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DOMENICA 7 FEBBRAIO 2010 D omenica La Mandela Il giorno che liberai spettacoli Il jazz zingaro di Django Reinhardt GINO CASTALDO l’incontro Paolo Virzì, la mia Italia subalterna IRENE MARIA SCALISE la cultura Jack London, scrittore vagabondo JACK LONDON e DARIO OLIVERO le tendenze San Valentino, il gioiello è unisex LAURA LAURENZI la memoria La Dolce Vita mezzo secolo dopo NATALIA ASPESI, SILVIA LUPERINI e CLAUDIA MORI L’11 febbraio 1990 un uomo apriva le porte del carcere al grande leader sudafricano È Frederik Willem de Klerk, lo abbiamo intervistato © NMF di Repubblica «Q uando ho incontrato Nelson Mandela per la prima volta sono rimasto colpito dal suo por- tamento altero, quasi superbo. Avevo davan- ti a me un signore già anziano, forse fisica- mente più alto di quanto immaginassi, che emanava una straordinaria forza e convin- zione morale. Ecco, non sembrava proprio un prigioniero in car- cere da ventisette anni». Il bianco e il nero. L’afrikaner colonialista e il sudafricano oppresso. Frederik Willem de Klerk è stato l’ultimo presidente dell’Apartheid, l’uomo che l’11 febbraio 1990 ha firma- to il decreto per liberare Mandela, mettendo fine al regime segre- gazionista durato mezzo secolo. Nel 1993 sono andati insieme a Oslo per ricevere il premio Nobel per la Pace. (segue nelle pagine successive) ANAIS GINORI PIETRO VERONESE L a mattina di domenica 11 febbraio 1990 annunciava una giornata calda, radiosa, bellissima. In quel periodo dell’anno, alle latitudini australi, la buona stagione vol- ge alla fine e il tempo variabile della regione del Capo di Buona Speranza, esposto ai calori del deserto a nord e ai venti polari a sud, riserva sempre sorprese. Non così quel giorno, in cui anche la storia aveva in serbo uno spettacolo di luce e di gloria. Nelson Mandela, «il prigioniero politico più famo- so del mondo», avrebbe riconquistato la libertà. Era stato arrestato nell’agosto del 1962, processato e condanna- to all’ergastolo. Erano passati quasi tre decenni, il tempo di una ge- nerazione, e per almeno la metà di quegli anni la fama non si era affatto interessata al detenuto di Robben Island. (segue nelle pagine successive) Repubblica Nazionale

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DOMENICA 7 FEBBRAIO 2010

DomenicaLa

MandelaIl giorno che liberai

spettacoliIl jazz zingaro di Django Reinhardt

GINO CASTALDO

l’incontroPaolo Virzì, la mia Italia subalterna

IRENE MARIA SCALISE

la culturaJack London, scrittore vagabondo

JACK LONDON e DARIO OLIVERO

le tendenzeSan Valentino, il gioiello è unisex

LAURA LAURENZI

la memoriaLa Dolce Vita mezzo secolo dopo

NATALIA ASPESI, SILVIA LUPERINI e CLAUDIA MORI

L’11 febbraio 1990 un uomo apriva le porte del carcere al grande leader sudafricanoÈ Frederik Willem de Klerk, lo abbiamo intervistato

© N

MF

di Repubblica

«Quando ho incontrato Nelson Mandela per laprima volta sono rimasto colpito dal suo por-tamento altero, quasi superbo. Avevo davan-ti a me un signore già anziano, forse fisica-mente più alto di quanto immaginassi, cheemanava una straordinaria forza e convin-

zione morale. Ecco, non sembrava proprio un prigioniero in car-cere da ventisette anni». Il bianco e il nero. L’afrikaner colonialistae il sudafricano oppresso. Frederik Willem de Klerk è stato l’ultimopresidente dell’Apartheid, l’uomo che l’11 febbraio 1990 ha firma-to il decreto per liberare Mandela, mettendo fine al regime segre-gazionista durato mezzo secolo. Nel 1993 sono andati insieme aOslo per ricevere il premio Nobel per la Pace.

(segue nelle pagine successive)

ANAIS GINORI PIETRO VERONESE

La mattina di domenica 11 febbraio 1990 annunciavauna giornata calda, radiosa, bellissima. In quel periododell’anno, alle latitudini australi, la buona stagione vol-ge alla fine e il tempo variabile della regione del Capo diBuona Speranza, esposto ai calori del deserto a nord eai venti polari a sud, riserva sempre sorprese. Non così

quel giorno, in cui anche la storia aveva in serbo uno spettacolo diluce e di gloria. Nelson Mandela, «il prigioniero politico più famo-so del mondo», avrebbe riconquistato la libertà.

Era stato arrestato nell’agosto del 1962, processato e condanna-to all’ergastolo. Erano passati quasi tre decenni, il tempo di una ge-nerazione, e per almeno la metà di quegli anni la fama non si eraaffatto interessata al detenuto di Robben Island.

(segue nelle pagine successive)

Repubblica Nazionale

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(segue dalla copertina)

L’anno dopo, con le pri-me elezioni libere, deKlerk ha lasciato il pote-re in mano al leader del-l’African National Con-gress.«Siamo diventati

amici anche se i nostri rapporti sono statia volte burrascosi». Nella sua casa di Cittàdel Capo, dove vive con la sua secondamoglie Elita, de Klerk si prepara a festeg-giare il ventennale di quella storica libera-zione. «Tre anni fa — racconta — De-smond Tutu e Mandela sono venuti alla fe-sta per i miei settant’anni. Con una dellesue tipiche battute, ha scherzato sulla no-stra differenza d’età. Sosteneva di esserepiù giovane di me perché ha passato unlungo periodo della vita in contemplazio-ne».

Il giorno che ha deciso di liberare Nel-son Mandela, il prigioniero politico piùfamoso del mondo. Ci racconti quel mo-mento.

«Non fu una decisione improvvisa. Perme era il punto d’arrivo di un lungo pro-cesso avviato all’interno del NationalParty. Già il 6 febbraio 1989, appena elettoleader del partito, avevo messo in chiaroche il nostro obiettivo doveva essere co-struire un “nuovo Sudafrica”. Alle elezionidel settembre ’89, con le quali diventaipresidente, le riforme erano nel program-ma. Insomma, pensavo di aver largamen-te preparato il terreno per una svolta. Ep-pure il mio annuncio suscitò enorme sor-

presa. I militanti dell’estrema destra era-no inorriditi».

Quale ricordo conserva del suo primoincontro con Mandela?

«Era il 13 dicembre 1989. Mandela sta-va a Victor Verster Prison. Chiesi di farloportare in gran segreto nel palazzo presi-denziale di Città del Capo. Di lui conosce-vo solo vecchie foto da giovane. Era moltocambiato ma non era assolutamente af-flitto dalla lunga prigionia. Non discutem-mo di politica, né di decisioni sostanziali.La cosa fondamentale è stato guardarcinegli occhi e stringerci la mano. Abbiamocapito subito che potevamo fare un pezzodi strada insieme».

Prima di liberare Mandela, lei fece undiscorso per dichiarare la fine dell’A-partheid. Era il 2 febbraio 1990.

«Quella mattina ho provato una sensa-zione che capita raramente nella vita. È co-me se avessi incontrato il mio destino.Non ho avuto dubbi, né tentennamenti.Sapevo di fare la cosa giusta al momentogiusto».

Suo padre è stato ministro in tre gover-ni dell’Apartheid. Cosa avrebbe pensatodella sua decisione?

«Ognuno di noi è il prodotto della pro-pria epoca. Quando ho messo fine all’A-partheid, il Sudafrica era cambiato dram-maticamente. Sono sicuro che se mio pa-

dre fosse stato ancora vivo avrebbe appro-vato l’idea di una transizione democrati-ca».

Il 10 febbraio, Mandela fu portato dinuovo nel suo ufficio per discutere i det-tagli del suo rilascio. È vero che le chiesedi ritardare l’annuncio?

«Mandela voleva rimandare la libera-zione di qualche giorno, per permettereall’Anc di negoziare alcuni aspetti dellatransizione politica. Gli dissi che non erapiù possibile, ma che avrebbe potuto sce-gliere dove essere liberato, se a Città del

Capo o a Johannesburg. Scelse Città delCapo».

Quanto hanno pesato le sanzioni in-ternazionali nel fallimento dell’A-partheid?

«L’Apartheid è fallito per tanti motivi.La ragione essenziale è che si trattava di unsistema moralmente ingiusto. Nessunaforza militare può andare contro la mag-gioranza della popolazione. Da un puntodi vista economico, la divisione per grup-pi etnici era superata, insostenibile. Lesanzioni hanno giocato un ruolo dopo,quando sono state tolte, accelerando losviluppo del paese».

Poco dopo la sua elezione, cadde il Mu-

ro di Berlino. Altro fattore decisivo?«Il collasso del comunismo mi convin-

se che era diventato possibile andare ver-so una democrazia. Durante gli anni Ot-tanta la maggioranza dei membri del di-rettivo dell’Anc aveva contatti con l’Unio-ne Sovietica e professava una rivoluzionein due fasi: la liberazione nazionale segui-ta dall’instaurazione di una società comu-nista. Dopo Berlino 1989 rimaneva solo laprima, per fortuna».

Torniamo a quell’11 febbraio 1990.Mandela fece il famoso discorso da uomolibero, annunciando che la lotta armatasarebbe continuata. Ne fu sorpreso?

«Era sconcertante, ero sconcertato. An-

ANAIS GINORI

“Io, il biancoaprii la cellaal nero”

Domenica 11 febbraio 1990il presidente Frederick Willem de Klerk,dopo aver ripudiato l’Apartheid, liberaval’uomo simbolo del riscatto del SudafricaOra racconta a “Repubblica” quella storia

Quella mattina provai una sensazioneche capita raramente nella vitaÈ come se avessi incontrato il mio

destino. Sapevo di fare la cosa giusta

la copertina36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 7 FEBBRAIO 2010

LA FAMIGLIAMandela nasce

nel 1918, rifiuta

di sposare

la donna scelta

dai genitori

Sposerà

Evelyn

L’ARRESTOCoordina la campagnadi sabotaggiocontrol’esercitoÈ arrestatonel 1962

UOMO LIBEROViene liberato

nel 1990

Lo accoglie

la seconda

moglie Winnie,

poi rivale

politica

LA PACELa strettadi manocon de Klerknel ’90 e oggi(sopra). Nel’93 hannovinto il Nobel

‘‘

Mandela vent’anni dopo

LA POLITICANel 1942

si unisce

all’African

National

Congressper abolirel’Apartheid

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Repubblica Nazionale

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dava contro tutti i progetti di pacificazio-ne che insieme dovevamo garantire.Mandela mi disse poi che il discorso non èstato scritto da lui. Non so se fosse vero. Ildubbio rimane».

Il suo governo fu accusato di chiudereun occhio sulle violenze che continuava-no a compiere le autorità.

«Dopo la liberazione di Mandela, ab-biamo attraversato un periodo difficile.Chiesi di istituire una commissione, laGoldstone Commission, per indagare sul-le accuse. Le conclusioni furono che sial’Anc sia membri della polizia e dell’eser-cito avevano partecipato alle rappresagliedi quel periodo. Credo di aver fatto il miodovere per accertare la verità».

Durante la transizione, lei e Mandelaavevate anche smesso di parlarvi. Comu-nicavate solo attraverso collaboratori.Perché?

«L’ala radicale dell’Anc cercò di sabota-re i negoziati. Durante il corteo del 7 set-tembre 1992 a Bisho, con decine di morti eferiti, ci siamo trovati a un passo dal bara-tro. Per fortuna, i moderati come Mande-la hanno ripreso il controllo del partito,tornando a negoziare il 26 settembre diquell’anno».

Quando Mandela divenne presidentedel Sudafrica, lei rimase al governo. Co-me fu la coabitazione?

«Mandela non è mai stato un presiden-te interessato all’ordinaria amministra-zione. Delegava quasi tutto al suo vice,Thabo Mbeki e, in misura minore, a me. Laforza di Mandela è stata sempre il suo ca-risma e la sua tenacia nel promuovere unariconciliazione nazionale».

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Il detenuto più notoe il suo mistero

PIETRO VERONESE

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37DOMENICA 7 FEBBRAIO 2010

Anche su questo ci fu disaccordo travoi. Lei non approvò la creazione dellacommissione per la Verità e la riconcilia-zione.

«Era un organo di parte. Al suo interno,non c’era un solo membro che rifletteva leposizione del precedente governo o delInkatha Freedom Party (il partito indipen-dentista zulu, ndr), l’altro attore principa-le del conflitto. Riconosco che la Commis-sione possa aver avuto una funzione ca-tartica e abbia investigato pezzi impor-tanti della nostra storia. Ma certamentenon è servita alla riconciliazione naziona-le».

Il Sudafrica è diventato il «paese nuo-vo» che aveva immaginato vent’anni fa?

«Nel mio discorso del 2 febbraio 1990avevo auspicato una “nuova Costituzio-ne, il diritto di voto universale, la fine delladominazione razziale, un sistema giudi-ziario indipendente, la protezione delleminoranze e della libertà religiose ”. Pen-so che tutti questi principi oggi siano vali-di, anche se purtroppo rimangono ancorada fare molti progressi nella loro applica-zione».

“Chi avvia grandi svolte all’internodelle dittature spesso viene poi messo daparte”. La pensa anche lei come Gorba-ciov?

«Non cambierei nulla di ciò che ho fat-to. Come ho detto quando mi sono conge-dato dal parlamento nel ’97, è stato un pri-vilegio servire il mio Paese. Dio mi ha aper-to delle straordinarie opportunità, dan-domi la forza e il coraggio di coglierle. Vor-rei che la Storia mi giudicasse per questo».

PRESIDENTEMandelaha ricopertola caricadi presidentedel Sudafricadal 1994al 1999

LA FESTAI novant’anni

di Mandela

sono stati

festeggiati

a Londra nel

2008 con un

mega evento

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I DOCUMENTI

Nelson Mandela ha passato in prigione 27 anni

e 90 giorni. Era un detenuto metodico, annotava ogni

cosa. Per il ventennale della liberazione, la Fondazione

Nelson Mandela ha desecretato alcuni documenti

relativi alla prigionia che riportiamo in queste pagine

Dall’alto, il decreto di liberazione, firmato da de Klerk

il 9 febbraio 1990; un volantino che annuncia il primo

comizio di Mandela da uomo libero; l’ultima lettera

dal carcere l’11 febbraio ’89; il calendario sul quale

è annotato il giorno del primo incontro con de Klerk

il 13 dicembre 1989; l’inventario degli effetti personali

da portare via al momento del rilascio. Nella foto

grande, la bandiera sudafricana con le firme di Mandela

e de Klerk (nei cerchi). In copertina, il passaporto

concesso a Mandela il 19 febbraio del 1990

valido un anno e con il nome sbagliato

(segue dalla copertina)

Poi le formidabili lotte della nuova leva di neri su-dafricani, iniziate con la rivolta di Soweto nel 1976e riprese e proseguite senza posa nella seconda

metà degli anni Ottanta, avevano attirato l’at-tenzione del mondo su quel recluso.

E sul suo mistero. Il mondo intero conosce-va Nelson Mandela, ma nessuno lo aveva maivisto. Certo, il suo volto era noto ai suoi carce-rieri; ai vecchi compagni di lotta imprigionaticon lui; alla moglie, ai suoi avvocati; ai leaderpolitici bianchi che negli ultimissimi anni, ingran segreto, avevano avviato con lui colloquisull’avvenire politico del Sudafrica. Ma il restodel mondo lo ignorava.

L’ultima fotografia conosciuta ritraeva un gio-vane avvocato nel fiore della maturità che — giàlatitante — improvvisava un comizio prima di tor-nare a nascondersi nella clandestinità. Mandeladoveva avere all’epoca una quarantina d’anni: unuomo carico d’energia virile, elegante, dal voltopieno e dall’espressione determinata. Colui che igiornali sudafricani avevano soprannominato «laprimula nera», parafrasando il nome dell’eroe ro-manzesco della baronessa Orczy («La cercan qui, lacercan là/ dove si trovi nessun lo sa/ Che impadro-nirsi mai non si possa/ della dannata Primula Ros-sa?»). Poco tempo dopo la black pimpernel era statainvece catturata, e da allora più niente. Era passato untrentennio. L’uomo che stava per tornare libero avevasettantuno anni e mezzo.

Oggi il volto di Nelson Mandela è noto all’intero pia-neta. È probabilmente quello del leader politico più po-polare, più stimato, più amato del mondo. È un’icona.L’11 febbraio 1990 era un’incognita. Pochi giorni primaun settimanale americano aveva addirittura pubblica-to in copertina un’elaborazione al computer di quellasbiadita istantanea, invecchiando i lineamenti, ag-giungendo rughe alla fronte e pieghe alle guance, perdare un’idea di come «il prigioniero politico più famo-so del mondo» poteva apparire. Ma era solo una sup-posizione. «Mandela speaks», c’era scritto sui volantinidistribuiti a tappeto nelle periferie di Città del Capo perannunciare il comizio organizzato in serata: Mandelaera una voce, ma non un volto.

Quella domenica mattina c’era dunque, prima an-cora che una grande emozione, un’enorme curio-sità. I giornalisti si erano mossi di buon’ora perché laprigione Victor Verster, ultima dimora del detenutoMandela prima della liberazione — più una coloniapenale agricola che un vero e proprio penitenzia-rio, una prison farm secondo la definizione uffi-ciale, dove lui alloggiava nella villetta del capoguardiano — era un bel po’ fuori città, semina-scosta negli avvallamenti di quel paesaggio dicolline e vigneti che ha giustamente fama di es-sere tra i più belli del mondo. La strada provin-ciale sulla quale si apriva a un certo punto lacancellata della colonia penale era stata già daun pezzo chiusa al traffico, diversi chilometriprima. Così, lasciate le macchine sul ciglio del-

la carreggiata, migliaia di curiosi e di militanti, gli inviatidi giornali, radio e tv si erano incamminati sotto il solee l’evento aveva preso l’andamento di una gita fuoriporta, accaldata e allegra, taccuini in una mano e botti-glie d’acqua nell’altra, fino alla tribuna di ponteggi e ta-vole di legno improvvisata davanti all’ingresso del Vic-tor Verster.

Gli ultimi avvenimenti si erano succeduti molto infretta. Il discorso della svolta, con il quale il presidentesudafricano de Klerk aveva proclamato la fine del regi-me dell’Apartheid, la legalizzazione delle organizza-zioni politiche bandite da decenni (a cominciare dal-l’African National Congress di Mandela), la sospensio-ne delle condanne a morte, la liberazione della maggiorparte dei prigionieri politici, era di dieci giorni prima, il2 febbraio. La scarcerazione di Mandela ne era la con-seguenza prevedibile; ma si pensava che la si sarebbedovuta aspettare ancora settimane, forse mesi. Sabato10, invece, l’annuncio a sorpresa, per l’indomani. Conil senno di poi e la prospettiva del tempo, tutto apparelogico e chiaro. Il Muro di Berlino era caduto il 9 no-vembre, tre mesi prima; oggi sappiamo che esso era co-me un grande chiavistello, che teneva sprangata la por-ta della storia e l’umanità prigioniera. Spezzato quel ca-tenaccio imposto alla libertà degli uomini, dalle repub-bliche baltiche all’estremo nord dell’Europa all’ultimapunta dell’Africa protesa verso l’Antartico, le vicendeumane si erano improvvisamente rimesse in cammi-no. Ma in quelle ore, il susseguirsi delle notizie manda-va il cuore in gola dalla meraviglia e dall’eccitazione.

Nelson Mandela apparve al cancello della sua ultimaprigione intorno alle quattro del pomeriggio, con circaun’ora di ritardo sul programma. Veniva tenendo permano la moglie Winnie, era alto, sorridente e visibil-mente emozionato. Aveva l’andatura un po’ dinocco-lata, levava l’altra mano in segno di saluto. Fu questio-ne di attimi e la confusione divenne parossistica. Man-dela salì in macchina e il convoglio di auto si avviò ver-so la Storia, lasciando indietro noi, che finalmente loavevamo visto, felici e appiedati.

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Repubblica Nazionale

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la memoriaCinema e realtà

38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 7 FEBBRAIO 2010

NATALIA ASPESI

Sembravaieri la carica di sputi sullo smoking di Federico Fellini da parte dei bor-ghesoni milanesi indignati, all’anteprima della sua Dolce vita: non più, oggil’indignazione è un sentimento sepolto e lo sputo non è più un’emozione ma ilmezzo per liberarsi dai chewing-gum che poi imbrattano a pois indelebili i mar-ciapiedi. Sembrava ieri che le sciure impellicciate simulassero svenimenti perle scene dell’orgia, mentre oggi per tenere insieme il matrimonio si adattano

anche contente a frequentarne qualcuna in coppia col marito. Sembrava ieri la scomuni-ca del Vaticano a Federico Fellini per quel film, seguita dagli incitamenti ai fedeli a prega-re per la sua anima, e adesso invece si mormora che da certe stanze particolarmente piepartano trame, calunnie e rivelazioni di tipo sessuale, che distruggono reputazioni e vitee non basterebbero milioni di preghiere a salvare né i calunniatori né i calunniati.

Cinquant’anni fa: La Dolce Vita era un film bellissimo, rivoluzionario e scandaloso. Og-gi: La Dolce Vita è forse più bello di allora, con quell’indimenticabile e dimenticato lucoredel bianco-nero, tanto più misterioso, emozionante e carnale del colore e ovviamente an-che dell’infantile 3D; tuttora rivoluzionario perché ricorda come il talento felliniano, oni-rico e preveggente, abbia inventato immagini di un costume di vita e di una decadenza so-ciale che sono diventate per la storia la realtà dei nostri anni Sessanta; tuttora scandaloso,perché già specchiava, persino negli orrori degli abiti, del trucco, dei gesti, dei discorsi sce-mi, in quel vagare notturno senza scopo e senza cuore, nella nullità di certi intellettuali for-se già in cerca di padrone, la fine di troppe cose, il precipitare di ogni certezza e speranza.E non è un caso che qualche anno dopo Carlo Lizzani girasse La vita agra, dal bel roman-zo di Luciano Bianciardi, su al Nord, lontano dalla morbida spensieratezza romana, a Mi-lano, la città del lavoro grigio, della quotidianità difficile, degli amori spenti, del disagio diuna generazione che rinunciava a ogni slancio ideale ipnotizzata dal denaro.

Ma intanto La Dolce Vita con le sue tre ore di grande cinema, aveva già reso famo-so in tutto il mondo il cinema italiano e non c’è regista anche celebre, anche del pae-

se più esotico, che non ricordi sempre, con brividi di incanto e riconoscenza, il po-sto che quel Fellini ha avuto nelle sue scelte professionali e nella sua arte. Nel lin-

guaggio universale entrarono i termini italiani lanciati dal film, “dolce vita” e so-prattutto “paparazzi”: vita dorata eppure disprezzabile, fotografi avventurosi eppu-

re temibili. Sono termini legati a un’epoca diventati eterni, anche se la dolce vita at-tuale non ha niente a che fare con quella di ieri e i paparazzi di oggi fanno un lavoro

diverso da quello di ieri.Cinquant’anni fa, e la storia pare invece scritta oggi, solo che forse oggi nessun regi-

sta saprebbe o vorrebbe renderla così crudele, preferendo magari, dato il soggetto, unaallegra vanzinata, certo più consona all’attualità. Uno scrittore mancato lavora per un

giornale scandalistico e gira la notte con il suo paparazzo in cerca di scoop. Vaga tra ap-partamenti e ville lussuose, tra ricevimenti festosi, intasati e volgari, tra strade disabitate,silenziose e magiche, incontra aristocratici annoiati, divi stralunati, intellettuali depressi.

Fellini escludeva che il suo film fosse il documento di un’epoca, di una città, di una clas-se, anche se ammetteva che qualche brandello di realtà lo avesse ispirato, come le storieraccontate dal celebre fotografo d’assalto Tazio Secchiaroli, ispiratore del personaggio delpaparazzo, che aveva immortalato anni prima un evento passato alla storia della ancorainnocente decadenza romana, lo spogliarello della ballerina Aichè Nana al ristorante Ru-gantino. Poi c’è la Roma invasa dai divi americani che sul Tevere hanno trovato una Hol-lywood più a buon mercato e i mitici esotismi italiani, l’amore, gli spaghetti, l’alta moda; eancora le notti perdute di via Veneto, e tutti quei personaggi di una vita creduta dolce chelo sguardo implacabile di Fellini trasforma in simulacri tragici o grotteschi.

Dolce vita di ieri e vita dolce di oggi? Intanto, allora il cacciatore di gossip era il meravi-glioso, malinconico, nobile Marcello Mastroianni; e oggi chi potrebbe essere, il furbo, ser-vizievole, allegrissimo Alfonso Signorini? E il geniale paparazzo Secchiaroli, oggi sarebberappresentato dal tatuato, spietato, incriminato Fabrizio Corona? I personaggi da gossipnon sono più i divi celebri o gli aristocratici o addirittura i reali, ma modelli, calciatori, showgirl, grandi fratelli, famosi da isola, fanciulle che mostrando il sedere o porgendo cose alpresentatore in tivu diventano onorevoli molto graziosi, visto che ormai è più facile en-trare in parlamento che imparare a recitare o cantare o ballare. Politici, criminali o deviantisono i divi dei nuovi paparazzi e di quei superpaparazzi che sono gli intrattenitori televi-sivi. Come allora, si concordano i servizi fotografici con i fotografati, ma Enrico Lucheriniha smesso di inventare eventi intelligenti trascinanti, oggi basta un bacio ripreso con fin-to offuscamento per avere quattro pagine sui settimanali specializzati. Come allora, si ri-prende chi non vorrebbe esserlo in situazioni di massimo imbarazzo, oggi soprattutto conviados, creature forse esistenti anche negli anni Sessanta ma non così alla moda e indi-spensabili alla sessualità maschile, ai servizi fotografici e ai talk show.

Differenze? Non è stato ancora documentato se pure ai tempi magici di Secchiaroli leimmagini rubate servissero per ricattare a caro prezzo. Similitudini? La dolce vita oggi co-me allora è troppo spesso amara.

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Esattamente cinquant’anni fa usciva il filmcapolavoro che costò a Fellini sputi,insulti e perfino una scomunica vaticanaUn’opera preveggente che battezzò con parolee immagini i nostri anni Sessantae che già rispecchiava la fine di ogni certezzae speranza, quell’inarrestabile declinoche è diventato il nostro presente

Dopo mezzo secolo“La Dolce Vita”fa ancora scandalo

Repubblica Nazionale

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Nel linguaggio universaleda allora sono entrati i terminiitaliani “dolce vita” e soprattutto“paparazzi”: vita dorata eppuredisprezzabile, fotografiavventurosi eppure temibiliMa oggi il loro senso è cambiato

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39DOMENICA 7 FEBBRAIO 2010

Federico, Marcello e una Cadillacla mia folle avventura romana

Anouk Aimée

SILVIA LUPERINI

«Chiama per i cinquant’anni della Dolce Vita? All’epoca ero una bambi-na, piccola». Anouk Aimée, al telefono da Parigi, ride vezzosa. La suavocina infantile è inaspettata in una signora di settantotto anni. Nel

film era il contraltare di Anita Ekberg, la biondona dall’erotismo burroso. Sofisti-cata e disinibita, l’attrice francese invece diventa il prototipo della donna moder-na, sofferta e filiforme. Anouk Aimée ci racconta il primo incontro con il Maestro.

«Sapevo che Fellini stava cercando ovunque il personaggio di Maddalena. Mivide tra altre attrici e volle incontrarmi nello studio parigino del mio agente. Ri-cordo che aspettandolo mi ero convinta fosse un macho solo perché era un regi-sta italiano. Poi mi ha guardata e quegli occhi mi hanno attraversata. Non ho fat-to un provino, mi ha chiesto solo se volevo interpretare Maddalena. Dissi di sì, manon ci credevo perché tante attrici volevano quella parte. Un mese dopo arriva iltelegramma. Sono partita sapendo solo che avrei recitato con Mastroianni».

Il primo giorno avete girato la famosa scena della macchina in via Veneto.«Un disastro. Non conoscevo Roma e distinguevo a malapena la frizione dal

freno. Appena arrivo, Federico mi piazza su una Cadillac in mezzo a via Veneto emi dice: “Guida”. E poi: “Anuchina, guarda là, sorridi, gira, vai, vai”. Mastroianniseduto al mio fianco era bianco dalla paura. La sera stessa Federico mi riporta sulset e continua a non spiegarmi niente. Mi guarda e sta zitto. Ma quando provia-mo la seconda scena capisco da sola cosa devo fare».

Si comportava così anche con gli altri attori?«No. Si adattava al carattere di ciascuno. Ad Anita diceva tutto in inglese, con

qualcuno si arrabbiava e con altri aveva una gran pazienza. Con Marcello basta-va uno sguardo».

Le diede qualche indicazione per Maddalena?«La voleva sensuale. Per Federico i gesti erano più importanti della psicologia.

Si concentrava sui movimenti. Per avermi sinuosa come un gatto mi fece cam-minare a piedi scalzi. Desiderava che fumassi dolce, morbida».

Che atmosfera c’era sul set?«Ci volevamo bene, eravamo tanti e uniti. Lavorare con Federico era più di una

gioia. Era un modo di vivere. Certo non immaginavamo che da quell’esperienzasarebbe nato un capolavoro».

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Quell’“Urka!” di Celentanoballando con la Ekberg

Claudia Mori

CLAUDIA MORI

Adriano aveva diciotto anni quando un giorno il grande Fellini loconvocò a Roma per incontrarlo. Stava preparando La Dolce Vi-ta, quando su L’Europeovide due pagine con delle foto di un gio-

vane cantante, sfrenato e dinoccolato, che si esibiva allo Smeraldo diMilano scatenando un putiferio tra la folla di giovani che era andata adascoltarlo, spaccando sedie, sfasciando automobili e bloccando il traf-fico. Il suo nome era Adriano Celentano. Fellini rimase così colpito daquello strano ragazzo sconosciuto che disse a qualcuno dei suoi diret-tori di produzione di cercarlo: lo voleva incontrare subito a Roma. Ave-va deciso di scrivere per lui una scena de La Dolce Vita.

Adriano prese la “valigetta” e partì per Roma. Quando incontrò Fel-lini rimase, per la prima e forse unica volta della sua vita, senza parole.Sapeva chi era Fellini e, proprio per questo, restò muto davanti a lui.Federico, con la sua dolce voce così particolare, lo mise subito a suoagio, spiegandogli e mimandogli la scena che avrebbe voluto che lui in-terpretasse nel film. Adriano ascoltava attento e quando Fellini gli dis-se che ci sarebbe stata anche Anita Ekberg, che avrebbe ballato e dia-logato con lui, Adriano riuscì a dire solo una parola: «Urka!».

La scena si girò a Caracalla. Adriano era su un palco allestito dalloscenografo del film, in mezzo ad una folla urlante di ragazzi, cantandoReady Teddy. Il complesso che lo accompagnava non era il suo ma quel-lo scritturato dal film: I Campanino. Ad un certo punto Anita Ekberg,dopo l’esibizione canora di Adriano, gli va incontro e lo trascina con leiin un ballo. Adriano era evidentemente intimidito dalla bellissima Ek-berg ma soprattutto dalla consapevolezza di essere parte di un film delgrande Federico Fellini.

Fellini volle quel ragazzo, “Celentano”, così diverso, uguale a nessunaltro, forse perché intuì che lui era la rappresentazione di quanto la so-cietà stesse mutando. La sua Dolce Vitaci segnalò in quale società stes-simo vivendo: ma la speranza di come dovesse cambiare rimase neigiovani.

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Page 6: Mandela - la Repubblicadownload.repubblica.it/pdf/domenica/2010/07022010.pdfNelson Mandela ha desecretato alcuni documenti relativi alla prigionia che riportiamo in queste pagine Dall’alto,

Anno 1894, l’America conosce la crisi della rivoluzione industrialeUn ragazzo che sarebbe diventato lo scrittore più pagatodel mondo si getta nelle viscere del Paese. Da vero “hobo” salta

di nascosto di treno in treno, dorme e mangia dove capita, segue un esercito di genteche si sposta spinta dalla fame. Annota tutto nelle pagine di un diario che anticipaKerouac di mezzo secolo. Ecco i suoi pensieri On the Road per la prima volta in Italia

CULTURA*

Jack

40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 7 FEBBRAIO 2010

LondonIl vagabondo

DEPRESSIONEUn’immagine

di un hobo

che dorme

sotto un albero

Un clandestino in marciaQ

uando Jack London prende questi appunti ha diciott’anni, un paio di mestieri e unatraversata fino al Giappone dietro le spalle. È appena tornato in California quando sitrova immerso nel grande panico del ‘93, una delle crisi cicliche dell’economia ameri-

cana, la prima di dimensioni epocali. London diventa un vagabondo (hobo) per raggiunge-re l’Esercito industriale, la Kelly’s Army, migliaia di disoccupati in marcia verso Washingtonper chiedere lavoro. Un viaggio dalla California verso est saltando di treno in treno comeclandestino, sempre stando attento ai controllori e con il rischio di essere «affossato», cioèbuttato giù e spesso derubato e picchiato. Quest’esperienza procura a London tre cose. Tren-ta giorni di carcere per vagabondaggio scontati nel penitenziario di Buffalo. La struttura peril suo romanzo La stradache uscirà nel 1907 quando Il richiamo della forestaha già reso il suoautore un best selling che si gode la crociera sul suo Snark dopo una corsa all’oro nel Klon-dike, lo scorbuto, due matrimoni e tutto ciò che il suo iperattivismo e la sua inquietudine gliimponevano. E, terza cosa, una visione degli uomini che, come dice nel Diarioriferendosi alcompagno di viaggio Frank: «Sono sicuro che l’esperienza gli ha fatto bene, gli ha aperto lamente, gli ha dato una comprensione migliore degli strati inferiori della società e sicura-mente lo avrà reso più comprensivo verso i vagabondi che incontrerà d’ora in avanti quan-do si ritroverà in circostanze migliori». (dario olivero)

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Page 7: Mandela - la Repubblicadownload.repubblica.it/pdf/domenica/2010/07022010.pdfNelson Mandela ha desecretato alcuni documenti relativi alla prigionia che riportiamo in queste pagine Dall’alto,

Venerdì 13 aprileAlle cinque di questa mattina gli addetti alle pulizie si son presi la

mia stanza & sono stato obbligato a sgomberare. Mentre cercavoun altro posto caldo ho scoperto che due cavalieri della strada quigiunti mentre dormivo avevano gentilmente preparato un rug-gente fuoco in una delle enormi stufe. Uno dei due aveva un gran-de fazzoletto pieno di biscotti freschi al burro. Mi sono seduto, neho mangiato qualcuno & poi ho ronfato pacificamente sino alle set-te del mattino. Più si va a est in Nevada, più le città sono deprimen-ti & Terrace è la prima che ha un’aria decente, visto che finalmentesono nello Utah. Alle due di questo pomeriggio ho chiesto a un tu-rista diretto a ovest di chiudermi dentro un vagone diretto a est. Po-co prima della partenza del treno il portello si è aperto violente-mente & un frenatore mi ha chiesto quanto riuscivo a raccattare.«Quindici centesimi», gli ho risposto. Avevo due dollari e quindicicentesimi addosso e visto che i due dollari erano interi non avevointenzione di darli a lui. Mi ha detto che mi avrebbe portato sin fuo-ri su quella tratta ma non me li ha chiesti. Dopo aver fatto circa cin-quanta miglia secondo i miei calcoli, il portellone si è aperto di nuo-vo energicamente & sono apparsi controllore e frenatore. Dopolunga consultazione si sono presi il mio anello d’oro & mi han la-sciato i quindici centesimi. L’anello era di oro buono e aveva unabella composizione. Me lo aveva dato Lizzie Connelen.

Domenica 15 aprileIl treno ha fatto una sosta di mezz’ora a Evanston, poi è tornato a

Ogden & rientrando ha seguito la Oregon Short Line a causa di unbrutto deragliamento 11 miglia più avanti. Dopo una curva attra-verso un intaglio nella roccia la motrice è finita contro un masso ca-duto sui binari. La motrice ha saltato il binario su un lato ucciden-do fuochista e macchinista. Un vagabondo che viaggiava sulla cie-ca è saltato giù e non si è neppure ferito. Le carrozze posta & baga-gli sono deragliate sul lato opposto. Il resto del treno era piuttostomalconcio. Intorno all’1,30 del mattino una motrice ha riportatoindietro le due salme. Io e lo svedese siamo andati nelle officine elet-triche & dopo essere scesi nella sala caldaie ci siamo arrampicati so-pra e abbiamo dormito sino al mattino, nonostante il caldo insop-portabile. La neve ricopre il terreno dei vialetti & delle case anchese si sta sciogliendo rapidamente. Ci son volute poche ore per ripa-rare i binari & prima delle dieci del mattino io e lo svedese (che perpura coincidenza si chiama anche lui Frank) abbiamo conquista-to un merci diretto, era uno speciale arance. Ci siamo rimasti sopraper gran parte della giornata & quando ha fatto sosta a Green River,dove finisce il compartimento a est dopo 111 miglia, da qui abbia-mo lasciato il treno qualche minuto per trovare un pasto. Io son tor-nato con una fetta di pane e un pezzo di bologna & ce l’ho fatta a ri-partire, ma Frank non ha fatto in tempo. Mi hanno portato sino al-la stazione dopo a quindici miglia, e qui sono stato affossato. Rock Springs (quattromila abitanti)

Sembra una città mineraria. Sono andato in un saloon, ho bevu-to un bicchiere di birra & mi son fatto una bella lavata con acqua cal-da. Sono nel saloon a scrivere. Qui ti sembra davvero di essere nelvecchio e selvaggio West. I soldati, i minatori & i cowboy sembranotutti scalmanati. In questo momento un paio di cowboy o di man-driani stanno facendo un gran casino. Uno è alto circa sei piedi equattro, l’altro è un po’ piccolo. Credo che mi fermerò per questanotte & domani & darò un’occhiata alla città e alle miniere. È daquesta città che arriva il carbone delle sorgenti rocciose.

Lunedì 16 aprileTrovare il deposito questa mattina è stato il lavoro più difficile del

mondo. Ci sono migliaia di vagoni sui binari di deposito in attesadel carbone & da qui i treni partono verso nord, sud, est e ovest. Nel-l’orario di scuola ho visto una cosa bella. Tutte le ragazze indossa-vano cappucci col velo & ricamati. Solo una non lo portava & quel-

la ragazzina indossava una cuffia bianca per il sole.Undici del mattino. Nevica forte.Ho aspettato tutto il pomeriggio ma dato che i treni erano in ri-

tardo son riuscito a partire solo alle 5,30. Ho preso il rapido & nonl’ho mollato sino al compartimento dopo, dove alle 9,40 sono sta-to affossato. Sono rimasto da Rawlins sino alle 12,30. A quel puntotirava una bufera di neve & c’era un freddo pazzesco. I saloon era-no tutti pieni e si giocava a tutto spiano a poker, faro, dadi, stallone& roulette. Alle 12,30 ho preso uno speciale arance & mi sono infi-lato nel carro frigorifero & ci credo che prima che fosse giorno face-va freddo. Sono arrivato a Laramie alle sette in punto, qui finiva ilcompartimento. Durante la notte faceva talmente freddo che il fre-natore mi ha ignorato. In questa nottata ho fatto 257 miglia.

Martedì 17 aprileQuando ho lasciato il treno a Laramie la neve era così fitta che

non si vedeva oltre la biella. Avevo i piedi talmente gelati che ci è vo-luta mezz’ora per far tornare la circolazione. Ho fatto una bella co-lazione al ristorante & alle dodici in punto, quando la bufera di ne-ve era al massimo, ho preso la cieca del rapido con l’intenzione diarrivare a Cheyenne & rientrarci la sera. Ma quando ho raggiunto ilmonumento di Ame, la massima altitudine su questa linea, ho rag-giunto il distaccamento di Reno dell’esercito industriale. Erano inottanta e accampati nella carrozza frigorifero agganciata a un mer-ci diretto. Son saltato dentro & mi sono accomodato. Quella notteabbiamo superato il confine ma solo quando siamo stati ben den-tro il Nebraska ci siamo lasciati alle spalle la bufera di neve.

Traduzione Davide Sapienza © 2010 Alberto Castelvecchi Editore Srl

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41DOMENICA 7 FEBBRAIO 2010

JACK LONDON

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la faccia abbronzata ma era niente rispetto a questo. Il sole me l’haspellata, mi sembra di essere caduto nel fuoco.

Ovunque ho incontrato folle di persone dirette a est, solo una an-dava a ovest. Qui oggi ho anche incontrato l’originale. Sta facendoa piedi dal Colorado a Frisco, dove andrà per mare. Poi un franceseche se l’era fatta tutta a piedi dal Minnesota a Sacramento e ritornosino a qui. Ora le scarpe lo hanno mollato & si propone di viaggiarein treno per il resto del tragitto.

Questa sera ho preso il treno delle 22,45 & ci son rimasto su sinoa Humboldt, dove finisce il deserto e dove son stato affossato. Il tran-scontinentale non era ancora ripartito che arrivava uno specialearance. Ci son salito & andava diretto a Winnemucca, cinquanta mi-glia senza fermate. Una scintilla ha preso fuoco nel cappotto & hacovato poi improvvisamente è esplosa in una fiammata. Il treno an-dava a circa quaranta miglia orarie, che fatica spegnerla. Cappottoe giacca rovinati. Per il resto della tratta ho viaggiato sui respingen-ti

Mercoledì 11 aprileIeri notte ha nevicato. Abbiamo deciso di lasciar filar via il grup-

po di Reno & partire il più velocemente possibile per Ogden.Oggi pomeriggio io e Frank ci siamo chiariti. Per lui la strada non

ha più fascino. Non ci sono più avventura & mistero & resta solo ladura realtà delle difficoltà da affrontare. Anche se ha deciso di tor-nare a ovest sono sicuro che l’esperienza gli ha fatto bene, gli haaperto la mente, gli ha dato una comprensione migliore degli stratiinferiori della società & sicuramente lo avrà reso più comprensivoverso i vagabondi che incontrerà d’ora in avanti quando si ritroveràin circostanze migliori.

Questa sera lui va a ovest e io a est. Può stare tranquillo perché hasoldi sufficienti per la mazzetta ai frenatori di questa linea a cin-quanta cent per compartimento & gliene restano anche per man-giare. Alle nove di sera ci siamo dati la mano e ci siamo salutati.

Preso un merci. Vado a maciullare carbone sulla motrice da qui aCarlin, sono 131 miglia.

Giovedì 12 aprileArrivato a Carlin alle 3,30 questa mattina. Piccola cittadina ferro-

viaria situata nel cuore del grande deserto americano, attraverso ilquale sto viaggiando. A parte il transcontinentale, sino alle due nonè passato un treno diretto a est. Qui ho conosciuto un cinese & ab-biamo giocato a carte mentre aspettava di registrarsi. Non c’era gio-co che non capisse. Ho preso il transcontinentale in partenza alle7,30 circa, viaggiando sulla cieca con altri due tipi. Abbiamo fattouna corsa di quarantacinque miglia sino a Elko & una di ventitré si-no a Peko dove hanno provato ad affossarci. Siamo scesi e siamo an-dati davanti ma il frenatore è rimasto sulla cieca che partiva. Abbia-mo atteso sino a quando il treno non era passato quasi tutto, poi duedi noi son saltati sui tetti delle carrozze di lusso & siamo rimasti lìmentre l’altro si è infilato sotto sulle bielle. Sono andato avanti su-perando altre due carrozze per dirgli di venire sul tetto della ciecama ha detto che era troppo rischioso. Sono andato avanti cinquecarrozze circa & mentre il frenatore stava sul predellino non son riu-scito ad andare oltre & a non farmi vedere. Ho aspettato & quandoil treno si è fermato son sceso & sono corso davanti sulla cieca. Il fre-natore è salito un’altra volta alla partenza ma io ho preso quella do-po la sua & quando è saltato giù per venire a prendermi sono corsoavanti & mi son preso il predellino lasciato libero da lui. Il tipo chestava sul tetto con me è stato affossato, io invece non ho mollato si-no a Wells, che è alla fine del compartimento e dove hanno aggan-ciato un locomotore doppio. Il frenatore ci dava la caccia come unsegugio assetato di sangue così mi sono arrampicato sulla motrice& ho passato carbone sino a Terrace, a fine compartimento. Non miinteressava andare oltre così sono andato al deposito locomotive &ho dormito nella cabina di una motrice sino a mattina.

Venerdì 6 aprile

Lasciato la Oakland Mole alle 4,30 del pomeriggio e ar-rivato a Sacramento alle otto di sera. Sono salito allaMississippi Kitchen e ho cenato. Ho appreso che l’e-sercito industriale era arrivato a mezzogiorno per ri-

partire verso Ogden alle quattro. Sono sceso e ho preso il transcon-tinentale delle dieci di sera diretto a est.

Domenica 8 aprileMi sono svegliato alle 3,30 del mattino mezzo congelato a mor-

te. Mi sono alzato, sono uscito a muovermi per far tornare la circo-lazione cercando riparo nella carrozza ristorante. Il sordomuto &(sic) le edificanti conversazioni delle signore. Abluzioni mattutinesulle rive del fiume Truckee. Piango la perdita dei vestiti, dello spaz-zolino & del pettine con Frank ma ho ancora salvietta e sapone. So-no andato a vedere come caricano il bestiame & i maiali. Ho cono-sciuto uno svedese sulla strada, siamo andati a mangiare insieme.Ho guardato gli indiani giocare d’azzardo, ascoltato l’Esercito del-la salvezza e i disoccupati riuniti all’angolo. Stanno costituendo unesercito e domani vorrebbero partire verso est. Lungo tutta la trat-ta che parte da Oakland ne abbiamo incontrati centinaia che inse-guivano il primo distaccamento dell’esercito industriale. Gran par-

te di loro lo ha perduto per l’inattesa partenza di buon mattino delvenerdì. Preso un merci la sera & arrivato a Wadsworth, ma non hotrovato Frank. Ho dormito in cabina sulla motrice allo scalo & allequattro circa del mattino quando gli addetti alle pulizie se ne sonoimpossessati ci hanno portato fuori.

Lunedì 9 aprileAndato all’ufficio postale & ritirato una cartolina di Frank che è a

Winnemucca. Il generale Kelly è passato di qui sul transcontinen-tale del mattino. Incontrato un dottore che mi ha dato mezzo dol-laro & invitato a colazione senza che glielo chiedessi. Mi ha dettoche gli ricordavo qualcuno ma non siamo riusciti a ricordare se cieravamo già incontrati. Sto aspettando di prendere un treno che at-traversi il deserto di Winnemucca, se ci arrivo in tempo insieme aFrank raggiungeremo il distaccamento di Reno dell’esercito indu-striale & poi dritti su Washington!

Su tutta questa parte della tratta gli addetti alle pulizie sono ci-nesi e il personale del compartimento italiano. Oggi qui ho visto ilpiù grosso Terranova della mia vita. Più che altro sembra un orso.È impossibile prendere un treno in partenza sino a stasera, c’è il per-sonale troppo vicino. Potrei prenderne uno qualsiasi e starci su si-no alla fermata dopo ma voglio prenderne uno dove restare sino al-la fine. È l’ultima stazione prima di entrare nel deserto e non desi-dero essere affossato vicino a qualche cisterna d’acqua solitaria do-ve potrebbero passare dei giorni prima che si fermi un treno. Maivisto un tempo del genere. Di giorno caldo pazzesco & di notte sicongela. Il cielo è così limpido & l’atmosfera sottile e vedi le cose agrande distanza ma ti inganni credendole vicine. Pensavo di avere

Sono nel saloon a scrivereQui ti sembra davvero di esserenel vecchio e selvaggio WestIn questo momento due cowboystanno facendo un gran casino

IL LIBRO

Il Diario del vagabondo di Jack London, inedito

in Italia e di cui anticipiamo alcuni passaggi in queste

pagine, fa parte del libro La strada che raccoglie

un’antologia di racconti e di reportage poco noti

nel nostro Paese, da The Road a The Tramp,

a The Apostate fino al postumo The Princess

Il volume (272 pagine, 16 euro), curato

da Davide Sapienza e pubblicato da Castelvecchi,

sarà in libreria dal 10 febbraio

Oggi pomeriggio io e Frank ci siamochiariti. Per lui la strada non ha piùfascino. Non ci sono più avventurae mistero e resta solo la dura realtàdelle difficoltà da affrontare

Repubblica Nazionale

Page 8: Mandela - la Repubblicadownload.repubblica.it/pdf/domenica/2010/07022010.pdfNelson Mandela ha desecretato alcuni documenti relativi alla prigionia che riportiamo in queste pagine Dall’alto,

42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 7 FEBBRAIO 2010

Oggi il musicista gitano avrebbe esattamente centoanni. Ma la sua vita da bohème si è conclusa a pocopiù di quaranta, il 16 maggio del 1953, dopo avventure

e tragedie. Diciottenne, subì gravi ustioni a causa di un incendio nella roulottedove viveva. Per quell’incidente il mondo perse un promettente suonatore di banjo,ma guadagnò il re della chitarra. Dischi, libri e concerti lo celebrano in questo 2010

SPETTACOLI

Chiedetea Paolo Conte se c’è un luogoe un’epoca in cui gli sarebbe piaciutovivere e lui risponderà senza esitare:Parigi, tra gli anni Venti e Trenta. E al-lora immaginiamocela questa Parigidi inizio secolo, amabilmente confu-

sa nella sua vertigine lussureggiante di artisti, bel-lezze esotiche e sale da ballo dove tanghi, javanaisee valzer musette coloravano le strade di musica. È lì,

GINO CASTALDO in uno di quei periodi della storia in cui l’ebbrezzadell’arte si mescola ai destini umani, che nasce laleggenda del chitarrista Django Reinhardt, di cuiquest’anno ricorre il centenario della nascita. Inrealtà nacque a Liberchies in Belgio, ma Parigi fu lasua città fin da quando era bambino e la sua caro-vana si fermò alle porte della città. Django era unmanouche, uno zingaro, e suonava, come facevanopiù o meno tutti nella sua famiglia. Ma lui avevaqualcosa in più. Totalmente analfabeta, illetterato,sufficientemente scapestrato, aveva un dono, su-

blime, diciamo pure impareggiabile. Sulla musicasembrava volare, come un mago, e portava in volochiunque lo ascoltasse, lassù in alto su un celeste“sentiero degli zingari”, come i nomadi chiamanole loro errabonde strade.

Jazzisticamente parlando, questo è l’anno diDjango Reinhardt. Per festeggiarne il centenariostanno uscendo libri, dischi tributo, ristampe dellesue celeberrime incisioni. Il 14 marzo, a Parigi, alTheatre des Champs Elysées, il produttore Jean-Marie Salhani metterà insieme ben cento chitarri-

sti (tra cui alcuni di cognome Reinhardt, ovviamen-te suoi discendenti) per rendere omaggio al più im-portante jazzista europeo di tutti i tempi. Cento perfarne uno.

Django cominciò suonando il banjo. E a di-ciott’anni già era considerato un piccolo prodigio.Era incostante e inaffidabile, spesso mandava i cu-gini al suo posto quando si perdeva in bistrot e localidi dubbia reputazione, ma lo volevano tutti anchese il temperamento era ribelle, anche se suonavacome gli pareva, trasgrediva, era irruente. Apparve

Quando il jazzera uno zingaro

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Page 9: Mandela - la Repubblicadownload.repubblica.it/pdf/domenica/2010/07022010.pdfNelson Mandela ha desecretato alcuni documenti relativi alla prigionia che riportiamo in queste pagine Dall’alto,

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43DOMENICA 7 FEBBRAIO 2010

già in alcune rudimentali incisioni, ingruppi di valzer musette con fisarmoni-ca. Nelle note era indicato come Jeangot.Suonava le musiche dei carrozzoni, le musi-che zingare, tra chitarre intarsiate e fisarmonichescintillanti, vicino a personaggi meravigliosi, biz-zarri, lunatici. Ma a quei tempi a Parigi si mischiavatutto e il jazz fu un scelta naturale. Un buon terrenoper improvvisare. Tanto che fu notato dal capo-banda di una nota orchestra di jazz inglese che se lovoleva portare in giro per tutta Europa. Django eragià sposato e aspettava un figlio. Ma il destino, ro-manzesco, folle, quasi incredibile, stava per segna-re la sua vita in modo indelebile.

Il primo novembre del 1928 se ne stava tornandoa casa, anzi nella sua roulotte, in una scarpata vici-no alla Porte de Choisy, un ambiente sordido e de-gradato chiamato la Zone, dove si ammucchiavanoi carrozzoni zingari. Ad aspettarlo c’era la moglieBella. Appena entrato, Bella fece cadere una cande-la e il fuoco divampò in pochi secondi. La moglie sisalvò a fatica, coi capelli in fiamme ma tutto som-mato illesa. Il diciottenne Django subì gravi ustioni,danni permanenti a una gamba e alla mano sinistra.Due dita, l’anulare e il mignolo furono compro-messi, malamente saldati alla mano dalla cicatriz-zazione, ma inservibili, e fu lui stesso a rifiutarel’amputazione, sia della gamba che della mano. Peri medici stava rischiando la vita, ma lui tenne duro,e se la cavò, rimanendo però menomato. Per ilbanjo non c’era più storia. Ma nei lunghi mesi di de-genza cominciò a giocare con la chitarra, più flessi-bile, meno dura del banjo, e sullo strumento in-ventò letteralmente una tecnica che gli permettevadi suonare con sole tre dita, l’indice e il medio chescorrevano sulle corde, il pollice che interveniva suibassi, e le due dita menomate usate come barrè.Quando uscì dall’ospedale la chitarra stava facen-do capolino nel jazz sostituendo i banjo. La musicamanouche ancora andava ma nei locali dei viveur

p a -rigini si af-fermava sempre di più il jazz più morbido e flut-tuante che cominciava a prendere il nome di swing.

Il suo prodigioso stile, seppur dovuto a un handi-cap, è stato poi studiato e imitato da molti. Ancheperché Django non solo riuscì a diventare un bravochitarrista, il che era già qualcosa di miracoloso, maun vero proprio genio, un innovatore capace di in-ventare uno stile inimitabile, originale al punto dadiventare il primo jazzista europeo all’altezza deigrandi americani. La Parigi degli anni Trenta nonera proprio New Orleans ma per l’Europa era il luo-go più vivo e creativo che si potesse immaginare. Ecosì quando formò col violinista Stephane Grap-pelli il leggendario Quintette du Hot Club de Fran-ce, era pronto a entrare nella Storia.

Il gruppo era già in sé un’anomalia, solo stru-menti a corda in una musica dominata da fiati e per-cussioni. Ma proprio con la sua originalità Djangofu il primo a staccarsi dalla dipendenza del domi-nante modello americano. Sulla chitarra scivolavacon languore ammaliante, inventava melodie cheattingevano liberamente al lessico del jazz ma an-che alla sua memoria manouche, con un senso rit-mico inarrivabile. E rimaneva a suo modo un per-sonaggio da romanzo. Incostante, ritardatario, gio-catore d’azzardo e di biliardo, alimentava la sua leg-genda rifiutando tutto ciò che era ovvio, prevedibi-le.

In America lo chiamò Duke Ellington, ma quan-do fu invitato ad esibirsi con lui alla Carnegie Hallper quella che doveva essere la sua consacrazionenella patria del jazz, arrivò in ritardo, perso in chis-

sà quale scommessa, o quale gonnel-la da corteggiare. Per lui contava solo la

musica, ma rimaneva nell’animo unozingaro, uno che, come dicevano quelli della

sua genìa, suonava per i “contadini” o gadjè, co-me gli zingari chiamavano quelli stanziali, i non zin-gari. E per la stessa strafottenza se ne tornò in Fran-cia dall’Inghilterra, in tempo per passare guai conl’occupazione nazista. Continuava a non saper leg-gere e scrivere, cosa che non gli impedì di dimo-strarsi anche un raffinato compositore (vedi pezzicome Nuages o Belleville) ma essendo vanitosochiese una volta a Stephane Grappelli di insegnar-gli almeno la firma, così da poter siglare gli autogra-fi.

Lo hanno studiato in tanti, sperando di com-prendere il mistero della sua magia, della natura-lezza con cui swingava e improvvisava sulla sua chi-tarra creando sempre scintille di estatica malinco-nia. E uno degli omaggi più singolari che gli sianostati tributati viene da un film. In Accordi e disaccor-di di Woody Allen, Sean Penn interpreta la parte diun geniale e scombinato chitarrista jazz. Bravo, glidicono tutti, e lui ogni volta risponde sì, ma sono so-lo il secondo. C’è uno più bravo di me. Allude ovvia-mente a Django Reinhardt, una delle più romanti-che leggende del jazz, il genio manouche comple-tamente analfabeta ma capace di scrivere le più bel-le pagine del jazz europeo.

Morì il 16 maggio del 1953, precocemente, a cau-sa di una sua idiosincrasia. Aveva il terrore delleiniezioni e per questo evitava i medici, una disat-tenzione che gli costò la vita. Ha lasciato tanti eredispirituali che ancora oggi perpetuano il suo stile, co-me Bireli Lagrene e Stochelo Rosenberg, ma so-prattutto ha lasciato una sensazione insopprimibi-le e ancora oggi più che mai avvolta di fascino: che iljazz possa essere un romanzo della vita, da scriverea colpi di note.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

I CONCERTI FRANCESIIl produttore Jean-Marie

Salhani ha riunito cento

tra i migliori chitarristi

jazz per tre date

di concerti - omaggio

dedicati a Django

Reinhardt: il 14 marzo

al Théâtre des Champs

Elysées di Parigi, il 29 luglio

all’Arena di Arles e il 31 luglio

a Langon, vicino Bordeaux

CD IN USCITAThe best of Django Reinhardt raccoglie

24 performance classiche di Reinhardt;

Generation Django è una compilation di grandi

del jazz dedicata a lui. Più sopra, i dischi storici

ieri & oggi

LA BIOGRAFIADjango Reinhardt - Il gigante

del jazz tzigano di Alain

Antonietto e François Billard

(arcana, 308 pagg.,18,50euro)

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Il bicchiere è scuro, scurissimo,nero o blu, per aggirare l’occhioingannatore. Perchè dici olionovello e l’immagine si tinge diverde, passaporto di genuinità esapore: ben lo sanno i furbetti

che usano le foglie come doping pertruccare l’esito cromatico della spre-mitura. Così, nei panel di degustazio-ne, non lo sguardo, ma nasoe bocca raccontano l’im-patto sensuale dell’olionuovo. Che comincia la suavita ben prima di quando lotroviamo sugli scaffali (al dilà del rustico “verdone”,spremuto e imbottigliatonel tempo di un respiro).

Certo, la natura detta par-te del programma: Francia-corta e Sicilia sono obbliga-te dalla latitudine a tempi-stiche diverse; e i giorni della raccoltacambiano in rapporto all’extravergineche si vuole ottenere. Portare le olive alfrantoio prima o dopo l’invaiatura, ov-vero quando il verde si abbruna (su sufino al nero), significa esaltare o limarecerte caratteristiche primarie — profu-mi, aromaticità, sapori, retrogusti —per ottenere un olio sfacciato o morbi-do, ruvido o sottile, carnale o elegante.

Dopo, arriva il tempo del riposo (de-cantazione). Al buio e al fresco, l’olio

nuovo lascia cadere sul fondo impuritàed eccessi. Non c’è regola che certifichii giorni e le settimane necessarie. Arri-va comunque il momento — che coin-cide più o meno con l’inizio dell’anno— in cui tutto l’eccesso è sedimentato:allora si procede al travaso (anche piùdi uno) e, in molti casi, alla filtrazione.Si filtra per regalare brillantezza e al-

lungare la conservabilità, eliminandole particelle più sensibili all’irrancidi-mento. Ma c’è chi preferisce correre ilrischio e accorciare la vita in bottiglia,pur di mantenere intatta l’integrità ori-ginaria con il suo carico di clorofille ecaroteni.

Di lì in poi, occorre solo trovare il giu-sto compagno di scorribande gastro-

nomiche, dal più umile dei pani al re deicioccolati fondenti, passando per pa-ste e zuppe, verdure e pesci grassi, tran-ci di carni rosse da domare (il miticomanzo all’olio bresciano) e focacce conil rosmarino come unico contraltare disapore.

L’incredibile ventaglio di odori&sa-pori, dalla finezza agrumata dei novel-

li del Garda alla stuzzicantesapidità di quelli sardi, per-mette davvero a tutti i prati-canti dei fornelli — cuochidilettanti e professionististellati — di battezzare leproprie creazioni con centosfumature diverse. Le tec-niche della nuova cucina,poi, regalano al novello for-me insospettabili: borotal-co, croccante, granita, sas-solini, dove la bassa tempe-

ratura di servizio sottrae untuosità sen-za intaccare il fascino aromatico, che sisprigiona con il calore del palato.

Se non avete confidenza con sotto-vuoti e sifoni, fate scaldare delle fette dipane casareccio, spargeteci sopraqualche grano di sale marino grosso af-fumicato e irroratele di olio novello: lapiù timida delle carote al vapore si tra-sformerà in Messalina del gusto, radicelicenziosa e irresistibile.

OlioNovello

Il miglior amicodi cuochi e chef

LICIA GRANELLO

i saporiNatura in tavola

Sfacciato o morbido, ruvido o sottile, carnale o elegante...Dopo la spremitura e la decantazione al buio e al fresco,è il momento di gustare al meglio il nuovo extraverginein tutto il ventaglio delle varianti regionali e in tuttele combinazioni gastronomiche: compagno capace di esaltareil più umile dei pani come il più pregiato dei pesci

44 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 7 FEBBRAIO 2010

Insalata d’invernoEnrico Crippa (Piazza Duomo,

Alba, Cuneo) seleziona venticinque

ingredienti (senape, sedano,

rucola, crescione, radicchio,

indivia) conditi con sesamo,

alga nori e un tandem

ligure-calabrese di oli nuovi

L’appuntamentoSdoganato dal tempo del riposo

(con filtrazione o non) l’olio

nuovo arriva sugli scaffali

di piccola e grande distribuzione

insieme a una manciata di feste

e appuntamenti. Apricale,

delizioso borgo dell’entroterra

ligure a pochi chilometri

dal confine con la Francia,

membro delle città dell’olio,

ospita nel secondo weekend

di marzo la Festa dell’Olio

Nuovo, con i migliori produttori

da olive taggiasche in passerella

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Repubblica Nazionale

Page 11: Mandela - la Repubblicadownload.repubblica.it/pdf/domenica/2010/07022010.pdfNelson Mandela ha desecretato alcuni documenti relativi alla prigionia che riportiamo in queste pagine Dall’alto,

Acerbo, maturo, verdecantato perfino da Catone

CORRADO BARBERIS

L’olio come il sesso. Chi negherebbe la qualifica di vergine ad un’anziana signora maiconosciuta da uomo? E chi negherebbe la qualifica di novello al succo appena spre-muto da una oliva rimasta a maturare sull’albero fin dopo Capodanno inoltrato?

In realtà il linguaggio comune confina le vergini al di sotto di una certa età. E con olio no-vello è designato quello che i frantoi consegnano a raccolta appena cominciata, in ottobre.Fragrante. Anzi, c’è una gara a gustare olii sempre più primaticci. Non diversamente daquanto accadeva nelle vecchie società rurali, dove i nobili maritavano le loro figlie quandoancora non erano puberi o lo erano da pochissimo, in modo da diventare contempora-neamente donne e spose: come dimostra l’Histoire du mariage edita poco fa da Laffont.

A spingere verso l’olio primaticcio fu il buonuomo Catone, nel suo trattato De agricul-tura, 180 anni circa avanti Cristo. Il vecchio Sabino non esita a preferirlo: «Più le olive sa-ranno acerbe, migliore sarà l’olio» (65, 1). Era il cosiddetto oleum viride, contrapposto aquello normale la cui raccolta avveniva in gennaio. Peraltro, in una Roma come quella a cuiCatone dedicava il suo trattato, una Roma che conosceva una fantastica espansione in tut-to il Mediterraneo ma che non era stata ancora educata alla ricchezza, il mercato di un oliodi qualità come il verde era necessariamente ristretto. Di qui l’ammonimento dell’econo-mista, sdoppiatosi dal gastronomo: essere, per il proprietario, più vantaggioso fare l’oliocon le olive mature. Almeno per le grosse partite, per non rischiare l’invenduto.

Con gli anni, il mercato dei prodotti di qualità conoscerà una sensibile espansione. Duesecoli e passa dopo Catone, Columella distingue quattro tipi di olio: l’acerbo, il verde, il ma-turo e l’ordinario. L’acerbo, detto anche estivo, era in un certo senso un olio superverde,raccolto a partire da settembre. Columella non ne dà un giudizio organolettico, ma è pre-sumibile che avesse una cerchia di estimatori, visto che nei suoi confronti vengono ripe-tute le raccomandazioni già formulate da Catone a proposito dell’olio verde: non conve-nire al padrone, data la scarsa produzione e il conseguente alto prezzo, che allontanava lemasse. «Invece — sottolinea l’agronomo — è convenientissimo fare l’olio verde perché neviene una quantità notevole e perché col suo prezzo raddoppia quasi le entrate del padro-ne» (XII, 52, 1). Naturalmente, all’interno dell’olio verde, si distingueva quello di prima, se-conda e terza spremitura, creando una precisa gerarchia di bontà. Il prodotto ricco avevadunque vinto la sua battaglia, grazie a palati più raffinati e ad una maggiore abitudine allaspesa. Ma le avanguardie dei gastronomi non si accontentavano più di questo rito ottobral-novembrino. Spingevano la fabbricazione dell’olio sempre più a ritroso, verso l’estate.

Ecco perché l’odierna riscoperta degli oli novelli ci riporta indietro nel tempo e ci fa rivi-vere un momento dell’eterno contrasto tra quantità e qualità.

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 45DOMENICA 7 FEBBRAIO 2010

itinerariCostantinoRusso,direttorede “Il Mosaico”dell’hotel

Terme Manzidi Ischia, produceextraverginea Montechiaro,Napoli. Nuovo nato,“Eccolo”, da oliveraccolte ai primidi ottobre

Gentile di Chieti, Leccino

e Intosso sono le olive

della zona dove opera

una biocooperativa

L’olio dop novello dei colli

Teatini ha color verde

brillante e note d’erba

DOVE DORMIREVILLASFOR2Contrada Cinonni

Tel. 366-2044567

Camera doppia da 55 euro, colazione esclusa

DOVE MANGIAREVILLA MAIELLA (con camere)Via Sette Dolori 30,Guardiagrele

Tel. 0871-809319

Chiuso domenica sera e lunedì, menù da 40 euro

DOVE COMPRAREOLIVICOLA CASOLANALocalità Piano Laroma 3. Tel. 0872-982248

Casoli (Ch)Fragrante e leggermente

piccante la produzione

d’olio da olive Moraiolo,

Leccino e Frantoio,

tipiche dell’area toscana

È bio nelle colline dove

non c’è la mosca olearia

DOVE DORMIREVILLA MARSILI Viale Battisti 13

Tel. 0575-605252

Camera doppia da 110 euro, colazione inclusa

DOVE MANGIAREOSTERIA DEL TEATROVia Maffei 2

Tel. 0575-630556

Menù da 30 euro, chiuso il mercoledì

DOVE COMPRARETENUTA PIANELLICase Sparse Valecchie 20. Tel. 0575-614100

Cortona (Ar)Dalla congiunzione

tra Wwf e Consorzio

di gestione dell’area

protetta di Torre Guaceto

per la preservazione

degli olivi secolari è nato

un ottimo olio biologico

DOVE DORMIRECORTE DI FERRO RESORT (con cucina)Contrada Corte di Ferro

Tel. 0831-990903

Camera doppia da 120 euro, colazione inclusa

DOVE MANGIAREGIÀ SOTTO L’ARCOCorso Vittorio Emanuele 71

Tel. 0831-996286

Chiuso domenica sera e lunedì, menù da 45 euro

DOVE COMPRAREPRODUTTORI BIOLOGICI TORRE GUACETOVia Crocifisso 18. Tel. 0831-990882

Carovigno (Br)

Ricette d’autore

Fagottini di scampiAntonio Guida (Il Pellicano, Porto Ercole,

Grosseto) prepara dei golosi fagottini

agli scampi, da servire appoggiati

su una crema di pasta di semola di grano duro

emulsionata con extravergine novello

BruschettaNel più facile e appetitoso dei finger

food, il pane ideale è bianco,

per non sovrapporre il sapore

dei cereali, abbrustolito e tiepido,

così da liberare le molecole

aromatiche vegetali del novello

Aglio & olioLa sublimazione della pasta secca:

spaghetti di qualità cotti ben al dente,

spadellati con un paio di spicchi

d’aglio nostrano lievemente dorati

nel profumato, intenso extravergine

nuovo. Peperoncino a piacere

PestoLa Liguria celebra i suoi oli, preziosi

anche nella versione novella,

con la più intrigante delle salse

a crudo, a base di basilico locale,

pinoli (i migliori sono di San Rossore,

Pisa), parmigiano e pecorino

Pasta & fagioliLa regina delle zuppe, declinata

in tante varianti regionali – varietà

di fagioli, soffritto, crosta

di parmigiano, tocchetti di pancetta –

deve comunque essere battezzata

con un giro d’olio, meglio se nuovo

PinzimonioUn ventaglio di crudité – carote,

sedano, carciofi, topinambur,

cavolfiori – da intingere

nella ciotola di olio nuovo,

con qualche grano

di sale marino grosso a parte

Crema d’uovoJosean Martinez Alija (Museo Guggenheim,

Bilbao, Spagna) estrae dal tuorlo marinato

in acqua e sale parte del rosso e lo sostituisce

con olio nuovo. Al posto del bianco,

emulsione vegetale con olio e yogurt

Crostoni di beccaccia Mauro Uliassi (Uliassi, Senigallia, Ancona)

prepara un fondo usando le carcasse

profumate al cognac, con cui nappa le fette

di pane tostate e ripassate nell’olio novello

Sopra, le carni disossate cotte alla piastra

Piacere ancestraleCorrado Assenza (Caffè Sicilia, Noto, Siracusa)

elabora una doppia crema di fave (maccu)

e borragine, entrambe emulsionate

con extravergine novello intenso e fruttato

Rifinitura con lamelle di ragusano stagionato

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C’ERA UNA VOLTA OBAMA

www.limesonline.com

il nuovo volume di Limes (1/10)la rivista italiana di geopolitica

è in edicola e in libreria

LA SOLITUDINE DEL NUMERO UNO

NEL MONDO SENZA POLI

NOI EUROPEI ORFANI DI MAMMA AMERICA

Repubblica Nazionale

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le tendenzeSan Valentino

Romantico, luminoso, simbolico: il dono per la festadegli innamorati si compra da sempre in gioielleriaOggi, stretti dal rialzo dell’oro, si scelgono oggetti piùpiccoli, diamanti con qualche carato in meno. Ma anelloo bracciale restano un must per lei. E una nuova idea per lui

zemolo e di Diego Della Valle sono stati visti sbuca-re vari braccialetti. Non solo Johnny Depp e DavidBeckham dunque, non solo Brad Pitt e Benicio DelToro, ma anche la classe dirigente. Se una volta era-no ammessi esclusivamente i gemelli (la cui vendi-ta è in crescita), l’orologio e l’ormai del tutto scom-parso fermacravatta, oggi stilisti e gioiellieri di gri-do lanciano linee di monili riservati a lui, spesso inoro abbinato a materiali tecnici come il poliureta-no e il carbonio, ciondoli con simboli etnici e triba-li, croci, ma anche pugnali, daghe medievali, cobraattorcigliati, cartigli, piastrine in stile militare in ru-tenio nero che pendono da lacci di caucciù. Moltigioielli hanno doppi ciondoli, simbolo dell’amoredi coppia, sono uguali per lui o per lei e a volte sonoanche intercambiabili, essendo venuta meno lanetta demarcazione fra ciò che può portare un uo-mo e ciò che da sempre porta una donna: l’unisexcontinua a fare tendenza.

«Attenzione però a non esagerare con il modellodi uomo metrosexual — mette in guardia AngeloBucarelli, arbiter elegantiarume docente all’Acca-demia di costume e moda di Roma — L’eleganzadeve sempre essere bilanciata dalla discrezione edall’understatement. Il corpo di un uomo è già mol-to vistoso, specie se tonico. Ingioiellarlo significarenderlo ridondante. Occhio ai rischi, dunque. Ilmio consiglio va verso la discrezione».

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Ci sono gesti la cui forza simbolica non tra-monta, nemmeno in tempi di crisi, comeregalare un gioiello. Meglio ancora ungioiello di coppia: non solo lui a lei, ma an-che lei a lui. Si spende di meno certo, ma losi fa di più. Lo conferma Giuseppe Aquili-

no, presidente della Federazione nazionale dettagliantiorafi aderente alla Confcommercio: «Lo abbiamo vistoanche a Natale e lo vediamo ora per San Valentino. La ci-fra media dello scontrino si è abbassata, ma il numero de-gli scontrini è aumentato. Segno che regalare un gioiello,anche se non di grande pregio, conserva tutto il suo valo-re simbolico. Assistiamo inoltre a un grande ritorno diquei clienti con una certa disponibilità di spesa che pri-ma si rivolgevano altrove e regalavano o si regalavano te-lefonini d’ultima generazione, o viaggi esotici. Adessotornano a comprare gioielli, anche importanti, e vannosoprattutto sul classico: oro e diamanti».

L’oro tuttavia è un lusso sempre meno abborda-bile. «Costando 26 euro al grammo, un vero prezzofolle, è sempre più spesso sostituito con l’argento— afferma Aquilini — Va l’oro rosa, che ha una ca-ratura più bassa e sta bene con le pietre semipre-ziose, cui dà un tono più caldo. E va il gioiello fan-tasia. Per San Valentino vendiamo soprattutto gliintramontabili cuoricini di ogni tipo, ma ancheanelli e verette. Con una spesa media di cento eu-ro, grazie al design italiano, riusciamo ad offrire unprodotto moda con cui è possibile fare bella figu-ra».

Un anello ma non solo. «San Valentino è sinoni-mo d’amore e l’amore è rosso fuoco — osserva Cri-stina Spinella, designer di gioielli — Il rubino è sen-za dubbio il re delle gemme rosse, ma sono moltointeressanti anche alcune tormaline, varietà rubel-lite, gli spinelli e i granati, sicuramente più accessi-bili come prezzo. In alternativa alle pietre preziosesi può optare per un gioiello con la superficie insmalto, tenendo conto però che il rosso è il colorepiù difficile da ottenere e anche il più costoso».

Un’altra tendenza cui si assiste è la diffusionedella gioielleria da uomo. Non solo e non tanto frai tronisti, i rapper, i calciatori e gli inquilini delGrande Fratello, ma anche fra manager e profes-sionisti. Una moda ormai sdoganata anche in Ita-lia, se pure dal polsino di Luca Cordero di Monte-

Il gioiello va di modama è meglio unisex

LAURA LAURENZI

46 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 7 FEBBRAIO 2010

BULGARISi chiamano Parentesi

i gemelli in oro giallo

di disegno geometrico

proposti da Bulgari

CARTIERPanthère di Cartierè un bracciale in orogiallo con diamantitaglio brillantee chiusura a catenella

POMELLATOGemelli in ororosa a formadi cornettoRealizzatida Pomellato

MIMÌQui sotto, anelloin oro rosa, onicee pavé di perleCollezioneGrace di Mimì

CHOPARDAnello in oro biancoo giallo, disponibilea più fili, con o senzadiamante. CollezioneIce Cube di Chopard

FREY WILLEGemelli in oro

giallo e smalto

Collezione Hommage

a Hundert Wasser,

di Frey Wille

GIORGIO VISCONTIGirocollo in orobianco con pendentea forma di pesce,pinne e codain brillantiGiorgio Visconti

CHANELAnello San Marco

in oro rosa con 52diamanti tagliobrillante, tormalinerosa, acquemarine,rubelliti rossi. Chanel

Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 47DOMENICA 7 FEBBRAIO 2010

Il mio sogno?Avere una corona

L’attrice Nancy Brilli

Carica di diamanti e smeraldi e molto im-pellicciata, a febbraio Nancy Brilli sta giàgirando il cinepanettone del prossimo

Natale. Recita con Boldi e Salemme in un setgelido e innevato, a Saint Moritz. «Il mio per-

sonaggio, quello di una donna colpita daimprovviso benessere perché ha eredita-

to da zia Arduina, è stracarico di gioielli.Non fa che comprarli e accumularliscegliendo sempre quelli che costanodi più».

Esiste un modo elegante di portarei gioielli?

«Decisamente sì. Io detesto le paru-res: gli orecchini uguali al collier ugua-le all’anello uguale alla spilla uguale al

bracciale. Bisogna saper scegliere epuntare su una cosa sola. Mai tenere i

gioielli troppo vicini fra loro. E ricordarsiche troppi gioielli tutti insieme invecchia-

no».Qual è il gioiello cui non rinuncerebbe?

«Amo soprattutto i bracciali, mi piace cometintinnano. Ne ho due che porto quasi sempre.

E poi ho una fede di brillanti che mi ha regala-to il mio compagno Roy che non levo mai.

Io non giro carica di gioielli: quando nonlavoro sono molto minimalista. Da gio-

vanissima eccedevo un po’ con gli orec-chini: ne portavo fino a otto allo stessoorecchio, che era ridotto a un colabro-do. Poi i buchi si sono richiusi. Il gioiel-lo cui sono più affezionata è un anellocon un diamante a forma di cuore chemi ero comprata da sola oltre dieci an-ni fa, e che purtroppo non ho più: me

l’hanno rubato con tutta la cassaforte.Per me aveva un significato particolare:

voleva dire che potevo badare a me stessaanche per quanto riguarda il lusso. Signifi-

cava indipendenza, autonomia».E se a regalare un gioiello è il proprio uomo?«È una cosa bellissima, estremamente ro-

mantica. Un gioiello è un simbolo, un segno, ècome un tatuaggio. Per esempio l’anello di fi-danzamento come pegno d’amore, indipen-dentemente dai carati: un magnifico gesto. Op-pure un diamante, anche piccolissimo, non im-porta, regalato per la nascita di un figlio. A mequando è nato Chicco è stata regalata una spec-chiera per il salotto... Il problema è che sono ra-rissimi gli uomini che ci azzeccano nella sceltadei gioielli».

A proposito, che ne pensa dei gioielli portatidagli uomini?

«A me piacciono moltissimo gli uomini congli orecchini, sia un diamante che un anello omeglio ancora una fascetta d’oro anche a tuttee due le orecchie. Mi fa pensare ai pirati. Mi in-triga».

Qual è la sua pietra preferita?«Forse il rubino: meraviglioso. Le perle inve-

ce ti invecchiano, fanno “signora mia”, a menoche non si tratti di una collana molto lunga. Iocomunque non sono divorata dal desiderio delpossesso. Nelle occasioni ufficiali i gioielli mivengono prestati. Mi piace indossarli, cambiar-li, esibirli, ma poi preferisco restituirli al mitten-te: mi sento più leggera».

Possibile non ci sia un gioiello che segreta-mente desidera?

«Tutto sommato mi piacerebbe una corona.No, non un diadema. Proprio una vera coronacon sopra la croce e i brillanti giganti come quel-la che porta la regina Elisabetta».

(l. lau.)

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CHANTECLERAnello in oro rosae diamantiIl simbolo del cuoresi intreccia ad artecon il logo del gallettoÈ di Chantecler

DAMIANIPer un uomo sicurodi sé e che non ama

il minimalismo,il bracciale firmato

da Sharon Stoneper Damiani

RECARLOElegantissimi i gemelli

di Recarlo candidicon pavè di brillanti

Sono stati battezzatiDouble

ANNAMARIA CAMMILLIIn lucido oro biancoe brillanti (disponibileanche in oro rosso),Hypnosis è un anellodi Annamaria Cammilli

MORELLATOQui sopra: anelloin oro giallocon un citrino di formatriangolare montatoa giorno, Morellato

BICEGOA destra, braccialida uomo dalla lineasottile disponibiliin oro rosa, biancoe giallo, Marco Bicego

PATEK PHILIPPEQui a sinistraun grande classicodella gioielleria uomo:i gemelli Calatrava

di Patek Philippe

GABRIELLA RIVALTAIn oro miniatocon brillanti,ametiste, citrini,è la collana Iride

di GabriellaRivalta

Repubblica Nazionale

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48 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 7 FEBBRAIO 2010

Camminatoril’incontro

Racconta un’Italia carezzevolee spietata, dolente e ironica, amarae ricca di speranza, quasi sempre“divisa in due”. Questo quarantenne

arrivato alla regiadalla sceneggiatura,sul set è uno sgobboneche mette bocca su tutto,scenografie, musiche,costumi, per rendereal meglio sul grande

schermo un “mondo di subalterniche da sempre mi è familiare”

‘‘

“La prima cosa bella”è un film che fa venirevoglia di far pacecon la vita. Forseè il mio bisognodi proteggermidall’aggressivitàe dalla violenzadi questo periodaccio

ROMA

Zaino in spalla, maglietta diricambio e iPod nelle orec-chie attraversa Roma conpasso svelto. Osserva il

mondo senza mai fermarsi. Quando hadel tempo libero marcia per due o treore, anche giornate intere. Però ultima-mente ha avuto troppo da fare, PaoloVirzì. Si è innamorato, sposato, ha sco-perto di aspettare un figlio e girato unfilm impegnativo da poco uscito nellesale. Comunque giura che, non appenagli impegni si attenueranno, riprenderàla sua marcia.

Paolo Virzì, quarantacinquenne dal-l’accento toscano e la simpatia negli oc-chi, è considerato l’ultimo maestro del-la commedia all’italiana. Ma lui, golf dilana grossa e pantaloni sportivi, smi-nuisce: «Maestro nemmeno per sogno,già come allievo mi sento inadeguato.Cerco di raccontare storie di un’uma-nità che sembra non avere nulla di spe-ciale, di far andare a braccetto drammae comicità e di riferire qualcosa dellospirito del tempo». E, proprio per que-sto suo talento funambolico, il pubbli-co lo ama. I suoi film, da Ferie d’agosto aCaterina va in città a Tutta la vita da-vanti, riescono a raccontare, come unacarezza, un’Italia spietata. Delicata eamara. Sofferente e ironica. Chi entra alcinema per vedere un film di Virzì ridema esce con lo Sturm und Drang nellostomaco.

E pensare che tutto è cominciatoquasi per caso. «Sono nato a Livorno daun papà maresciallo dei carabinieri pa-lermitano e una mamma che in gio-ventù aveva fatto la cantante e poi si eralasciata conquistare dalla timida coc-ciutaggine di questo giovanotto silen-zioso che la veniva ad ascoltare», rac-

conta avvolto in una nuvola di fumo nelsuo ufficio di produzione schiacciatotra il lusso dell’Aventino e l’animo po-polare dell’Ostiense. Paolo bambinocresce in una gelida Torino. Primogeni-to, e a lungo figlio unico, ha un caratte-re solitario. Per farsi compagnia imparaa leggere da solo sui romanzi per ragaz-zi. «Provai anche a copiare a modo mioIlGiornalino di Gian Burrascaed ero ar-rivato alla conclusione che avrei fatto ilmaestro di scuola. L’idea del cinema èarrivata tardi».

Appena finisce la scuola guadagnarediventa una necessità: «I miei amici an-davano in vacanza in America o in Indiae io facevo il mozzo sulle navi o l’operaioin una fabbrica tessile livornese». Neltempo libero si diletta come attore, aiu-to regista e autore di teatro. E quandoper la sua sgangherata compagnia tea-trale arriva l’occasione di presentarsi aun piccolo festival lui, emozionatissi-mo, siede in prima fila. Lo nota il mae-stro Giuseppe De Santis e, da quel mo-mento, niente sarà più come prima.«Fui incoraggiato a iscrivermi a un cor-so di sceneggiatura del Centro speri-mentale di cinematografia e senzatroppe speranze colsi l’occasione, per-ché era un modo di scappare da Livor-no. Pensavo vado a Roma per dareun’occhiata e torno indietro e, invece,ho rimesso piede a Livorno per girare ilmio terzo film».

L’impatto con la capitale, per il pro-vinciale Virzì, è straordinario. Ancoraoggi gli si accendono gli occhi: «Mi piac-que subito tantissimo, Roma era splen-dida, licenziosa, pericolosa, brulicantedi delinquenti e di puttane, l’ideale perun ragazzetto con la testa imbottita diletteratura». Dopo un’intensa gavettada sceneggiatore, a fianco del suo mae-stro Furio Scarpelli, arriva il primo ciakda regista con La bella vita, palpitantetriangolo sentimentale sotto i fumi del-le acciaierie piombinesi. «Avvisai i mieicollaboratori che non avevo idea di co-me si girasse un film anche se non c’e-rano riprese mozzafiato ma verità, gri-giore e struggimento. Il protagonistaera un giovane operaio che si ammala dicuore quando scopre di non essere piùdesiderabile agli occhi della moglie. Mipiaceva raccontare le fabbriche conuno spirito diverso, descrivere un mon-do di subalterni che mi è familiare».

Quindi è la volta di Ferie d’agosto. Unmemorabile quadro dell’Italia divisa indue. Il racconto ironico di due tribù chenon si capiscono: «Volevo canzonareanche quelli che ci somigliano, una si-nistra che è pronta a solidarizzare coidrammi del terzo mondo ma non sop-porta il vicino di casa che sbaglia i con-giuntivi». Come regista Paolo Virzì è ungran faticatore, ama circondarsi di col-

laboratori di primo piano ma poi finisceper mettere bocca su tutto: copione,scenografie, musiche e costumi. «Sulset cerco di custodire lo spirito dellasceneggiatura, che è la forma e la so-stanza del film. Con gli attori sono pro-tettivo, non credo sia utile dirigerli conla voce grossa e preferisco farli ridere dise stessi».

È un ansioso. Un fumatore che si dro-ga di caffè. «Ma da quando Micaela è in-cinta, se c’è lei in giro, vado a fumare sulbalcone». Micaela è l’attrice MicaelaRamazzotti. La giovane e bellissimamoglie. Capelli mossi, fisico mozzafia-to e bocca sensuale. Si sono sposati dapoco con una cerimonia inaspettata.«Non avrei mai pensato di sposarmi do-po i quarant’anni. Ero diventato sere-namente e caparbiamente solitario e,quando mi capitava di avere una perso-na vicino, era inevitabilmente refratta-ria ai legami e anaffettiva come me. Poiè arrivata Micaela che aveva un cando-re d’altri tempi, sembrava che il suo piùgrande desiderio fosse di mettere in or-dine la mia casa e di cucinarmi il pol-pettone, ed ho provato ad assecondarequesto suo istinto coniugale. Devo am-

mettere che ci stiamo divertendo, forseproprio perché siamo molto diversi».

Il bimbo che arriverà in febbraio èstato una sorpresa. Meravigliosa. «No,non lo abbiamo programmato, Micae-la è rimasta incinta proprio nel bel mez-zo delle riprese e ne sono stato felice-mente stupito. Cercherò di essere unbuon padre anche se, quando accom-pagnerò il bimbo a scuola, potrannoscambiarmi per il nonno». Ride e poi ciripensa: «Di questi tempi si diventa ge-nitori sempre più tardi mentre, quandoè nata la mia prima figlia Ottavia, avevopoco più di vent’anni ed ero comica-mente impreparato. Povera piccina, havissuto un’avventurosa infanzia da zin-gara, ma credo si sia anche divertita da-to che la portavo ovunque ed eravamocome due fratellini. Crescendo è diven-tata più giudiziosa di me e adesso è unasplendida ventenne che studia storiadell’arte, lavora in teatro come costu-mista, suona il basso in un gruppo rocke divora romanzi ottocenteschi». Losguardo si riempie d’orgoglio: «Ottaviaha un temperamento romantico forseper via dei film sentimentali che abbia-mo visto insieme».

In compagnia di sua figlia, il ragazzopadre Virzì ha scoperto il fascino delviaggio. «Ero troppo spiantato e sonouscito dall’Italia quando ho dovuto pre-sentare il mio primo film. Tutti quei fe-stival e quelle rassegne erano un’occa-sione ghiotta: Singapore, L’Avana,Shanghai. Posti dove forse non avreimai messo piede, meravigliose vacanzea scrocco che, ancora oggi, mi rendonodifficile credere che il mio sia un lavorovero». Ancora grazie ad Ottavia ha avu-to l’ispirazione per il film Caterina va incittà. «Mi raccontava delle tribù dellasua classe e mi sembrava un punto di vi-sta speciale per raccontare una certaRoma, il sentimento ed il risentimentodi quegli anni». E quel film, per la primavolta, lo ha girato nella capitale. «È unset di eccezionale bellezza ma insidio-so: ovunque metti la macchina da pre-sa, quell’inquadratura ti sembra diaverla già vista».

Un bel salto per lui abituato a im-mortalare la sua scrostata Livorno.Città di pirati dove, ad ogni ripresa, i li-vornesi s’improvvisano registi: «Si met-tono vicino a me, dietro alla macchinada presa, e fanno commenti che asse-condo volentieri». Altro film metropoli-tano è stato Tutta la vita davanti. Unosguardo spietato sull’ingresso nel mon-do del lavoro che, per i giovani, riassu-me le logiche del Grande Fratello. Ununiverso surreale ma realistico in cuiconquistare una scrivania equivale adaver vinto i provini per il casting e, allafine, non si è licenziati ma “eliminati”.«Dietro la buccia di una commedia di-

vertente si è rivelato un film molto du-ro, su un mondo nuovo che non cono-sce diritti, dove il sindacalista è lo zim-bello e i giovani sono spremuti con le lo-giche del reality applicate al lavoro. Manon volevamo farne un pamphlet mili-tante e manicheo, subalterni buoni esfruttatori cattivi, e abbiamo avutopietà per tutti, anche per la Kapò del callcenter, patetica e sola, che perde il sen-no e uccide per amore».

Nell’ultimo film, La prima cosa bella,Virzì sembra interessarsi meno alla so-cietà per dedicarsi al cuore del privato.Il racconto, che lui definisce «da lucci-coni», è quello di una famiglia livornesetravolta dal malinteso scatenato dallabellezza eccessiva di una madre chevince un concorso per miss. Una figurache in gioventù è interpretata da Mi-caela e più avanti da Stefania Sandrelli.«È la storia del ritorno a casa del figlioquarantenne e del suo viaggio a ritrosoin brucianti memorie familiari, che siconclude con una specie di struggentericonciliazione. Avevo voglia di mette-re in piedi, attraverso la storia di perso-ne che si sono volute tanto, troppo be-ne, un film che facesse venire voglia difar pace con la vita. Chissà se si tratta diun bisogno di proteggersi dall’aggressi-vità di questo periodaccio che, oltre chenella politica, è violento anche nelle riu-nioni di condominio e al semaforo».

Il sogno di Paolo Virzì, ammette, piùche le pergamene e le statuette dei festi-val, è una sala traboccante di persone ditutte le età che segue il film anche un po’rumorosamente, commentando, nelcrepitare dei cartocci della roba damangiare. «Perché le storie narrate al ci-nema, oltre ad essere un piacevole pas-satempo a buon mercato, aiutano a ca-pire se stessi, gli altri e magari a vivere unpo’ meglio». Sta succedendo, sicura-mente, anche per La prima cosa bella.

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IRENE MARIA SCALISE

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Paolo Virzì

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