L’idea di “nemico” dalla Rivoluzione francese al ... · d’insurrezione per bande applicata...

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Marinai d’Italia 11 territorio francese andava eliminato (almeno nella visione più radicale, sulla scorta di Sieyes) perché contrario ai valori rivo- luzionari e portatore di una concezione della vita e della so- cietà che doveva essere completamente sradicata, mentre nel- le relazioni internazionali andava combattuto con un tipico con- flitto tra Stati, che però assumeva i contorni, decisamente nuo- vi, della guerra per la liberazione degli altri popoli sottomessi agli antichi regimi. La fiducia nel futuro e la speranza in un mon- do migliore si mescolavano così all’odio che stimolava e ali- mentava la guerra. Fu però ancor più con la resistenza spagnola nel periodo del- l’occupazione napoleonica che il concetto di nemico assunse contorni inusitati, caricandosi di nuove valenze. Le truppe rego- lari inviate dalla Francia e dai paesi satelliti per riportare l’ordi- ne, infatti, si trovarono a vivere un’esperienza del tutto nuova, poiché di fronte a loro non c’era un nemico militarmente ordina- to da combattere, ma neppure una semplice rivolta da sedare: c’era pressoché un intero popolo in armi, che combatteva con metodi ai quali i reparti regolari non erano preparati. Non poten- do affrontare apertamente i reggimenti francesi, gli spagnoli si raggrupparono in bande dotate di grande mobilità, capaci di tendere agguati e poi scomparire nel nulla fra le montagne, di insorgere all’improvviso e subito dopo volatilizzarsi abbando- nando persino il proprio villaggio natio. Con tale metodo gli spa- gnoli misero in seria difficoltà le comunicazioni e i rifornimenti dell’invasore, prendendo alla sprovvista i comandanti francesi abituati alla manovra di unità regolari. Era la guerriglia partigia- na, che si alimentava dell’odio verso gli occupanti con la stessa intensità con cui creava, nell’immaginario della controparte, un nemico altrettanto aborrito: il nemico-bandito, caratterizzato so- stanzialmente da quella viltà che gli impediva di affrontare le truppe occupanti a viso aperto indossando una divisa, ma allo stesso tempo temibile per il suo modo di combattere. Perciò il partigiano assunse i caratteri di un nemico spregevo- le, privo di onore militare, che per il solo fatto di esistere viola- va le convenzioni basilari della guerra: egli era quindi illegitti- mo e di conseguenza non meritevole del trattamento riservato normalmente ai prigionieri di guerra. In questo tipo di conflitto, difatti, non si facevano prigionieri: chi era catturato veniva passato per le armi, e ciò, aggiunto alla consapevolezza di non riuscire a controllare il territorio, aumentava in maniera espo- nenziale il livello di violenza e di tensione permanente. La rea- zione delle truppe d’occupazione era feroce e radicale: si cat- turavano ostaggi, si incendiavano villaggi per rappresaglia o anche nel disperato tentativo di fare “terra bruciata” intorno a un nemico che davvero sembrava invisibile e imprendibile. Co- sì tutto diveniva lecito, da una parte e dall’altra, e nel rapporto di contrapposizione/interazione i due contendenti ridefinivano i propri contorni: il soldato regolare perdeva la propria “rego- la” e agli occhi della popolazione, per la quale era invasore non tanto di un territorio quanto piuttosto di una Nazione inte- ra, si caricava dei tratti del nemico criminale; il partigiano, al contrario, prendeva nell’ottica dei regolari i connotati inquie- tanti del volgare brigante. Negli anni immediatamente successivi, nel pensiero politico italiano – mercé anche l’esperienza maturata sul campo con la massiccia partecipazione di tre divisioni italiane alla campa- gna spagnola – la guerra partigiana fu ripensata attentamente in funzione della lotta per l’indipendenza nazionale. Gli scritti di Antonio Lissoni (Gl’Italiani in Catalogna, del 1814, ed Episodi della guerra combattuta dagli italiani in Ispagna, del 1843), già ufficiale di Cavalleria in Spagna, portarono gli intellettuali ita- liani a conoscenza di quel modo di combattere che egli defini- va «alla minuta» e che, nonostante le accuse dell’autore di es- sere sintomo di vigliaccheria, pure tanti problemi aveva cau- sato all’esercito occupante. Nonostante in Spagna non fosse stata affatto decisiva, ma avesse svolto piuttosto il compito di agevolare l’azione di guerra compiuta dai regolari inglesi e spagnoli, la guerriglia cominciava ad apparire tuttavia come la strada più appropriata per la mobilitazione del popolo in armi. A suggestionare erano i suoi presupposti, basati sulla rapidità di attacchi inopinati e celeri fughe, piccoli scontri, assalti alla logistica del nemico ed eliminazione dei collaborazionisti. Questi erano i punti di forza riconosciuti anche da Carlo Bian- co di Saint Jorioz, autore del saggio Della guerra nazionale d’insurrezione per bande applicata all’Italia (1830), il quale rite- neva che la guerriglia per bande fosse particolarmente idonea a logorare l’avversario negli uomini e nei materiali, erodendo a L e connotazioni che assume di volta in volta il concetto di “nemico” nell’età contemporanea possono essere ricon- dotte alla ridefinizione di tale nozione avvenuta con la Ri- voluzione francese, che anche in questo senso ci conferma il valore periodizzante, ancora accettato quand’anche un po’ obsoleto, di evento-simbolo dell’avvio dell’età contemporanea occidentale. La guerra intrapresa dalla Francia rivoluzionaria contro l’Austria fu anche il risultato di significative trasformazioni dell’immagine del nemico, il quale assunse due aspetti che imposero linee di condotta innovative. Agli occhi dei dirigenti della rivoluzione c’era innanzitutto un ne- mico interno, rappresentato dalla controrivoluzione che aveva il suo punto d’appoggio nell’aristocrazia più retriva: era un avver- sario tale non in base alla tradizionale contrapposizione statua- le ma per i privilegi di nascita e per la conseguente diversità ideologica (i nobili), o per una contrarietà alla rivoluzione fonda- ta anche sul conservatorismo cattolico (la Vandea), e in quanto ostile alla rivoluzione veniva considerato estraneo alla nazione e pericoloso per la sua stessa sopravvivenza. C’era poi un nemico statuale – ovvero l’Austria – soltanto appa- rentemente convenzionale, ma in realtà individuato in uno Sta- to sovrano che accoglieva gli aristocratici fuggiaschi propo- nendosi di aiutarli a ribaltare il nuovo ordine rivoluzionario. In entrambi i casi siamo di fronte a un nemico ideologico, che sul 10 Marinai d’Italia Problemi attuali L’idea di “nemico” dalla Rivoluzione francese al Risorgimento italiano Alessandro FERIOLI Dirigente scolastico La scorsa estate non è passato inosservato ai media il caso della soldatessa israeliana Eden Abergil , dimessa dall’esercito dopo aver pubblicato in Facebook fotografie di prigionieri tenuti in grave stato di umiliazione, bendati e ammanettati. A tutti ha ricordato le squallide imprese, risalenti a sei anni or sono, della soldatessa statunitense Lynndie England, protagonista di ben poco epiche foto scattate nel carcere iracheno di Abu Ghraib. Premesso che nessuno di noi vorrebbe elementi siffatti come colleghi, penso che non sia inutile una riflessione sull’idea di “nemico” nella nostra storia contemporanea. Una riflessione del genere – appena in forma di appunto e senza alcuna pretesa di completezza – deve cominciare a mio giudizio dalla Rivoluzione francese Litografie di Francisco Goya

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Marinai d’Italia 11

territorio francese andava eliminato (almeno nella visione piùradicale, sulla scorta di Sieyes) perché contrario ai valori rivo-luzionari e portatore di una concezione della vita e della so-cietà che doveva essere completamente sradicata, mentre nel-le relazioni internazionali andava combattuto con un tipico con-flitto tra Stati, che però assumeva i contorni, decisamente nuo-vi, della guerra per la liberazione degli altri popoli sottomessiagli antichi regimi. La fiducia nel futuro e la speranza in un mon-do migliore si mescolavano così all’odio che stimolava e ali-mentava la guerra.Fu però ancor più con la resistenza spagnola nel periodo del-l’occupazione napoleonica che il concetto di nemico assunsecontorni inusitati, caricandosi di nuove valenze. Le truppe rego-lari inviate dalla Francia e dai paesi satelliti per riportare l’ordi-ne, infatti, si trovarono a vivere un’esperienza del tutto nuova,poiché di fronte a loro non c’era un nemico militarmente ordina-to da combattere, ma neppure una semplice rivolta da sedare:c’era pressoché un intero popolo in armi, che combatteva conmetodi ai quali i reparti regolari non erano preparati. Non poten-do affrontare apertamente i reggimenti francesi, gli spagnoli siraggrupparono in bande dotate di grande mobilità, capaci ditendere agguati e poi scomparire nel nulla fra le montagne, diinsorgere all’improvviso e subito dopo volatilizzarsi abbando-nando persino il proprio villaggio natio. Con tale metodo gli spa-gnoli misero in seria difficoltà le comunicazioni e i rifornimentidell’invasore, prendendo alla sprovvista i comandanti francesiabituati alla manovra di unità regolari. Era la guerriglia partigia-na, che si alimentava dell’odio verso gli occupanti con la stessaintensità con cui creava, nell’immaginario della controparte, unnemico altrettanto aborrito: il nemico-bandito, caratterizzato so-stanzialmente da quella viltà che gli impediva di affrontare letruppe occupanti a viso aperto indossando una divisa, ma allostesso tempo temibile per il suo modo di combattere.Perciò il partigiano assunse i caratteri di un nemico spregevo-le, privo di onore militare, che per il solo fatto di esistere viola-va le convenzioni basilari della guerra: egli era quindi illegitti-mo e di conseguenza non meritevole del trattamento riservatonormalmente ai prigionieri di guerra. In questo tipo di conflitto,difatti, non si facevano prigionieri: chi era catturato veniva

passato per le armi, e ciò, aggiunto alla consapevolezza di nonriuscire a controllare il territorio, aumentava in maniera espo-nenziale il livello di violenza e di tensione permanente. La rea-zione delle truppe d’occupazione era feroce e radicale: si cat-turavano ostaggi, si incendiavano villaggi per rappresaglia oanche nel disperato tentativo di fare “terra bruciata” intorno aun nemico che davvero sembrava invisibile e imprendibile. Co-sì tutto diveniva lecito, da una parte e dall’altra, e nel rapportodi contrapposizione/interazione i due contendenti ridefinivanoi propri contorni: il soldato regolare perdeva la propria “rego-la” e agli occhi della popolazione, per la quale era invasorenon tanto di un territorio quanto piuttosto di una Nazione inte-ra, si caricava dei tratti del nemico criminale; il partigiano, alcontrario, prendeva nell’ottica dei regolari i connotati inquie-tanti del volgare brigante.Negli anni immediatamente successivi, nel pensiero politicoitaliano – mercé anche l’esperienza maturata sul campo con lamassiccia partecipazione di tre divisioni italiane alla campa-gna spagnola – la guerra partigiana fu ripensata attentamentein funzione della lotta per l’indipendenza nazionale. Gli scritti diAntonio Lissoni (Gl’Italiani in Catalogna, del 1814, ed Episodidella guerra combattuta dagli italiani in Ispagna, del 1843), giàufficiale di Cavalleria in Spagna, portarono gli intellettuali ita-liani a conoscenza di quel modo di combattere che egli defini-va «alla minuta» e che, nonostante le accuse dell’autore di es-sere sintomo di vigliaccheria, pure tanti problemi aveva cau-sato all’esercito occupante. Nonostante in Spagna non fossestata affatto decisiva, ma avesse svolto piuttosto il compito diagevolare l’azione di guerra compiuta dai regolari inglesi espagnoli, la guerriglia cominciava ad apparire tuttavia come lastrada più appropriata per la mobilitazione del popolo in armi.A suggestionare erano i suoi presupposti, basati sulla rapiditàdi attacchi inopinati e celeri fughe, piccoli scontri, assalti allalogistica del nemico ed eliminazione dei collaborazionisti.Questi erano i punti di forza riconosciuti anche da Carlo Bian-co di Saint Jorioz, autore del saggio Della guerra nazionaled’insurrezione per bande applicata all’Italia (1830), il quale rite-neva che la guerriglia per bande fosse particolarmente idoneaa logorare l’avversario negli uomini e nei materiali, erodendo a

L e connotazioni che assume di volta in volta il concetto di“nemico” nell’età contemporanea possono essere ricon-dotte alla ridefinizione di tale nozione avvenuta con la Ri-

voluzione francese, che anche in questo senso ci conferma ilvalore periodizzante, ancora accettato quand’anche un po’obsoleto, di evento-simbolo dell’avvio dell’età contemporaneaoccidentale. La guerra intrapresa dalla Francia rivoluzionaria contro l’Austriafu anche il risultato di significative trasformazioni dell’immaginedel nemico, il quale assunse due aspetti che imposero linee dicondotta innovative.Agli occhi dei dirigenti della rivoluzione c’era innanzitutto un ne-mico interno, rappresentato dalla controrivoluzione che aveva ilsuo punto d’appoggio nell’aristocrazia più retriva: era un avver-sario tale non in base alla tradizionale contrapposizione statua-le ma per i privilegi di nascita e per la conseguente diversità

ideologica (i nobili), o per una contrarietà alla rivoluzione fonda-ta anche sul conservatorismo cattolico (la Vandea), e in quantoostile alla rivoluzione veniva considerato estraneo alla nazionee pericoloso per la sua stessa sopravvivenza.C’era poi un nemico statuale – ovvero l’Austria – soltanto appa-rentemente convenzionale, ma in realtà individuato in uno Sta-to sovrano che accoglieva gli aristocratici fuggiaschi propo-nendosi di aiutarli a ribaltare il nuovo ordine rivoluzionario. Inentrambi i casi siamo di fronte a un nemico ideologico, che sul

10 Marinai d’Italia

Problemi attuali

L’idea di “nemico”dalla Rivoluzione francese

al Risorgimento italianoAlessandro FERIOLIDirigente scolastico

La scorsa estate non è passato inosservatoai media il caso della soldatessa israelianaEden Abergil, dimessa dall’esercito dopoaver pubblicato in Facebook fotografiedi prigionieri tenuti in grave statodi umiliazione, bendati e ammanettati.A tutti ha ricordato le squallide imprese,risalenti a sei anni or sono, della soldatessastatunitense Lynndie England, protagonistadi ben poco epiche foto scattate nel carcereiracheno di Abu Ghraib.Premesso che nessuno di noi vorrebbeelementi siffatti come colleghi, pensoche non sia inutile una riflessione sull’ideadi “nemico” nella nostra storia contemporanea.Una riflessione del genere – appena in formadi appunto e senza alcuna pretesa dicompletezza – deve cominciare a mio giudiziodalla Rivoluzione francese

Litografie di Francisco Goya

poco a poco le sue capacità di controllo del territorio. La spro-porzione di forze e armamenti rispetto agli Austriaci, insomma,poteva essere compensata da una strategia imperniata su agi-li “colonne”, capaci però di riunirsi in un secondo momento inpiù grandi unità. Ciò esigeva una determinazione robespierria-na a radicalizzare lo scontro con il nemico in una lotta senzaquartiere, con l’accantonamento di ogni pietà residuale versodi esso e verso sé stessi. Fra gli entusiasti della guerra per ban-de c’era anche Giuseppe Mazzini, che ne fece un elemento dispicco del programma della Giovine Italia: la descrizione deicaratteri della lotta partigiana, definita con qualche esagera-zione invincibile e indistruttibile, figura già dettagliatamentenella Istruzione generale per gli affratellati del 1831.Al dibattito che cominciava a prendere corpo si aggiunse l’ap-porto del pensiero marxista, che dava alla lotta anche una di-mensione di classe.Se già Bianco aveva scritto che i contadini coinvolti nella lottadovevano intravedere un interesse materiale nella spartizionedi terre, anche Giuseppe Budini, autore di Alcune idee sull’Ita-lia (1843), insisteva sulla cooptazione dei ceti più umili di città ecampagne, che potevano essere spinti alla lotta associandoagli ideali la promessa di una futura divisione dei beni alienatia reazionari ed ecclesiastici. Tra i primi a dare una precisa me-ta alla lotta vi fu Carlo Pisacane, autore de La guerra combat-tuta in Italia negli anni 1848-’49 (1851) e dei Saggi storici-politi-ci-militari sull’Italia (1855): secondo lui la rivoluzione dovevaavere una natura popolare e basarsi sulle masse, che avrebbe-ro potuto essere mobilitate facendo leva sui loro bisogni, in vi-sta dell’instaurazione di una società senza proprietà privata deimezzi di produzione.

Dopo tanto dire, salta alla mente un’osservazione: se la conflit-tualità doveva avvenire in funzione di una trasformazione socia-le così radicale, al nemico politico si aggiungeva dunque unnuovo avversario, ovvero il nemico di classe, secondo una con-cezione destinata inevitabilmente a riaccendere la conflittualitàall’interno degli Stati.Negli anni del Risorgimento, nei paesi che lottarono per la loro in-dipendenza l’immagine dello straniero invasore fu caratterizzatadai connotati di brutalità e aggressività. Sfruttando le tensioni fra letruppe d’occupazione e la popolazione, i patrioti italiani contribui-scono a costruire un’idea di “austriaco” emotivamente carica persfruttarla come risorsa morale da gettare nella lotta: allo scopo didare continuità all’antagonismo tra Italiani e Austriaci, i riferimenticulturali più ricorrenti furono perciò quelli alle orde barbariche(specialmente degli Unni) e alle guerre dei comuni settentrionalicontro il Barbarossa. Fu nelle insurrezioni del 1848-’49, e special-mente nelle operazioni di repressione delle rivolte cittadine, che imilitari austriaci saccheggiarono a man bassa e incendiarono,accanendosi contro una popolazione civile che per lo più sostenevale bande armate partigiane, non escluse donne e bambini: furonocosì messe in atto vere e proprie azioni terroristiche indegne d’unesercito regolare ma che, in quei frangenti, apparivano come unarisposta possibile davanti a un tipo di guerra inconsueto. Si af-fermò in tal modo una radicale contrapposizione tra i cittadini che,anche per il fatto di operare in accordo con il ministero della Guerradel Regno di Sardegna, rivendicavano lo status di combattenti persé e per l’intera municipalità, e gli austriaci che consideravano invecele rivolte urbane (come quelle delle città lombarde) nientemenoche ribellioni, giudicando gli insorti come combattenti illegittimi eperciò dimenticando le convenzioni militari.

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Nell’immaginario dei patrioti italiani, l’”austriaco” aveva ormaiassunto e riunito assieme i caratteri del nemico convenzionale,ovvero individuabile in una precisa realtà statuale; del nemicopolitico, in quanto ostile ai valori ideologici posti in gioco dal po-polo-nazione; e infine del nemico criminale, a causa della suadisponibilità al massacro. Con questo nemico assoluto siamo difronte a un’inedita immagine di avversario, che presentava ladoppiezza di chi associa alla regolarità dell’uniforme e dell’in-quadramento militare una sfrenata smania di rapina e distruzio-ne, che talvolta gli stessi comandanti, dopo averla aizzata conuna speciale licenza, faticavano a contenere. A quell’avversa-rio, chiaramente “esterno” perché straniero, si associava il ne-mico “interno” rappresentato dai collaborazionisti locali, cheesercitando generalmente attività di spionaggio non tardavanoa suscitare lo sdegno della popolazione, perdendo di fatto aisuoi occhi ogni diritto di cittadinanza in quanto traditori. Siamocosì nell’anticamera di una guerra civile moderna, di naturaeminentemente politica (almeno in tutti i molti casi in cui la Chie-sa rifiutò di legittimare una parte specifica, facendo mancare lamotivazione religiosa come ulteriore elemento di divisione).L’elemento più originale della costruzione del “nemico” nel no-stro Risorgimento, però, è forse l’interscambiabilità del terminedi “tedesco”, che veniva comunemente impiegato anche peridentificare gli Austriaci. Logicamente era soprattutto l’unità lin-guistica a confonderli in un’unica popolazione, ma vi fu certa-mente anche l’intenzione di caricare sugli Austriaci il fardello diostilità storica con gli affini Tedeschi, accumulatasi fin dai tem-pi di Tacito e soprattutto nella storia imperiale germanica a cuil’Austria era estranea. Nel corso della seconda metà dell’Otto-cento, dunque, un oramai indistinto “tedesco” – fluttuante tra

Austria e Prussia/Germania – veniva pesantemente criminaliz-zato prima per la sua qualità di carceriere di quell’enorme “pri-gione di popoli” che era divenuto l’impero Austriaco, poi perquell’inarrestabile militarismo prussiano che, se pur sfruttatodagli Italiani per vincere la terza guerra d’indipendenza, si pro-filava indubbiamente come uno dei principali elementi di squili-brio nell’Europa di fine secolo (sia per l’elevato livello tecnologi-co che per le ideologie correnti volte a realizzare il pangerma-nesimo). Così, a dispetto dell’ingresso dell’Italia nella Triplice Al-leanza, a rafforzare l’immagine negativa del “tedesco” contri-buirono tanto le memorie risorgimentali quanto le guerre prus-siane degli anni ’60, amalgamando i tratti odiosi dell’invasorecon la durezza del soldato prussiano (non è un caso che qual-che decennio più tardi la propaganda fascista, con la forza pre-scrittiva delle veline del Min.Cul.Pop., sostituisse tutti i terminigià in uso con quello, meno compromesso ideologicamente, di“germanico”, facendo cadere al tempo stesso ogni riferimentoesplicito al nemico delle guerre d’indipendenza).Le conseguenze del processo dispiegatosi a partire dalla Rivo-luzione francese furono sostanzialmente due. In primo luogo iconflitti, in circostanze eccezionali, subiscono una radicalizza-zione, che creò i presupposti per un di più di violenza e bruta-lità. In secondo luogo, l’idea del “nemico”, spesso alimentataintenzionalmente, contribuì a consolidare le identità dei sog-getti politici in gioco, rafforzando allo stesso tempo la relazionedi polarità che le legava in un rapporto Noi/Loro, Bene/Male.Entrambi gli aspetti delineati furono essenziali per quella mobi-litazione delle masse che avrebbe poi avuto tanta parte nellapolitica e nelle guerre del Novecento.

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Carlo Pisacane e,a destra,

Giuseppe Mazzini

Problemi attuali