con in-dosso un impermeabile liso, prenderà la sua posizione sul Muro e alsegnale di Ritt comincerà la sua fatidica scalata.

    Ma non succede nulla di tutto questo. La bottiglietta di whisky Haigè finita da tempo e anche se io sono riuscito a berne la maggior parte,Leamas forse sarebbe ancora in condizioni di fare la scalata, ma Bur-ton sicuramente no.

    Nel frattempo, fra i gridolini eccitati della folla, ha fatto la sua com-parsa la Rolls Royce bianca guidata da uno chauffeur francese e Bur-ton, che si scuote tardivamente per il clamore che viene da fuori,emette un ruggito gutturale gridando «Oh Cristo! È Elizabeth, idiota!»e sale di corsa le scale piombandosulla piazza. Dispiegando a tutto vo-lume quella voce di baritono che Rittè determinato a reprimere, inveiscecontro lo chauffeur — in un france-se traballante, nonostante lo chauf-feur parli perfettamente l’inglese —per aver abbandonato Elizabeth frale mani della teppaglia dublinese:un pericolo assai ridotto, a ben ve-dere, dato che la polizia di Dublino èvenuta al gran completo per assiste-re allo spettacolo.

    Ma nulla può arrestare la furiamelodrammatica di Burton. Con Elizabeth che guarda in cagnescoattraverso il finestrino abbassato, lo chauffeur innesta la retromarciae riporta la Rolls alla base, lasciando Marty Ritt in piedi accanto al mu-ro con il suo basco e l’aria dell’uomo più solo e arrabbiato del piane-ta.

    * * *

    In quel momento, e ogni volta da allora che ho guardato attori e re-gisti lavorare insieme ad altri film, mi sono domandato quale fosse lacausa dell’ostilità sempre più aperta fra Burton e Ritt e sono giunto al-la conclusione che era preordinata. Sì, certo, c’era l’irritazione origi-nata dal fatto che Ritt aveva rifiutato la Taylor per la parte di Nan e l’a-veva data alla Bloom. Ma per me la causa risaliva a molto più indie-tro, ai tempi in cui Ritt era un radicale ostracizzato, ferito e arrabbia-to. La coscienza sociale non era solo un atteggiamento, ce l’aveva nelsangue.

    In una delle poche conversazioni serie che ho avuto con Burton du-rante i nostri brevi bagordi comuni, lui si era quasi vantato del di-sprezzo che provava per la figura dell’uomo di spettacolo, mi aveva

    raccontato quanto avrebbe desiderato «fare come Paul Scofield»,cioè tenersi alla larga dagli eroi e dai soldi del grande schermo e ac-cettare solo parti di reale sostanza artistica. E Ritt sarebbe stato pie-namente d’accordo con lui.

    Ma questo non bastava a rivalutare Burton. Agli occhi dell’attivistadi sinistra, puritano, impegnato, marito fedele, Burton si avvicinavaa tutto ciò che Ritt per istinto condannava. Se andate a guardare le suefrasi celebri, ne troverete una che dice tutto: «Non ho una grande con-siderazione per il talento. Il talento è una cosa genetica. È quello chefai con il talento che conta». Già era un male anteporre l’arte al pro-fitto, o il sesso alla famiglia, o sbandierare la propria ricchezza e la pro-pria donna, o affogare ostentatamente nell’alcol, o andarsene tuttotronfio per il mondo come un dio mentre le masse chiedono a granvoce giustizia. Ma sprecare il proprio talento era un peccato verso glidei e verso gli uomini. E più grande era il talento — e i talenti di Bur-ton erano molteplici e straordinari — più grande era il peccato agli oc-chi di Ritt.

    Nel 1952, l’anno in cui Ritt venneostracizzato, Burton, il ventiduenneprodigio gallese dalla lingua d’oro,stava lanciando la sua carriera hol-lywoodiana. Non è una coincidenzache molti degli attori della Spia chevenne dal freddo — Claire Bloom eSam Wanamaker, per citarne due —fossero finiti anch’essi nella lista ne-ra del maccartismo. Se citavi unqualunque nome di quel periodo,subito Ritt ti chiedeva: «Dov’eraquello quando avevamo bisogno dilui?». Intendeva dire: questa perso-

    na ci ha difesi pubblicamente, ci ha traditi o è restata vigliaccamentein silenzio? E non mi sorprenderebbe se la stessa, persistente do-manda aleggiasse più o meno consapevolmente nella mente di Rittnella sua relazione con Burton.

    * * *

    Siamo in una casa sulla spiaggia battuta dal vento, a Scheveningen,sulla costa olandese. È l’ultimo giorno di riprese della Spia che vennedal freddo. È un set in un interno, molto angusto. Leamas sta nego-ziando la sua distruzione accettando di passare in Germania Est e ri-velare segreti preziosi ai nemici del suo Paese. Io gironzolo dietro aOswald Morris e Martin Ritt, cercando di fare del mio meglio per nonessere di intralcio. La tensione fra Burton e Ritt è palpabile. Le istru-zioni di Ritt sono laconiche e monosillabiche. Burton risponde a ma-lapena. Come sempre, in scene di chiusura del genere, gli attori di unfilm parlano a bassa voce e con naturalezza, tanto che ai non addettiai lavori sembra che stiano provando, più che recitando. Perciò,quando Ritt dice «fine delle riprese» e la scena finisce, rimango coltodi sorpresa.

    Ma non è finita. Cala un silenzio carico di aspettativa, come se tut-ti tranne me sapessero che cosa sta per succedere. Poi Ritt, che dopotutto è anche lui un attore di talento e un paio di cose sul tempismo lesa, pronuncia le parole che sicuramente si era tenuto da parte per quelmomento:

    «Richard, mi sono fatto l’ultima bella scopata con una puttana at-tempata, e ho dovuto farla di fronte allo specchio».

    Era vero? Era giusto?Non vero, certamente no, e non del

    tutto giusto. Richard Burton era unartista colto, serio, un autodidattadalla cultura eclettica, con appetiti edifetti che in un modo o nell’altro tut-ti condividiamo. Se è vero che era pri-gioniero delle sue debolezze, la suasmania di correggere il puritanesimogallese che era in lui non era così di-stante da quella di Ritt. Era irriveren-te, dispettoso, generoso, ma necessa-riamente manipolatore. Per le perso-ne molto famose manipolare è qual-cosa che viene da sé.

    Non l’ho mai conosciuto nei suoi periodi più tranquilli, ma avreivoluto farlo. È stato un Alec Leamas straordinario e in un anno diver-so la sua performance avrebbe potuto fruttagli quell’Oscar che gli èsfuggito per tutta la vita. Il film era cupo e girato in bianco e nero, e nonera questo quello che andava di moda nel 1965.

    Se il regista o il suo attore fossero stati qualcosa di meno, forse an-che il film sarebbe stato qualcosa di meno. All’epoca probabilmentemi sentivo più protettivo verso il tozzo, gagliardo e amareggiato Rittche verso l’esuberante e imprevedibile Burton. Un regista porta sul-le sue spalle tutto il peso del film, e questo include le stravaganze del-la sua star. In certi momenti avevo la sensazione che Burton facessedi tutto per sminuire Ritt, ma alla fin fine credo che fosse un matchabbastanza alla pari. E di sicuro è stato Ritt ad avere l’ultima parola.Era un regista brillante e appassionato, e animato da una rabbia giu-sta che nulla poteva placare.

    © 2013 by John Le Carré Published by arrangement with Agenzia Santachiara

    (Traduzione di Fabio Galimberti)

    © RIPRODUZIONE RISERVATA

    Qualche settimana dopo trapelò dalle linee nemiche la notizia chelo sceneggiatore, anche lui a suo tempo finito nella lista nera comeRitt, si era ammalato e che l’incarico era stato trasferito a Paul Dehn.Mi dispiaceva per lo sceneggiatore, ma mi sentivo sollevato. Dehn erainglese come me. Era l’autore di un film intitolato Ordine di uccidere,che mi era molto piaciuto. Inoltre, era uno di famiglia. Durante laguerra aveva addestrato agenti alleati a uccidere senza far rumore eaveva preso parte a missioni segrete in Francia e in Norvegia.

    Lo incontrai a Londra. Non aveva nessuna tolleranza verso gliospedali psichiatrici e nessun rimorso verso i droghieri presi a pugni.Fu ben lieto di rispedire Leamas in galera per tutto il tempo necessa-rio. E fu la sceneggiatura di Dehn quella che mi venne recapitata a ca-sa un paio di mesi più tardi, con un simpatico biglietto di accompa-gnamento di Ritt che mi chiedeva di dare il mio parere.

    In quel momento mi ero trasferito a Vienna e nella migliore tradi-zione degli scrittori travolti da un successo inatteso ero alle prese conun romanzo che non mi piaceva, un mucchio di soldi che non mi eromai sognato di avere e una baraonda coniugale che mi ero procura-to tutto da solo. Lessi il copione, mi piacque, dissi a Ritt che mi era pia-ciuto e tornai al mio romanzo e alla mia baraonda. Qualche sera do-po, il telefono squillò. Era Ritt, che chiamava dagli studi di Ardmore,in Irlanda, dove avrebbero dovuto iniziare le riprese. La sua voce erail sussulto strozzato di un uomo che è stato preso in ostaggio e lanciail suo ultimo messaggio.

    Richard ha bisogno di te, David. Richard ha bisogno di te a un pun-to tale che non recita le sue battute finché non gliele riscrivi tu.

    Ma che c’è che non va con le battute di Richard, Marty, a me sem-brano buone.

    Non è questo il punto, David. Richard ha bisogno di te e sta bloc-cando la produzione del film finché non ti avrà qui. Ti paghiamo il vo-lo in prima classe e una suite tutta per te. Che altro puoi chiedere?

    La risposta — se era proprio vero che Burton stava bloccando laproduzione del film per me — era che potevo chiedere la luna e mel’avrebbero data. Ma a quanto mi ricordo, non chiesi nulla. È passa-to mezzo secolo e io non sono uno che tiene diari: magari i documentinell’archivio della Paramount mi smentiranno, ma ne dubito. Forseero così smanioso di veder realizzato il film tratto dal mio libro chenon me ne preoccupai, o non osai. O forse volevo scappare dal casi-no che mi ero creato con le mie mani a Vienna.

    O forse ero ancora così inesperto da non capire che questa era unadi quelle opportunità irripetibili che un agente cinematografico ven-derebbe sua madre pur di poter sfruttare: un film in lavorazione,un’intera troupe della Paramount Pictures sul posto, sessanta per-sone solo di elettricisti lì a gingillarsi per il set senza nient’altro da fa-re che rimpinzarsi di hamburger gratis e una delle star del cinema piùpopolari del momento che si rifiuta di recitare finché la creatura piùdisprezzata di tutto il caravanserraglio del cinema — lo scrittore dalcui libro viene tratto il film, Santo Dio!— non gli verrà paracaduta sulset per tenergli la mano.

    Di sicuro so soltanto che attaccai la cornetta e il mattino seguentepresi l’aereo per Dublino, perché Richard Aveva Bisogno Di Me.

    * * *

    Ma era proprio Richard che aveva bisogno di me?O era piuttosto Marty?In teoria io ero a Dublino per riscrivere le battute di Burton, il che

    significava rielaborare delle scene a modo suo. Ma il modo di Burtonnon era sempre il modo di Ritt, con il risultato che in quel breve pe-riodo io diventai il loro mezzano. Ricordo che mi mettevo a tavolinocon Ritt per sistemare una scena, poi mi mettevo a tavolino con Bur-ton e la risistemavo, e poi tornavo in fretta e furia da Ritt. Ma non ri-cordo di essermi mai messo a tavolino con tutti e due contempora-neamente. E tutto questo processo durò solo qualche giorno, finchéRitt si dichiarò soddisfatto delle revisioni e Burton smise di fare resi-stenza. Ma quando dissi a Ritt che mi apprestavo a riprendere l’aereoper Vienna, lui cominciò a rimproverarmi come solo lui sapeva fare.

    Qualcuno deve stare dietro a Richard, David. Richard sta bevendotroppo. Richard ha bisogno di un amico.

    Richard ha bisogno di un amico? Non si era appena sposato conElizabeth Taylor? Non era leiun’amica? Non era lì con lui, bloccandole riprese ogni volta che arrivava sul set a bordo di una Rolls Roycebianca, circondata da altri amici? Come Yul Brynner e Franco Zeffi-relli; come agenti e avvocati in visita; come la famiglia di Burton, for-te di diciassette elementi e che occupava un intero piano di uno deipiù sfarzosi alberghi di Dublino, e comprendeva, da quanto avevo ca-pito, i vari figli di diversi matrimoni, i tutori dei suddetti figli, parruc-chieri, segretarie e, per citare le parole di un irriverente membro del-la troupe, il tizio che limava le unghie al pappagallo? Tutta questa ro-ba e Richard aveva ancora bisogno di me?

    Naturalmente sì. Lui in quel momento era Alec Leamas.E come Alec Leamas era un lupo solitario in cerca di una preda e in

    via di rincoglionimento, la sua carriera era all’apice e le uniche per-sone con cui poteva parlare erano degli estranei come me. Anche seall’epoca quasi non me ne rendevo conto, quella era la mia iniziazio-ne al processo di un attore che saccheggia le regioni più oscure dellapropria esistenza per estrarne elementi utili alla parte che deve in-terpretare. E il primo elemento da saccheggiare, se sei Alec Leamas invia di rincoglionimento, è la solitudine. Il che significava, in poche pa-role, che finché Burton fosse stato Leamas, tutta la corte che lo ac-compagnava era il suo nemico dichiarato. Se Leamas stava da solo,anche Burton doveva stare da solo. Se Leamas si teneva una botti-glietta di whisky Haig nella tasca del soprabito, anche Burton se la te-

    Occupava l’intero pianocon i vari figli, i tutori dei figli,i parrucchieri, le segretariepiù il limatore di unghiedel pappagalloE lui aveva bisogno di me?

    Trangugiava ricche sorsateogni volta che la solitudinediventava troppo pesante per lui,anche se l’unica cosa che Leamasaveva e Richard assolutamente noera la capacità di reggere l’alcol

    In questo esilarante racconto ineditoecco il giovane agente segreto

    scoprire le gioie e i dolori del successo

    ■ 39

    DOMENICA 24 FEBBRAIO 2013

    Repubblica Nazionale

  • ■ 41

    DOMENICA 24 FEBBRAIO 2013

    L’ideologo del chilometro zero e il manager della qualitànon temono il futuro: “Mangeremo meno e meglio” assicurano. Perché già oggi molte buone idee sono state seminate e non si potrà più tornare indietro

    OSCAR FARINETTI

    PROTAGONISTI

    Carlo Petrini e Oscar Farinetti a Pollenzo, dove ha sedel’Università di scienze gastronomiche

    gere “prodotto con latte di montagna”, anche gli spot delle grandiaziende alimentari puntano sulla qualità; certo, poi qualcuno fa lacazzata imperdonabile del cavallo dentro i ravioli, però sono eventirari. Tre quarti di quelle pubblicità positive sono strumentali, ma for-se almeno un quarto è virtuoso». Anche gli italiani stanno diventan-do ciccioni, i nostri figli fanno sempre meno sport, a parte lo strappodella merendina a metà pomeriggio. Carlin, come evitare il suicidiodi massa a tavola? «Nel piatto del futuro prevedo più frutta, più ver-dura e meno carne, senza demonizzare niente. Oggi in Italia consu-miamo novantacinque chili di carne pro capite all’anno, un’enor-mità, negli Usa sono addirittura centoventi mentre nell’Africa sub-sahariana siamo fermi a cinque. Contrazione e convergenza diven-tano parole chiave: contrarre i nostri eccessi e farli in qualche modoconvergere verso chi ha poco o nulla».

    Un diverso modo di mangiare sarà anche un diverso modo di farela spesa. Al mercato, più che all’ipermercato. «Stagionalità e territo-rio sono due cardini del futuro», ripete Carlin. «Il chilometro zero co-sta meno, è più buono ed è più logico. È assurdo cercare i cibi fuoristagione, si spende un patrimonio e non hanno gusto. Bisogna im-parare il governo del limite, è questo il nuovo paradigma: per pro-durre un chilo di carne bovina, oggi servono quindicimila litri d’ac-qua, è l’inizio di un clamoroso dissesto ambientale. Qui in provinciadi Cuneo siamo seduti su una bomba ecologica: le deiezioni deimaiali inquinano la prima e la seconda falda acquifera, e l’acqua in-quinata entra nella catena alimentare. A questo bisogna aggiungerela fine dei contadini, e quei pochi rimasti non li rispetta nessuno: ep-pure sono loro, tra le altre cose, a tenere insieme l’ecosistema. Il cibodi domani passa dal ritorno agli orti, l’ha ben capito Michelle Obamache ha sostenuto questa pratica nelle scuole americane, mentre danoi bisogna ancora confidare nella buona volontà degli insegnanti,in totale assenza della politica. Frutta e verdura saranno un modo percombattere l’obesità infantile, autentica pandemia del mondo occi-dentale». Altro caposaldo del pensiero slow: «Valorizzare lo scambioe la diversità, che resta la più grande forza creatrice del mondo. La pa-sta col pomodoro è il nostro piatto nazionale, ma né la pasta né i po-modori hanno origine italiana».

    Il cibo è un immenso contenitore dove stanno comodissime l’an-tropologia e l’economia, la sociologia e le scienze dell’alimentazio-ne, la salute e la ricerca di nuove tendenze. È godimento e moda, in-sidia e mercato. «Nel nord del mondo si spende l’ottanta per centoper oggetti che stanno fuori o attorno al corpo, e il venti per cento peril cibo», fa di conto Farinetti. «Dunque c’è un grande spazio di ma-novra perché, senza offesa per orologi e cravatte, le cose attorno alcorpo poi finiscono e hanno un po’ meno valore di quello che man-giamo. Ci sarà un motivo se l’istinto di conservazione della specie

    passa attraverso due orgasmi, quello del sesso equello del cibo. E a tavola, come nell’amore, seconosci davvero il tuo partner, se gli vuoi pro-

    prio bene, godi il doppio». Dunque, domani mangeremo meglio per-ché ne sapremo di più? «Certo, ed è un sapere che si va estendendo.Credo che Eataly, in coda a Slow Food e a Terra Madre, abbia avutouna parte di merito in questo processo culturale, non solo commer-ciale». E chissà se sta diventando cultura, cultura televisiva di massa,pure la crudeltà dei grandi cuochi sadici che dileggiano concorrentiimbambolati davanti alle telecamere. Carlin, che dire di MasterChef?«La cosa incredibile è che sta conquistando i bambini. Ma io mi chie-do: che senso ha?». E lei, Oscar, ogni tanto guarda questa graticolaumana? «Mah, se nei talent-show culinari si parlasse anche di terra eprodotti, niente da dire, invece si fa spettacolo. Stimo molto le com-petenze e la sapienza gastronomica di Bastianich e Cracco, due ami-ci, però si vede che recitano un copione». «Davvero», interviene Pe-trini, «io conoscevo Carlo Cracco comeun ragazzo timido, tutto il contrario diquello che viene fuori in tivù». La contra-zione del mercato e la moltiplicazionedei consumi alimentari sembrano dueaspetti in assoluta contraddizione, peròè quello che sta accadendo. Non solo ilpiatto è troppo pieno, come le arterie in-golfate di colesterolo, ma anche il carrel-lo. Una deriva, oppure un’opportunitàdi sviluppo? La crisi può trasformarsi inrisorsa? Mangiare meno e mangiaremeglio? Comprare con più cervello?«Oggi gli allevatori della provincia di Cu-neo vengono pagati il trentadue percento in più della media nazionale», ri-sponde Farinetti. «Questo permette diprodurre qualità, vivere bene, farsi le va-canze e costruirsi la casetta. È una delleragioni del mio ottimismo, perché la cri-si può non paralizzare, ma anzi miglio-rare il mercato. Purché, lo ripeto, si scelga la strada dell’eccellenza.Il periodo della “paura delle pillole”, cioè del cibo da ingurgitare alvolo come astronauti, è finito. Nonostante la cronaca degli ultimigiorni, si stanno riducendo anche i rischi di contraffazione: i raviolidi cavallo sono l’eccezione, non la regola. Nessuna azienda sana dimente sceglie di suicidarsi». E la ristorazione può uscire dall’imbu-to? «I governi devono mettersi in testa di aiutare chi lavora in modoserio, defiscalizzando e alleggerendo l’immane peso della burocra-zia. Tra tasse sulle insegne, sui rifiuti, imposte varie e controlli sa-crosanti ma a volte eccessivi, il ristoratore affoga. Ricordiamoci peròche in Italia ci sono meravigliose osterie, non solo i cuochi stellati, eloro rappresentano una risorsa enorme». In quel piatto non si pian-ge, si sorride di gusto, lentamente.

    © RIPRODUZIONE RISERVATA

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    ‘‘Poliziotti

    Le multinazionali si metteranno in riga,poliziotto sarà il consumatore consapevole

    Il cavallo nei tortellini è un’eccezione:nessuna azienda sana di mente

    sceglie di suicidarsi

    AmoreL’istinto di conservazione della specie

    passa attraverso sesso e ciboIn entrambi i casi

    se ami davvero il tuo partnergodi il doppio

    Eataly

    fornitori di 12milaprodotti in 20 negozi

    2mila

    euro di spesa mediaper un pasto

    15

    fatturato in eurodell’anno 2011

    212 milioni

    FighettiMangiare bene, in modo buono e giusto,

    non è più un vezzoda fighetti del gusto come me

    È diventato un valoreAdesso serve solo più chiarezza

    pulizia a tavola

    Repubblica Nazionale

  • LA DOMENICA■ 40

    DOMENICA 24 FEBBRAIO 2013

    Tra cibi contraffatti, cucina spettacolo e obesità in aumento, il piatto piangeConfronto tra due guru dell’alimentazione, il fondatoredi Slow Food e l’ideatore di Eataly. Per scoprire che la crisi ci salverà

    L’attualitàBuon appetito

    CARLO PETRINI

    POLLENZO (Cuneo)

    Il piatto piange, forse perché è troppo pieno. Ma cosa ci met-teremo dentro tra cinque anni? Tra dieci? Come evitare il tor-tellino di cavallo e la moda della cucina spettacolo? Comesgonfiare i nostri bambini obesi? Come mangiare meglio sen-za chiedere un mutuo alla banca (tanto, ormai non ne danno più)?Domande in fila come in una carta dei vini, più complesse del più in-comprensibile menù di uno di quei cuochi d’artificio che fanno i fe-nomeni con i sifoni, e vorrebbero stordirci con la cucina molecolare.

    Per capire cosa stiamo mangiando e cosa mangeremo domani,dopodomani, e come, forse è una buonaidea infilare l’autostrada che da Torinoscende in picchiata verso il mare, uscirea Marene, provincia di Cuneo, e prose-guire fino a Pollenzo, una gran pianura,un campanile e un’antica corte alla Er-manno Olmi. Qui, sulla facciata di unvecchio casale tirato a lucido, c’è scritto“Università degli studi di scienze gastro-nomiche”. È il regno di Carlin Petrini, in-ventore di Slow Food, uno degli italianiche più contano nel mondo, il carisma-tico profeta del cibo buono, pulito e giu-sto: il suo mantra. Nessun segreto ali-mentare sfugge in queste aule, nei labo-ratori che fanno tanto America nella Pro-vincia Granda, metà degli studenti sonostranieri, molti africani, con borse di stu-dio internazionali. Insieme a Carlin, inquesta mattina già odorosa di primave-ra anche se in terra c’è il biancore del

    ghiaccio e il riverbero azzurro-rosa della neve, ecco Oscar Farinetti,il guru di Eataly, gioco di parole che non è affatto un gioco. Nei suoinegozi si compra cibo come in un golosissimo viaggio in Italia, solo imigliori produttori hanno l’onore dello scaffale in una strategia as-solutamente glocal. E alle casse c’è sempre la coda, anche in tempodi crisi raggelante. L’ideologo e il mercante, sia detto col massimo ri-spetto, il filosofo del gusto insieme a chi quel gusto vende in modonuovo, quasi rivoluzionario, seguendo la scommessa della qualità edella tipicità. Se non lo sanno loro, cosa stiamo mangiando e cosamangeremo domani, non lo sa nessuno. «Io sono ottimista», dice Fa-rinetti: coerente, visto che proprio lui inventò i famosi slogan per To-nino Guerra (“Gianni, sono ottimistaaa!”, “L’ottimismo è il profumodella vita!”), quando il grandepoeta faceva pubblicità

    a lavatrici e televisori. «La gente ha ormai acquisito una diffusa con-sapevolezza del cibo, ne ha conoscenza e cultura. Mangiare benenon è solo un vezzo da fighetti del gusto, me compreso, ma un valo-re: per mangiare bene, intendo anche in modo giusto e pulito. Si tor-na sempre al folgorante libro di Carlin. Sul buono, il più è fatto, men-tre il pulito sarà una componente di marketing micidiale: purché sisemplifichino le cose. Oggi tra biologico e biodinamico c’è ancoraconfusione, al consumatore serve chiarezza». La chiarezza di sape-re, se possibile, cosa diavolo stiamo mangiando, a che ora della gior-nata ci scapperà il primo nitrito e se qualcuno bara. «Il futuro del ci-bo passa sempre attraverso il rispetto dell’ambiente e dei contadini»,dice Carlin. «Domani mangeremo meno e mangeremo meglio, ri-cordando che il consumo non è l’unica risposta alle difficoltà del pre-sente, anzi. Oggi si produce cibo per dodici miliardi di viventi, anchese nel mondo siamo sette miliardi di cui un miliardo non mangia.Vanno distrutti milioni di tonnellate di cibo, la crisi è entropica, con-sumiamo troppa energia per produrne pochissima e stiamo finen-do l’acqua, la vera emergenza di domani».

    Sembra di capire che nel nostro piatto finirà meno roba, però piùbuona. Ma a quali cifre, Farinetti? «L’unica chance è la qualità alta,siamo italiani e dunque siamo fortunati, perché qui da noi c’è tutto ilmeglio. Il futuro del cibo è artigianato e manualità: anche le multi-nazionali si metteranno in riga, perché il poliziotto del gusto è il con-sumatore consapevole. Se questo signore qui...» e Oscar indica Car-lin «un giorno andasse in tivù per dire di non comprare più nessunprodotto con la lettera E sull’etichetta, dove E sta per coloranti, ne ve-dremmo delle belle. Su quelle etichette, però, oggi si comincia a leg-

    MAURIZIO CROSETTI

    ‘‘Eccessi

    Un cittadino italianomangia quasi cento chili di carne all’anno,

    un africano cinqueOccorre contrarre i nostri eccessi

    e farli convergere verso chi ha poco o nulla

    LimitiIl chilometro zero costa meno,

    è più buono ed è logicoAssurdo cercare i cibi fuori stagione,

    si spende un patrimonio e non hanno gustoBisogna imparare il governo del limite

    Slow Food

    soci in 150 Paesidi tutto il mondo

    100mila

    partecipanti ai 3500Master of Food

    70mila

    iscritti all’Universitàdi scienze gastronomiche

    1.169

    ConsumiTutto passa attraverso il rispettodell’ambiente e dei contadiniDobbiamo sempre ricordarci

    che il consumo non è l’unica rispostaalle difficoltà del presente, anzi

    E ora facciamo

    Repubblica Nazionale

  • LA DOMENICA■ 42

    DOMENICA 24 FEBBRAIO 2013

    Vissero in simbiosiper oltre vent’anniLei non era soltantola devota governantedel poeta romanoma il suo alter ego,il suo filtro col mondo“L’ho amato tanto,ma di un amore puro”confessò alla finedei suoi giorniDa analfabetaera diventata poetessaMorì, solae povera,con un sogno:vedere pubblicatii suoi sonettiEccone alcuni

    La storiaVite nascoste

    la donnadi Trilussa

    TomeiRosa

    La signoranon aveva nem-meno cinquant’anni, mane dimostrava già troppidi più. Minuta e semin-ferma stava cercando fa-ticosamente di mettersi a

    sedere nel suo letto d’ospedale. La ra-gazza, una studentessa in Lettere chenel tempo libero faceva volontariato alPoliclinico romano, la notò arrancaree le andò in soccorso. «Questo è viverepericolosamente» si schernì l’anzia-na. Chiacchierarono un po’ e, nei gior-ni successivi, la ragazza prese a farle vi-sita sempre più spesso. Non c’era nes-sun altro che andasse a trovarla. «No,non ho nessuno. Sono sola, è finito tut-to. Ho amato molto qualcuno, che nonc’è più, ma di un amore puro» le con-fessò la donna. Solo alcune settimane

    dopo la giovane Enrica Schettini Piaz-za, che sarebbe poi diventata respon-sabile dei testi storici dell’Accademiadei Lincei, venne a sapere che quellastramba degente era stata, come le dis-sero con tono dispregiativo gli infer-mieri, «la serva di Trilussa», morto do-dici anni prima, nel ’50: Rosa Tomei.Per ringraziarla dell’amicizia e dellacompagnia, prima delle dimissioni, laTomei le aveva affidato uno scartafac-cio di fogli leggeri battuti a macchina:«Una cosa pe’ te la posso fa’: queste so’ lemie poesie, si so’ bbone le pubbliche-ranno». Erano bbone, ma fino a oggisono rimaste dentro un cassetto.

    Rosa Tomei — morta infine nel1966, sola e paralitica quattro anni do-po quell’incontro — è stata una figurafondamentale quanto misteriosa nel-la vita di Trilussa. Governante, segre-taria, perpetua, fantesca, cuoca, infer-

    miera, complice, alter ego, allieva: ma,si presume, nulla di più, condannataall’«amore puro». La sua devozioneper il pigmalione non fu mai ricambia-ta, tanto meno sul profilo economico:non le pagò mai un salario né le lasciònulla. «Nun t’ho manco sistemata...» siscusò il poeta romanesco sul letto dimorte. E cinque anni più tardi Rosa fusfrattata dalla casa di via Maria Adelai-de, vicino a piazza del Popolo, dove perventun’anni aveva servito er sor pa-drone, come lo chiamava. Imparando,divertendosi e soffrendo in silenzio.

    Rosa, diminutivo di Rosaria sceltodal poeta, era salita tredicenne dallaCiociaria: rozza e analfabeta, ma giàparecchio svelta di cervello. Arguta,forte e spiritosa aveva saputo rapida-mente conquistarsi la fiducia di Trilus-sa fino a diventarne il punto di riferi-mento indispensabile di una vita. Non

    solo curava la casa e i gatti Pomponio,Poppea e Ajo’, ma arrivò presto a sce-gliere personalmente l’abbigliamentodel sor padrone, tenerne la corrispon-denza, scrivere addirittura sonettiapocrifi e firmare autografi in vece suada scambiare con generi alimentari intempi di guerra. Divenne il suo filtrocol mondo, intrattenendo gli ospitigraditi e sbarazzandosi degli altri, tol-lerando paziente le sempre più rare in-cursioni femminili di soubrette e belledame irretite dal poeta, per protegger-ne infine l’isolamento forzato dallamalattia degli ultimi anni. Rosa nonera certo avvenente, anche se nel filmtv della Rai (in onda il 10 e 11 marzo) leverrà riconosciuta l’incoerente bellez-za di Monica Guerritore, accanto a Mi-chele Placido nei panni di Trilussa.

    Non solo Rosa aveva imparato infretta a leggere e scrivere, mandando a

    memoria tutti i versi del suo mentore(con titoli e data di pubblicazione) an-che per recitarli ai ricevimenti, ma ellastessa s’era dedicata a comporre so-netti in stile simile. «Sei venuta anar-fabbèta e mo’ pure la poetessa voi fa’...»la canzonava lui. La sua passione dabambina, in verità, era il canto e, appe-na giunta nella capitale dal paesino diCori in provincia di Latina, si esibivaintonando stornelli insieme ai suona-tori ambulanti nella trattoria degli zii alquartiere Flaminio: il padre Romual-do aveva brigato per farle conoscerePetrolini, affinché fosse il grande atto-re ad assumerla, e proprio Trilussa,abituale avventore dell’osteria, avreb-be dovuto fare da tramite. Ma, dopoqualche mese di apprendistato a casasua, lo scrittore si convinse che Petro-lini avrebbe dovuto cercarsi un’altradomestica: «Io de qua nun me movo».

    EMILIO MARRESE

    Repubblica Nazionale

  • ■ 43

    DOMENICA 24 FEBBRAIO 2013

    Dopo la morte di Trilussa, Rosa sibatté invano per conservarne la me-moria, ma non riuscì a fare dell’abita-zione un museo come avrebbe volu-to, nonostante il sostegno di moltiesponenti della cultura romana. Uncaustico sonetto lo dedicò all’allorasindaco Rebecchini, colpevole di averassegnato a Trilussa una tomba delVerano non consona: “Perché li pezzigrossi nun li tocchi, ma li salamelecchico’ l’inchini? Te porto un bon’esempio:er mi padrone, che pe’ fa’ sordi nun cia-veva pratica, chi lo chiamò poeta e chifregnone; insomma, senza tanta ma-tematica, volevo ditte questo in con-crusione: poteva avé un palazzo e cià‘na chiavica”.

    Struggenti e teneri i versetti rivela-tori che Rosa componeva per Trilus-sa, densi del rimpianto per una vitasolo sognata: “Nessuno saprà mai co-

    me dentro la testa t’ho creato; de checolore, io, t’ho fatto l’occhi, er nome chet’ho dato, fijo che nun sei nato (...) T’horaccontato mille e mille favole pienede fantasia; t’ho fatto volé bene a tan-te cose: a l’omini, a li fiori, a la poesia ea tutto quanto quello ch’ho sognato enun ho mai trovato”. Il rapporto tra ilmaestro e la sua vestale era quasi di ti-po coniugale, riferiscono, nella confi-denza e anche nel battibeccare. Ri-masta senza padrone, né amore nécasa si arrangiò facendosi ospitare daconoscenti qua e là, magari in cambiodi qualche poesiola. Frequentavaspesso una trattoria di via dei Serpen-ti, dove si radunavano i cosiddettipoeti romanisti. Se ne andò appenacinquantenne in una stanza del SanCamillo. Chissà se poi sia riuscita nelsuo intento, altrove.

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    Chissà Trilussa, poeta di Omini e bestie, favoloso interprete di animali parlanti, cosa farebbe raccontare ai ca-gnolini elettorali. Chissà quale sardonica analisi, lui che con la teoria del pollo a testa aveva immortalato le il-lusorie distorsioni della statistica, dispenserebbe oggi sulla crisi economica. Quando la vita pubblica si agita,

    e l’euforia raggiunge l’azimut della campagna elettorale, torna anche utile ripensare a certi versi trilussiani sull’e-terno candidato bugiardone della commedia politica all’italiana: “E poi parlò de li princìpi sui: e allora pianse, pian-se così bene, che quasi ce rideva puro lui”. Sono frecce dolcemente avvelenate e tanto più dolci in questo tempo diparossismi isterici e disastri buffi. Forse non è un caso che Trilussa ebbe il massimo ascolto e la pienezza della glo-ria letteraria proprio all’indomani della catastrofe della Guerra Mondiale, quando tutto imponeva di accogliere glieventi ridimensionandone l’inutile furore, con scaltre allusioni sollevando il sudario che a lungo aveva incartato laretorica. E tuttavia ancora una volta si capisce che certi compiti di disvelamento toccano in sorte a figure che vivo-no in anticipo o in ritardo, comunque fuori dal loro tempo. Trilussa, che poi era Carlo Alberto Salustri, figlio di ca-meriere (o forse di aristocratico) e di mamma bolognese, era uno di questi previssuti o sopravvissuti cui si deve il do-no della favola metafisica applicata alla vita quotidiana, analgesico dell’anima, risorsa preziosa di una signorilitàche conviveva con un’antica e civile pigrizia. Era un uomo lungo lungo, una specie di trampoliere con baffi a ma-nubrio, un personaggio da cartoni animati che oltretutto vestiva parecchio strano, enormi cravatte, gilet eccentri-ci, un po’ borghese, un po’ crepuscolare e un po’ dannunziano. Viveva in una specie di sacrario, contornato di fe-ticci, talismani e raffinatissime stranezze. Appassionato di donne, scapolo impenitente, si calava gli anni, mangia-va poco, alzava un po’ il gomito, aveva le mani bucate, diffidava degli intellettuali, piuttosto soccorreva gatti di stra-da e solo per questo entrò in contatto con Elsa Morante. Ebbe un enorme successo di pubblico e, per quel poco chegli importava del potere, la stima della più inedita e straniante trinità: Mussolini, Croce e Togliatti. Nel 1950 Einau-di lo nominò senatore a vita: «Siamo ricchi!» disse allora a Rosa Tomei. Due settimane dopo morì. Si era preoccu-pato anche di far distribuire un bigliettino postumo agli amici: “Trilussa ringrazia”.

    L’attualità del pollo e del bugiardoneFILIPPO CECCARELLI

    POESIE

    Rosa Tomei,al centro,in posa accantoal monumentoa TrilussaE, a destra,nella casadel poetaQui a fiancogli originalidi due sonettidella Tomei

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    DICHIARAZIONEDopo tant’anni che te stò vicino,lo sai sì quanti vizzi m’hai insegnatouno soltanto io nun l’ho maiimparato: / quello d’abituammea bere er vino. / Penza che sfirzade parole belle / ch’avrei cantato a temezza imbriaca: / invece ho fattocome la lumaca, / strisciai per terae nun guardai le stelle. / Ma ormaime pesa troppo er sacrificio:io cerco ma nun trovo più riparo,dentro de me c’è porvereda sparo, / che prepara li fochid’artificio. / La miccia sta briciannoa poco a poco, / ed uno de ’sti giornichiaro assai /tu leggi quelloche nun dissi mai, / scritto per cieloa lettere de foco

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    © RIPRODUZIONE RISERVATA

    LA FATTURAIo porto ne la mano un tamburello e nun lo sono mai; / io porto ne legambe un sartarello, però nun ballomai. / Me so’ comprata un ber broccatto rosso: / ciò fattoun vestitino scampanato;’na fattucchiera ha detto: / - Chi te lo vede addosso /, deve pe’forza rimané stregato. / Da tanto che me giri pe’la mente, / ma nun medo pensiero: / ancora nun so’ certaveramente / se vojo quell’imperoMa er giorno che decido de fermatteme metto addosso er vestitino rosso e ballo er sartarello / sonannoer tamburello a più non posso Indove scappi, amico, pe’ le fratte? Pe’ te è finita, scatta la tajola: / a furia de girà te rimbambisco e finarmente guarderai me sola

    ‘‘

    Repubblica Nazionale

  • SpettacoliEstremi

    DISEGNI

    Qui sopra, i bozzetti realizzati da Salvatoresdurante le riprese del film: si riconosconola sala da pranzo del giovane Kolimae la camera da letto del nonno Kuzja

    LA DOMENICA■ 44

    DOMENICA 24 FEBBRAIO 2013

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    GABRIELE SALVATORES

    Girarea

    Vestiti come scalatoritra cineprese ghiacciate,attori in crisi ipotermica,sabotaggi mafiosi e nostalgie sovieticheIl diario siberiano che il registaha tenuto

    durante i tre mesidi lavorazionedel suo ultimo filmora nelle sale

    Repubblica Nazionale

  • RIPRESE

    Nelle immaginidi queste paginealcuni momentidelle ripresesotto la neveQui a destra ,un bozzettorealizzato dopo un sopralluogo nel quartiereShangai a Vilnius

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    DOMENICA 24 FEBBRAIO 2013

    Adesso so perché gli americani e gli inglesi usano lo stesso verbo,to shoot, per dire sparare con un’arma o girare con una cinepre-sa. Fare un film ha qualcosa a che fare con la guerra: entrambe lecose richiedono un gran lavoro fisico, per entrambe ci sono ter-mini come troupe, crew, reparti, ordini del giorno... Dico questoperché Educazione siberiana è stata un’esperienza estrema, che

    ha messo molti di noi di fronte a se stessi, alla propria capacità di resistere e an-dare avanti malgrado tutto.

    La Siberia del mio film è la Lituania. Il mio primo sopralluogo è iniziato nel no-vembre 2010 dopo che già da un anno la scenografa Rita Rabassini e il direttoredella fotografia Italo Petriccione andavano in giro negli Stati dell’ex Unione So-vietica: cercavamo un luogo particolare, una città con quartieri diversi dal puntodi vista architettonico, sociale e storico. Vilnius, la capitale della Lituania, facevaal caso nostro. È una città interessante — consiglio di andarci a fare un giro. Tra lecapitali delle tre repubbliche baltiche, Riga è bellissima, ma Vilnius credo abbia ilcentro storico più grande d’Europa. Soprattutto era perfetta per l’ambientazionedella storia: un centro medievale molto ben conservato, intorno una vasta area diquartieri popolari costruiti negli anni del blocco comunista. E, nascosto dai primigrattacieli, spuntati come funghi negli ultimi anni, c’è un villaggetto che chiama-no “Shangai”, fatto di piccole case di legno, semi abbandonato, abitato per lo piùda gitani e dichiarato dall’Unesco “patrimonio dell’Umanità”.

    Arrivati a Vilnius, però, ci siamo resi conto che le difficoltà non sarebbero man-cate. È una città attiva, vivace, con tanti locali per giovani, ma la ricettività è scarsa.Inoltre abbiamo subito capito che non sarebbe stato facile spiegare a una popola-zione che odia i russi e che ha dovuto subire pesanti deportazioni in Siberia, chedovevamo girare un film sull’ex Unione sovietica proprio lì da loro. Ma il primo ve-ro problema è stata la neve. L’assenza di neve. Non ce n’era affatto. Per la primavolta a memoria di lituano, in quell’inverno del 2010 non si era visto un solo fioc-co. Nevicava dappertutto lì intorno, in Polonia, in Germania, in Danimarca ma nonin Lituania. E noi dovevamo girare un film che si sarebbe chiamato Educazione si-beriana. E credo che chiunque, quando si dice Siberia, pensi alla neve. Questo ciha costretto a cambiare più volte il piano di lavorazione. John Malkovich, il nonnoKuzja del film, era sotto contratto per due settimane di lavorazione. Abbiamoquindi dovuto girare con lui alcune scene con la neve finta, neve di cellulosa, noninquinante, assolutamente identica a quella vera che ci puoi perfino lasciare l’im-pronta. Ma puoi coprire solo singole zone, non un intero paese con la neve finta.

    Poi, senza preavviso, la neve è arrivata. Tantissima. Secca e ghiacciata. Tantoda sommergere l’intera città in meno di mezz’ora. Se fino a quel momento ave-vamo lavorato a temperature intorno allo zero, di colpo, con la neve e il ghiaccio,ci siamo ritrovati a meno trenta. E dovevamo girare all’aperto, di notte e spessocon dei bambini in scena. Ogni mattina vestirci era un lungo rituale. Dovevamoindossare una serie di indumenti tecnici: maglia termo isolante, calzamaglia,pantaloni imbottiti, piumino da spedizione artica, calze autoriscaldanti, doppiescarpe e una maschera per il viso di materiale isolante. Io ci mettevo circa ventiminuti prima di essere pronto per uscire, perché non è come andare sul MonteRosa o sull’Himalaya. Fino ai quattromila io ci sono arrivato, lassù ti muovi e il ca-lore sviluppato dal movimento ti aiuta. Ma quando giri un film stai a lungo fermoin piedi, o seduto davanti a un monitor. Ogni ora dovevamo interrompere per an-dare a riscaldarci. La macchina da presa era sempre a rischio di ghiacciare. Dun-que era sempre protetta da una copertina termica, di quelle che si usano per leculle o i passeggini dei bambini: due di noi erano lì apposta per tenere i phon ac-cesi sull’intersezione tra obiettivo e camera per mantenere fluidi i movimenti enon farli bloccare. Un tecnico ci ha rimesso i polpastrelli, perché la pelle delle di-ta gli era rimasta incollata sull’obiettivo ghiacciato. Spesso abbiamo dovuto fargirare la macchina da presa «a passo uno», cioè un fotogramma al secondo, pernon far grippare il motore.

    Non avevo mai lavorato in condizioni così estreme e con centocinque personedella troupe da governare, organizzare e incoraggiare. Il secondo giorno doveva-mo girare la scena dell’alluvione del fiume. Ovviamente non un fiume vero, la cor-

    GABRIELE SALVATORES rente ti trascinerebbe via. Abbiamo trovato uno specchio d’acqua fermo, strettotanto da sembrare un fiume, ma avevamo bisogno di ricreare la corrente e di po-terla controllare. Abbiamo quindi utilizzato una turbina sott’acqua, due gom-moni da trecento cavalli ancorati a dei bulldozer e con i motori al massimo, duegru per le luci alte settanta metri, stuntmen, uomini della protezione civile, som-mozzatori. Nel caso fosse successo qualcosa. Ed èsuccessoqualcosa: uno degli at-tori, un ragazzo di diciannove anni, molto magro, ha avuto una crisi di ipotermiain acqua. Mi sono rifugiato nel camper in preda a una crisi di sconforto. Ma gli at-tori sono stati straordinari. Tutti. Non dico solo i due ragazzi protagonisti, ArnasFedaravicius e Vilius Tumalavicius, i due lituani che, essendo al loro primo film,erano disposti a tutto. Parlo anche dei sessanta o settanta anziani che facevano lecomparse, per ore sotto la pioggia gelata. Dei novanta ragazzini completamenterasati in una vecchia fabbrica di birra dell’Ottocento, abbandonata da decenni ebonificata da noi per tre giorni prima di poterci entrare. Bambini di sei o sette an-ni, che la mattina alle cinque tornavano a casa da soli, come soldatini. E parlo diEleonor Tomlinson, diciannove anni, inglese, ex modella, attrice di Tim Burtone Brian Singer, che ha girato nel fiume gelato o sotto la pioggia con indosso solouna camicia da notte, senza mai lamentarsi. E di John Malkovich: un grande in-contro. Un giorno dovevamo girare una scena in cui lui doveva essere più vecchiodi dieci anni: il suo personaggio, nonno Kuzja, una specie di ultimo dei mohica-ni, il baluardo di un mondo che sta crollando, era a quel difficile turning pointcheper un uomo rappresentano i sessanta. All’inizio del film avevamo deciso insie-me di non usare il trucco per l’invecchiamento, di cercare qualcosa di più “inter-no” e autentico. Sapevo che John da qualche giorno aveva un po’ di febbre e unpotente raffreddore. Il giorno delle riprese lo vedo arrivare sul set, scendere a fa-tica dall’auto, salire i gradini del suo camper quasi piegato in due. Mi avvicino su-bito per dirgli che, se non stava bene, potevamo rinviare le riprese. Lui mi guardae mi dice: «Gabriele, me lo hai chiesto tu: sono solo più vecchio». Stava usando ilsuo reale malessere per il nostro film.

    Le riprese sono durate dodici settimane. Un mese, forse anche di più, nella ne-ve. Ci siamo confrontati con le piccole mafie locali e due auto di scena le abbia-mo ritrovate, per vendetta, nel fiume. Un colpo di pistola ha frantumato il para-brezza del camion del catering. Ma abbiamo affrontato anche situazioni diver-tenti. Dovendo trasformare la Lituania in una regione della Russia, ci servivanole scritte in cirillico per le strade, le auto dell’ex Unione sovietica, le targhe sovie-tiche, i pacchetti di sigarette sovietiche. Ricordo che, per esigenze di scena, do-vevamo collocare una statua di Lenin in una piazza di un paesino di campagna.La scenografa fa costruire una statua in vetroresina, identica a quelle di metallodell’era sovietica, e la sistemiamo nella piazza. Il giorno delle riprese arriviamosul set e vediamo un gruppo di persone impegnate in una accesa discussione in-torno alla statua. Qualcuno stava già per arrivare alle mani. C’era chi voleva subi-to rimuovere quella statua dalla piazza e chi, invece, proponeva di lasciarla lì, esat-tamente dove era sempre stata. Un uomo diceva che non poteva continuare adavere sotto il naso l’immagine di chi gli aveva tolto la libertà e una donna gli chie-deva cosa se ne faceva adesso della libertà visto che non aveva più un soldo né ri-scaldamento e né elettricità. Anche alla stazione di Vilnius abbiamo dovuto leva-re tutti i cartelli e le scritte in lituano per sostituirle con quelle in cirillico, vestire isoldati e le guardie con le uniforme sovietiche, mettere bandiere e simboli co-munisti. La gente che arrivava con i treni in normale servizio di linea scen-deva in quella stazione e rimaneva a bocca aperta: avevano forse fatto unviaggio nel tempo, indietro di vent’anni?

    Educazione siberianaè un film, per quanto mi riguarda, di prime volte. Èil primo lavoro per una produzione di cui non sono socio, la prima volta ininglese, la prima volta con una troupe di centocinque persone e neancheun attore italiano. E, quindi, ho imparato più cose in questo film che in tut-ti gli altri. È stato un mettermi alla prova, misurandomi proprio con quel so-gno che da ragazzo mi aveva fatto venir voglia di fare il cinema: un cinemafatto di storie grandi, con personaggi “forti”, con un respiro epico.

    Ho perso quasi cinque chili durante il film, ma adesso so qualcosa di piùdel lavoro che faccio.

    SET

    Sotto, la statua di Leninin vetroresinafatta costruireper alcune scene;in basso, invece,una delle statuesul Green Bridgedi Vilnius,tipico esempiodi realismosovietico

    GIOSTRA

    In alto a sinistra, la scenadell’alluvionequandouno degli attoripiù giovaniha una crisidi ipotermiain acqua Al centro, il bozzettooriginale di Salvatorese le sue note per la scenografia Qui sopra,la piazzacon la giostra“colorata e inutile”realizzata per il film

    © RIPRODUZIONE RISERVATA

    Repubblica Nazionale

  • LA DOMENICA■ 46

    DOMENICA 24 FEBBRAIO 2013

    LAVORO MINORILE

    Un intermediario cinese ha falsificato

    i documenti di identità di 74 cinesi minori

    di 16 anni (l’età minima per lavorare)

    per farli assumere da un fornitore

    della Apple, ma la frode è stata scoperta

    Paper generator

    Software che crea,

    assemblando

    in automatico frasi,

    un paper su materie

    specifiche

    Uno di questi falsi

    era stato accettato

    da una rivista

    Ologrammi

    Figure, ottenute

    attraverso

    procedimento laser,

    che danno un effetto

    tridimensionale

    Ormai i falsari hanno

    imparato a replicare

    anche quelle

    Codice Qr

    Codice a barre

    bidimensionale

    che memorizza

    informazioni

    generalmente

    destinate a essere

    lette tramite cellulare

    o smartphone

    Biometria

    Un sistema

    di riconoscimento

    che identifica

    una persona

    sulla base di una

    o più caratteristiche

    biologiche e/o

    comportamentali

    NextTruffe 2.0

    Noncapita spesso che un giorna-lista firmi uno studio scientificoassieme all’inventore del web eal papà di Google. Nel caso spe-cifico, per aver messo a puntoun algoritmo che facilita l’ap-

    prendimento nei corsi online. Diciamo chenon capita proprio. Eppure, quando il sotto-scritto ha annunciato sul sito di Repubblica diaver scritto un paper con Tim Berners-Lee eLarry Page, un certo numero di persone purmolto sveglie e con uso di mondo ci ha fatto lefelicitazioni: «Bravo, non immaginavo!». Gra-zie, neanch’io. Va detto che il documento eraimpeccabile. Col suo bell’abstract, quel carat-tere Times New Roman penitenziale, i grafici adispersione che fanno subito scienza. Tuttoassemblato in automatico da SCIgen, un gene-ratore casuale di testi accademici concepito daalcuni studenti del Massachusetts Institute ofTechnology.

    Non abbiamo fatto del male a nessuno. Vo-levamo solo provare un argomento, vecchiocome la Rete: su Internet nessuno sa che sei uncane, come recitava la celeberrima vignetta delNew Yorker. Fa però una certa paura sapere chenegli Stati Uniti chiunque possa comprare ar-mi automatiche, alla faccia di eventuali con-danne penali, con patenti farlocche. O che inCina un signorotto locale possa acquistarequaranta appartamenti che non gli sarebberospettati con l’aiuto di centonovantadue docu-menti taroccati. O che una signora ingleseeserciti la professione legale (ma poteva esse-re medica) a New York grazie a titoli “photo-shoppati”.

    L’industria dei documenti falsi è entrata nel-la globalizzazione dalla porta del web. E nonstiamo parlando di semplici curricula di can-

    didati politici rimpinguati da un paio di laureeo master mai conseguiti. Prima, se volevi unpassaporto contraffatto, dovevi cercarlo in pe-riferie dimenticate, in piccoli antri loschi e malilluminati. Era uno spaccio artigianale. Soloper esigenze di drammatizzazione, nel thrillerThe next three days, Russell Crowe, che orga-nizza tutto il suo piano via Rete, affronta unascazzottata per andare a ritirare dal vivo lamerce. Più coerentemente, avrebbe potuto or-dinare dal computer di casa e ricevere i docu-menti via posta. Così fan tutti, o almeno sem-pre di più.

    Si comincia presto. Il diciassette per centodelle matricole e il trentadue per cento deglistudenti degli anni successivi, stando a unostudio del 2009 sugli atenei statunitensi pub-blicato di recente dall’Economist, possedereb-bero un qualche documento falso. Utile piùche altro per aggirare il divieto di consumarealcolici prima dei ventun’anni. Però, una voltache puoi dimostrare di essere un altro, magariti vengono in mente ulteriori possibilità. I nu-meri, garantiscono gli esperti, sono nel frat-tempo cresciuti. E i bar vicini ai campus hannopreso l’abitudine di chiedere due diversi docu-menti di identificazione.

    In Cina sono più laschi sui controlli per l’etàetilica, molto meno per farti entrare in un In-ternet cafè. Per rimediare o si cerca un pusherdalle parti dell’entrata orientale dell’univer-sità Remnin di Pechino, oppure si chiede in Re-te. C’è un sito apparentemente inglese, dall’in-dirizzo piuttosto esplicito (MyFakeId: La miafalsa identità) dove una patente internaziona-le vale venti sterline e una che attesta che sietestudenti (utile, ad esempio, al fine di otteneresconti ai musei o sui mezzi di trasporto) sol-tanto dieci. A valutare dalle immagini, sem-

    brano ben fatte. Da una rassegna più ampiaperò si capisce che questa è la fascia low cost. AFalseDocuments, per dire, un passaporto ame-ricano va sui seicento dollari. Come con le bor-se di Louis Vuitton in vendita su Alibaba.com,si va da una fino a sette stelle di valutazione. Sevuoi gli ologrammi, le microstampe, i codici abarre di ultima generazione devi pagare. Loconferma, sempre al settimanale britannico, ildirettore di un’unità anticontraffazione pub-blica in Florida, David C. Myers: «Dieci anni fauna buon ID falso poteva essere comprato dai35 ai 50 dollari. Adesso si deve essere pronti aspenderne dieci volte di più». Per contenere irincari, come ogni manifattura che si rispetti,si è delocalizzato in Asia: costo del lavoro in-commensurabilmente inferiore e rintraccia-bilità dei falsari aleatoria. Tutto ciò che si vedeall’esterno è una home page, magari con unsuffisso telematico delle Isole Cocos, che ri-manda a un laboratorio nello Guangdong. Fbi,prova a prenderli.

    Non c’è neppure bisogno di puntare diretta-mente al bersaglio alto, tipo passaporto o car-ta d’identità. Puoi fare come Thomas W. Seitz,scoperto dall’investigatore Myers. «Chiunqueabbia qualche competenza informatica» ha te-stimoniato davanti a una commissione d’in-chiesta del Senato anni fa «può scaricare dalweb ogni tipo di modulo per riprodurre dei do-cumenti d’identità falsi d’alta qualità». Lui neaveva modificato uno preso dal sito del fisco e

    RICCARDO STAGLIANÒ

    GLOSSARIO

    Si moltiplicano, anche grazie ai sitidisponibili in Rete, i casi di documentifalsificati. Quella che segue è una sommaria rassegna di esempi più significativi che si sono verificatisolo nell’ultimo mese

    Crearsi un’altra identità su Internet ormaiè facilissimo: documenti, passaporti, patenti,tesi di laurea. Finché è utile ai minorenniper farsi servire alcolici al bar, il dannoè limitato: ma c’è chi così esercitaprofessioni, compra armi

    oppure ottiene mutui. È la nuovasfida della cyber-polizia ai pirati del web

    L’EPIDEMIA DEL

    FAKE

    Photoshop

    Adobe Photoshop

    è un software

    specializzato

    nell’elaborazione

    di fotografie

    (fotoritocco)

    e, più in generale,

    di immagini digitali

    STUDI SCIENTIFICI

    Alcuni programmatori

    del Massachusetts Institute

    of Technology hanno messo a punto

    un generatore automatico di studi

    scientifici. Basta scrivere il proprio

    nome tra gli autori e il generatore

    sforna un documento impaginato

    con il format dei paper,

    con diagrammi e tabelle

    http://pdos.csail.mit.edu/scigen

    ESTRATTI CONTO BANCARI

    Premettono che questi documenti

    sono solo a fini teatrali o scolastici,

    ma poi specificano che sono

    indistinguibili dagli originali. Possono

    essere usati se qualcuno pretende

    di vedere la vostra situazione

    patrimoniale per concedervi

    un prestito o appurare che non avete

    una lira per darvi un sussidio

    http://replaceyourdocs. co.uk

    +16

    UNA LEGALE ILLEGALE

    Soma Sengupta, cittadina britannica,

    è stata condannata a 7 anni di reclusione

    per aver falsificato certificato di nascita

    e altri documenti per poter esercitare

    la professione legale a New York

    Repubblica Nazionale

  • ■ 47

    DOMENICA 24 FEBBRAIO 2013

    con quello si era presentato alla motorizzazio-ne del New Jersey. «Con il documento d’iden-tità che mi avevano rilasciato sono riuscito afarmi dare un mutuo per comprare l’auto piùcara del concessionario». Alla fine l’hannobeccato e si è fatto qualche anno di galera.Forse la hubris l’ha rovinato. A quei tempi uncyber-falsario aveva confessato a Myers unfatturato di oltre un milione di dollari. Il girod’affari è senz’altro cresciuto, giurano gliesperti. Se chiedete a Google «fake ID» vi dàpiù di tre milioni di risposte. C’è l’imbarazzodella scelta. Il Robert Redford accusato diomicidio in La regola del silenzio riesce a dar-si con successo alla macchia per tutto il filmsoprattutto grazie alle diverse carte d’identitàche sfoggia. A memoria, almeno tre. Ognuno,in qualche momento della vita, preferirebbeessere qualcun altro. C’è chi fa carte false perdiventarlo. E si salva.

    © RIPRODUZIONE RISERVATA

    Chiunque sappiaun po’ di informaticapuò scaricare dal webogni tipo di modelloper riprodurredocumenti falsid’alta qualità

    ‘‘

    Thomas W. Seitz

    Falsario

    LAUREE E ALTRI DIPLOMI PATENTI E PASSAPORTI RICEVUTE

    Lauree e diplomi sono tra i documenti più falsificati in Rete In ventiquattr’ore, a un costo dai 69 ai 190 dollari, puoi ordinare un certificato o una pergamena che attesti una affiliazione con qualche università famosaDove il pezzo di carta ancora serve, qui lo si strappa senza fatica

    www.diplomamakers.com

    In questo sito per ottenereuna patente internazionalebasta spendere 20 sterline(www.myfakeid.biz)Mentre per un passaportoamericano di alta qualità che non hanessuna differenza con quellooriginale ci vogliono 600 dollari http://falsedocuments.cc/

    novelty_fake_id_samples.shtml

    Per i professionisti che possonoscaricare fiscalmente attrezzaturelegate al proprio lavoro, questoè un sito che consente di falsificarequasi ogni ricevuta. Prendeteil logo del venditore, lo metteteal posto giusto e impostateil modello acquistato e il prezzohttp://www.aynax.com/

    freeInvoiceTemplate.php

    PERGAMENE DEL MAR MORTO

    Raphael Golb, figlio di un gran studioso

    delle pergamene del Mar Morto,

    ha ideato una campagna di diffamazione

    online contro i critici del padre usando

    80 alias per amplificare le critiche

    IL GERARCA CINESE

    Zhao Haibin, ex capo della polizia

    di un villaggio nello Shaanxi

    cinese, ha usato 192 documenti

    di identità contraffatti per comprare

    40 appartamenti

    FINTE ASSUNZIONI

    Fintosi reclutatore di una compagnia

    neozelandese (falsificando la carta

    intestata col logo scaricato online)

    un indiano si faceva pagare

    da chi voleva un posto che non esisteva

    Repubblica Nazionale

  • I saporiMisti

    Questione di polso. E di muscoli a prova di Braccio di Fer-ro. Da tenere allenati per gestire i fornelli secondo i co-mandamenti della nuova cucina, mix goloso e salutare diOriente e Occidente che la fine dell’inverno manda inpasserella tra germogli impercettibilmente saltati e sua-denti primizie al vapore. Presa confidenza con tecniche

    e prodotti figli della globalizzazione virtuosa, dal tempura al basma-ti, il passo decisivo coincide con l’adozione della madre di tutte le pa-delle, il wok.

    Secondo gli storici, i primi rudimentali contenitori di forma conica,da incastrare tra le pietre e i rami ardenti, sono datati mille anni primadi Cristo (Età del Ferro), mentre alcuni secoli più tardi vennero for-giati in Cina dei veri e propri wok di terracotta, come quello ritro-vato dagli archeologi in una tomba Han.

    In realtà i due fattori — forma e materiale di produzione — so-no strettamente connessi tra loro. Da una parte, la forma se-misferica, affusolata verso il fondo, permette di utilizzare unaminima quantità di liquido di cottura, dall’altra il tipo di ma-teria usata garantisce un’ampia e uniforme diffusione delcalore (ragione per cui la terracotta venne rapidamentebocciata). Risultato: i wok migliori sono in ferro o ghisa,metalli che sanno condurre al meglio il calore: pentoleper braccia robuste, appunto. Al contrario, l’alluminiodisperde e l’acciaio non diffonde adeguatamente. Inscia al contenitore nudo e crudo,ecco le varianti, che riguardano ilmanico (uno o due, uguali o di-versi, uno corto e uno lungo, dighisa o legno), la grandezza —proporzionale al peso, megliotenerne conto al momentodella scelta! — e una serie diaccessori, dalla spatola piattaal cestino di bambù, su su fi-no alla griglia scola-fritti e al-le bacchette per girare i boc-coni che il solo movimentodel polso non riesce a ribalta-re. In più, i wok veraci, colfondo convesso, necessitanodi un supporto ad anello daappoggiare sul fornello. Da quiin poi, si può cucinare tutto oquasi, friggendo e stufando, sal-tando e usando il vapore, forti diqualche piccolo accorgimento, come prepara-re in anticipo tutti gli ingredienti e tagliarli nella stessamisura, infarinare i fritti all’ultimo momento e salarli so-lo alla fine. Ma il wok nulla può se la temperatura non èadeguata. Per rendere carni e verdure super croccanti, in-

    fatti, occorre che la cottura sia svelta e la fiamma alta: il termometrodeve salire abbondantemente sopra i 200º, ben oltre quelli della nor-male frittura, con tutti i rischi connessi alla degradazione dei grassi.Per questo, bisognerebbe privilegiare l’olio extravergine di oliva, cheoltre a un alto punto di fumo vanta una serie virtuosissima di antios-sidanti a partire dalla quercetina, flavonoide presente anche in cipol-le, capperi, broccoli e pomodori (perfetti come contorni a fritti e gri-gliate).

    Se siete tentati dalla spadellatura in stile orientale, un bel libro inuscita per Guido Tommasi Editore (Wok amore miodi Barbara Torre-san) vi illuminerà sulla strada delle ricette più appetitose. Prima di ci-mentarvi, verificate la tenuta dei bicipiti.

    LICIA GRANELLO

    Polloagli anacardiCipollotto affettato e zenzero

    grattugiato rosolati. Poi

    i bocconi di pollo, con salsa

    di soia e poco brodo. Infine,

    frutta secca spadellata

    FruttacaramellataTocchetti di mela e banana

    passati nel succo di limone

    e in pastella. Fritti e scolati,

    si tuffano nel caramello

    e poi in acqua ghiacciata

    RisocantoneseSciacquato, bollito, sgranato

    si spadella in olio e salsa

    di soia, con piselli stufati,

    uova strapazzate, cipollotto,

    germogli e dadi di prosciutto

    WontonI ravioli cinesi — farciti

    con manzo, pollo, gamberi

    o verdure — vengono

    cotti al vapore oppure fritti,

    accompagnati con salsa

    agrodolce e di soia

    Zuppadi pesceCubetti di ananas e germogli

    di bambù rosolati e un poco

    zuccherati, poi filetti di pesce

    acqua, soia, zenzero e lime

    Infine, menta e peperoncino

    LA DOMENICA■ 48

    DOMENICA 24 FEBBRAIO 2013

    progress© RIPRODUZIONE RISERVATA

    inWokQuelle tre letteredove l’Occidenteincontra l’Oriente

    Terracotta, ferro o ghisa: dalla Cina con furorel’antichissima pentola viene ormai sempre più usata anche nelle nostre cucine. Perché idealeper mescolare e cucinare qualsiasi cibo

    Est

    Repubblica Nazionale

  • CrocchettevegetarianeQuadrotti di Gruyère, zucca

    cotta al forno, zucchine

    e patate al vapore, impanati

    e fritti. Accanto zabaione

    salato (tuorli, burro e vino)

    Gamberie carciofiCrostacei sgusciati, marinati

    in albume e maizena, saltati

    e a scolare. Unire i carciofi

    a fette, rosolare e profumare

    con scorza di limone

    Orecchiettee cime di rapaCime sbollentate, saltate

    in aglio, olio e peperoncino,

    poi briciole di pane e acciughe

    aggiungere la pasta al dente

    e un mestolo della sua acqua

    Fonduta AsianPesce e verdure miste

    cotte nel wok:

    si immergono

    nell’olio bollente

    un boccone alla volta

    Il libroDalla cucina

    orientale ai piatti

    tradizionali

    occidentali:

    Wok amore mio

    di Barbara Torresan

    (Guido Tommasi

    Editore - Datanova,

    256 pagine, 25 euro)

    è in libreria

    Pereal vinoFrutta sbucciata, tagliata

    a metà, passata nel limone

    e nello zucchero e messa

    nel cestello a vapore

    Sotto, vino rosso e cannella

    FrittoIl fondo affusolato permette

    di ridurre l’olio in cui vanno

    immersi pochi bocconi

    alla volta, appoggiandoli poi

    sulla griglia agganciata di lato

    ■ 49

    DOMENICA 24 FEBBRAIO 2013

    COTTURE

    Al saltoDopo aver scaldato il wok,

    ungere d’olio facendolo

    ruotare e aggiungere

    le verdure a listarelle sottili,

    muovendo continuamente

    AffumicatoErbe e trucioli sul fondo,

    scaldati e coperti da una

    griglia. Sopra, filetti di carne

    o pesce marinati a piacere

    Tenere a 40° per mezz’ora

    StufatoCottura coperta e senza

    liquidi oltre all’olio, grazie

    alla condensa delle verdure

    che vela il coperchio

    Agitare di tanto in tanto

    LA RICETTA

    Ingredienti per 4 persone

    400 g. di riso orientale

    600 g. di petto di pollo

    200 g. di baccalà

    1 uovo intero

    una manciata

    di sesamo bianco

    olio di semi di arachidi

    Dissalare il baccalà lasciandolo una notte a bagno

    in acqua e poi sciacquandolo in acqua corrente

    al momento dell’uso. Tostare leggermente il sesamo

    nel wok e farlo riposare. Cuocere a vapore il riso

    orientale per 40 minuti. Sbollentare il petto di pollo

    in acqua e tagliarlo a cubetti. Tagliare a cubetti anche

    il baccalà e asciugarlo facendolo saltare nel wok

    con olio di arachidi a fuoco lento per 15 minuti

    Mettere un filo d’olio nel wok e scaldare,

    aprire l’uovo intero, aggiungere il riso cotto a vapore, il pollo

    e infine il baccalà. Saltare il tutto in modo da ottenere un riso condito

    in maniera omogenea. Aggiustare di sale e rifinire con il sesamo,

    che contribuisce a far risaltare la fragranza del riso

    Guoqing Zhang guida la cucina del milanese Bon Wei(traduzione franco-cinese di Buon Gusto), ristorante di altacucina orientale, regalando un tocco di occidente ai suoipiatti, come nella ricetta ideataper i lettori di Repubblica

    Riso al wok con pollo e baccalà delicato

    VaporeAcqua sul fondo da portare

    a ebollizione. Sopra, i cestini

    di bambù a strati, partendo

    dal basso con i cibi

    che necessitano di più calore

    progress

    A tavola

    Cuocoe fiamme

    CHEF KUMALÉ

    Il wokè la pentola più diffusa in Ci-na e in molti paesi limitrofi, unostrumento estremamente versa-

    tile che permette la cottura in tempirapidissimi di un numero infinito dipreparazioni e ricette. La tradiziona-le cottura con la tecnica del wok chiconsiste in Cina nel posizionare suuna fiamma potentissima, coman-data da un pedale, simile all’accele-ratore di un’auto, il wok ancora vuo-to e privo di condimenti per arroven-tarne le pareti. Dopo qualche istante,a fiamma spenta, lo chef versa un fi-lo d’olio che fa roteare velocemente,in modo da ungere ogni punto del-l’interno della pentola. Il wok vienequindi fatto scolare da tutto l’olio ineccesso ed è pronto per potervi salta-re rapidamente gli ingredienti, giàsminuzzati, che dopo verranno con-diti con salse e intingoli, pronti peressere serviti in pochi minuti.

    Con la tecnica del wok chi, la fun-zione dell’olio non è quindi quella dicondire gli alimenti, ma semplice-mente di rendere antiaderenti le pa-reti del tegame. I cibi cucinati in que-sto modo risultano privi di grassi. Itempi estremamente ridotti per lacottura permettono di conservare leproprietà nutrizionali degli ingre-dienti, oltre al colore e alla consi-stenza decisamente più «croccante».Veder cucinare un wok chef, mentresi destreggia tra le fiamme è unospettacolo mozzafiato ma non privodi rischi per il cuoco; sono infatti mi-gliaia i casi di ustioni anche gravissi-me se si commette l’errore di far in-contrare una lingua di fuoco con unoschizzo d’olio. In Occidente questorischio è praticamente vicino allo ze-ro per le diverse caratteristiche dellenostre cucine, che non consentonodi dosare tali volumi di fuoco. Per lesue caratteristiche e la sua estremaversatilità, il wok si è diffuso negli ul-timi anni nei cinque continenti,compresa l’Europa e l’Italia, appas-sionando semplici massaie e chefstellati.

    © RIPRODUZIONE RISERVATA

    Ovest

    Manzoalla pizzaiolaFettine sfilacciate, infarinate,

    saltate e messe da parte

    Nello stesso olio, salsa

    di pomodoro e origano. Unire

    la carne e dadini di mozzarella

    Repubblica Nazionale

  • LA DOMENICA■ 50

    DOMENICA 24 FEBBRAIO 2013

    Spesso accusato di essere “un porconemaschilista” ossessionato dal sessoe dalle donne, il maestro franceseè venerato da schiere di giovanidisegnatori. E da più di mezzo secolo

    continua a divertirsie a divertirecon le sue vignetteOra che si avviaverso gli ottantapunta all’assoluzione:

    “Sono solo un proletariodel pennarello che nellavita ha scelto di far ridere”

    PARIGI

    Iconoclasta. Provocatorio.Spiazzante. Sono oltre cin-quant’anni che Georges Wolin-ski fa ridere i francesi (e non so-lo) con i suoi disegni irriverenti e corro-sivi, ricchi di gioiosa vitalità ma anche diuna vena di melanconia. Dalla politicaalle donne, dall’esercito alla chiesa, ildisegnatore francese con le sue vignet-te al vetriolo ha irriso tutto e tutti, a co-minciare da se stesso e dalle proprie de-bolezze. Venerato come un maestro daschiere di disegnatori più giovani — maanche accusato di essere solamente un«tragico buffone» nonché un «fallocra-te ossessionato dai propri fantasmi» —Wolinski è sempre pronto a sorprende-re il suo pubblico. Così, per prepararsiagli ottanta, che compirà tra poco più diun anno, ha mandato in libreria unenorme volume di oltre novecento pa-gine, Le pire a de l’avenir (Editions Cher-che Midi, 23,90 euro), in cui ha riper-corso a modo suo mezzo secolo di scan-dali e avventure artistico-politiche, ac-cumulando disegni, aforismi e ricordipersonali. Insomma, una summa delWolinki pensiero e del suo umorismocaustico e libertino, accolta dalla stam-pa francese come il folgorante manife-sto di uno spirito libero.

    «Se si vuole essere popolari, occorresaper essere impopolari», spiega Wo-linski accogliendoci nella sua bella casaparigina, nel centralissimo quartiere diSaint Germain de Près. L’uomo è corte-

    se e pacato, nulla a che vedere con lo ste-reotipo dell’artista incendiario chespesso gli è stato cucito addosso. Piut-tosto un anziano borghese che ama ipiaceri della vita in nome di un epicu-reismo mai rinnegato, anche se forse unpo’ annacquato dal passare degli anni.«La ricchezza, l’ambizione, il successomi sono estranei. Mi piace vivere bene,ma posso anche farne a meno. L’unicacosa che m’interessa è mettermi da-vanti a un foglio bianco, trovare un’i-dea, trasformarla, farla diventare un di-segno. Ed essere felice quando ci rie-sco». Sul metodo, il disegnatore ha leidee chiare: «L’umorismo è una cosamolto semplice, è ridere di quello che siosserva. Io guardo il mondo e mi mettoa ridere. Poi cerco sempre nuovi modiper comunicare e farmi capire. Insom-ma, sono un gran lavoratore, un prole-tario del disegno». Certo, l’autore di li-bri come Il porcone maschilista, Abbas