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la domenica DI REPUBBLICA DOMENICA 6 LUGLIO 2014 NUMERO 487 JIMI HENDRIX A SCUOLA SCRIVEVO un sacco di poesie, e la cosa mi ren- deva felice. I miei versi parlavano soprattutto di fiori, natura e gente in tu- nica. Volevo diventare un attore o un pittore. Mi piaceva dipingere paesag- gi di altri pianeti. Pomeriggio estivo su Venere. Roba così. L’idea dei viaggi spaziali mi esaltava più di qualunque altra cosa. Di solito la professoressa ci chiedeva di dipingere tre paesaggi, e io facevo cose astratte, tipo: Tramonto marziano, non scherzo! Lei allora dice- va: «Come stai?». E io me ne uscivo con qualcosa di stralunato, tipo: «Be’, di- pende da come si sentono le persone su Marte». Non ne potevo più di ripe- tere: «Bene, grazie». Ho mollato la scuola molto presto. Mio padre disse che avrei dovuto tro- varmi un lavoro. E così ho fatto, per un paio di settimane. Ho lavorato per lui. Trasportavamo sacchi di calce e gros- se pietre da mattina a sera. Non mi pa- gava. Quindi ho cominciato ad andar- mene in giro con altri ragazzi. Capita- va che prendessimo di mira un poli- ziotto, e mezz’ora dopo si scatenava l’inferno. A volte si finiva in galera, do- ve però si mangiava bene. SEGUE NELLE PAGINE SUCCESSIVE GINO CASTALDO I N QUEL SUO ARDITO modo di mesco- lare candore e perversione, Jimi Hendrix ha volato alto, dram- maticamente in alto, portando con sé un’intera famelica gene- razione in cerca di sogni impossibili. Per una volta sono le sue stesse parole a dircelo, parole messe in fila una do- po l’altra, in un auto-racconto che ha il sapore di un lunghissimo, intermina- bile assolo. È musica anche questa, ve- loce, sovraccarica, luminosa quanto basta per illustrare un percorso che ha tutte le caratteristiche per assomi- gliare a una svariata serie di immagi- ni mitologiche, dall’Icaro che si avvi- cina troppo al sole (“bruciare” e “fuo- co” sono termini ricorrenti nella sua storia) ai tanti patti col diavolo che as- sicurano genio in cambio, ovviamen- te, dell’anima. In effetti dal suo rac- conto, montato come un puzzle meti- coloso di diari, lettere e interviste, emerge una vita, ahinoi brevissima, costruita su un’utopia visionaria, par- tita da una lunga e faticosa gavetta nei bassifondi della scena americana, esplosa come una supernova nella Londra beatlesiana, lanciata all’inse- guimento di un costante superamen- to di ogni possibile sfida. SEGUE NELLE PAGINE SUCCESSIVE Hey Jimi L’immagine. Se i rifiuti della società sono belli La storia. Come e perché Giorgio Bocca disse sì alla biografia di Togliatti Spettacoli. Polanski racconta il suo Dreyfus: “Vedrete, sarà un thriller” Next. Che cosa ci possiamo ancora inventare? L’incontro. Cesare Colombo, “L’Italia non è un paese per fotografi” La copertina. Gli economisti sono le nuove star Straparlando. Morandini: “Vita da critico” La poesia. La misteriosa Contessa di Dia “Quando non ci sarò più non smettete di metter su i miei dischi” Nell’autobiografia di Jimi Hendrix il testamento di un genio della musica Cult Repubblica Nazionale 2014-07-06

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la domenicaDI REPUBBLICADOMENICA 6 LUGLIO 2014 NUMERO 487

JIMI HENDRIX

ASCUOLA SCRIVEVO un saccodi poesie, e la cosa mi ren-deva felice. I miei versiparlavano soprattutto difiori, natura e gente in tu-

nica. Volevo diventare un attore o unpittore. Mi piaceva dipingere paesag-gi di altri pianeti. Pomeriggio estivo suVenere. Roba così. L’idea dei viaggispaziali mi esaltava più di qualunquealtra cosa. Di solito la professoressa cichiedeva di dipingere tre paesaggi, eio facevo cose astratte, tipo: Tramontomarziano, non scherzo! Lei allora dice-va: «Come stai?». E io me ne uscivo con

qualcosa di stralunato, tipo: «Be’, di-pende da come si sentono le personesu Marte». Non ne potevo più di ripe-tere: «Bene, grazie».

Ho mollato la scuola molto presto.Mio padre disse che avrei dovuto tro-varmi un lavoro. E così ho fatto, per unpaio di settimane. Ho lavorato per lui.Trasportavamo sacchi di calce e gros-se pietre da mattina a sera. Non mi pa-gava. Quindi ho cominciato ad andar-mene in giro con altri ragazzi. Capita-va che prendessimo di mira un poli-ziotto, e mezz’ora dopo si scatenaval’inferno. A volte si finiva in galera, do-ve però si mangiava bene.

SEGUE NELLE PAGINE SUCCESSIVE

GINO CASTALDO

IN QUEL SUO ARDITO modo di mesco-lare candore e perversione, JimiHendrix ha volato alto, dram-maticamente in alto, portandocon sé un’intera famelica gene-

razione in cerca di sogni impossibili.Per una volta sono le sue stesse parolea dircelo, parole messe in fila una do-po l’altra, in un auto-racconto che ha ilsapore di un lunghissimo, intermina-bile assolo. È musica anche questa, ve-loce, sovraccarica, luminosa quantobasta per illustrare un percorso che hatutte le caratteristiche per assomi-gliare a una svariata serie di immagi-

ni mitologiche, dall’Icaro che si avvi-cina troppo al sole (“bruciare” e “fuo-co” sono termini ricorrenti nella suastoria) ai tanti patti col diavolo che as-sicurano genio in cambio, ovviamen-te, dell’anima. In effetti dal suo rac-conto, montato come un puzzle meti-coloso di diari, lettere e interviste,emerge una vita, ahinoi brevissima,costruita su un’utopia visionaria, par-tita da una lunga e faticosa gavettanei bassifondi della scena americana,esplosa come una supernova nellaLondra beatlesiana, lanciata all’inse-guimento di un costante superamen-to di ogni possibile sfida.

SEGUE NELLE PAGINE SUCCESSIVE

HeyJimi

L’immagine. Se i rifiutidella società sono belliLa storia. Come e perchéGiorgio Bocca disse sìalla biografia di TogliattiSpettacoli. Polanskiracconta il suo Dreyfus:“Vedrete, sarà un thriller”Next. Che cosa ci possiamoancora inventare?L’incontro. CesareColombo, “L’Italia non èun paese per fotografi”

La copertina. Gli economisti sono le nuove starStraparlando. Morandini: “Vita da critico”La poesia. La misteriosa Contessa di Dia

“Quando non ci sarò piùnon smettete di metter su i miei dischi”Nell’autobiografiadi Jimi Hendrixil testamento di un geniodella musica

Cult

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la RepubblicaDOMENICA 6 LUGLIO 2014 26LA DOMENICA

La copertina.Hey Jimi

“Suoneremo la nostra musica e il volume sarà alto. Per una cosacosì vale la pena anche morire”

Il miofunerale

<SEGUE DALLA COPERTINA

JIMI HENDRIX

IL MIO PRIMO STRUMENTO è stato un’armonica. Credo di averla ricevuta a quattro an-ni. Poi un violino. Ho sempre avuto un debole per gli strumenti a corda e i pia-noforti, ma desideravo qualcosa da poter portare a casa con me, e non è che puoiportarti a casa un piano. Così ho cominciato a darci dentro con le chitarre. Sem-brava essercene una in ogni casa, poggiata da qualche parte. Una sera, un amicodi mio padre era sbronzo e mi ha venduto la sua per cinque dollari. Ho iniziato asuonarla a quattordici, quindici anni. Suonavo nel cortile e i ragazzi venivano asentirmi. Dicevano che ero bravo. Poi l’ho messa da parte. Ma quando ho sentitoChuck Berry la passione è rinata. Il mio primo ingaggio è stato un posto dellaGuardia nazionale; abbiamo guadagnato 35 centesimi a testa e tre hamburger.All’inizio è stata dura. Conoscevo sì e no tre canzoni, e quando era il momento disalire sul palco me la facevo sotto. È la classica situazione da cui puoi farti sco-

raggiare: ascolti le altre band che suonano in giro e il loro chitarrista ti sembra sempre pa-recchio migliore di te. A questo punto la stragrande maggioranza getta la spugna, ma deviresistere. Tenere duro e basta.

PERCHÉ SUONO COI DENTISiccome non mi dimenavo granché dei ti-

zi hanno cercato di convincermi a suonare lachitarra dietro la testa. Io rispondevo: «Ehi,ma chi ha voglia di stronzate del genere?».Però quando suoni davanti a un pubblico chenon si accontenta mai, prima o poi inizi a tro-varti noioso tu stesso. L’idea di suonare lachitarra coi denti mi è venuta in un posto inTennessee. Laggiù o suoni coi denti o ti spa-rano! C’era una scia di denti rotti su tutto ilpalco. Quando suoni coi denti devi saperequello che fai, altrimenti può rivelarsi spia-cevole. Per molti ciò che faccio con la chitar-ra è volgare. Non sono d’accordo. Forse è ero-tico, ma quale musica con un buon ritmo nonlo è? La musica è una forma di espressionecosì intima che è destinata a evocare il sesso.E cosa c’è di sbagliato? È davvero tanto osce-no? Più osceno di una qualunque pubblicitàerotica che si può trovare nei giornali o in te-levisione?

VI SEMBRO UNO CATTIVO?Sai qual è il vero problema? Non sono ca-

pace di guardare dritto in camera e sorride-re se non ne ho voglia. È più forte di me, nonce la faccio. È come doversi sentire felice a co-mando! Comunque i fotografi cercano sem-pre di farmi apparire cattivo. E questo mi hareso una specie di mostro. A dirla tutta noncapisco perché la gente voglia vedermi a tut-ti i costi come un personaggio da film del-l’orrore. Se avessi l’aspetto di un cannibaleandrebbero in visibilio! A New York i tassistiaccostavano, e dopo avermi dato una rapidaocchiata ripartivano. Certe persone vorreb-

bero tutti omologati. Be’, io non finirò mai co-sì. Perché dovrei somigliare a un tassista?

Finché non è giunta voce che gli inglesi ap-prezzavano la mia musica, in America ero unperfetto sconosciuto. Ora invece nei localidel Village veniamo accolti come divinità.Non faccio nulla di eccezionale, eppure Lifee Time hanno improvvisamente iniziato ascrivere di me. Si tratta della stessa genteche prima mi prendeva in giro. Ah, Ah! Ades-so non sono più Jimi lo stupido, ma MisterHendrix. Mi analizzano, si presentano condossier da psicologi, faticano a capire cosami scorra nelle vene. Viviamo in mondi di-versi. Il mio? Fame, bassifondi, odio razzia-le, un posto dove l’unica felicità che possiediè quella che puoi tenere in mano.

L’ACCORDO PERDUTOIl numero della chitarra sfasciata è inizia-

to per caso. Stavo suonando a Copenaghen emi hanno trascinato giù dal palco. Tutto an-dava alla grande. Dopo aver ributtato la chi-tarra sul palco l’ho seguita con un salto, maquando l’ho raccolta ho trovato una grossaincrinatura nel mezzo. Allora ho perso la pa-zienza e ho fatto a pezzi quel dannato arne-se. Il pubblico è andato in delirio — sembra-va che avessi finalmente scoperto “l’accordoperduto” o roba del genere. Così, ogni voltache c’era la stampa o mi andava, ho ripropo-sto la scenetta. È una voglia improvvisa diagire in assoluta libertà — insomma di fareciò che faresti se i tuoi genitori non ti tenes-sero d’occhio. Non sono un tipo violento, maormai la gente pensa che lo sia. Sfasci tre oquattro chitarre e la gente ne deduce che tu

Dall’infanzia nel ghetto alla prima chitarra

fino a un’ultima straordinaria jam session

Attraverso diari, appunti e interviste

Hendrix racconta la sua vita brevissima

saràelettrico

Repubblica Nazionale 2014-07-06

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non faccia altro. Invece succede solo quandoci prende quella voglia. La frustrazione è almassimo, la musica si fa sempre più forte, ea un tratto crash, bang, ecco levarsi il fumo.Certe sere capita che tutto vada storto e al-lora, se sfasciamo qualcosa è perché lo stru-mento che amiamo profondamente nonfunziona a dovere. Non risponde, così ti vie-ne voglia di ammazzarlo.

CREDI IN TE STESSOVivere richiede una serenità mentale che

ognuno deve cercare dentro di sé. Occorreavere fiducia in se stessi. In un certo sensopenso che credere in Dio consista in questo.

Se esiste un Dio ed è Lui ad averci creato, al-lora credere in se stessi è credere in Lui. Equando cominci a portare Dio dentro di te di-venti parte di Lui. Questo non significa cre-dere al Paradiso e all’Inferno, ma che la reli-gione è ciò che sei e ciò che fai. Quando salgosul palco e canto, quella è tutta la mia vita. Lamia religione. Io sono la Religione Elettrica.

BISOGNA FARE UN PASSO AVANTICi hanno chiesto di tenere un concerto di

beneficenza per le Pantere Nere. Ma perquanto ne fossi onorato eccetera, ancoranon ci siamo esibiti. Negli Stati Uniti sei sem-pre costretto a prendere una posizione. Chetu sia un ribelle o un tipo alla Frank Sinatra.Quand’ero più giovane ho scritto canzoni diprotesta cariche di rancore. Adesso non lofaccio più perché ci sono questioni politicheda cui preferisco tenermi alla larga. Prima didire una qualunque cosa devo sentirmi coin-volto. Invece non mi sento coinvolto. Anzi,ora come ora mi sento smarrito. Slegato dal-la quasi totalità delle cose. Sono dispiaciutoper le minoranze, ma nessuna m’ispira unsenso di appartenenza. Io sto dalla parte dichi è svantaggiato, ma il mio obiettivo non èconvincere chi è svantaggiato a fare questoo quello. Non guardo le cose da una prospet-tiva razziale. Guardo le cose dalla prospetti-va degli esseri umani. Non penso a neri obianchi. Penso a ciò che è vecchio e a ciò cheè nuovo. Non sto tentando di negare il mio le-

game con le Pantere Nere, intendiamoci. Misento parte di ciò che stanno facendo. Agireè necessario, e in termini di serenità e con-dizioni di vita siamo noi quelli che se la pas-sano peggio. Però non sono per la guerriglia.Non sono per lanciare una bottiglia molotovo fracassare la vetrina di un negozio. Così èinutile. In particolare se lo fai nel tuo quar-tiere. Non provo odio per altri esseri umaniperché, alla luce del mio percorso, sarebbecome fare un passo indietro. È indispensabi-le condividere il dolore, sforzarsi di com-prendere quale parte è andata perduta. Al-largare la prospettiva. Dare ai pensieri unadimensione universale è un’ottima cosa.

NON SO SE ARRIVERÒ AI 28Quando avrò la sensazione di non avere al-

tro da offrire a livello musicale diventerò ir-rintracciabile. Se non avrò moglie e figli spa-rirò dalla faccia della terra. Non avendo nul-la da comunicare attraverso la musica nonavrò niente per cui valga la pena vivere. Nonso se arriverò a 28 anni, ma mi sono accadu-te cose meravigliose negli ultimi tre.

Il mondo non mi deve nulla.Il corpo è un veicolo fisico utile a condurti

da un posto all’altro senza troppi problemi.Il proposito è tenere i nervi saldi, capire co-me prepararsi al meglio per il mondo cheverrà, perché ne esiste uno. Spero vi piaccia.

Alla mia morte ci sarà una jam, puoi giu-rarci. Voglio che tutti diano il massimo e sisballino. E conoscendomi, finirò per cacciar-mi nei guai al mio stesso funerale. Il volumesarà alto, e ci sarà la nostra musica. Non vo-glio canzoni dei Beatles, ma qualche pezzo diEddie Cochran e parecchio blues. RolandKirk verrà di certo, e farò di tutto perché nonmanchi Miles Davis, sempre che abbia vo-glia di passare. Per una cosa così varrebbequasi la pena morire. Quando non ci sarò piùnon smettete di mettere su i miei dischi.

Da Starting At Zero © 2013 Gravity LtdAll rights reserved

© 2014 Giulio Einaudi ed.s.p.a., TorinoTraduzione di Alessandro Mari

Published by arrangement withAgenzia Letteraria Roberto Santachiara

<SEGUE DALLA COPERTINA

GINO CASTALDO

ENDRIX era la sua musica, senza alcuna

separazione tra arte e vita, tutto confuso in

una corsa inarrestabile e avvincente. Con lui

ci si dimenticava che la chitarra era pur

sempre una macchina, uno strumento

elettromeccanico che amplificava lampi del pensiero,

sembrava che fosse tutt’uno, che con la chitarra ci fosse

nato, che fosse un’estensione naturale del corpo, tanto

facile e naturale sembrava il suo modo di suonare, che

facile e naturale non era affatto, o almeno non lo era per gli

altri comuni mortali. Un modo di suonare che invece

lasciava stupefatti, pubblico e musicisti, compresi i grandi

chitarristi inglesi dell’epoca (Clapton e compagni) che

quando lo videro suonare la prima volta pensarono per un

momento che forse la loro chitarra dovevano buttarla via,

che non aveva molto senso continuare dopo aver visto

quel prodigio vivente. Hendrix girava continuamente il

mondo, sembrava non avere, o non volere,

una fissa dimora, come se avesse esteso

all’epoca della rivoluzione psichedelica

quella vocazione errabonda che era dei

primi bluesmen (anche loro del resto

indiziati di patti col diavolo stretti

all’incrocio di notturne strade di

campagna). Viveva come se nascere,

morire e rinascere fosse un’abitudine

quotidiana, incideva dischi nei quali

fissare il suo lampeggiante viaggio, ma

non perdendo mai di vista, come racconta

a ogni occasione, che in fin dei conti l’unica

vera possibile celebrazione del suo credo

era la performance, il concerto dal vivo,

dove la musica poteva fino in fondo

esplodere nella sua massima

imprevedibilità, a contatto con la gente,

con la bruciante urgenza del tempo

presente. Se abbiamo dimenticato tutto

questo, se abbiamo perso quella possibilità

di affidare alla musica i nostri sogni

supremi, l’idea che alzando il ritmo del

battito delle nostre ali si possa scoprire che dietro un

orizzonte ce n’è sempre un altro, allora vale la pena rileggere

la storia del “voodoo child”, nato dal fuoco e scomparso in un

vortice. Dentro c’è un prezioso segreto da scoprire. Parola di

Jimi Hendrix.

la RepubblicaDOMENICA 6 LUGLIO 2014 27

IL RITRATTO

JIMI HENDRIX NEL 1967.L’ARTISTA MORIRÀ TRE ANNIDOPO, A VENTISETTE ANNI.COME BRIAN JONES, JANISJOPLIN, JIM MORRISON, KURTCOBAIN, AMY WINEHOUSE

Parola dopo parolail “voodoo child”che si bruciò volando

L’AMICO E PRODUTTORE ALAN DOUGLAS HA SELEZIONATORACCOLTO E MESSO INSIEME I SUOI PENSIERI“ERA UNO SCRITTORE INCALLITO, SCRIVEVA SU CARTAD’ALBERGO, FOGLIETTI, PACCHETTI DI SIGARETTE,TOVAGLIOLI E TUTTO CIÒ CHE GLI CAPITAVA SOTTOMANO”

DESIDERAVOQUALCOSADA POTER PORTARE

CON ME, COSÌ HOCOMINCIATO A DARCIDENTRO CON LE CHITARRE.SUONAVO NEL CORTILEDI CASA E I RAGAZZIDICEVANO CHE ERO BRAVO. POI HO LASCIATO STAREFINO A QUANDO NON HOSENTITO CHUCK BERRY

SONO NATOA SEATTLE, STATO DI WASHINGTON,

IL 27 NOVEMBRE 1942CHE AVEVO ZERO ANNIMIO PADRE ERASEVERISSIMO, UN UOMOCON LA TESTA SULLE SPALLEMIA MADRE AMAVAMETTERSI IN GHINGHERIE DIVERTIRSI

SICCOME NON MIDIMENAVO GRANCHÉ,DEI TIZI HANNO

CERCATO DI CONVINCERMIA SUONARE LA CHITARRADIETRO LA TESTA.L’IDEA DI SUONARLACOI DENTI MI È VENUTAIN UN POSTO IN TENNESSEELAGGIÙ O SUONI COI DENTIO TI SPARANO. C’È UNA SCIADI DENTI ROTTI SUL PALCO

NON FACCIO NULLADI ECCEZIONALEEPPURE “LIFE”

E “TIME” D’IMPROVVISOSCRIVONO SU DI ME.MI ANALIZZANO.FATICANO A CAPIRE COSAMI SCORRA NELLE VENEVIVIAMO IN MONDI DIVERSI. IL MIO?FAME, BASSIFONDIE ODIO RAZZIALE

IL LIBRO

“ZERO. LA MIA STORIA” DI JIMI HENDRIX (EINAUDI,

250 PAGINE, 22 EURO),TRADUZIONE

DI ALESSANDRO MARI,SARÀ IN LIBRERIA DA MARTEDÌ

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© RIPRODUZIONE RISERVATA

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la RepubblicaDOMENICA 6 LUGLIO 2014 28LA DOMENICA

Bicchieri di plastica, lattine, fustini, giocattoli. Trovati, raccolti

riordinati e infine mostrati. A che scopo? Seguendo le tracce

dell’arte e della letteratura un fotografo e uno scrittore spiegano

perché dobbiamo guardare in faccia ciò che buttiamo

L’immagine. Differenziata

BEPPE SEBASTE

EL GIUGNO 2010 andai in provincia di Napoli e Casertaper descrivere quello che gli abitanti chiamavano l’o-locausto bianco dei rifiuti. Sporgendomi sulle voragi-nose discariche legalizzate e militarizzate dal governodi allora, guardando le distese di spaventose ecoballeche svettavano come megaliti nella campagna di po-modori e peschi inondata di percolato, mi sembrò che irifiuti disegnassero una nuova, monumentale e grot-tesca frontiera del “sacro”. “Sacrare”, ricordava il filo-sofo Giorgio Agamben, significa separare dall’uso co-mune, così come il suo contrario, profanare, vuol direrestituire all’uso comune. Non solo i rifiuti, gli scarti,

ma anche le “vite di scarto” dell’omonimo libro di Zygmunt Bauman rimandereb-bero a questo orizzonte di senso. Ricordo che mi colpì, come se fosse il massimo del-l’insensato e dello scabroso, un oggetto sfuggito a un’ecoballa, nudo e fuori conte-sto, un flacone di plastica bianca e azzurra con la scritta AMMORBIDENTE. Avevogià imparato che supermercati e discariche sono l’uno lo specchio dell’altro: non so-lo perché l’edificazione dei primi serviva a creare e coprire le seconde sotto un man-to d’asfalto, e così via; ma perché sono fatte della stessa sostanza, nel costante di-

venire scarti delle merci in vendita.È passata un’era dallo sciopero dei netturbini a Roma nel 1970, le cui condizio-

ni di lavoro erano disumane, filmato da Pier Paolo Pasolini, che riprese volti e ge-sti degli spazzini all’alba, l’assemblea ai Mercati Generali, dedicando loro una poe-sia: «... oggi 24 Aprile 1970/ è giorno di sciopero: l’Ordine degli Scopini è entratonella storia, / bisogna essere contenti, come se gli angeli / fossero scesi sulla ter-ra…». In perfetta continuità col suo amore per gli umili, l’attenzione di Pasolini aquel rimosso sociale che coincideva col «basso materialismo» di Georges Batailleanticipava la celebre frase di Bauman: «I raccoglitori d’immondizie sono gli eroinon celebrati della modernità».

Da allora la letteratura e l’arte non hanno cessato di misurarsi col variegatomondo dei rifiuti. Tra i pettegolezzi della garbology, l’arte di frugare nella spaz-zatura dei famosi, e le grandi questioni ecologico-ambientali, si trattava di dareil tu ai rifiuti, di guardare in faccia le cose che buttiamo via, da Michel Tournier(Le Meteore) a Don DeLillo (Underworld), passando per Italo Calvino, Paul Au-ster e tanti altri. Se il tema degli scarti è oggi onnipresente grazie alle estetichedel riciclo, la condizione ontologica di separatezza dei rifiuti e la sua relazione conl’arte fu indagata forse per la prima volta da una mostra al Mart di Rovereto, a cu-ra di Lea Vergine come l’omonimo libro: Quando i rifiuti diventano arte. TRASHrubbish mongo (Skira 2006). Quanto al problema della plastica, e a parte l’indu-stria e il design del riuso, neanche qui manca la poesia — dalle drammatiche pla-

PASOLINI SCRISSESULLO SCIOPERODEGLI “SCOPINI”ROMANI: “SONO

COME ANGELI SCESI SULLA TERRA”

Irifiuti

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la RepubblicaDOMENICA 6 LUGLIO 2014 29

stiche bruciate di Alberto Burri, in polemica col piano Marshall e l’inizio dell’a-mericanizzazione delle nostre vite, allo struggente sacchetto di cellophane chedanza nel vento in American beauty.

Ci sono poi i rifiuti “naturali”, oggetti smarriti il cui eteroclita repertorio èespresso in lingua tedesca da una parola bella e strana, Strandgut. I dizionari tra-ducono “relitti”, ma significa esattamente i beni o le cose che il mare lascia sullaspiaggia (strand), quelle che tutti contempliamo passeggiando lungo il mared’inverno, con cui i bambini giocano da sempre costruendo capanne e altri sogni:pezzi di legno o di tronchi, alghe, conchiglie, pezzi di barca, lattine, bottiglie, ol-tre che, ancora, tanta plastica. Quegli oggetti ci raccontano storie, spiegava lapoetessa tedesca Eva Taylor, e non a caso tanti artisti li raccolgono per inserirlinelle loro opere.

Uno di essi è il newyorchese Barry Rosenthal, scultore e fotografo degli ogget-ti trovati che si vedono in queste pagine. Confesso di avere trovato kitsch il suotentativo di redimere rifiuti disponendoli in file ordinate, come fanno i bambinicon le conchiglie o i maccheroni. Più che salvare il trash delle cose buttate via, misembrava che lo producesse, rimuovendone ogni implicazione tragica. Ma Ro-senthal mi ha spiegato che un’evoluzione c’è stata nei suoi allestimenti: se primadisponeva gli oggetti in modo sistematico e ordinato, è subentrato un gusto perl’affollamento e la densità, un’apertura al caos e all’incompiutezza. Cerca di co-municare la sensazione che gli danno le cose che trova nell’acqua — bicchieri e po-

sate di plastica, flaconi di medicine, cannucce colorate, palle da tennis — e stabi-lire tra loro delle relazioni. Non pretende suggerire comportamenti virtuosi néaprire le coscienze, ma solo «portare alla luce» le cose anonime che buttiamo via.

Gli oggetti senza più contesto né appartenenza sono pur sempre simboli di unaderiva, ed è difficile per noi separare le installazioni degli artisti — abiti dismessi oaltri oggetti separati e orfani di un uso — senza pensare alle montagne di occhiali odi scarpe tramandatici dall’iconografia di Auschwitz. Quanto agli oggetti portatidalle onde, che siano nel Mediterraneo o nel porto di New York dove va su e giù BarryRosenthal, è il mare a conferire loro il pathos avventuroso di un messaggio nella bot-tiglia. La loro versione più tragica la vidi negli oggetti sommersi e poi salvati dal ma-re di Ustica, dopo l’inabissamento dell’aereo colpito da un missile il 27 giugno 1980.Prima di stipare quegli oggetti strazianti, irriducibili a un’estetica, dentro casse ne-re, e sottrarli allo sguardo, li elencai con l’artista Christian Boltanski in un piccolo li-bro fatto dal Museo per la Memoria delle vittime di Ustica a Bologna.

Che i rifiuti siano specchio del mondo, come il cielo lo è della terra, lo mostrò an-cora una volta Pasolini nel 1967 nel film Che cosa sono le nuvole?Nell’ultima scenaTotò e Ninetto Davoli, attori-marionette buttati dal camion della spazzatura in unadiscarica, semisepolti dall’immondizia, rifiuti tra i rifiuti, vedono per la prima vol-ta le nuvole informi nel cielo azzurro. «Che cosa sono?» Ninetto ride di stupore, Totòbeato le contempla: «Ah, straziante e meravigliosa bellezza del creato!».

LE OPERE

ALCUNI LAVORI DI BARRYROSENTHAL REALIZZATI CONOGGETTI TROVATI PER STRADA O SULLA SPIAGGIA. DA SINISTRA:“SCARPE”; “BOTTIGLIE DI VETRO E BARATTOLI”, “FORCHETTE,COLTELLI E CUCCHIAI”. SOTTO, DA SINISTRA, “OLIO, ALCOLE DROGHE”, “GRIGLIA”, “NESSUNPUNTO DI FUGA” (RIFERITOALL’USO DELLA PROSPETTIVA IN QUESTA COMPOSIZIONE) E “OCEANO BLU”

BAUMAN“I RACCOGLITORID’IMMONDIZIE SONO GLI EROI NON CELEBRATIDELLA MODERNITÀ”

della società

© RIPRODUZIONE RISERVATA

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la RepubblicaDOMENICA 6 LUGLIO 2014 30LA DOMENICA

e la guerra di Spagna, e la Terza Internazionale, e Stalin, porcamiseria! Come fai, sempre in giro per Il Giorno, a scrivere la bio-grafia di Togliatti! Ci saranno mille libri da leggere, mille vecchida intervistare! E gli archivi! Hai idea di cosa sia, il lavoro d’ar-chivio, per uno come Togliatti?». Masticando lentamente, il Boc-ca mangiava. Sul volto, l’espressione concentrata di chi nonascolta. Fece un gesto con la destra, a cacciar via le mie obiezio-ni come una mosca. Quindi, le posate strette nei pugni, diritte:«Agli archivi ci pensi tu».

Ci eravamo conosciuti nel ‘65, quando lavorava alla Sto-ria della guerra partigiana, quindi sapevo benissimocome il Bocca scriveva i suoi libri. Andava dal cartolaioe comprava venti cartellette arancioni, le numerava

e ci scriveva sopra, illeggibili, i titoli dei capitoli. Poi iniziava laraccolta del materiale: ritagli di giornale, sunti e citazioni da ar-ticoli e libri, appunti di interviste, fotocopie di testi d’ogni ge-nere. Il materiale raccolto veniva sistemato nella cartelletta ap-propriata. Quando una cartelletta gli appariva abbastanza gon-fia, la prendeva, esaminava il materiale e faceva la prima ste-sura di quel capitolo. Quando tutti i capitoli erano scritti, co-minciava la seconda stesura, quindi passava alla revisione. So-vente, anziché ricopiare dei passi, li tagliava da un foglioincollandoli con lo scotch sul foglio pulito, e pazienza se il nomedell’autore del testo andava perduto. I suoi manoscritti eranopatchwork bizzarri che inducevano alla disperazione i redatto-ri della casa editrice Laterza. Ma questa era la sua ricetta, e an-cora ricordo la stupefazione di Antonio Cederna la sera che —eravamo a Ponte in Valtellina — il Bocca gliela espose. Succe-deva sempre così, con gli amici intellettuali. Non si capacitava-no che libri tanto belli, e a volte importanti, fossero il frutto diuna tecnica così elementare. Ignoravano — lui non ne parlava

SILVIA GIACOMONI

mai — il grande lavoro sugli autori e sulla lingua che — perfet-to autodidatta — era andato facendo instancabilmente per an-ni. Da parte mia, ero impressionata dalla quantità di lavoro che,robustissimo, riusciva a smaltire, passando da un articolo a unlibro, dai campi di sci alla cucina alla scrivania. Aveva il fisicodell’atleta, e un orecchio finissimo per la lingua, e anche per lamusica; aveva occhio per la pittura, ma di queste cose non ama-va parlare; anzi, ostentava nei loro confronti un gran disinte-resse. Certo, lui si mascherava, ma veramente gli interessava-no solo i fatti, gli eventi, le idee su cui si sentiva di poter inter-venire da protagonista.

Nel mio spavento per l’impresa Togliatti giocava anchequesto. I suoi precedenti libri di storia patria erano sta-ti accolti dagli intellettuali e dagli storici di professio-ne con grande freddezza. Giorgio Bocca era un gior-

nalista, non si poneva nessuna questione di metodo, scriveva dicose che aveva vissuto, metteva sullo stesso piano fonti d’ar-chivio e fonti orali: un disastro. E ora sfidava la pletora degli sto-rici del Pci, una congrega ancora più numerosa di quella degliarchitetti socialisti! Ne avremmo sentite delle belle! Chi ciavrebbe aiutato?

L’indomani il Bocca andò dal cartolaio e numerò venti cartel-lette. Lo trovai che passava in rassegna gli scaffali. Dissi: «Co-mincio da Pillo». Era il soprannome di un grande amico, PaoloSpriano, lo storico del Partito che era stato, giovanissimo, par-tigiano di Giustizia e Libertà. Era l’aiuto che occorreva a me. Leg-gevo, segnavo le pagine da fotocopiare, sunteggiavo e ben pre-sto mi sentii in sella. Il Partito era, nel campo storico, doppio co-me in tutto il resto, e a fronte degli intellettualini bravi a strilla-re nutriva i tipi come Pillo. Il quale indicava nelle note le fonti perla ricostruzione dei fatti che l’autocensura piciista gli impedivadi raccontare diffusamente. Presa nota delle sue note, me ne an-davo tranquilla in via Andegari e passavo meravigliose mezzegiornate col naso nelle riviste e gli archivi dell’Istituto Feltri-nelli. Arrivavo a una ricostruzione più estesa e veritiera dei sin-goli accadimenti. Ma quelle verità erano scritte in una linguache non conoscevo, stese in un gergo ideologico e burocratico,una langue russe il cui senso profondo poteva essere svelato so-lo da chi, quella lingua, aveva collaborato a costruire, aveva par-lato e subìto.

Ecco perché la divisione dei compiti — lui i testimoni, io i do-cumenti — risultava impraticabile. Le “verità” dei documenti an-davano vagliate dai testimoni. Le “verità” dei testimoni rende-vano urgenti altre ricerche. I risultati dei due lavori andavano co-stantemente incrociati perché non restassero privi di senso.

Quando il Bocca tornava dai suoi servizi per Il Giorno aTorino, a Palermo o a Parigi e infilava nelle cartellettearancioni il frutto dei suoi colloqui coi testimoni ag-ganciati in quelle città, ci trovava gli appunti delle mie

letture e dei documenti di archivio. E iniziava il confronto, la di-scussione scatenata dalla difficoltà dell’impresa investigativa,dal fermo proposito autoriale di ricostruire la misteriosa vicen-da del comunismo italiano in tutti i suoi agganci con la grandestoria del Novecento vista da Mosca: individuando, a ogni sno-do, la parte che ci aveva avuto “il Migliore”. A volte accompa-gnavo il Bocca a parlare con i testimoni.

Le donne e gli uomini della Terza Internazionale, della clan-destinità, l’esilio, le guerre, sopravvissuti alle lotte, la galera,la tortura, le purghe, al terrore, a ogni genere di contrasto e pre-varicazione, ci accoglievano, sorridenti o severi, nelle loro sem-plicissime case, specchio deformante di individualità ultracomplesse. Emarginati dal partito, coglievano volentieri l’oc-

ICORDO BENE la sera che il Bocca, tornato da Roma, sedette a

tavola e, gli occhi sul piatto, annunciò: «Ho firmato il con-

tratto per una biografia di Togliatti». Esplosi: «Sei pazzo!».

Erano gli anni che, lasciato l’insegnamento, aiutavo il Boc-

ca per i suoi libri. L’accordo era che io facevo di tutto e i pro-

getti si facevano assieme. Ma ora lui si serviva, agguantava la forchetta,

cominciava a mangiare e io, immobile, in piedi, strillavo i motivi per cui

l’impresa era impossibile. «Noi due, a vedercela con due guerre mondiali,

Quandoil Bocca

Togliattiincontrò

IL LIBRO

“TOGLIATTI” DI GIORGIO BOCCA(FELTRINELLI, 656 PAGINE, 22 EURO) CON PREFAZIONE DI LUCIANO CANFORA SARÀ IN LIBRERIADA MERCOLEDÌ 9 LUGLIO. È UNA RIEDIZIONE, A CINQUANT’ANNI DALLA MORTE, DELLA BIOGRAFIADEL LEADER COMUNISTA. USCÌ PER LA PRIMA VOLTA PER LATERZA NEL 1973.NELLA PAGINA ACCANTONE PUBBLICHIAMOUN ESTRATTO

A cinquant’anni dalla morte del leader comunista

viene ripubblicata la biografia scritta dal grande

giornalista.Lo aiutò una persona molto speciale

Che qui svela i retroscena di “un’impresa folle”

LA COPPIA

GIORGIO BOCCAE LA MOGLIE

SILVIA GIACOMONIAUTRICE

DI QUESTO ARTICOLO

La storia. I migliori

R

Repubblica Nazionale 2014-07-06

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la RepubblicaDOMENICA 6 LUGLIO 2014 31

casione di fare i conti col Migliore e, data l’età e la situazione, avolte parevano disposti persino a fare un po’ di conti pure conse stessi. Apparenza ingannevole. Ciascuno era un caso a sé, main comune avevano la granitica certezza che, se erano soprav-vissuti a tanto, era perché in quella o l’altra occasione si eranocomportati a quel modo, avevano pronunciato quelle parole,avevano taciuto quel fatto. Da qui la loro memoria di ferro.

A Roma, Umberto Terracini ci ricevette in Senato. Pietro Sec-chia in uno studio arredato con dei confessionali; Camilla Rave-ra in un appartamentino da vecchia maestra; Giuseppe Berti inun elegante soggiorno; il figlio di Franco Rodano ci chiese, sprez-zante, perché non scrivessimo di Angelo Tasca — il primo a de-nunciare il terrore — anziché di Togliatti. A Torino scovammoAndrea Viglongo (l’editore di Salgari) in una villetta sommer-sa dai libri. Nella casa triestina di Vittorio Vidali era ospite la fi-glia di Cesare Battisti. Da alcune di quelle dimore uscimmo im-malinconiti o scocciati. Ma generalmente il Bocca poteva tran-quillo sedere sulla seggiola, o sulla poltroncina che gli erano sta-te offerte e rilassato, il busto un po’ piegato in avanti, parlare intutta fiducia con chi gli stava di fronte.

Aveva fiducia, fondamentalmente, in se stesso, nellapropria capacità — empatica — di entrare nel mondodegli altri e discernere, nel groviglio di quelle vite, i filiche portavano a Togliatti. Era, il suo, il ruolo del giudi-

ce istruttore. Anni dopo, parlando del giudice Falcone, il Boccaammirato diceva: «Un vero mafioso!» per dire che solo chi cono-sce perfettamente il modo di pensare dei mafiosi è in grado dicombatterli. E io, ripensando a quelle ore nelle case degli uomi-ni della Terza Internazionale, ridacchiavo pensando di lui: «Il ve-ro rivoluzionario di professione!».

Era un lavoro intenso, stupendo, che invadeva la nostra vita.In studio, in auto, in spiaggia, in cucina: non parlavamo che diBordiga e Bucharin, di Tasca e Kamenev, della Noce e HumbertDroz, e di lui, soprattutto di lui, il Migliore, Ercoli, Palmi, in tut-te le declinazioni. Le cartellette ingrassavano, molte figliaronodue o tre altri capitoli, su fatti e problemi non preventivati. Lerisse, fra noi, erano all’ordine del giorno: entrambi sentivamo ilbisogno di riaffermare la nostra identità, in una situazione di in-tesa troppo intima e tesa.

Il Bocca scrisse il capitolo sul socialfascismo, quindi partì pernon so più per che servizio. Io trovai nel Fondo Tasca, all’Istitu-to Feltrinelli, una serie di documenti che ne davano uno sfondopiù ampio. Quando lui rientrò, e scoprì che avrebbe dovuto rifa-re quella fatica, quasi mi uccise. Ho riletto il capitolo incrimina-to, titolato “La resa a Stalin”. Anzi, l’ho divorato come un gialloappassionante. Avevo dimenticato tutto, tranne la frase con cuiil compagno Kuusinen commentò la terribile vicenda: Togliatti— disse — “a dejà joliment appris la langue russe”.

Penso di aver dimenticato tutto, o quasi, di questo libroperché mi costò una fatica spropositata. Non per quan-to riguardò la pur faticosa ricerca, ma per quanto si-gnificava svolgerla con occhi non miei. Natalia Aspesi

mi avrebbe poi sgridata perché non avevo chiesto la firma: fran-camente, la cosa non mi passò per la testa. Studiavo, mi appas-sionavo, leggevo e correggevo i capitoli nelle varie stesure, mami era chiaro che quello era il libro del Bocca, frutto di un biso-gno tutto suo. Quando il lavoro fu terminato, fui contenta che lemie previsioni fossero state contraddette, ma avevo una granvoglia di rileggere Pinocchio e le Operette Morali. (Non avevoancora scoperto la Bibbia). Lessi la prima stesura della nota altesto in cui Bocca, ringraziandomi per la collaborazione, parla-va del libro come del nostro “figlio di carta”. Mi parve troppo.

Il desiderio di staccarmi dall’opera non mi impedì di condivi-dere le emozioni di Giorgio mentre si manifestavano le reazionifuneste del partito alla pubblicazione — l’intervista dell’isteri-co Giancarlo Pajetta su Tempo illustrato, la stroncatura di Lu-ciano Gruppi su Rinascita — anche se mi parevano scontate. Al-le presentazioni del libro mi tenevo defilata. Solo a Bari — il Boc-ca era raffreddato — toccò a me di parlare al suo posto. Semprea Bari, tanti anni dopo, mi toccò nuovamente quell’onore, quan-do, grazie a Luciano Canfora, mio marito fu insignito della lau-rea in storia honoris causa.

Ma la partita coi comunisti italiani era già stata chiusa quan-do il libro era stato messo in vendita, a buon prezzo, in edicola,per i lettori dell’Unità.

La sera che il Bocca, tornato da Roma, mi annunciò il con-tratto per una biografia di Togliatti, fui tanto angoscia-ta che non gli domandai da chi era venuta l’idea. Mi so-no posta il problema solo quando Gianluca Foglia mi ha

chiesto una testimonianza per questa edizione Feltrinelli. Ho allora telefonato a Donato Barbone, che in quegli anni era

direttore editoriale della Laterza, perché m’è sembrato proba-bile che la proposta fosse venuta da lui, e volevo sapere in basea quali indizi si fosse messo in testa che il Bocca era adatto al-l’impresa. Donato mi ha detto che no, l’idea non era stata sua.«Di Vito Laterza?» ho chiesto io, stupefatta. «Nemmeno» ha det-to Donato. «Non sono sicuro, ma penso che Vito abbia accolto conmolto entusiasmo un’idea proposta timidamente da Giorgio,un’idea che in lui maturava da anni». «Ma tu — lo ho incalzatosentendo rinascere in me l’antico spavento — quando ti ha det-to la cosa, come hai reagito?». «Come te» ha risposto Donato.«Gli ho domandato come pensava lui, sempre in giro per il Gior-no, di affrontare gli archivi. E Giorgio — al telefono ho sentito unrisolino — mi ha detto che ci avresti pensato tu. È stata la primavolta che ti ho sentita nominare».

Quel giorno è venuto a pranzo mio nipote Luca, sedicianni. Gli ho raccontato questa storia e l’ho conclusa di-cendo: «Vedi che tipo era tuo nonno? Mi ha messa da-vanti a un fatto compiuto!» E lui: «Il modo migliore per

non sentirsi dire di no». Dato che si parlava del nonno, Luca miha detto che gli è molto piaciuto il capitolo del Provinciale in cuiparla della vita di famiglia. Allora ho aperto anch’io una copiadel Provinciale, ma al capitolo “Viaggio per il comunismo”. Ini-zia così: “Avevo scritto per Laterza la storia della guerra fascistae della guerra partigiana. Mi mancava però la faccia nascosta,quei comunisti rispuntati l’8 settembre come da una cantina se-greta della casa comune”. Sono risalita al capitolo sulla guerrapartigiana, titolato “La guerra di casa” e ho trovato il primo in-contro del comandante Giorgio coi comunisti: «In Varaita i ga-ribaldini erano arrivati prima di noi, occupavano già il versantesinistro della valle, noi ci sistemammo sul destro e Sampeyre fula capitale di entrambi. Noi dei comandi ci trovavamo a cena alLeon d’oro, il ristorante sulla piazza, a tavola assieme ad Ezio, ilcommissario politico, emiliano, comunista, gran brav’uomo, ea Medici, il comandante militare: risotto ai funghi e le risate diEzio, da Rigoletto che arrivassero anche nel loggione, quando ioattaccavo con la libertà e lui tirava fuori dal suo povero ma con-vinto armamentario ideologico “ma sì, e tu dagli da mangiare lalibertà alla gente e vedrai, noi gli daremo la libertà dal bisogno,mio bel Giorgino”».

Dunque, come tutte le cose del Bocca, anche questo Togliattiha radici autobiografiche; come tutte le sue migliori, ha le suefondamenta nella lotta partigiana.

“Ai suoi funerali milioni di persone in vero

autentico lutto. Un mistero: come era possibile

che fosse così amato dalla gente un uomo

tanto schivo, superbo, scostante, elitario?”

Non me ne sonoinnamoratogli ho solo datociò che meritava

GIORGIO BOCCA

SE È LECITO un confronto con i grandi

personaggi risorgimentali, direi

che il più simile a Togliatti mi pare

Cavour, non solo perché entrambi

sono torinesi, piemontesi non solo

per l’anagrafe, ma perché lo sono stati come

cultura, come formazione; perché entrambi

sono stati sovversivi d’ordine, creatori o

ricercatori di ordini nuovi che riproducessero,

migliorandolo, il vecchio. Il Togliatti di sempre,

di fondo, come il Cavour di sempre e di fondo è

quello della scuola ben fatta, della cultura

seria, dei vecchi valori dell’onestà, del lavoro,

della tenacia; più un gusto, un orgoglio

aristocratico di chi appartiene a una élite.

Perché Togliatti è stato un personaggio di

importanza mondiale? Perché ha svolto nello

stalinismo, per Stalin, la stessa funzione che i

grandi monaci umanisti svolsero presso i re

franchi, Carlomagno in particolare, o

longobardi: tradurre la forza della loro barbarie

e delle loro armi in nuova cultura, in nuovo

jure, almeno formale, ecco, nel dare una forma

alla forza bruta. Togliatti fu anche chiamato il

giurista del Komintern non tanto perché

avesse il compito di dare una parvenza legale

alle purghe e ai processi dei comunisti europei,

o fosse un furbo abile azzeccagarbugli, ma

perché sentiva la necessità, e la comunicava a

Stalin, di forme civili per il comunismo. (...)

Uno dei misteri della vicenda Togliatti è la sua

popolarità che si manifestò in modi

impressionanti per i suoi funerali con milioni di

persone in vero autentico lutto e che già si era

rivelata quando fu vittima dell’attentato di

Pallante. Come era possibile che fosse così

amato dalla gente un uomo così schivo,

superbo, scostante, elitario? Uno che alla

Camera o nella sede del partito se si avvicinava

un compagno sconosciuto o non facente parte

del sinedrio smetteva di parlare e con lo

sguardo gelido gli ordinava di allontanarsi?

Uno che non aveva alcuna vita sociale,

conviviale con i compagni? Uno che quando

scriveva sull’Unità aveva il tono del professore

insofferente degli errori altrui?

Difficile rispondere. Forse fu il mito della

guerra e dell’antifascismo, il mito di quel capo

misterioso, Ercoli, che doveva arrivare dalla

Russia e che avrebbe posto riparo a tutte le

ingiustizie italiche; forse l’altro mito, di tipo

staliniano, del capo onnipotente, rispettato e

temuto; o forse più semplicemente il

riconoscimento anche da parte degli avversari

che era un uomo di qualità, un intellettuale,

uno che aveva il sentimento tragico della

storia; non un avventuriero o un opportunista.

(...). Dicono che i biografi si innamorino

sempre un po’ del loro personaggio. Io di

Togliatti non mi sono innamorato, ma gli ho

reso i meriti che aveva.

(da Togliatti, di Giorgio Bocca, Feltrinelli)

© RIPRODUZIONE RISERVATA© RIPRODUZIONE RISERVATA

LA FOLLA

NELLA FOTOGRAFIAI FUNERALI

DI PALMIRO TOGLIATTI,IL 25 AGOSTO 1964,

A ROMA

I PROTAGONISTI

IL GIORNALISTAE SCRITTOREGIORGIO BOCCA(1920-2011) E IL SEGRETARIODEL PARTITOCOMUNISTAITALIANOPALMIRO TOGLIATTI (1893-1964)

Repubblica Nazionale 2014-07-06

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la RepubblicaDOMENICA 6 LUGLIO 2014 32LA DOMENICA

RomanPolanski

Il mio caso Dreyfus

Spettacoli. Remake

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la RepubblicaDOMENICA 6 LUGLIO 2014 33

ROBERT HARRIS«Un cliché tipico di Hollywood vuole in

effetti che il personaggio cambi nel corsodella trama, durante le due ore del film. Èchiamato the arch of development, ovverol’arco narrativo, la curva che ogni tramadeve seguire. A Hollywood Picquart sareb-be diventato naturalmente un filosemita.Mentre la realtà è più sfumata. Nella realtàPicquart non cambiò granché, ma era unuomo dotato di un grande senso morale,posseduto dal dovere, dall’onore, e questolo ha reso interessante ai nostri occhi. Erauna figura complessa, non necessaria-mente molto simpatica, ma davvero note-vole. Cambiò veramente opinione sugliebrei? Secondo me riteneva che l’erroregiudiziario fosse qualcosa di assai più gra-ve di un crimine. E valutava molto sempli-cemente che il suo onore era assolutamen-te incompatibile con il fatto di lasciare uncolpevole in libertà mentre un innocenteveniva punito al suo posto. Per l’esercitofrancese sarebbe stato un disastro. La di-mensione politica dello scandalo venne so-lo dopo. In prima battuta la storia di Drey-fus era una storia di spionaggio; in secondabattuta un fallimento della giustizia; soloin terza battuta diventò una questione po-litica. Per creare qualcosa sei obbligato ascegliere».

ROMAN POLANSKI «Lavorando a questo progetto mi sono

reso conto che quando cominci a chiederealle persone che cosa conoscono dell’affai-reDreyfus, scopri che ne sanno davvero po-co o nulla, anche quelle istruite. Quando di-co che farò un film sull’affare Dreyfus mi di-cono che è una cosa fantastica, che sarà in-teressantissimo, e basta… La gente ignorache i francesi bruciavano per strada i libridi Zola insieme a L’Aurore (il giornale cheaveva pubblicato il famoso J’accuse delloscrittore, ndt). In buona sostanza non sache quello scandalo ha letteralmente cam-biato la storia della Francia. Non ricordache all’epoca in cui Zola scrisse il J’accuse,gran parte dell’opinione pubblica gli eraostile».

sta debba saper scrivere?». E Billy Wilder ri-sponde: «No, no, ma deve almeno saper leg-gere». Sul caso Dreyfus ho letto una quantitàdi libri incredibile, solo che alla fine non tro-vavo la maniera di raccontare la storia. Al-meno fino a che non è arrivato Robert con lasua idea di Picquart. Come tutti i registi ri-cevo molte sceneggiature. Ma non mi è maicapitato di leggere un copione che mi faces-se dire: «Voglio assolutamente farlo». Solocon Chinatown è successo. Le sceneggiatu-re, in realtà, sono soltanto delle “istruzioniper l’uso”, no? Con il libro di Robert invece èstato pazzesco. Un approccio formidabile.Purtroppo in un film non si può essere sfu-mati come in un libro. È un medium diffe-rente. Non si può raccontare la storia nellostesso modo in cui la si racconta in un ro-manzo. Forse solo le serie televisive possonoavvicinarsi alla letteratura. Ci sono delle sce-ne a cui abbiamo dovuto rinunciare. In com-penso, certi episodi (penso al processo, o al-la degradazione) sono eventi molto visivi,che si prestano perfettamente a un adatta-mento cinematografico».

ROBERT HARRIS«Sì, prendiamo proprio la cerimonia della

degradazione, 5 gennaio 1895. Una scenache ha cambiato il corso della storia mon-diale. Theodor Herzl, il fondatore del sioni-smo politico, era tra la folla e fu da quel mo-mento che pensò che il popolo ebraico dove-va avere un suo Stato. La degradazione diDreyfus rappresentò un punto di svolta».

ROMAN POLANSKI«La Cour des Invalides, dove ebbe luogo,

oggi è inutilizzabile per i nostri scopi. C’è ilprato, è pavimentata, mentre a quell’epocanon lo era: dovremo ricorrere a degli effettispeciali. Vedremo. Comunque c’è tempo.Dobbiamo ancora cominciare a girare. Il filmnon sarà pronto prima del gennaio 2016».

© 2014 Le Monde(Testo raccolto da Nicolas Weill

Traduzione di Fabio Galimberti)

ROBERT HARRIS«Il caso Dreyfus ha largamente ispirato la letteratura, sia quella “alta” che il romanzo po-

polare. Personalmente per documentarmi mi sono letto Proust e parecchio Zola, ma non tut-ti gli altri. E ciò che più mi ha affascinato nell’affaire sono gli elementi legati a una moder-nità ancora in embrione. Ogni giorno venivano spediti a New York telegrammi da seicentoparole per informare il pubblico americano degli ultimi sviluppi. Il fatto che fosse stato pos-sibile riprodurre la lettera (il principale documento a carico di Dreyfus, pubblicato da Le Ma-tinnel 1896, ndt) sulla prima pagina di altri giornali, grazie a nuove tecniche di facsimile, èuno degli elementi che spiegano come avesse fatto lo scandalo ad assumere queste dimen-sioni. Vent’anni prima non sarebbe stato possibile. Si può dire che sia stato il primo eventomediatico globale. La regina Vittoria inviò il presidente della Corte suprema inglese ad as-sistere al processo. Beh, affascinante».

ROMAN POLANSKI «Io non ricordo esattamente cosa sia stato a far scattare in me l’interesse per questa sto-

ria. Penso di essere stato molto influenzato anche dal film di Carol Reed, Fuggiasco (1947,racconta di una caccia all’uomo contro un nazionalista irlandese per le strade di Belfast,ndt). Sono questi i tipi di personaggi che mi interessano. E una volta individuati amo rac-contare la loro storia dal loro reale punto di vista, con tutto il rigore che ciò possa richiedere:spesso, quando si comincia a lavorare a questo genere di storie, si è tentati di far dire al vo-stro eroe qualcosa di interessante anche se non fa parte della sua storia. Beh, bisogna inve-ce essere capaci di mantenere una certa disciplina. Comunque, tornando a noi, la molla chemi ha spinto verso Dreyfus dev’essere scattata in me una decina d’anni fa, poco dopo Il pia-nista. Volevo che il mio prossimo film avesse un senso al di là del puro divertissement. Quan-to al modo in cui mi sono documentato mi piacerebbe rispondere come Billy Wilder fece conVolker Schlöndorff in un documentario che quest’ultimo aveva girato su di lui. «Signor Wil-der», gli chiede Schlöndorff, «lei si scrive da solo tutte le sceneggiature. Ritiene che un regi-

ENTRE LA RICERCA storica tende a riabilitare la figura di Al-fred Dreyfus, Roman Polanski ha scelto di raccontare l’af-faire dal punto di vista di Georges Picquart, l’uomo che ap-purò la colpevolezza di Esterházy e l’innocenza del capi-tano. Perché privilegiare questa figura? Forse la rispostasta nel fatto che Picquart non fosse né ebreo (era anzi va-gamente antisemita) né politicamente impegnato (se sieccettua il suo anticlericalismo)?

ROMAN POLANSKI «C’è un’espressione usata in inglese, whistle-blower,

che indica le persone che lanciano l’allarme, per intederci gente come Edward Snowden. Èun argomento questo che mi interessa da molto tempo. Sono almeno dieci anni che cerco difare un film su questo tema, ma non riuscivo a vedere un modo per adattarlo efficacementesu Dreyfus. Per diverse ragioni. La prima è che come eroe Dreyfus non è molto interessan-te. Non era né particolarmente seducente né particolarmente simpatico, anche secondo ilgiudizio delle stesse persone che lo sostenevano. La seconda ragione, ed è la più importan-te, è che trascorse il grosso del periodo che ci interessa su un’isola deserta, l’Isola del Diavo-lo, e che per molto tempo veniva incatenato al letto quando dormiva. Insomma, non riusci-vo a trovare un modo per affrontare degnamente il soggetto. Poi Robert Harris ha avuto l’i-dea geniale di adottare il punto di vista dell’uomo che, come sappiamo, è stato quello che loha scagionato. Miracolosamente il libro di Robert (L’ufficiale e la spia, in Italia pubblicatoquest’anno da Mondadori, ndt)offre tutta la struttura di un film. Attraverso Picquart, il no-stro racconto poteva prendere le tinte di un film giallo, addirittura di un thriller. Con lui, conPicquart, c’è quello che a Hollywood chiamano l’arch».

A New York il pubblico attendeva

avidamente notizie da Parigi

Si può dire che sia stato il primo

evento mediatico globale

PICQUART È UNA FIGURA PIÙ COMPLESSA DELLO STESSO DREYFUS. NON GLI INTERESSAVA TANTOLA QUESTIONE POLITICALEGATA ALL’ANTISEMITISMORITENEVA SEMPLICEMENTECHE L’ERROREGIUDIZIARIO FOSSE PIÙ GRAVE DI UN CRIMINE

MI SONO RESO CONTO DI QUANTO IN REALTÀ LA GENTE SAPPIA POCO DI QUESTA VICENDA, ANCHE QUELLI PIÙ ISTRUITI.VOGLIO DIRE: I FRANCESIBRUCIAVANO PER STRADA I LIBRI DI ZOLA, È UN CASO CHE HA CAMBIATO PER SEMPRE QUESTO PAESE

LA SCENA

IL 5 GENNAIO 1895 DREYFUS VIENE DEGRADATO CON UNA PUBBLICA CERIMONIAALL’INTERNO DELLA COUR DES INVALIDES. “INSIEME AL PROCESSO È UNO DEGLI EVENTI

PIÙ CINEMATOGRAFICI DI TUTTA LA STORIA” RACCONTA IL REGISTA © RIPRODUZIONE RISERVATA

Il regista girerà un film sull’“affaire”. Qui ne parla con lo scrittore (Robert Harris)che gli ha suggeritocome fare: “Trasformalo in un thriller”

MGEORGES

PICQUART

IL COLONNELLOSCOPRE IL VEROCOLPEVOLE. NEL 1896 FARIAPRIRE IL CASOMA VIENE RIMOSSODALL’INCARICO

EMILE ZOLA

IL 13 GENNAIO 1898“L’AURORE”PUBBLICAL’EDITORIALEDELLO SCRITTOREPRO DREYFUSCON IL TITOLO“J’ACCUSE”

ROBERT HARRIS

LO SCRITTOREINGLESE RACCONTA DI PICQUART NEL SUO ULTIMOROMANZO“L’UFFICIALE E LA SPIA”(MONDADORI 2014)

ALFRED DREYFUS

1894, L’UFFICIALEEBREO ALSAZIANOÈ RICONOSCIUTOCOLPEVOLE DIALTO TRADIMENTO,DEGRADATO E CONDANNATO AI LAVORI FORZATI

POLANSKI HARRIS POLANSKI

CERTO, UN FILM NON PUÒAVERE TUTTE LE SFUMATUREDI UN ROMANZO. FORSE SOLO ALCUNI TELEFILM POSSONO AVVICINARSI ALLA LETTERATURA. MA IN QUESTA STORIA CI SONO ALMENO UN PAIO DI EPISODI CHE SEMBRANOFATTI PER IL CINEMA

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la RepubblicaDOMENICA 6 LUGLIO 2014 34LA DOMENICA

Next.Eureka

RICCARDO STAGLIANÒ

BERLINO

ELLAVENEZIA DELXVsecolo i vetrai diMurano pretendevano di dormiresonni tranquilli. Se una bottega in-ventava un nuovo sistema per sof-fiare il vetro non voleva che il primoarrivato glielo copiasse. Così prese-ro a comunicare le loro innovazionial Doge, che a sua volta emanava undecreto per proteggerle perdieci anni. Il sistema mo-derno dei brevetti na-

sce allora, ricorda il portavoce dell’EuropeanPatent Office, in un’algida stanzetta del Qua-driga Forum di Berlino. È l’unica slide dellasua presentazione in cui gli italiani fanno unabella figura. Nella torta sui maggiori produt-tori di brevetti, occupata per il 37 per centodalla Germania, il nostro Paese non è perve-nuto. Ci spartiamo le briciole nella miscellanea“other countries”. E non rientriamo nemmeno nel-la top 20 di chi produce più innovazione per milione diabitanti, che ha la Svizzera in testa. Per non infierire troppoil relatore omaggia il vicentino Federico Faggin, papà del primomicrochip commerciale, il mattoncino di silicio che ha dato il viaall’informatica moderna. Che però è dovuto emigrare nella Si-licon Valley per far realizzare la sua rivoluzionaria intuizione.

«Le idee, senza la loro esecuzione, sono allucinazioni» è unafrase attribuita, forse apocrifamente, a Thomas Edison. Qua-lunque imprenditore concorderebbe. Servono soldi per la ri-

cerca. Laboratori funzionanti. E una cultura che tolga lo stigmadal fallimento, considerandolo invece la cicatrice necessaria dichi è caduto cercando di correre più forte di altri. Che Roma ab-bia dimezzato l’uno per cento che investiva in ricerca nel 2005e Berlino, che partiva dal tre per cento, ci abbia messo sopra al-tri 13 miliardi, la dice lunga sul perché dal Fraunhofer Institu-te che ci fanno visitare siano usciti, per stare agli ultimi anni, ilformato di compressione dell’audio mp3 (che però è stato crea-to anche con il contributo di un altro italiano, l’ingegnere Leo-

nardo Chiariglione) e il Voip, la telefonia via Internet. Manonostante il contesto attuale cerchi di mettere tut-

ti i bastoni possibili tra le ruote degli innovatoriitaliani, finalista dell’European Inventor

Award, che quest’anno si è celebrato proprionella capitale tedesca, è Luigi Cassar. PerItalcementi ha inventato il cemento che nonsi sporca e addirittura assorbe lo smog, con-tribuendo all’abbattimento dell’inquina-

mento urbano. Investimenti nella ricerca omeno, c’è comunque chi pensa che le invenzio-

ni più importanti le abbiamo ormai alle spalle. So-stiene infatti l’economista americano Robert Gor-

don che l’iPad non è il transistor e che la crescita economicadi cui gli Stati Uniti hanno goduto per più di un secolo si è fer-mata anche per questo motivo. In attesa di scoprire se la teoriadi Gordon sia corretta oppure no, a Berlino tre, tra gli inventoripremiati (la lista completa su www.epo.org), li abbiamo volutiincontrare ugualmente. Perché comunque andranno le cose do-mani hanno intravisto ieri il next in cui viviamo oggi.

Allafiera

C’è chi sostiene che le scoperte più innovativesiano ormai alle nostre spalle. Siamo andatial meeting annuale di Berlino per capire se è vero

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delleinvenzioni

N

Repubblica Nazionale 2014-07-06

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la RepubblicaDOMENICA 6 LUGLIO 2014 35

OGGI ne parlano tutti.

Dicono che è il viatico

della terza rivoluzione

industriale. Ma quando nel 1983

Chuck W. Hull (premio alla

carriera a Berlino) ha inventato

la stereolitografia, ovvero la

tecnica di realizzare oggetti

tridimensionali a partire da file

digitali, solo i giornali di settore

registrarono l’evento della

nascita della stampa 3D. «Ero un

designer» spiega questo

settantatreenne affabile, «e

disegnare un prototipo,

affidarlo a uno stampatore che

doveva creare la matrice,

provarlo, correggerlo era un

processo frustrante, lungo

mesi». Così si mise a ragionare

su una macchina che

aggiungeva, come in un castello

di sabbia computerizzato, strati

di filamenti plastici fino a creare

l’oggetto voluto. «Nell’86

depositai il brevetto e allora i

nostri primi clienti furono quelli

del settore automobilistico.

Immaginai che ci sarebbero

voluti 25 anni perché diventasse

di uso diffuso, e ne è servito

qualcuno in più». Ma non teme

che la sua invenzione finirà per

uccidere la manifattura di

massa, togliendo altro lavoro

alla classe media già in crisi?

«Non sono un futurologo. La

delocalizzazione però c’era già e

la mia invenzione sta

consentendo a parte di quel

lavoro di rientrare. Forse altri

operai perderanno il posto, ma

ne guadagneranno i designer

che personalizzeranno i

prodotti».

QUANDO l’interprete

chiede a Masahiro Hara

(premio popolare a

Berlino) se si è pentito di non

aver fatto pagare la licenza per

usare l’evoluzione del QR Code,

scoppia a ridere in singulti.

«Abbiamo scelto di stampare il

QR Code su carta perché

volevamo che fosse il più diffuso

possibile. Se avessimo preteso

una licenza avremmo ottenuto

l’effetto contrario. E poi noi i

soldi volevamo farli con i lettori».

Però ora che qualsiasi

smartphone può decrittare quei

quadratini che contengono

informazioni incomprensibili a

occhio umano Hara e il suo team

si devono inventare altro. Tipo?

«Un QR sicuro. Perché ci siamo

resi conto che c’è chi contraffà il

codice per spedire chi lo legge in

siti che non hanno niente a che

vedere con l’indirizzo originario.

Il QR sicuro sarà immune da

questi rischi».

SE POTETE vedere la tv sul

telefonino, ringraziate

Eric Dahlman,

Muhammad Kazmi, Stefan

Parkvall e Robert Baldemair,

ricercatori della Ericsson che

hanno contribuito alla

realizzazione della quarta

generazione di trasmissione

dati per la telefonia mobile, il

cosiddetto Long Term

Evolution. Il Lte è il frutto di

decine di tecnologie che si

combinano una sull’altra. Da

buoni innovatori, sono già oltre.

«Il 5G dovrebbe essere pronto

nel 2020» ha spiegato Dahlman

a Berlino «e sarà molto più

ambizioso del 4G. Questo

riguardava la velocità, quello la

sicurezza e come varie

macchine diverse si

connetteranno l’una con l’altra».

ERIC DAHLMAN È UNO DEIRICERCATORIERICSSONCHE HACONTRIBUITOA CREARE LATRASMISSIONEDATI 4G

MASAHIROHARACOL SUOTEAMHA DIFFUSOGRATISIL QR CODEGUADAGNANDOSOLDIDAI LETTORI

CHUCK W.HULL ÈIL DESIGNERFRUSTRATODAI TEMPIMORTICHE VOLEVACREAREI PROTOTIPIIN MANIERAPIÙ VELOCE

“E vedrete cosa potrete farequando raggiungeremo il 5”

4G LTE

“Adesso siamo prontiper un codice più sicuro”

QR Code

“La brevettai trent’anni fama solo ora ne parlano tutti”

Stampante 3D

INF

OG

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Repubblica Nazionale 2014-07-06

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la RepubblicaDOMENICA 6 LUGLIO 2014 36LA DOMENICA

È A CHI PIACE SOTTILE, chi la vuole croccante. Chi ama che de-bordi dal piatto, bollente e filante. Chi non transige sul corni-cione, chi la piega a libretto, e guai a usare coltello e forchet-ta. Chi impazzisce per la Marinara, mater originaria, e chi nonprescinde da funghi e prosciutto. Per un tempo lunghissimo, la pizza è stata solo il più facile de-gli spezza-fame: pasta di pane, pomodoro e poco altro, qual-che morso avido camminando e stando attenti a non mac-chiarsi. La madre di tutte le declinazioni gourmand risale a fi-ne ‘800, quando il basilico trasformò la pizza in bandiera tri-colore per omaggiare la regina Margherita. Da quel momento in poi, sopra la pizza è finito di tutto, con le

farciture utilizzate sempre più frequentemente per mascherare la qualità mediocre degli in-gredienti. Un’involuzione figlia della crisi economica, che ha fatto delle pizzerie luoghi dellasocialità sempre più popolari e praticati, in alternativa ai ristoranti di piccolo cabotaggio. Simangia per stare insieme spendendo poco, e pazienza se la pizza si ricomporrà nello stomacocome se avessimo ingoiato un frisbee e ci addormenteremo abbracciati a una damigiana d’ac-qua. Ma un’altra pizza è possibile, come ben testimonia il manipolo di pizzaioli illuminati chesta cambiando l’identità del cibo secondo solo alla pasta nella classifica dei consumi alimen-tari del mondo occidentale.

Tutto è cominciato con lieviti e farine, fron-tiere obbligate di un’alimentazione sempremeno sana. L’esplosione di intolleranze e al-lergie ha costretto gli artigiani più sensibili ainterrogarsi sulla salubrità della chimica ne-gli impasti, dagli acceleratori ai miglioratori,passando per conservanti e sbiancanti.

Chi ha deciso di cambiare, oggi sceglie fari-ne diverse — avena, farro, segale... — o di gra-ni antichi, macinate a pietra, da coltivazionibiologiche e biodinamiche. Il lievito di birraviene dosato col bilancino del farmacista — 5grammi per quasi 20 kg di farina! — da solo oinsieme al lievito madre, a sua volta nutrito ecoccolato come una creatura. L’olio è rigoro-samente extravergine, il sale è marino, lamozzarella arriva da allevamenti virtuosi(niente trinciati di mais), i pomodori dall’ari-docoltura, la pratica “senz’acqua” che obbli-ga la pianta a cercare in profondità, arric-chendosi di minerali.

Ma i nuovi pizza-star si spingono oltre, ri-valeggiando con gli chef nella selezione dellemigliori gourmandise in circolazione e negliaccostamenti creativi, che trasformano lepizze in piatti d’autore a piccoli prezzi. Una ri-voluzione che si traduce in veri percorsi di de-gustazione: le pizze vengono servite tagliatea spicchi per l’intero tavolo, offerte in succes-sione dalle più semplici e delicate a quelle de-gne di una tavola stellata. Per accompagnar-le, niente bibite — orrore! — ma un ventagliodi birre rigorosamente artigianali prodottenelle centinaia di microbirrifici sparsi in tut-ta Italia, raccontate e consigliate con periziada sommelier, mentre l’opzione vino si giocaalla pari tra rosé e bianchi sfiziosi. Se le pizzegourmand vi attraggono, regalatevi una gitanei nuovi santuari del forno a legna. L’unicorischio che correrete sarà provare un certo ap-petito ben prima di andare a dormire.

Non la solita pizza.Tra impasti e ingredientidove osano gli chef

La app

È anche in forma di app, la “Guida alle Migliori Pizzerie

di Napoli e della Campania”firmata da Monica Piscitelli,

che comprende notizie sulla città, il “glossario

del pizzajuolo” e le migliori pizzeper categoria: margherite,

ripiene, marinare e creative

Il libro

La nuova guida “Pizzeried’Italia” del Gambero Rossorecensisce 450 locali in tutta

Italia. Ben 45 le pizze con TreSpicchi (al piatto) e Tre Rotelle

(al taglio). Premio Maestrid’impasto a Enzo Coccia

(vedi ricetta) e Renato Bosco(Saporè, Verona)

Il panificio

Dopo aver nobilitato la scrocchiarella romana

a “La Pizzeria del Teatro”,Gabriele Bonci amplierà

in autunno il suo panificio di via Trionfale a Roma con un mercato di frutta

e verdure biologiche, mulino a pietra e pizzeria-trattoria

Sapori. Capricciosi

IN PRINCIPIOFU IL BASILICO.

DA ALLORA SOPRAE DENTRO IL CIBO

PIÙ ADDENTATOD’OCCIDENTE

(DOPO LA PASTA)È STATO

MESSO DI TUTTO E NON SEMPRE

A PROPOSITO. ORALE COSE STANNO

CAMBIANDO. ECCO COME

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Friggitelli, pomodori secchi e baccalàcosì rileggo la tradizioneINGREDIENTI PER QUATTRO PIZZE:½ LITRO D’ACQUA; 27 G. DI SALE MARINO; 5 G. DI LIEVITO DI BIRRA

20 ML. DI EXTRAVERGINE (PER L’IMPASTO); 3 G. DI ZUCCHERO; 850-900 G. DI FARINA; 80 ML. DI EXTRAVERGINE BIO “LE PERACCIOLE”320 G. DI FRIGGITELLI (PEPERONCINI VERDI); 320 G. DI BACCALÀ

320 G. DI MOZZARELLA DI BUFALA CAMPANA “LA FENICE”160 G. DI POMODORI SEMISECCHI; 1 MAZZETTO DI BASILICO FRESCO

ersate l’acqua in una zuppiera, sciogliendo in successione sale, lie-vito, zucchero, olio e il 30% della farina. Cominciate a impastaree versate il resto della farina fino alla consistenzadesiderata. Coprite l’impasto, senza estrarlo dal-

la zuppiera, con un panno umido. Lasciare lievitare 10-12ore a temperatura ambiente. Estraete dalla zuppiera l’im-pasto e dividetelo in quattro. Ungete le teglie e foderatelecon gli impasti. Lasciate riposare altri 10’. Aprire ametà i friggitelli, svuotandoli dei semi, affettarli sot-tili, saltarli in padella con aglio e olio. Sciacquate ilbaccalà e tagliatelo a sfoglie. Accendete il forno a230°-250° C. Irrorate gli impasti di extravergine,poi disponete il baccalà coperto dalla mozzarella.Cuocete per 10’, aggiungete i friggitelli e reinfor-nate altri 10’. Togliete dal forno, aggiungete i po-modorini semisecchi e il basilico spezzettato.

VLO CHEF

IL NAPOLETANOENZO COCCIA, UNO DEI PIÙ GRANDIMAESTRI PIZZAIOLIITALIANI, SI DIVIDE TRA LE DUE SEDI DE “LA NOTIZIA”, AL VOMERO: DA UNA PARTE,TRADIZIONE,DALL’ALTRA,CREATIVITÀ FIGLIADI PRODOTTI LOCALICOME IN QUESTARICETTA IDEATAPER REPUBBLICA

C’

La ricetta

LICIA GRANELLO

Repubblica Nazionale 2014-07-06

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la RepubblicaDOMENICA 6 LUGLIO 2014 37

UNA VOLTA LA PIZZA era il

pronto soccorso dello

stomaco. Colazione, pranzo

e cena in dose unica per

saziare la fame atavica del

popolo napoletano. Adesso Oliviero

Toscani l’ha proclamata migliore

oggetto di design del pianeta, insieme ai

jeans. Con la differenza che dei jeans si

può fare a meno. Perfetta nel sapore,

nella forma e nell’immagine, l’icona

mondiale dell’Italian food riassume un

intero capitolo della fisiologia del gusto

in pochi centimetri di pasta lievitata.

Popolare e ricercata, locale e globale.

Così globale che una studentessa

americana della Columbia University un

giorno mi ha chiesto se esista una parola

italiana per dire pizza. L’ingenuità è solo

apparente, dal momento che il totem

alimentare partenopeo è anche lo street

food più diffuso sulla faccia della Terra.

Quello che ha colonizzato l’immaginario

gastronomico del nostro tempo facendo

del mondo una sconfinata pizza

connection. Certo più la marinara e la

margherita si allontanano dal Vesuvio

più diventano delle approssimazioni.

Delle opinioni da forno. Ciascuno ha la

sua. A Ulan Bator, in Mongolia, la fanno

con il montone, che per digerirla ci vuole

lo sciamano. Mentre a Mumbay pollo,

mandorle e curry piovono sulla

“bollywood”. E adesso l’ex cibo povero si

trasforma in piatto esclusivo. Luxury

pizza. Si chiama così quella che

l’albanese Nino Selimaj serve nel suo

locale di New York. Tre varietà di caviale

— beluga, sevruga e osetra — aragosta

selvaggia q.b. e per finire erba cipollina e

panna. Mangiarla è come entrare a

Disneyland, con le uova di pesce che

schizzano e frizzano in bocca, ha detto Bo

Dietl, uno dei Goodfellas di Scorsese.

Prezzo, 1.200 dollari per quella intera e

95 per un trancio. E poi ci sono le versioni

educational. Come la “quattro frazioni”,

pensata dall’Amministrazione comunale

di Napoli. Con ingredienti in

quadricromia, per rendere appetibile la

differenziata. Bianco come la carta,

verde come il vetro, giallo come gli

imballaggi e marrone come l’organico.

Eppure nonostante venga spesso

nominata invano, la pizza sempre pizza

rimane. Perché è un hardware

gastronomico compatibile con qualsiasi

software. Supporta gli ingredienti più

fantasiosi. Dal coccodrillo, come a

Sidney, alle cicale funghi e peperoni,

come in Missouri. Fino alla mizza-pizza,

con base di riso, che va alla grande a

Taiwan e in Corea. Ma fortunatamente si

può fare una pizza gourmet anche senza

scadere nell’horror culinario. Bastano

associazioni sapienti e ingredienti

eccellenti. Tonno fresco e cipolla di

Tropea. Ceci, scarole e pancetta di

maialino casertano. Melanzane e ricotta

di pecora. Ed è proprio questa infinita

capacità di adattamento la ragione della

fortuna glocale della pizza. Una

vocazione fusion che la fa essere di casa a

Tallinn come a Nashville, a Dubai come a

Shanghai. Facendo circolare un po’ di

Napoli nelle vene del mondo.

L’hardwarebuonoper ognisoftware

8tipi con...

Conciato romanoArtigiano della pizza, Patrick Ricci prepara variantidagli ingredienti rigorosi,come quella con friarielli,olive taggiaschee conciato romano Dop

POMODORO E BASILICO

VIA MARTIRI DELLA LIBERTÀ 103SAN MAURO TORINESE (TO)TEL. 011-8973883

PistacchioRecupera la tradizione delle farine miste Bruno de Rosa, che impasta avena e mais giocando con inusualiingredienti, come nella pizzapinoli, pistacchi e frutti rossi

MONTEGRIGNA BY TRIC TRAC

VIA GRIGNA 12LEGNANO (MI)TEL. 0331-546173

Tonno frescoOlio extravergine e impasti fermentati “come il panettone”, nelle pizze di Riccardo Antoniolo Squisita quella con cipolla di Tropea e tonno fresco

OTTOCENTO SIMPLY FOOD

CONTRÀ S. GIORGIO 2BASSANO DEL GRAPPA (VI)TEL. 0424-503510

Mora romagnolaStagionale, etica, buona da mangiare e da digerire, la slow-pizza associata al celebre marchio bio, conmora romagnola, asparagi,pancetta e pecorino sardo

ALCE NERO & BERBERÈ

VIA PETRONI 9/CBOLOGNA

TEL. 051-2759196

Ricotta di pecoraFarine alternative per celiacinei locali con degustazione“a metro” di AlessandroCoppari (l’altro a Senigallia)Terragna e squisita la pizzaricotta ovina e melanzane

MEZZOMETRO

VIA GIACOMO LEOPARDI 1JESI (AN)TEL. 0731-213290

CulatelloNella sua “pizzeria a degustazione”, EdoardoPapa ha scelto di lavorarecon farine bio e ingredientida ristorante stellato comeculatello e robiola di capra

LA FUCINA

VIA LUNATI 25/31ROMA

TEL. 06-5593368

Lardo di maialinoNel laboratorio-locanda ricavato in un palazzo del Settecento, Franco Pepeseleziona materie prime locali come ceci del caiatino,scarola e maialino casertano

PEPE IN GRANI

VICO S. GIOVANNI BATTISTA 3CAIAZZO (CE)TEL. 0823 862718

Crema di carciofiVitaliano Fronterrè integra la farina doppio zero con farina di soia e rigeneral’impasto per tre giorni Fragrante la pizza con cremadi carciofi di Menfi

DA VITALIANO E ROSANNA

VIALE ALDO MORO 13ROSOLINI (SR)TEL. 0931-859994

In trancioGamberetti, wurstel,cipolla, funghi, salame, patatine fritte,mais: a ciascuno il suo trancio di pizza

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MARINO NIOLA

Repubblica Nazionale 2014-07-06

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la RepubblicaDOMENICA 6 LUGLIO 2014 38LA DOMENICA

Il secolo dell’immagine lo ha attraversato come un prisma e lo ha

scomposto in tutti i suoi mestieri: fotografo, ma poi anche grafico,

editor, archivista. Ora, dopo cinquant’anni dedicati “a un medium

che da noi non è mai interessato a nessuno”, raccoglie le sue memo-

rie e ammette la quasi sconfitta: “Non sono così certo di averci visto

giusto. Gli intellettuali italiani ci hanno sempre considerati i parenti

poveri. Quanto all’oggi la nostra

missione, far conoscere il visibi-

le, sembra esaurita per ridon-

danza. Se non perdo del tutto la

speranza è solo perché una buo-

na reflex costa poco più di uno

smartphone”

ColomboMILANO

«SONOSICUROdi aver visto giusto? E soprattutto: che cosa ho vi-sto?». Un “libretto rosso” non dovrebbe concludersi così,con un dubbio esistenziale. Ma Cesare Colombo è stato, peroltre mezzo secolo di cultura visuale italiana, un rivoluzio-nario senza dogmi e senza diktat, e non si pentirà adesso, a

un anno dagli ottanta tondi.Almeno alla seconda domanda, comunque, è facile rispondere per lui: ha vi-

sto tutto quel che c’era da vedere attorno a lui, e non ha soltanto visto, ha fatto,e ha fatto vedere. Fotografo, grafico, critico, storico, giornalista, editor, docen-te, archivista, curatore: il secolo dell’immagine lo ha attraversato come un pri-sma, lo ha scomposto in tutti i suoi mestieri. Chiunque si è occupato di fotogra-fia, negli ultimi decenni, ha incrociato le molte strade di Cesare Colombo, pivotschivo, non esibizionista, di una generazione di “vedenti”.

Il riassunto di tutto sta adesso in un libro dalla copertina rossa, La camera deltempo, edito da Contrasto e scritto assieme a Simona Guerra, qualcosa traun’autobiografia intellettuale, un album, un’antologia. Ma prima ancora sta su-gli scaffali di questo studiolo bianco soppalcato, in moderato produttivo disor-dine, che dà su un cortile “di ringhiera”, che dà su una sponda del Naviglio Gran-de, un distillato di Milano, la città delle immagini, «la città che butta via le im-magini... Guardi cos’hanno fatto di questo tratto di Naviglio...». Zatteroni dacocktail con erba finta, megaschermi per i Mondiali, lame di pubblicità chesquartano la prospettiva più pittoresca della città. «È la logica conclusione di unpercorso... Un paese che non crede nel vedere».

Immagine, nel Novecento, è stata un sinonimo di fotografia, la mamma ditutte le immagini meccaniche. Figlio e nipote di artisti, svezzato fin da pic-colo ai traumi dell’arte per via di quelle modelle nude nello studio di papà,in posa «vicino alla stufetta elettrica, mi immunizzarono da turbamenti psi-cologici vari». Usava la fotocamera di papà, la sua camera oscura, approdòal curioso turbolento mondo dei «sacri weekend estetici», l’accanito clan deifotoamatori delle gite domenicali e dei concorsi con le medaglie di vermeil,

che a Milano aveva, ed ha ancora, una casa nobile, il Cir-colo Fotografico Milanese, dove Cesare ragazzino as-sisteva agli epici scontri fra il formalismo crociano diGiuseppe Cavalli e l’umanesimo impegnato di PietroDonzelli, battaglia fra titani che non lasciava scampo,o di qua o di là, e Cesare andò di là, con gli impegnati, econ la penna in mano, sempre stato bravino a scrivere,incrociò le spade con gli “esteti”, ma adesso un po’ èpentito: «Vedendo come è andata poi la vicenda foto-

grafica italiana, be’, in fondo loro, con tutte le loro geometrie levigate e sfuma-te, rivendicavano quella dignità e autonomia al linguaggio della fotografia, chela cultura di questo paese non ha mai riconosciute».

Assunto per qualche anno all’Agfa, la sfidante tedesca dell’industria foto-grafica italiana, ma sospetto di intelligenza col nemico (scriveva anche per la ri-vista della concorrente Ferrania, bibbia mensile del fotoamatorismo anni Cin-quanta), poi grafico pubblicitario in proprio, specialità fotografia industriale,oggi diremmo immagine corporate. E intanto però fotografo “sociale”, di stra-da, engagé, nella Milano della Vita Agra, dove incrociava i Mulas, i Dondero, iDe Biasi, i Nicolini, i Lucas. «Ho vissuto senza troppi problemi una doppia esi-stenza, durante la settimana costruttore d’immagine dell’impresa, nel tempolibero contestatore visuale col movimento studentesco...». Lo dice con un’om-bra di ironia. «Vedo le cose in prospettiva. Avevamo molta fiducia in lei, ma la fo-tografia è un medium gracile. Riesce splendidamente a creare relazioni di sen-so nello spazio, ma non sa andare oltre la cornice. Guardi: una celebre foto di cal-cio, una magnifica rovesciata. Ma poi, avrà fatto gol? Vedo la tensione dei mu-scoli, l’espressione del viso, nessuno saprebbe descriverli in parole. Ma non socom’è andata a finire. La fotografia ha bisogno delle parole».

Quando arrivò il ‘68, sembrava facile. «C’era un corteo ogni giorno, o quasi.Le immagini andavano sui giornali, quelli della sinistra soprattutto. Ma ci sia-mo chiesti se era proprio quella, la fotografia impegnata. Capimmo abbastanzapresto che una foto di lotta non era buona solo perché era giusto lo slogan dellostriscione che avevi inquadrato. Che bisognava risalire la corrente, andare alleradici dei conflitti, magari avvistare quelli nuovi». In una sua foto del ‘69, la pa-rete trasparente del grattacielo Galfa, presa di sera, col buio ma con gli uffici an-cora attivi e illuminati, un alveare dove ogni impiegato abita da solo la sua cel-letta, è un simbolo potente dell’alienazione post-industriale.

Aveva «visto giusto», quindi? Sorride: «Posso dire di essermi occupato per cin-quant’anni di un medium che in Italia non è mai interessato a nessuno, menoche mai alla nostra classe intellettuale. L’espressione “fotografia italiana” è unacontraddizione in termini. Questo non era un paese destinato alla fotografia.Tutto lo spazio era già occupato dalla massa imponente della nostra tradizioned’arte. Gli intellettuali italiani non hanno mai degnato di uno sguardo questaparente povera, questa sorella disabile dell’arte che si fa a macchina. Il posto perlei è rimasto quello che le assegnò Baudelaire: umile servetta, senza autonomiaespressiva. Quando le imprese mi chiamavano per un lavoro su commissione,mi dicevano “fammi questo, e fammelo così e così”: persone che magari non sa-pevano neppure cos’era un esposimetro. I grandi giornalisti inviati dicevano “ilmio fotografo”, come un esploratore direbbe “il mio sherpa”... In America, pae-se visualmente vergine, il fotografo Walker Evans e lo scrittore James Agee la-vorarono alla pari un libro celebre, da noi invece Vittorini strapazzò Luigi Cro-cenzi per Conversazione in Sicilia».

Il cinema ce l’ha fatta, però, a bucare quel muro supponente e dorato. «Fino aun certo punto. Il neorealismo è stato una versione del melodramma. La foto-grafia invece non aveva madri nobili a cui rifarsi». Ma Il Mondodi Pannunzio, leici ha collaborato, valorizzò la fotografia... «Purché genuflessa alla parola. Nonerano foto, erano elzeviri visuali scelti e ”orientati” dallo scrittore. Il Mondoera

pieno di foto, ma nella sua storia ha dedicato due soli articoli alla fotografia, tut-ti e due per la mostra romana di Cartier-Bresson».

Eppure, o forse per questo, per una missione di salvataggio, per uno spirito dirivincita, Colombo aggiunse un giorno alle sue mostre celebri, come L’occhio diMilano, ai suoi reportage, alle collaborazioni con le riviste d’architettura, in-somma ai suoi mestieri, anche quello dell’archivista. Salvatore di foto altrui, al-trimenti destinate all’oblio o alla pattumiera. Studioso di fondi considerati po-

co più che scatoloni di cartacce. Gli archivi delle grandi aziende,quelli delle istituzioni, quelli degli studi fotografici dell’Otto-

cento, dei fotografi freelance del Novecento, fino a quelli delMozambico post-rivoluzionario che lo chiamò a Maputo a ri-mettere in ordine la memoria visiva orgogliosa di un paeseintero.

Troppo tardi ormai per salvare la “sorella disabile”? La fo-tografia oggi è ovunque, quindi non è più nulla in sé. Dis-solta nell’ambiente, inavvertita come il respiro. “Siamo tut-

ti fotografi”, ha certificato perfino Paris Match. Con qualcheanno di ritardo, si chiude il Novecento della fotografia? «Ap-

parentemente nulla scuote più l’osservatore. La missione fo-tografica originaria, far conoscere il visibile, sembra esaurita

per ridondanza. In effetti, il fotografo del futuro prossimo po-trebbe essere un super-editor che deve solo rimescolare

il già visto». Ma lei non crede che finirà così, dico bene?«Ho una fiducia, diciamo, statistica. Milioni di per-

sone incontrano la fotografia. Nel mare della fo-tografia preterintenzionale, gestuale, della fo-tografia che vale come un “ciao come stai?”,sarà comunque più facile che a qualcuno ven-ga voglia di andare oltre. Una buona reflex co-sta poco più di uno smartphone...». La foto-grafia è morta? «Non lo dirò mai. Certo, nonsta molto bene. Ma io sono in attesa».

MICHELE SMARGIASSI

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QUANDO LE IMPRESE MI CHIAMAVANO PER UN LAVORO MI DICEVANO “FAMMI QUESTO E FAMMELO COSÌ E COSÌ”MENTRE I GRANDI INVIATI MI PRESENTAVANOCOME “IL MIO FOTOGRAFO”, PROPRIO COMEUN ESPLORATORE DIREBBE DEL “SUO” SHERPA

UNA FOTO DI CALCIO, UNA MAGNIFICAROVESCIATA. MA POI, AVRÀ FATTO GOL?VEDO LA TENSIONE DEI MUSCOLI,A PAROLE NON POTREI DESCRIVERLA.MA NON SO COME È ANDATA A FINIRE

HO CAPITO PRESTOCHE UNO SCATTO

DI LOTTA NON ERA BUONO

SOLO PERCHÉERA GIUSTOLO SLOGAN

DELLO STRISCIONECHE AVEVI

INQUADRATO.BISOGNAVA

ANDAREALLE RADICI

DEI CONFLITTI.MAGARI

AVVISTARNEDI NUOVI

L’incontro. Impegnati

Cesare

Repubblica Nazionale 2014-07-06