la domenica - la Repubblicadownload.repubblica.it/pdf/domenica/2014/07092014.pdf · La scrittrice...
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Spettacoli. Franco Battiato: “Non immaginate quello che vi aspetta” L’incontro. James Franco: “Io, un ribelle disciplinato”
La scrittrice afroamericana racconta in esclusiva per “Repubblica” il suo lungo viaggio attraverso il razzismo
SONO CRESCIUTA in un posto dove tutti quelli che conoscevo, tranne unao due eccezioni, erano neri: mia madre e suo marito, i loro amici, i mieifratelli, i molti altri figli che il marito di mia madre aveva avuto damolte altre donne, i molti altri figli che il mio stesso padre aveva avu-to con altre donne, i miei amici, uno dei due sacerdoti a capo della no-
stra chiesa, i miei insegnanti, i dottori che vedevo quando avevo bisogno di ve-derne uno, le infermiere che assistevano i dottori nei loro studi o in clinica, la don-na obeah (sacerdotessa vudù, ndt) di mia madre, il droghiere, il merciaio, la si-gnora del mercato che vendeva gli ortaggi di mia madre, il macellaio, i due uo-mini che prendevano il pesce che mangiavamo a cena tutte le sere durante lasettimana, l’uomo addetto allo svuotamento notturno che veniva tutti i merco-ledì a mezzanotte per raccogliere il contenuto della tinozza nella nostra latrina,
tutti i poliziotti che vedevo nelle strade, i magistrati e i giudici in tribunale, i cri-minali che gli stavano di fronte, i secondini delle prigioni in cui sarebbero statimandati; tranne una o due eccezioni, nel mondo a me più vicino e che mi ha for-mata erano tutti neri, ossia, principalmente di discendenza africana.
Come questo fosse possibile non era certo un mistero per me, è una realtà co-sì antica: conoscevo molto bene la storia della diciassettesima isola più grandedel mondo (l’Inghilterra), fino all’età di diciassette anni era l’unica cosa che co-noscevo molto bene. Di tutti i delinquenti e avventurieri europei nel mondo do-po il 1492, gli inglesi (per il mio personale e triste obiettivo escluderò nello spe-cifico scozzesi, gallesi e irlandesi) erano quelli che erano riusciti più di chiunquealtro ad assoggettare intere popolazioni e la terra in cui vivevano.
SEGUE NELLE PAGINE SUCCESSIVE CON UN ARTICOLO DI ANTONIO MONDA
JAMAICA KINCAID
la domenicaDI REPUBBLICADOMENICA 7 SETTEMBRE 2014 NUMERO 496
La copertina. Quando il web diventa cattivoStraparlando. Jas Gawronski: “Sono superficiale”La poesia del mondo. “Funeral Blues” di Auden
io lo so cos’è Ferguson, Missouri di Jamaica Kincaid
Cult
la Repubblica
DOMENICA 7 SETTEMBRE 2014 28LA DOMENICA
L’OMICIDIO
IL 9 AGOSTO 2014 A FERGUSON,MISSOURI, SOBBORGO
DI ST. LOUIS, VIENE UCCISOMICHAEL BROWN,UN DICIOTTENNE
AFROAMERICANO. IL RAGAZZO,DISARMATO, MUORE
DOPO ESSERE STATORIPETUTAMENTE COLPITO
DAI PROIETTILI SPARATIDA UN AGENTE
DI POLIZIA BIANCO
La copertina. Jamaica Kincaid
Dickens o in una poesia di Wordsworth, una volta chiuse le pagine del libro, lororimanevano dentro. Non dovevamo mai fare i conti con la loro presenza reale, laloro quotidianità, con i loro problemi di capelli, di figli, di genitori, o anche solodi doversi alzare tutti i giorni; non ci capitava mai di pensare ai loro desideri o diconsiderare come potevano vederci. In realtà lo sapevamo come ci vedevano,ma non dovevamo pensarci ogni giorno, ogni volta che uscivamo. Quello è il mon-do in cui sono cresciuta e ho vissuto fino ai sedici anni. E poi, fra la metà e la finedegli anni Sessanta, sono venuta in America. Martin Luther King stava per es-sere assassinato.
Ho sentito parlare di Martin Luther King per la prima volta quanto avevo cir-ca nove anni e vivevo con la famiglia di mia madre sull’isola di Dominica. Anda-vo a scuola e durante l’ora di lettura, da un numero di un settimanale america-no di attualità, l’insegnante ci leggeva delle brutalità che lui, MLK, aveva subi-to nel Sud degli Stati Uniti alla ricerca del diritto di cittadinanza pieno e parita-rio per i cittadini neri d’America. Sedevamo all’ombra di un tamarindo (un al-bero nativo dell’India, molto amato nei Caraibi di lingua inglese come albero daombra) e noi bambini restavamo ammutoliti di fronte alla descrizione del com-portamento dei bianchi. Quel comportamento si adattava perfettamente alladescrizione di uno stato da cui dicevano di averci salvati: uno stato di barbarie.Non aiutava che questi bianchi vivessero in luoghi dai nomi strani: Mississippie Alabama. I selvaggi vivevano in luoghi con nomi del genere. Molto tempo pri-ma, ci venivamo noi da luoghi con nomi del genere. Ciò che ci aveva trasforma-to in persone che non sarebbero più state selvagge, era stata la presenza dellaBibbia. Su mio suggerimento, la nostra classe di alunni di nove anni decise cheavremmo dovuto spedire Bibbie ai bianchi dell’Alabama e del Mississippi. Ed ec-co una cosa buffa a proposito del luogo in cui per la prima volta avevo sentito par-lare di Martin Luther King: il villaggio si chiamava Massacre, ma era pronun-ciato alla francese: mas-sàc. Era stato chiamato così, “Massacro”, perché uno deiprimi coloni di Antigua, un uomo di nome Philip Warner, aveva dato la caccia al
suo fratellastro indo-caraibico Indian Warner e lo aveva ucciso non molto di-stante dal luogo in cui sedevamo ad ascoltare per la prima volta la storia di Mar-tin Luther King. Indian Warner aveva guidato delle incursioni contro i coloni in-glesi che stavano espropriando la sua tribù dalle loro terre ancestrali, è vero, maciò che aveva fatto particolarmente infuriare Philip, era il fatto che il fratello fos-se un selvaggio.
Gli immigrati neri: un tempo sono stata una di loro. Non lo sono più. Sono unanera americana, ma anche una nera afroamericana. Sono una cittadina ameri-cana. E sono perfino una cittadina nera afroamericana di enorme successo. Mala questione del successo non mi eccita particolarmente. Perché sono nera e so-no afroamericana. Questa esperienza di crescere in un mondo di neri mi ha la-
sciato un segno profondo, talmente profondo che spesso non me ne rendo con-to: penso che chiunque sia nero. Nella mia immaginazione, dove risiedo il più del-le volte e dove abito da sola, guardo fuori dalla finestra e tutti quelli che vedo so-no neri, cioè assomigliano alle persone che vedevo da bambina. Esco e questaimpressione è ancora dentro di me: tutti quelli che vedo sono neri, come le per-sone che conoscevo quando questo mondo mi stava ancora forgiando. Poi acca-de qualcosa, e la persona che credevo fosse nera ma che in realtà non è nera, mifa sapere che non lo è. Non è una cosa esplicita o evidente, ma è come se avesseschioccato le dita per scuotermi dalla mia delusione: non è nera.
Quando arrivai in America per la prima volta, rimasi perplessa del grande en-tusiasmo degli afroamericani nei confronti dell’integrazione. Pensavo fra me:perché volete stare con persone che non vogliono stare con voi? Questa è la lineadi pensiero che trova dimora nel separatismo nero e non sorprende vedere cheè stato inventato quasi esclusivamente da persone (Marcus Garvey: Giamaica;Stokely Carmichael: Trinidad; Malcolm X: sua madre nacque a Grenada) chehanno radici di vario genere in società a maggioranza nere. Poi accadde questofatto: quando avevo circa ventiquattro anni feci domanda di lavoro per una ri-vista di moda per giovani donne, un lavoro per cui ero qualificata come chiun-que. Feci il colloquio e tutto, poi venni scartata. Raccontai del rifiuto a un amico,molto sbrigativamente, e lui, senza battere ciglio, mi disse oh, non lo sai, loronon assumono ragazze nere.
La stranezza della questione razziale in America sarebbe anche divertente seavesse luogo su un altro pianeta o in un teatro, dove poterla vedere allo spetta-colo serale domeniche escluse e ai matinée due volte a settimana, o come unalunga serie tv con sviluppi della trama che includano la negazione del diritto divoto alla gente, l’uccisione di ragazzi neri disarmati per non avere fatto altro cherespirare, trasformando in reato tutto ciò che fanno e indossano, prima che di-venti parte di una pubblicità televisiva. Sarebbe divertente se potesse essere aepisodi, trasmessa a puntate e se si potesse spegnere quando diventa pericolo-sa, noiosa o stupida e la sua inutilità tanto intollerabile e vergognosa da rifiu-tarne la visione. Ma la stranezza della questione razziale in America in realtà èstrana perché non finisce. Trova nuovi modi di animarsi, di riorganizzare i suoicontorni, i suoi contenuti, la sua forma e la sua sostanza.
La profonda irrazionalità di tutto questo non può che fare impazzire, se ci si ri-flette con attenzione, ma qui c’è un altro problema: non hai bisogno di rifletterecon attenzione se sei tu l’autore del razzismo. Il poliziotto che il 9 agosto 2014 haucciso con tanta facilità il bellissimo e giovane Michael Brown a Ferguson, Mis-souri, ora deve essere piuttosto sorpreso della sua infamia mondiale. Senza dub-bio pensa di essere vittima di un principio discriminante, perché uccidere unocome il giovane Brown è una cosa comune e viene fatta di continuo e non provo-ca una grinza nell’ordine generale delle cose.
Mio figlio è nero. È nato nel Vermont e ci vive da quasi tutta la vita. Il Ver-mont è considerato uno degli stati più bianchi degli Stati Uniti, ha pochissimineri. In effetti quando i miei figli erano piccoli, per lunghi periodi di tempo, l’u-nica persona nera che vedevano era la loro eccentrica madre. Non c’è dubbioche questo abbia influenzato il modo in cui vedono i neri (perché in America,anche se tu stesso sei nero, vedi persone nere e vedi persone bianche, nessunoè una persona e basta). Proprio l’altro giorno stava entrando nella città di Brat-tleboro, Vermont. Il limite di velocità è cambiato di colpo da 55 miglia all’ora a35. C’era un’auto davanti a lui e un’auto subito dietro. Tutte e tre stavano su-perando il limite. Un poliziotto di pattuglia nella zona che rilevava la velocitàl’ha fermato per fargli la multa. Il poliziotto gli ha detto che delle tre auto la suaera quella che stava andando più veloce: l’auto davanti andava a 53, quella die-tro a 51, lui andava a 55 miglia all’ora. C’è bisogno di aggiungere che gli altridue conducenti non erano neri?
(Traduzione di Laura Pagliara)Copyright 2014 Jamaica Kincaid
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LA RIVOLTA
SUBITO ESPLOSAPER LE STRADE DI FERGUSON,
LA RIVOLTA PER L’OMICIDIODI MICHAEL BROWN SI ESTENDE
A MOLTE CITTÀ DEGLI USA.SIMBOLO DELLA PROTESTA
DIVENTA LA SCRITTA “HANDS UP! DON’T SHOOT”,
OVVERO “MANI IN ALTO,NON SPARARE”. SI RIFERISCE
AL FATTO CHE IL RAGAZZOUCCISO FOSSE DISARMATO
La miaAmerica nera
<SEGUE DALLA COPERTINA
JAMAICA KINCAID
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Quando io ero piccola,il loro potere nel mondo era già
molto ridimensionato (avevano perso l’India), ma
io non lo sapevo; a ogni modo, a quel tempo, il posto
dove vivevo circondata da tutta quella gente nera
aveva un’importanza marginale per loro. Tutte
queste persone che conoscevo erano discendenti di schiavi africa-
ni, che con il loro lavoro coatto avevano garantito la ricchezza e il be-
nessere dei nativi inglesi. La cosa più bella che posso dire di questi
nativi inglesi è che non vivevano in mezzo a noi. Tenevano una di-
stanza fisica. Se li incontravamo nelle pagine di un romanzo di
la Repubblica
DOMENICA 7 SETTEMBRE 2014 29
ANTONIO MONDA
NEW YORK
CHI LA CONOSCE BENE sa che la
cosa a cui Jamaica Kincaid
tiene di più è la definizione
di autrice di libri sul
giardinaggio: perché ama
le piante e la natura, e ritiene che sia
necessario trovare qualcosa di puro e
gioioso nel mistero doloroso della vita.
Chi ne conosce la scrittura vede uno
scarto tra le storie piene di ingiustizie e lo
spirito appassionato e ironico: i suoi libri
non hanno mai un lieto fine, e lei pensa
che sia un dovere rifuggire ogni tipo di
illusione per poter cercare la serenità
nella quotidianità, che non è mai aurea.
Questa convinzione si è accentuata con
la morte del fratello, al quale dedicò lo
struggente Mio
fratello (Adelphi,
1999), ma è stata
presente sin da
quando fu allevata
in condizioni di
miseria da una
madre single
(Autobiografia di
mia madre,
Adelphi, 1997).
Nata 65 anni fa ad
Antigua, Caraibi,
colonia britannica
fino al 1967, con il
nome di Elaine
Richardson, fu
costretta a lasciare
la scuola per
lavorare a
Scarsdale, periferia
ricca di New York,
dove a sedici anni si
trasferì: le avevano fatto credere che
avrebbe fatto la “ragazza alla pari”, in
realtà fece la donna delle pulizie. Decise
di sfidare la vita rimettendosi a studiare
e, ottenuta una borsa di studio, cominciò
a scrivere sul Village Voice: nacque così il
nome con cui la conosciamo, scelto per
diventare una persona diversa da quella
umiliata dalla vita. I suoi libri, poi,
rivelarono una scrittura cristallina sino
all’asprezza, e la semplicità con cui
continua a scrivere di razzismo,
sessualità e maternità testimonia una
sincerità tormentata. Anche la vita
sentimentale è stata sempre travagliata:
il matrimonio con Allen Shawn, figlio del
direttore del New Yorker, è finito in un
divorzio doloroso sul quale ha scritto
Vedi adesso allora (Adelphi, 2014). Lo
aveva conosciuto facendo la gavetta
proprio in quella autorevole rivista, dove
fu titolare della rubrica Talk of the Town.
Nel giro di poco divenne una firma tra le
più apprezzate e meno conformiste, ma
si dimise quando Tina Brown, diventata
direttrice, affidò la supervisione
editoriale di un numero alla comica
Rosanne Barr. Nelle intenzioni si trattava
di un’idea innovativa e femminista, per
la Kincaid fu una trovata stupida e
volgare. Negli anni ha conquistato
estimatori diversissimi che ne invidiano
la spontaneità mai filtrata
dall’intellettualismo: Susan Sontag, che
la ammirava per il coraggio, parlò di
«verità emotiva». Lei le rispose che tutto
quello che scrive «è vero ma nello stesso
tempo non lo è», perché l’esistenza è
fallace come i nostri sentimenti.
La scrittricesenzalieto fine
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L’INCONTRO
JAMAICA KINCAIDPRESENTERÀ IL SUO ULTIMOROMANZO, “VEDIADESSO ALLORA”(ADELPHI, TRAD. SILVIA PARSECHI) APORDENONELEGGEDOMENICA 21(ORE 17.30, PIAZZASAN MARCO).WWW.PORDENONELEGGE.IT
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la Repubblica
DOMENICA 7 SETTEMBRE 2014 30LA DOMENICA
Non generali, ma anonimi fanti o giovani alpiniIn ogni paese bronzi e marmi celebranola generazione perduta nella Grande GuerraUn museo all’aperto soltanto ora catalogato
L’attualità. Monuments men
CARLO ALBERTO BUCCI
L BAGNOdi sangue era appena cominciato ma già si gettavano le basi per la colata di bronzo chenegli anni stessi della Prima guerra mondiale, e poi nel Ventennio, avrebbe portato nella piaz-za di ognuno degli ottomila comuni d’Italia un monumento ai caduti. Di segno, per la primavolta, laico. E di soggetto d’ispirazione liberamente cattolica, o pagana: come se ogni poverocristo perduto in battaglia incarnasse il Cristo di Pietà, oppure Ettore scempiato da Achille sot-to alle mura di Troia. “Progetto Grande Guerra” è il piano che, a un secolo dall’avvio del con-flitto, il ministero dei Beni culturali ha avviato per schedare e digitalizzare entro l’anno que-sta straordinaria e misconosciuta galleria di scultura a cielo aperto. Mentre la macchina belli-ca sfornava obici, con eguale sforzo imprenditoriale le fucine artistiche elaboravano il lutto na-zionale. Trasformarono candide giovinette dalle movenze liberty in simboli patriottici. For-giarono nel bronzo, e nella retorica, fanti in battaglia vestiti di tutto punto, quasi fossero rea-li, vivi. Uomini e dèi partoriti dalle mani di artisti eccelsi del Ventesimo secolo, come Arturo
Martini. Soprattutto però da organizzate botteghe come i Zanchetta di Pove del Grappa o, a Roma, la Co-rinthia di Torquato Tamagnini, dotata anche di un catalogo a stampa, neanche fosse un’agenzia di pom-pe funebri. Furono i laboriosi, spesso anonimi, lapicidi nostrani a creare soldati morenti, svestite Vitto-rie, procaci allegorie della Patria: idoli che ogni paese fece erigere per risarcire le madri e le mogli addo-lorate, come Marie ai piedi della croce, di una generazione perduta. Un capillare museo en-plein-air deldolore che mai l’Italia aveva allestito prima. E del quale si appropriò presto Mussolini trasformando i mor-ti della Grande Guerra in martiri del fascismo. Prima di aggiungere alla già lunga lista dei caduti i ragaz-zi spediti a morire in Russia o in Grecia. E, spesso, squagliando i corpi bronzei scolpiti per la Prima in, let-teralmente, «carne da cannone» per la Seconda guerra mondiale.
Il lavoro di catalogazione, limitato per ora agli ottomila e più monumenti comunali, è affidato all’Isti-tuto centrale per il catalogo (Iccd) e agli storici dell’arte che lavorano per le soprintendenze. Gli studiosisi trovano di fronte (il lavoro è più o meno a due terzi dell’opera) un’inedita ricchezza iconografica. Perdominare la quale i monumenti sono stati così classificati: “ad ara” (come quella cimiteriale di Santa Ma-ria Capua a Vetere); “a colonna”, dalla cima della quale spicca una Nike alata o l’aquila del Ventennio; op-pure “a colonna spezzata” che, già nel taglio antico del fusto marmoreo, dà il senso tangibile di una mu-tilazione, di una perdita. Il repertorio classico viene rielaborato anche nel monumento “a erma” o “a obe-lisco”. E il tema Rinascimentale della rinascita è alluso dalla tipologia “a fontana” dove, come a Pozzuoli,l’acqua che sgorga dalle lapidi fa sognare una resurrezione per quei ragazzi mandati al macello.
Nella classificazione delle sculture, invece, sono state individuate tre macro categorie: la Patria, la Vit-toria, il Soldato. Eppure è la contaminazione dei tre ceppi a dare vita alle allegorie più ardite. La Patria
ACERNO (SALERNO)
SANARICA (LECCE)
GALLIERA (PADOVA)
ERACLEA (VENEZIA)
CASOLA VALSENIO (RAVENNA)
PONTASSIEVE (FIRENZE)
SANT’ANGELO DI PIOVE DI SACCO (PADOVA)
I
dall’elmo turrito che svetta da sola a Maser, nel Tre-vigiano, diventa umile compagna di strada del fan-te che l’affianca nel monumento ai caduti di Acer-no, Campania. Panneggiate e ispirate a quella diSamotracia sono poi le Nike innalzanti corone d’al-loro, come a Paderno del Grappa. Ma ecco che aMorgano Badoere una sensuale figura alata racco-glie nell’elmetto il sangue che zampilla dal corpo diun fante, seminudo come gli eroi omerici.
Federico Fellini in Amarcord ha raccontatosplendidamente quale fonte di desiderio fosseroper i giovani tra le due guerre le sensuali Vittorieinnalzate nelle piazze del Ventennio. Gli artisti, delresto, potevano appoggiarsi al magistero degli an-tichi maestri per giustificare certe allegorie svesti-te, dalle curve troppo tornite. Nessuna vergogna,quindi, nel mostrare il seno procace di una nudascaturita nel 1926 dallo scalpello di Timo Bortolot-ti per il monumento di Castel Goffredo. Altre volte,la morale cattolica intervenne però a gettare acquasui bollenti spiriti. Troppo vicino alla parrocchiaera infatti il monumento ai caduti di Galliera Ve-neta che, scolpito da Servillo Rizzato, fu inaugura-to il 3 agosto 1924 dal generale Giardino, coman-dante della Quarta armata. Il parroco impose in-fatti che la parte posteriore della scultura fosse na-scosta dietro un «tendone di rispetto» per impedi-re la vista, dalla canonica, delle «parti pudende».Che non erano i glutei di una Patria vittoriosa, male erculee terga di un soldato vestito solo di elmet-to e gladio.
L’intento del ministero Beni culturali è censire i
monumenti dal 1914 al 1944 per far sì che siano fi-nalmente svelati e studiati. I monumenti, certo.Ma anche i caduti, giacché è la prima volta che si de-cide di digitalizzare l’elenco completo dei nomi in-cisi nel marmo per poi trasferirli nell’albo d’oro delMuseo del Risorgimento di Roma. Oltre alla cata-logazione a fini storici, “Progetto Grande Guerra”ha lo scopo di mettere in sicurezza queste opered’arte e d’architettura dalle offese del tempo (laPresidenza del consiglio finanzierà il restauro deicento monumenti che si trovano nelle peggiori con-dizioni) ma anche dalla noncuranza con cui archi-tetti e geometri le hanno occultate o fatte spariredietro disinvolti restyling delle piazze.
Sul piano storico, ha grande valore il senso dellacommittenza pubblica che si mise in moto duran-te e dopo la carneficina mondiale. I corpi dei solda-ti il più delle volte non tornavano a casa, spappola-ti dalle granate o inghiottiti dai ghiacciai alpini. Ec’era quindi la necessità di restituire ai parenti del-le vittime un simulacro su cui piangere, un nomeda sillabare tra le lacrime. «L’elenco dei morti», sot-tolinea Marco Lattanzi, coordinatore del progettoper l’Iccd, «è in ordine alfabetico, non segue il gra-do militare». Per la prima volta nella storia il mo-numento cittadino non celebrava più il condottie-ro trionfante, il Gattamelata o il Colleoni di turno.Sul piedistallo ora saliva l’anonimo fante, il giova-ne alpino, il pastorello sardo della Brigata Sassari,caduti tra i fili spinati delle Alpi senza essere riu-sciti a raggiungere la trincea nemica.
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d’ItaliaLargo
la Repubblica
DOMENICA 7 SETTEMBRE 2014 31
Addioallaretorica
CASTELNUOVO CALCEA (ASTI)
BADOERE (TREVISO)
CASTELFRANCO EMILIA (MODENA)
GIARDINI NAXOS (MESSINA)
CASTEL GOFFREDO (MANTOVA)
CORIGLIANO CALABRO (COSENZA)
CALITRI (AVELLINO)
PAOLO RUMIZ
N PIAZZA a Cisternino, in
Puglia, a mille chilometri dal
Piave e dal Carso, c’è un
soldato di bronzo che corre,
urlando, verso il nemico col
fucile in mano. È un monumento
modesto: il ragazzo in divisa avrà
un metro e sessanta al massimo.
Sembra in miniatura, e invece
rappresenta l’altezza media degli
italiani di allora, specie nel nostro
Meridione. Piccoli eravamo un
secolo fa, ma resistenti, molto più
di oggi. Sotto ci sono i nomi. Con i
Caduti della Prima guerra
mondiale che sono il doppio di
quelli della Seconda, e svelano
quale delle due fu la vera ecatombe.
Ormai lo so. Più mi allontano dal
fronte e dalla linea degli ossari con i
loro teschi accatastati e i marmi di
regime, e più i monumenti ai
Caduti mi commuovono. Con la
distanza, si spogliano della
retorica. Svelano un’Italia che partì
per la guerra dopo appena mezzo
secolo di unità, senza sapere
perché, senza avere un’idea di
Patria né di dove fossero Trento e
Trieste. Gente per cui la guerra era
un paio di scarpe, un vestito e un
fucile per andare a morire, ma che
fece nonostante questo
egregiamente il suo dovere.
Via, via dai percorsi guidati, via
dalle spese inutili per forti da
restaurare, via dagli appalti e
dall’industria del centenario. Via
dalle commemorazioni insincere
con fotografi e uffici stampa. Per
capire l’immensità della guerra
mondiale nella memoria del Paese
devi andare tra i dimenticati, in
Puglia, Sardegna, Sicilia, Abruzzo.
E anche, mi permetto di dire, a
Gorizia, Trieste e in Trentino, dove
solo poche lapidi ricordano le
migliaia di italiani morti sul fronte
orientale con la divisa “sbagliata”.
Quella austro-ungarica. I più
dimenticati di tutti.
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I
la Repubblica
DOMENICA 7 SETTEMBRE 2014 32LA DOMENICA
Registrandoil respirodell’universoEMANUELA AUDISIO
STATO l’esploratore più
multimediale del mondo. Questi
sono i suoi frammenti ventosi.
Saliva, scendeva, cacciava,
nuotava, fotografava, scriveva,
annotava, disegnava, comunicava. Non
esisteva il backstage, ma lui lo pensò per
l’avventura. Si relazionava con tutti: amici,
indigeni, animali, natura, fiumi, ghiacciai. I
suoi selfie erano rudimentali, ma
l’autoscatto (fotografico) funzionava. E
anche senza Instagram le sue immagini
facevano il giro del pianeta. Walter Bonatti
non era un avventuriero, preparava con
molta diligenza e scrupolo ogni sua
spedizione, leggeva e rileggeva i grandi
classici, da Melville a London, controllava
dizionari ed enciclopedie, geologie e
geografie, sapeva che il Pemmican, un
miscuglio di carne di bufala secca, ridotto in
polvere, e di grasso, era mangiabile. Era una
ricetta degli indiani delle Cascate
Sanguinanti, scoperta da Franklin, non
certo sull’iPad. Walter se n’è andato nel
settembre di tre anni fa, ma i suoi diari, fitti
fitti, scritti a mano, su ogni tipo di quaderno
e di foglio, sono rimasti. E fanno tenerezza.
Per l’umiltà del suo occhio, per
l’intraprendenza del suo cuore, perché nel
‘65, nelle sue prime avventure in canoa nel
Grande Nord, Canada e Alaska, lontano
dalle montagne, Bonatti sembra uno
scolaro delle elementari. Segna tutto: come
si chiama il pilota Phil Upton, anzi come si
pronuncia il suo nome, Fil Aptèn, il castoro
che gli passa accanto sullo Yukon River, e
quell’enorme gattone bello e grigio che però
è una lince. Lui punta e spara, ma senza
successo. E poco dopo gli tocca l’orso grizzly.
Se Salgari lasciava vagare la fantasia,
Bonatti s’immerge nella realtà tempestosa
del mondo che scorre. È sempre connesso,
soprattutto con se stesso. Altro che outdoor
da cartolina o le vie dei canti di Chatwin con
le sue Moleskine d’autore. Walter è
selvaggio, molto essenziale: ripesca e
mangia il pesce (di circa tre etti), sfuggito al
becco di un gabbiano, beve l’acqua dello
Yukon e quella torbida del Porcupine, i nomi
sono quelli da fumetto e da vecchi western,
non da navigator: la Collina dello Zoppo,
Finger Rapids. Però Walter ha memorie
italiane, è cresciuto sul Trebbia, e infatti il
suono di un cu-cu gli ricorda quello che
sentiva da suo zio nel piacentino e quando
arriva il nubifragio sul Klondike lui è
terrorizzato dal ricordo del Vajont. Però
l’uomo condannato a morte sul K2 sa
ascoltare il respiro dell’universo, si rende
conto dell’immenso silenzio che lo circonda,
e affonda il remo con dolcezza per non
rompere l’incanto. Diceva Hemingway: non
fare il furbo, racconta. E Walter, che non ha
mai voluto passare al computer, ha
imparato a raccontare. Queste sono le sue
prove da apprendista esploratore e
scrittore, mentre sfugge a un coccodrillo o è
costretto, per non morire, a mangiarsi una
scimmia bollita sul fuoco del bivacco. Certo
non tutti scendono il fiume Marañon,
grande affluente del Rio delle Amazzoni, o
colpiscono con il machete un serpente
Botrox otrox, ma quello che s’impara in
questi diari è che il sapere dell’avventura va
costruito lontano da Indiana Jones,
assumendosi responsabilità e cercando
l’approvazione della natura. Il resto è
semplice: mai perdere la voglia di andare.
WALTER BONATTI
ARTEDÌ, 17 OTTOBRE.Davanti a Asa c’è un tratto in cui il fiume è pau-roso: roccioni enormi. Sono ingoiato dalla fitta vegetazione e noncapisco più niente. Trovo finalmente un capanno abitato da un uo-mo, una donna e due bambini. Parlano solo quechua. Mi offronouna palta (avocado, ndr) e io mi alleggerisco di insetticida, can-dele, scarpe da tennis e altre cose. Qui non esistono cavalli né mu-li né niente. Durante il cammino trovo altre piccole, problemati-che oasi dove mangio canne da zucchero e aranci vermosi. Piove atratti e forte. Il fiume è sempre uguale, innavigabile. La valle in-cassata, selvaggia, senza torrenti laterali. Io sempre sul lato de-stro. Nel 1° pomeriggio sono a Ollas. Grande oasi, poco abitata. Quic’è malaria e mosquitos insopportabili. In un capanno vive una
grossa famiglia, mi offre ciccia da canna da zucchero e stanno torchiando canne. Dicono in cattivospagnolo che il “balsero” ora sta lavorando e fino a domattina non potrà traghettarmi. Qui non mi ca-piscono. Allora disperato vagolo nella giungla per raggiungere da solo la sponda del Marañon. Qui lerive del fiume sono impraticabili, vegetazione e alberi sono lambiti dalla fortissima corrente che mug-
Scriveva, fotografava,annotava, disegnavaEcco i diari di viaggio del grande esploratore
L’inedito. Into the wild
giro e mi accorgo invece di aver già guadagna-to distanza verso il centro del fiume, ma la cor-rente è fortissima, agitata, preoccupante. Con-tinuo a nuotare come un pazzo a bracciate. Lasponda verso cui sono diretto è ancora lontana,la vedo sfilare davanti rapida come un treno.Ora si fa sempre più sottile, sto avvicinandomitragicamente alla foce agitata del corso secon-dario, che si immette selvaggiamente, e ancoranon tocco. Non ho tempo di pensare che sonosommerso da flutti e cavalloni dell’incrocio diacque, duecento e più metri a valle da dove so-no partito. Bevo e nuoto, nuoto e bevo a occhisbarrati. Non ce la faccio più. Mi sento scoppia-re il cuore e avverto male al fegato. Ora nuoto arana. Le acque sono ritornate più calme, il fiu-me secondario è finito, ma io ho perduto metridalla costa. Non tocco più. Ho perduto già tre-cento metri e ne dispongo meno di duecento perabbordare la riva sassosa. Poi si immettono glialtri corsi secondari in un ampio slargo a muli-nelli che dà contro le rocce dove il fiume si unifi-ca e riprende la pazza corsa vorticosa contro lasponda rocciosa che determina un’ampia cur-va. Sono a metà del tratto di duecento metri disponda sassosa quando tocco. Ma non serve, de-vo nuotare ancora. Ora l’acqua mi arriva al ven-tre, ma mi trascina. Nuoto ancora e posso reg-germi in piedi soltanto quando ho l’acqua qua-si al ginocchio. Faccio due metri sulla riva e conancora il sacco in spalla mi lascio cadere al suo-
ge fra i tronchi e i rami. Fa paura e occupa tuttala selvaggia vallata. Poi finisce l’oasi. Qui pensodi attraversare il fiume a nuoto, ma dove? Tut-to è vorticoso, veloce e pieno di curve e di inco-gnite. Sceso al limite della “playa”, al limite del-le rocce sotto le quali c’è un gorgo, mi spoglio.Sacco in spalla e scendo nell’acqua gelida almargine del gorgo. Cammino il più possibile,ma dopo due, tre metri ho l’acqua al petto. Mibutto. Sono quasi subito preso dalla corrente,fortissima da sembrare che mi butti indietro ol-tre che alla deriva. Nuoto a bracciate rapide mami sembra di non guadagnare un solo metro. Mi
Walter
MÈ
BonattiDietro l’avventura
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la Repubblica
DOMENICA 7 SETTEMBRE 2014 33
lo sfinito e gemente dal freddo. Quando mi ri-prendo mi dirigo come un automa verso il cen-tro dell’isola sassosa. L’idea di ripetere duevolte la traversata mi uccide. Cerco di non pen-sare a niente e mi incammino il più possibile amonte dell’isola per traversare il secondo ca-nale.
Il sole sta tramontando. Ho un freddo penoso.Mi ritrovo in acqua preso dalla corrente e nuotoa rana orizzontalmente al fiume. Bevo anchestavolta, e si ripete il dolore fisico in forma piùparalizzante. Non ne posso più, ma nuoto, nuo-to. Mi accorgo quasi improvvisamente di averesvantaggio di terreno rispetto a prima. Ecco, fi-nalmente tocco con la punta di un piede, alloraaccelero la nuotata fino a scoppiare. Manche-ranno ancora solo trenta metri alla fine dellaplaya quando, convinto di potermi rizzare inpiedi con l’acqua alle cosce, tocco invece appe-na coi due piedi. Allora sopravviene la dispera-zione. Devo aver dato un colpo tremendo col pie-de sinistro nell’estremo tentativo di spingermia riva. Ho una fitta acutissima alle dita del pie-de. Ora non tocco più, sono trasportato al largo,nel grande mulinello che dà sulle rocce dove ilfiume si unifica vorticoso. Istintivamente mi gi-ro e accenno qualche bracciata verso la spondada cui sono partito. Mi accorgo che braccia egambe non rispondono più ai comandi e il saccocol suo peso mi tira sotto. Ho gli occhi sbarrativolti verso il cielo. Respiro e bevo, tossisco e be-
LE IMMAGINI
NELLA FOTO CENTRALE BONATTI(1930-2011) SCRIVE I SUOI APPUNTISULLE SPONDE DELLO YUKON, IN CANADA (1967). QUI, IN CANOASULLO YUKON E UNA PAGINA DEL TACCUINO DEL VIAGGIO IN KENYA (1966). IN BASSO,L’ESPLORATORE IN PERÙ (1967)
E LE NOTE RELATIVE ALLO STESSO VIAGGIO CUI È RIFERITO IL BRANOCHE PUBBLICHIAMO
vo. Sto annegando. Mi accorgo di girare una-due volte su me stesso tirato verso il basso.Poi mi sento come mollato, il mulinello mi habuttato al largo in mezzo al fiume che sta perurtare ribollente contro le rocce. Urto controle rocce e bevo e rotolo col fiume contro altrerocce e io sono sempre inerte, schiacciato dalsacco e i miei occhi non vedono che flutti chemi investono. Non voglio morire. Mi accorgodi non voler morire. Mi dibatto, voglio scio-gliermi dallo zaino, perderò tutto ma non lavita. Sono riuscito a mollare uno spallino. Stoper mollare anche l’altro, quando mi accor-go che così mi sento alleggerito, riemerso,posso nuotare pur col sacco appeso sull’altraspalla (la destra). Allora nuoto, verso le roc-ce dove la corrente continua a rotolare. Poi,è un attimo. Un albero col tronco lambito daiflutti si protende dalle rocce nel fiume. Houno scatto e mi ritrovo aggrappato al suotronco. Sono salvo.
Torcia alla mano cammino suun sentiero incerto verso l’altodella montagna selvaggia, di-sabitata, con un pentolino diacqua in mano. Qui è tuttobrullo. Verso le 21 mi fermo sot-to un roccione. Non mangio qua-si niente. Non dormirò per pauradei serpenti.
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STO ANNEGANDO, URTOCONTRO LE ROCCE,I MIEI OCCHI NON VEDONOALTRO CHE FLUTTICHE MI INVESTONONON VOGLIO MORIRE.MI ACCORGOCHE NON VOGLIO MORIRE
POI, È UN ATTIMO:UN ALBERO COL TRONCOLAMBITO DAI FLUTTISI PROTENDE DALLE ROCCENEL FIUME. HO UNO SCATTOE MI RITROVO AGGRAPPATOAL SUO TRONCO.SONO SALVO
IL LIBRO
IL TESTO E LE IMMAGINI DI QUESTE PAGINE SONO TRATTI DA “IN VIAGGIO - CRONACHE E TACCUINI INEDITI” DI WALTER BONATTI, A CURA DI ROSSANA PODESTÀ E ANGELO PONTA, IN LIBRERIA DA MERCOLEDÌ 10 PER RIZZOLI (320 PAGINE, 30 EURO)
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la Repubblica
DOMENICA 7 SETTEMBRE 2014 34LA DOMENICA
LUCA VALTORTA
MARINA DI PIETRASANTA (LUCCA)
ÈUNACATTIVAatmosfera nell’aria. Sulla Versilia si è ap-pena riversata una bomba d’acqua, il cielo è nero. Fafreddo. Il mare quando piove è una delle cose più inu-tili e tristi della terra. Il concerto di questa sera è in for-se. È uno dei quattro show che solo pochi fortunati po-tranno vedere. O sfortunati, se siete tra quelli che nonhanno mai sentito parlare di visionari album quali Fe-tus e Pollution e pensate di vedere un normale live diFranco Battiato. Questa atmosfera negativa lui lasente. Si capisce subito quando in perfetto orario ap-pare nella stanza “exotica” dell’hotel con il lungo im-permeabile che ama indossare anche in concerto
quando l’umidità avanza. Il divano dell’intervista è posto vicino a un bocchettone di aria con-dizionata che emana freddo in un pomeriggio freddo. Ci spostiamo. Ci sediamo su un diva-no a righe nere e grigie verticali davanti al quale è posto un cassettone zebrato e ordiniamoun tè verde. «Oggi è sabato?», mi chiede. «Oggi è domenica». «Devo ricordarmi di compra-re il tè», risponde contrariato. «Che tipo di tè?», chiedo. «Tè bianco. Da un po’ di tempo usotè bianco». Fuori il cielo si sta aprendo, un raggio di sole sottile filtra dalla finestra e illumi-na il tavolo zebrato. Fiat lux. È il segno che l’intervista può iniziare.
Negli anni Settanta, dieci anni prima di
successi epocali come Cuccurucucùo Ban-
diera biancae quasi trenta prima de La cu-
ra, lei era considerato un pazzo visionario:
autore di album sperimentali come Fetus
e Pollution che vengono ancora oggi con-
siderati di assoluta avanguardia, proge-
nitori di tanta musica elettronica, l’unico
genere ancora innovativo vista la ripeti-
tività attuale di rock e pop...
«Erano dischi abbastanza interessanti».Eppure lei nel corso del tempo li ha sem-
pre sminuiti, considerandoli meno validi
della sua produzione pop e classica. Ades-
so invece ha deciso, sorprendendo tutti,
di tornare a quella sperimentazione con
un nuovo disco, Joe Patti’s Experimental
Group. E di fare anche dei concerti.
«Io avverto le persone che vengono a ve-dermi: “Non sapete quello che vi aspetta”,
dico all’inizio. Loro si mettono a ridere».Ma chi è Joe Patti?
«Mio zio, fratello di mia madre,immigrato negli Stati Uniti, in
Florida (Pensacola), all’etàdi ventanni. Diventò ric-
co aprendo un‘im-
presa, che pescava ed esportava pesce».E come mai ha scelto di usare il suo nome
per un ritorno alla musica sperimentale?
«Mi piaceva il suono».C’è un segmento del suo pubblico che con-
sidera la parte elettronica come l’unica
valida di tutta la sua carriera.
«Lo so, lo so. Dicono: “Battiato è stato Bat-tiato solo fino al 1975”. Ho chiesto molto inquesti anni a quelli che mi seguono. Per mel’unica cosa che conta nella vita è la parte esi-stenziale, quella che ti mette alla prova. Nonmi interessano le conferme, essere rassicu-rante per chi ti viene a vedere, dargli quelloche vuole. Se fai questo tradisci il tuo ruolo».
In quegli anni fare sperimentazione cosa
voleva dire?
«Il valore da dare a quei primi dischi è di-verso se lo contestualizziamo ad allora per-ché le cose che proponevo erano completa-mente nuove. La parte più valida del mio la-voro però, secondo me, è quella mistica».
PER MEL’UNICACOSACHE CONTANELLA VITAÈ LA PARTEESISTENZIALE,QUELLACHE TI METTEALLA PROVA:NON MIINTERESSANOLE CONFERME,ESSERERASSICURANTEPER CHI TI VIENEA VEDERE,DARGLIQUELLOCHE VUOLE
IERI E OGGI
“JOE PATTI’SEXPERIMENTAL
GROUP” È IL TITOLODEL NUOVO CD
IN USCITAIL 16 SETTEMBRE.
NELLA FOTOPICCOLA: BATTIATO
OGGI. IN QUELLAGRANDE:
NEGLI ANNI ’70
FOTO
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Non tutti tra i suoi fan sanno che negli anni Settanta l’autoredi memorabili successi pop sfornava album elettronici supersperimentali. E ancora meno immaginano che a quelle sonoritàstia tornando con un nuovo disco. Che qui racconta in esclusiva
Spettacoli. Mondi lontanissimi
Battiato
C’
la Repubblica
DOMENICA 7 SETTEMBRE 2014 35
Non c’era una parte mistica anche nella
sperimentazione?
«Forse sì. Il tipo di ricerca nel terzo disco,Sulle corde di Aries, era una sorta di musicaprimigenia».
Sulle corde di Aries iniziava con un pezzo
di oltre diciotto minuti, Sequenze e fre-
quenze...
«Esattamente. Quello aveva qualcosa dimetafisico».
C’era anche un brano che sarebbe diven-
tato un classico, Aria di rivoluzione...
«Quella però era una canzone».Con elementi politico-visionari.
«È vero: quella che chiameremmo musicasociale. Era influenzata da una causa supe-riore. Il risultato di tanto afflato? Dopo diecianni, tutti in discoteca».
C’è stato un personaggio molto impor-
tante con cui ha lavorato, Gianni Sassi,
grafico e discografico, creatore di riviste
come Alfabeta e La Gola, inventore del-
l’etichetta Cramps di Area, Finardi, John
Cage, inventore del festival Milano Poe-
sia e art-director delle celebri e criticatis-
sime copertine dei suoi primi dischi: il fe-
to che appare su Fetus, il limone schiac-
ciato di Pollution...
«Era sicuramente una persona genialeanche se io non ero d’accordo con lui su tut-to. Per esempio la campagna con cui ha cer-cato di lanciarmi che diceva cose tipo: “Bat-tiato è un buffone... la gente non ne può più”era una cosa notevole. Pollution venne defi-nito come “il gesto finale di un artista in-grato, il crimine lucido di un genio malato”.Inventò il marketing autodistruttivo».
Risultato?
«Fetus e Pollution hanno venduto più diquindicimila copie. Pollution arrivò al deci-mo posto in classifica, una cifra incredibileper dischi del genere anche in quei tempi».
E poi c’è la storia della famosa pubblicità
del divano. Ma Sassi le aveva detto che
avrebbe utilizzato quella foto?
«No. Busnelli, il padrone dell’azienda, glitolse la commissione: arrivarono migliaia dilettere di protesta. Andò così: Sassi mi disseche voleva fare un servizio fotografico nelsuo stile provocatorio al gruppo con cui suo-navo allora, gli Osage Tribe. Avevo degli or-rendi pantaloni con la bandiera americanache mi aveva regalato Claudio Rocchi (gran-de musicista e cantautore, recentementescomparso, ndr), degli occhiali da sole, unpaio di stivali e in faccia e sulle mani avevomesso del cemento che, sotto i riflettori, ini-ziò a creparsi. Mi fece sedere su un divano maio non avevo proprio idea che volesse usarequella foto per fare la campagna pubblicita-ria dei divani Busnelli. Quando la vidi mi ar-rabbiai. Era ovunque. Sopra c’era scritto:“Che c’è da guardare? Non avete mai vistoun divano?”. Non è finita: in quel periodo an-dai a fare la visita militare. Mentre aspetta-vamo c’era uno che sfogliava una rivista. Aun certo punto si ferma alla pagina della pub-blicità del divano e grida schifato: “Ma guar-da un po’ questo trans!”. E io: “Ma no, è soloun trucco pubblicitario”. Non mi riconobbenessuno. Non era facile, per fortuna».
E il militare l’ha poi fatto?
«Fu una storia pazzesca. Dopo la visita mimandarono a Cassino. Mi tagliarono subitoi capelli e mi diedero una divisa troppo largache io non andai a far riaggiustare. La primadomenica di libera uscita, non mi fecerouscire. Non sapevo che fare e mi misi a pas-seggiare. A un certo punto incrocio un gra-duato anziano pieno di stellette sulla giacca.Un secondo dopo che l’ho oltrepassato sento
un urlo. “Ehi tu!”, “Dice a me?”, rispondo. Elui sempre urlando: “Vedi qualcun altroqui?”. Io: “Mi dica”. “Mi dica? Chi sei?”. “Bat-tiato”. “Non me ne frega un cazzo del tuo no-me: mi devi dire a che reparto appartieni!”.“Non lo so”. Se ne andò urlando frasi scon-nesse. Io sparii. Un’altra volta dovevamo an-dare a sparare: per me era come ricevere unacoltellata. Dico: “Non posso camminare”. Mihanno portato in autoambulanza. La nottealle due mentre ero nella branda, sirene: tut-ti si vestono. Mi affacciai: pioveva e fuori fa-cevano, strisciando, il passo del leopardo.“Digli che non sto bene”. Al mattino il capi-tano mi fece chiamare: “Quelli come te io liconosco. Tu sei uno che non vuole fare il mi-litare. Purtroppo non posso rischiare per cuiti mando in ospedale al Celio di Roma ma tutornerai da me e allora ti farò pulire i cessicon la lingua!”. Non mi vide più».
Tornando alla sperimentazione, su Elet-
tronica e musica, il primo libro sul genere
in Italia scritto da Franco Fabbri nel 1984,
Luigi Nono dice: “Strumenti che illudono
per ‘viaggi interplanetari’ musicali, an-
che se comunque introducono sia nella
prassi che nell’ascolto segnali acustici di
altro tipo rispetto alle convenzioni ripeti-
tive del consueto”. Sembra piuttosto cri-
tico sull’uso dei sintetizzatori...
«La musica elettronica era una cosa dav-vero rivoluzionaria. E il Vcs che usavo io al-l’epoca era incredibile».
Il Vcs l’avrebbero usato anche i Pink Floyd
in brani come Meddle. Ma lei l’ha fatto pri-
ma: come è stato possibile?
«Il costruttore me l’ha venduto sei mesiprima che andasse sul mercato così ho potu-to sperimentare: era come se partisse untreno ad alta velocità verso l’infinito».
E la gente come reagiva?
«Benissimo di solito. Ogni tanto c’eranodelle contestazioni: una volta al Palalido diMilano ci fu un festival di gruppi rock a cui an-ch’io partecipavo. Ci saranno state diecimi-la persone, appena salito sul palco ho inizia-to il mio concerto. Diecimila fischi! Allora hoincominciato a mettere gli oscillatori in fre-quenze tra i sei e i settemila hertz: non si ca-piva più se i fischi venivano dalla musica o dalpubblico. La gente era sconcertata da queisuoni ma alcuni si complimentarono».
Uno dei pezzi più famosi di quel periodo
era Propriedad Prohibida, diventata poi
sigla di Tg2 Dossier e che è stata rifatta
per questo disco. Come mai?
«Perché secondo me è un brano travol-gente che non ha perso niente in attualità,anzi paradossalmente l’ha acquistata».
Lei allora era uno dei pochi italiani a esse-
re conosciuto anche all’estero: l’elettro-
nica non aveva confini, il pop sì...
«Questo è vero. Nel 1975 sono stato chia-mato a rappresentare l’Italia alla Roundhou-se di Londra per l’European Rock Festival acui partecipavano i Magma, i TangerineDream, gli Ash Ra Tempel, il meglio dellascena sperimentale di quel periodo insom-ma. Avevo i capelli lunghi, una camicia mili-tare, la barba non rasata e come strumentiun giradischi che usavo in maniera “distrut-tiva” molto tempo prima dei dj hip hop conlo “scratch”, una radio sulle onde corte e unatelevisione come “noise”. Quando ho comin-ciato a suonare all’inizio nessuno dicevaniente perché pensavano che fossi il tecnicodelle apparecchiature. Ma dopo dieci minu-ti alcuni hanno incominciato a gridarmi “Gohome!”, mentre altri dicevano “More!”. An-cora una volta era scoppiato l’inferno!».
LA PUBBLICITÀ
NEL 1971, GIANNI SASSI,GRAFICO E DISCOGRAFICO,ORDISCE UNA CAMPAGNAPUBBLICITARIA DI ROTTURAPER I DIVANI BUSNELLIDECONTESTUALIZZANDO,A INSAPUTA DELLO STESSOBATTIATO, UNA FOTOSCATTATA PER LA SUA BANDDI ALLORA, GLI OSAGE TRIBE
LA COVER
“FETUS” (1972) È L’ALBUMD’ESORDIO. LA COPERTINASCANDALO È DI GIANNI SASSI
IL SINTETIZZATORE
BATTIATO FU IL PRIMO A USAREIL VCS3 A LIVELLO MONDIALEINSIEME AI PINK FLOYD
IL CONCERTO
PER IL CD ELETTRONICO SOLOPOCHI, SELEZIONATISSIMI LIVE.ULTRAPSICHEDELICI
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LUNEDÌ IN RNEWS(ORE 13.45 E 19.45,CANALE 50 DEL DIGITALE E 139 DI SKY) IL VIDEOSERVIZIO SU BATTIATO
cora Bartezzaghi: «Su tablet e smartphone scriviamocome se parlassimo, ma i nostri interlocutori ricevonolingua scritta, che resta. Io disinserisco i controllori au-tomatici in ogni apparecchio che adotto: preferiscosbagliare da solo». Il filosofo del linguaggio Roberto Ca-sati, direttore di ricerca al Cern francese, è meglio di-sposto: «Penso che l’aneddotica degli sbagli certo di-vertenti e a volte imbarazzanti dell’autocorrettore siaassolutamente negligibile di fronte alle migliaia di cor-rezioni di cui beneficiamo. Bisogna ragionare statisti-camente». Che è proprio come ragiona il correttorestesso. Il che spiega l’abissale differenza qualitativa trale correzioni fatte basandosi sui limitati glossari pre-senti sul telefonino o invece quelli enormi sedimenta-ti nel cloud. Alla fine i suggerimenti della macchina so-no desunti dall’intelligenza (o dalla stupidità) colletti-
va. Se, come pare, Volvo viene frequentissima-mente corretto in vulva, vuol dire che è a quello —come Freud aveva già immaginato pre-Google— più che alle auto svedesi, che pensa la Rete.Per non dire delle conseguenze cognitive dilungo periodo. Più l’autocorrettore (o au-to correttore, come certi automatismisuggeriscono) diventerà affidabile,più gli delegheremo la nostra or-tografia. È già successo con lamemoria e con l’orienta-mento. La tecnologia si ri-pete sempre due volte:la prima come aiuti-no, la seconda co-me rimpiazzo.
RICCARDO STAGLIANÒ
N AUTOCORRETTORE ci inguaierà. Se non l’ha già fatto. Non necessariamente com’èsuccesso a Hall County, in Georgia, un paio di anni fa, quando la polizia sigillò perun paio d’ore una scuola dopo che uno studente aveva ricevuto un sms all’appa-renza minaccioso (gunman be at west hall today). Peccato che «l’uomo armato»(gunman) era solo un «sarò» (gunna, in slang) automaticamente riscritto dal te-lefonino del mittente. Basta una consonante spostata e un’aggiunta per far arri-vare le teste di cuoio. Ma l’ordinaria Babele digitale rigurgita di aneddoti menobellicosi. Al punto che, a quasi un quarto di secolo dalla sua invenzione, Apple staper introdurre un correttore che corregge l’autocorrettore e che consentirà dimondare gli errori automatici anche dopo aver pigiato sul tasto “invia”. Un salva-vita in zona Cesarini contro il rovinoso paternalismo dell’algoritmo. Che tuttaviaci aiuta, e sempre più dovrà farlo, in un’èra in cui si va su internet (e si digita) più
da smartphone e tablet che da pc. Odi et amo, quindi. Situazione ingarbugliata.Tutto comincia con un matematico di Harvard di nome Dean Hachamovitch che nei primi anni Novanta è
preso il contesto semantico nel quale il termine si tro-va, e suggerisce quello giusto». Nei motori di ricerca co-me nell’autocorrettore, il meccanismo è lo stesso. Sitratta di una educated guess, indovinare a partire dal-la conoscenza, ma pur sempre di indovinare si tratta.
La fallibilità dello strumento è ormai sancita nellacultura popolare. Ci sono siti, come Damn You Auto-correct, dedicati agli sciocchezzai partoriti dalla pe-danteria spesso fuori luogo delle macchine. StefanoBartezzaghi, esperto di enigmistica, sa bene che cam-biando l’ordine dei fattori testuali il prodotto cambiaparecchio e ha una sua ricca casistica: «I miei lettori misegnalano spesso casi di correzione automatica de-menziale, del genere in medio stat virus, perché il com-puter non conosce virtus». Cita un disastroso caso tro-vato su internet in cui un figlio vuole dire alla madre chesta uscendo dalla clinica in cui lavora (coming out of theclinic) e la madre gli risponde “Io e tuo padre lo abbia-mo sempre sospettato, ma ti amiamo come prima”. Iltelefonino aveva corretto in coming out of the closet(nascondiglio). Facendo scoprire al figlio che i genito-ri pensavano da sempre che fosse gay. Ipercorrettismoinformatico che sfocia nel politicamente scorretto. An-
nella squadra di Microsoft che lavora a Word. Sono an-ni seminali, con la fazione estetizzante (che punta allabellezza dei font, per dire) e quella funzionalista, di cuifa parte il nostro, interessata solo a rendere più effi-ciente il programma. Scrive un programmino che, conuna semplice combinazione di tasti, sostituisce una pa-rola sbagliata con quella giusta memorizzata in unglossario (tra gli errori più frequenti tehinvece di the).Impiega un anno per rimpinguare la lista dei refusi piùfrequenti, comprese le parole per metà scritte acci-dentalmente in maiuscolo. Brevetta l’autocorrettore.Lo usa per qualche scherzo. Una volta manomette il pcdel suo capo per far sì che quando digita “Dean” vengainvece fuori il nome del suo collega “Mike”. Un’altra, in-vitato a parlare a scuola della figlia, fa in modo chequando alcuni dei genitori presenti provano a scrivereil nome della ragazzina questo viene sostituito con “lapiccola principessa” (gli hacker possono avere un sen-so dell’umorismo molto tenero). Ma i limiti involonta-ri dell’autocorrezione si manifestano quando, raccon-ta Wired, un tale Bill Vignola scrive una mail esaspera-ta a Bill Gates. Word corregge il suo nome in “Vaginal”e a lui non fa per niente ridere. Come a Goldman Sachsnon piace affatto essere ribattezzata dal software“Goddamn Sachs”, “fottuta Sachs”, neanche ci avessemesso le mani qualche nerd di Occupy Wall Street.
Con gli anni i correttori sono diventati più intelli-genti, ma gli errori non meno fenomenali. Il loro fun-zionamento si affida a un algoritmo probabilistico chesegue il modello del cosiddetto noisy channel, concet-to chiave della teoria dell’informazione. Per il quale ilmessaggio, all’origine chiaro e distinto, si intorbidiscepassando attraverso un canale rumoroso che aggiun-ge, toglie o cambia di posto varie lettere. Insomma, unaspecie di autolavaggio di dati che invece di pulire spor-ca. «Se scrivi koffee in un motore di ricerca» ha spiega-to l’ingegnere di Google Mark Paskin al New York Ti-mes «puoi intendere la bevanda caffeinata o l’ex se-gretario generale dell’Onu. Ma coffeeè un termine im-mensamente più popolare di Kofi. Anche se, statisti-camente, scrivere caffè con la k è un errore assai raro.L’algoritmo tiene conto di tutte queste variabili, com-
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DOMENICA 7 SETTEMBRE 2014 36LA DOMENICA
Sms zeppi di refusi a volteimbarazzanti. Capita spesso.Tanto che ora, a un quarto di secolo dall’invenzione di un matematico di Harvard,si pensa di introdurre un nuovo correttore. Checorreggerà l’autocorrettoreTrova
l’errore
Next. OpsGliesempi
© RIPRODUZIONERISERVATA
U
la Repubblica
DOMENICA 7 SETTEMBRE 2014 37
Le soluzioniPer “facilitare” l’utilizzo
della tastiera
gli smartphone hanno
un correttore ortografico,
che corregge le parole
errate. Spesso però
le correzioni automatiche
stravolgono la frase.
Di seguito le istruzioni
per disattivare
il correttore sui sistemi
operativi più diffusi
Recarsi nel menu
impostazioniselezionare
generaliscegliere tastieradall’elenco
Toccare la casella
relativa al correttoreortografico, togliendo
la spunta
Andare
in impostazioni,poi cliccare su lingua e inserimento, cliccare
sulla rotellina a fianco
della tastiera.
Sulla pagina che
vi si apre c’è previsionetesto, dovete togliere
la spunta e ciò accade
quando il quadratino
da verde diventa
grigio
Android
Apple IOs
INFO
GR
AFI
CA
AN
NA
LIS
AVA
RLO
TTA
la Repubblica
DOMENICA 7 SETTEMBRE 2014 38LA DOMENICA
LICIA GRANELLO
NA MANCIATA di giorni all’inizio della scuola. Genitori e figli costrettiinsieme in una finestra temporale da vivere in apnea o quasi: lottasenza quartiere alla sveglia ritardata, minuti contati per vestirsi,parvenze di colazione ingollate in qualche modo, prima di catapul-tarsi fuori casa.
Da una parte, gli spasimi dell’organizzazione familiare, giocata sulfilo dei minuti. Dall’altra, nutrizionisti e dietologi sull’orlo di una cri-si di nervi per l’aumento esponenziale di obesità infantile, diabetegiovanile, intolleranze, allergie e un’altra dozzina di disturbi ali-mentari assortiti. Almeno una buona colazione!, implorano.
I biscotti sono un medium perfetto tra gola e comodità, perchéugualmente spendibili come nutrimento stanziale o take-away sen-
za ingombro. Ma per evitare i rischi di poca salubrità, occorre pretendere che siano anche sa-ni, a costo di leggere le etichette con la lente di ingrandimento.
Grande è la confusione sotto il cielo delle produzioni, a cominciare dalle farine, come testi-monia il convegno “Evoluzione del grano e moda del senza glutine:”, promosso dall’Associa-zione Italiana Celiachia, in programma domani al Sana di Bologna. Infatti, se è vero che coltu-re intensive, raffinazioni e additivi sono stati spesso associati all’insorgere di reazioni al gluti-ne, la virtuosa alleanza tra chef e scienziati ha trasformato legumi e cereali consentiti in ricet-te squisite, capaci di far salivare anche i non al-lergici. Via libera, allora, a biscotti fatti con fa-rine di riso e carruba, castagne e tapioca.
Anche lo zucchero bianco raffinato è datempo sotto accusa, come causa di reazioni in-fiammatorie e per il pessimo impatto sulla re-golazione insulinica. Il guaio è che anche il suoalter ego sano — lo zucchero di canna — vascelto attentamente, per evitare di scam-biarlo con uno raffinato, reso ambrato col ca-ramello, denominato “grezzo”. A fare la diffe-renza, l’aggettivo “integrale” e la consisten-za umida, irregolare, accompagnata da unprofumo intenso e dal colore scuro.
Come per il gelato, lo zucchero assolve auna doppia funzione: dolcifica e dà volume.Per questo, il suo sostituto più facile è il frut-tosio (lo zucchero della frutta, altrettanto ca-lorico ma con potere dolcificante maggiore),mentre miele, malto, sciroppi e stevia richie-dono una certa confidenza con le ricette di pa-
sticceria. I nutrizionisti molto apprezzano an-che la frutta secca a partire dai fichi, specie sefarciti con le mandorle, preparazione che uni-sce varietà oleose e non.
Il resto, lo fanno i cosiddetti ingredienti li-quidi, ovvero uova e soprattutto latticini, a lo-ro volta a rischio di intolleranze (lattosio) epatologie (ipercolesterolemia), ma ben so-stituiti da soia, avena e riso, senza dimenti-care il saluberrimo extravergine.
Una volta selezionati gli ingredienti e tro-vata la ricetta giusta da seguire, l’unica in-certezza sarà la forma da dare ai vostri sa-nissimi biscotti. In caso di disastro casalingo— biscotti dimenticati in forno, per esempio— fate fondere del cioccolato con la panna disoia e spalmate delle buone fette biscottate,salvando in pochi attimi colazione e pace fa-miliare.
A lezione di biscotto.Farine, zuccheri e uovai tre capitoli da studiare
Il burroSolo latte crudo di vacca Pezzata Rossa d’Oropa
al pascolo, nel burro dell’alta valle Elvo, Biella,
con tanto di festa dedicata il 25 marzo
e benedizione dei panetti di “buru d’la Madona d’mars”
(burro della Madonna di marzo,festa dell’Annunciazione)
L’apicoltoreRosmarino, corbezzolo,
rododendro, girasole, eucalipto,sono solo alcuni dei mieli,
diversi e buonissimi, prodotti da Andrea Paternoster,
appassionato apicoltore trentino. A Casa Thun (Vigo di Ton, Trento)
è possibile partecipare a degustazioni e seminari
I graniDal recupero dei grani
antichi siciliani, coltivati in regime biologico e macinati
a pietra, i fratelli Drago (Molini Del Ponte,
Castelvetrano, Trapani)ottengono farine straordinarie,
con cui preparare pani, “croste”per cannoli, biscotti sani e golosi
Sapori. In cattedra
RIAPRONOLE SCUOLE
E RICOMINCIANOLE CORSE
DEL MATTINOCOME CONCILIARE
LA VELOCITÀCON LA NECESSITÀ
DI UN SANOBREAKFAST?PER ESEMPIOSCEGLIENDO
CON CURA IL PIÙFACILE TRA I DOLCI
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Frollini di fantasiacon castagne o ceciINGREDIENTI250 G. DI BURRO FRESCO; 90 G. DI ZUCCHERO AL VELO; 1 PIZZICODI SALE; 1 ROSSOD’UOVOBIO; SCORZAGRATTUGIATADI 1 LIMONEFRESCO; 250 G. DI FARINAPERBISCOTTI; 25 G. DI FECOLA DI PATATE
i comincia montando in planetaria il burro a temperaturaambiente con lo zucchero a velo e il sale, per poi unire la scor-za del limone grattugiata e il tuorlo. Dopo aver mescolato perun minuto, si aggiungono le farine setacciate, impastando
dolcemente. La pasta ottenuta va stesa su un foglio di carta da fornoe lasciata riposare in frigo per due ore, poi si estrae e si modellano ibiscotti a piacere. Cottura in forno a 175° per 14 minuti. Al posto del-la classica 00, si possono usare farine di grani antichi, ma anche dicastagne o ceci (sempre da coltivazione biologica) per evitare il glu-tine. Usando metà farina integrale e metà gra-no antico, le altre dosi restano invariate. Seinvece mettiamo solo farina integrale, oc-corre un uovo in più. Lo zucchero al velo ela fecola rendono i biscotti più delicatie friabili. Non ci sono né lieviti, néaromi, né conservanti. Buo-ni e sani per piccolie grandi!
S
U
La ricetta
TORINOIl Fornaio PasticcereVia San Massimo 49Tel. 011-884667
MILANOCapitano Rosso MilanoVia Castel Morrone 35Tel. 338-4051687
8biscottifici
LO CHEF
UN PASSATODA PASTICCERA CON FERRAN ADRIÀ E ALL’ENOTECAPINCHIORRI, LORETTAFANELLA CURA LA CARTA DEI DOLCI DI ALCUNI DEI MIGLIORIRISTORANTI ITALIANI.SUA LA RICETTADEDICATA AI PICCOLI
STUDENTILETTORIDI REPUBBLICA
BurroDa siero, affioramento o centrifuga (il migliore) Quello di arachidi si prepara tostando e frullando con poco oliodi semi di lino, un pizzico di sale e un cucchiaino di miele
la Repubblica
DOMENICA 7 SETTEMBRE 2014 39
GEPPI CUCCIARI
ESSUNO ha mai messo in
discussione l’importanza
del primo amore, della
prima volta, della
primavera, del primo
maggio e soprattutto del “su coraggio”,
ma la prima colazione è spesso materia
di divisione non meno di altre e ben più
controverse vicende come il No Tav, il No
Cav, e il No Woman No Cry, nel senso del
dibattito sulle sigarette simpatiche.
L’appassionante dicotomia – due parole,
due bugie – è di un’attualità così
stringente che dal cosiddetto fogliettone
di prima pagina, quel luogo del giornale
quotidiano in cui albergano le rubriche
di Alberoni e di altri opinionisti che fanno
rima, è addirittura assurta a materia di
vero e proprio dossier all’interno di nobili
inserti.
Me ne occupo volentieri, dispensando
alcuni consigli che rivaluteranno il
termine “fondamentale”. L’orario,
innanzitutto. Al nord, terra madre degli
aperitivi e delle felpe di Matteo Salvini,
quelle che indossa per ricordarsi dove si
trova (ne ha una con scritto “Casa”) la
distinzione tra petit déjeuner, brunch,
breakfast, fastbreak, the window is open,
è particolarmente complessa. Quindi, se
venite convocati per una colazione di
lavoro è bene non vi presentiate prima
delle 13 per non rischiare di apparire dei
provinciali poco evoluti. Al centro e al sud
fate un po’ come credete, basta che
andiate al bar. Non tanto per le cifre (le
ho spulciate: undici miliardi di giro
d’affari, se tanta gente ama le brioche
congelate ai mirtilli un motivo ci sarà)
quanto per appagare quel bisogno di
“Gardaland tutto l’anno” che pervade
chiunque rientri dalle ferie: per appena
due euro potrete agilmente assistere al
delirio di protagonismo del barman, che
invaderà il normale cappuccino con
cuoricini, fiorellini, personaggini dei
fumetti, ritrattini del cliente realizzati in
olio su schiuma. Un piccolo spettacolo di
cordialità drogata che, non so a voi, ma a
me ritempra.
A casa, invece la colazione rappresenta
uno strumento per conoscerci meglio.
Purtroppo, perché reca seco la
conseguenza di trascorrere insieme i
primi momenti successivi al risveglio. E lì
siamo tutti spogli. La discesa dal letto è
caratterizzata da un odio talmente
indistinto verso tutto (sveglia, doccia,
vestito da indossare, clima, timori
assortiti, attacchi di panico) da
rivalutare chi la colazione la fa col
prosecco. Perché è chiaro che qualcuno
lo fa, sennò negli hotel non ci sarebbe la
bottiglia del Brut accanto alla spremuta
di ananas. Personalmente, a volte vorrei
cedere. Non fosse per il rischio di
scivolare nel Negroni sbagliato a mezza
mattina e poi verso una deriva che solo
chi pasteggia a whisky può imboccare
senza paure. Ma di questo avrebbe
potuto parlarci Joan Rivers, che
purtroppo ha appena deciso di lasciarci.
Addio Joan, che il Martini ti sia lieve.
La primacolazioneci uniscePurtroppo
Farina integrale Niente «00» per farine pregiate — farro, kamut, enkir — e comuni (grano tenero,duro, mais, riso...) La macinatura a pietra preserva microelementie indice glicemico basso
YogurtIntero, magro o vegetale, aggiunto nell’impasto ben sostituisce latte,panna e burro(125 grammi per 100 grammi di burro), senza impoverire il sapore. Regala morbidezza e freschezza
Zuccherodi cannaAl posto dello zuccherobianco raffinato(calorie “vuote”), quello di canna grezzo(integrale), ma anchefruttosio, miele,malto (d’orzo, di riso),stevia, sciroppo di agave o d’acero
Frutta seccaFichi e datteri, ricchi di sali minerali e fruttosio naturale,danno il giusto “stress glucidico” per cominciare la giornata Noci e mandorle garantiscono fibre e grassi essenziali
MarmellataInsieme alla frutta preferita (tagliata a pezzi e lasciata macerare con poco limone), zucchero integrale, fruttosio, o semplicemente una mela, prima di cuocere e invasettare
Cremadi noccioleFrutta secca tostata e frullata con zuccherodi canna integrale, poi cioccolato fondente a pezzetti o un buon cacaoCottura a bagnomariacon latte e panna (anche vegetali)
MieleLa densità dipende dalla percentuale di glucosio (che tendea cristallizzare) rispetto al fruttosioSopra i 45° il mieleresta fluido ma viene privato di molte qualità nutrizionali
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4ingredienti
4topping
BIBANO DI GODEGA (TV)Bibanesi Da ReVia Borgo Nobili 9Tel. 0438-782022
CORMÒNS (GO)Chiarosa pane e dolciVia Gorizia 7Tel. 0481-630664
C.MARE DI STABIA (NA)Biscottificio RiccardiViale Europa 105Tel. 081-8715561
CEGLIE MASSAPICA (BR)Biscottificio AllegrinItalyVia Pisanelli 14Tel. 0831-383050
CESENATICO (FC)Nirvana Pasta Fresca e BiscottiVia Negrelli 3/aTel. 0547-82019
PRATOBiscotti MatteiVia Bettino Ricasoli 20Tel. 0574-25756
N
la Repubblica
DOMENICA 7 SETTEMBRE 2014 40LA DOMENICA
Attore da trionfo hollywoodiano e da palcoscenico di Broadway, ar-
tista, performer, scrittore, uomo immagine (di Gucci), uomo selfie
(su Instagram), musicista, produttore, regista, perfino professore.
Il tutto in trentasei anni di vita e quindici di carriera. “Sì è vero sono
un iperattivo, ma non ho mai fatto una cosa male o in fretta. È che da
ragazzo ero un balordo, uno che scassava macchine perché guidavo
ubriaco e finiva in galera perché
rubava profumi da rivendere a
scuola. Da allora la mia prima pa-
rola d’ordine è disciplina. Poi ho
scoperto la seconda: mai farsi
confinare in un ruolo solo ”
JamesFranco
GIUSEPPE VIDETTI
ROMA
ALL’INIZIO il suo viso è un foglio bianco. Ci puoi scrivere quel che vuoi,lo hanno fatto grandi registi come Gus Van Sant, Sam Raimi e DannyBoyle. Poi la maschera dell’assenza, quella che De Niro e Al Pacinonon si tolgono — almeno in pubblico — si anima. Gli occhi si strin-gono, sprigionano vitalità, sorridono indipendentemente dalle lab-
bra; le mani (quelle degli attori, al contrario dei musicisti, sono spesso orrende:le sue, bellissime) descrivono situazioni, il corpo tozzo imprigionato nel chiodosi anima in una miriade di scatti impercettibili, uno per ogni storia. Dunque mi-gliaia in pochi minuti, perché le sue imprese sono troppe per essere raccontated’un fiato. Come attore, un’esagerazione di trionfi hollywoodiani; poi le ripetu-te fughe dal cinema, il ritorno sui banchi di scuola — prima studente poi profes-sore — soap opera, istallazioni in prestigiose gallerie d’arte, produttore, registadi film, documentari e video musicali, un gruppo rock (Daddy) con un disco inuscita, scrittore di una mezza dozzina di romanzi e poesie, presenza costante ecreativa sui social network che è la delizia di milioni di followers saggiamenteammoniti all’ingresso: «Sessisti, razzisti e omofobi: togliete il culo da qui!». Trop-po per un trentaseienne con neanche quindici anni di carriera e un esordio be-naugurante in un biopic su James Dean. Ma non è tutto. Da sette anni JamesFranco è l’uomo immagine di Gucci. Talmente devoto alla storica casa di modada aver prodotto un intero film, The Director, su Frida Giannini, diretto dallaregista-complice Christina Voros, con la quale ha realizzato anche un docu-mentario ben più controverso sull’impero del porno-fetish-sadomaso in Rete(Kink). «Dopo anni di campagne pubblicitarie, ho pensato che sarebbe stato al-trettanto interessante indagare l’universo di Gucci», racconta. «L’ideami venne tre anni fa, quando ero in Italia per assistere a una versio-ne restaurata de La dolce vita. Questo documentario ha rinsalda-
to il mio amore per il cinema italiano dal neorealismo alla dol-ce vita, ho rivisto 8½ proprio due giorni fa. L’uso del bianco enero in The Director è chiaramente ispirato a Ladri di biciclet-te e Umberto D».
Ma non è tutto. Ora ha provato l’ebbrezza del teatro, e dopocentocinquanta repliche sold outdi Uomini e topine è rimasto ra-pito. «È stata l’esperienza più esaltante della mia carriera», mor-mora, come se Broadway avesse all’improvviso cancellato il me-morabile exploit in Milk accanto a Sean Penn, il Green Goblin di Spi-der-Man, la nomination all’Oscar per 127 ore. «Era un desiderio che
covavo da almeno vent’anni, un sogno segreto. Provavo una sorta di terrore re-verenziale. Mi dicevo: per fare la stessa cosa ogni sera, per mesi, devi essere as-solutamente perfetto. L’entusiasmo mi ha aiutato a superare il panico. Non vor-rei sembrare arrogante, ma ormai mi sento abbastanza sicuro delle mie possi-bilità. Il modo migliore per combattere le incertezze è lavorare sodo. Disciplina».
E sarebbe stato un anno rilassante se contemporaneamente non fosse statoimpegnato in una mezza dozzina di set cinematografici; alcuni ruoli molto im-pegnativi, come quelli di Dave Skylark in The Interview e dell’attivista gay Mi-chael Glatze in Michael, entrambi in fase di montaggio; per non parlare di TheSound and the Fury da William Faulkner di cui è attore e regista, presentato aVenezia venerdì scorso, girato di seguito alla riduzione cinematografica di Childof God, dal romanzo del suo idolo Cormac McCarthy. Allora vien da pensare cheBroadway sia stata una boccata d’ossigeno del divo strangolato dagli impegni ein cerca di maggiore libertà. Neanche per sogno. «Quando recito, al cinema o inteatro, non è della libertà che ho bisogno», interrompe subito. «La libertà è pe-ricolosa, di solito sono i registi inesperti a lasciarti fare, con pessimi risultati. Lachiave di tutto ancora una volta è la disciplina — lo so, lo so, c’è ancora chi si ubria-ca la sera della prima. Sono stato sedotto da quella impercettibile, eterea com-plicità che si stabilisce con il pubblico. L’energia che ti arriva è pari a quella di unconcerto rock».
Fare teatro è stata un’altra tappa della sua Odissea. Di giorno Hollywood glitesse la tela del mito, di notte l’attore ne distrugge le trame con una sfilza di sel-fie — alcuni impietosi — che pubblica incessantemente su Facebook e Insta-gram. Smorfie, scatti domestici, in mutande o travestito, il viso montato su unaposa provocante di Nicki Minaj, backstage con Lana Del Rey, in classe con alun-ni e insegnanti, persino seduto sul wc, espressione della sua creatività domesti-ca. «Non vivo tutto questo in maniera schizofrenica, sono pezzi diversi della miastessa creatività. Non c’è caos, tutt’altro. L’approccio è sempre ben organizza-to, se una cosa mi interessa devo farla al meglio, che sia un libro, un film o unacampagna pubblicitaria. Certamente per un artista come me che ha avuto visi-bilità soprattutto nel cinema è sempre difficile farsi accettare nel mondo del-l’arte senza suscitare scetticismo». Non del tutto vero, i critici sono sempre sta-ti molto indulgenti, qualsiasi cosa abbia fatto. Anche quelli letterari, quando laprestigiosa Scribner pubblicò nel 2010 Palo Alto, un romanzo-sketch ambien-tato nella sua città natale che l’anno scorso è diventato un film di Gia Coppola.«Gli incontri, i personaggi, gli eccessi descritti nel romanzo sono quelli della miaadolescenza. Scriverlo e girarlo è stata una full immersion nel passato. Ero un ba-lordo, ne ho scassate di macchine quando ero ubriaco, sono andato anche in ga-lera perché rubacchiavo profumi che poi rivendevo ai compagni di classe. Co-minciai a vagheggiare il mestiere dell’attore durante le recite scolastiche, manon avevo idea di come diventare un professionista finché a diciotto anni nonmollai la scuola e fuggii a Los Angeles». Se ne è pentito. Le scuole di recitazionenon sono bastate a riempire il gap. Per un artista la cui parola chiave è «discipli-na» riprendere l’università è diventato irrinunciabile. Nel 2006, dopo il succes-so di Spider-Man 2 (il miglior film mai tratto da un fumetto), James si è sottrat-to alla morsa di Hollywood e si è iscritto all’Università di California, corsi di Let-teratura americana e Scrittura creativa. Studente modello. «Centocinquanta li-
bri da leggere per la tesi», ammette con fierezza, «e adesso sono anche docente.Adoro insegnare, si impara di più. Ci sono molte ragioni per cui ho poi ripreso
gli studi. Stavo attraversando quel periodo di depressione intorno aiventisette anni quando uno comincia a chiedersi: sono fiero di tuttoquello che ho fatto? La risposta: se continuerò a fare “solo” l’attore sa-crificando tutti gli altri interessi non sarò felice, anche se l’industriavuole confinarmi in questo ruolo». Da quel momento, progetti a raf-fica. Ora ha in cantiere un libro per bambini, oltre a una mezza dozzi-na di film ancora in lavorazione o da iniziare. «Ho pronto l’adatta-
mento di Zeroville, il romanzo di Steve Erickson, una storia ambienta-ta nella Hollywood anni Settanta: mi sono rasato la testa per entra-
re nel personaggio». Iperattivo? «Sì, è vero, lo sono», ammette infine, «ma non
mi è mai capitato di fare una cosa male o in fretta perchéne avevo un’altra in coda. Abbiamo finito di girare Michaelquattro giorni fa. Una storia vera, devastante. Sarà unfilm che solleverà molte polemiche. Michael Glatze eraun aggressivo e dinamico attivista gay di San Franciscoche alla fine degli anni Novanta ha voltato pagina, ha ab-bracciato la religione, si è sposato e ha incominciato a mi-nacciare con lo spauracchio dell’inferno i vecchi amici.La sua vicenda ha riaperto antiche diatribe. L’omoses-sualità è un fatto genetico? È una malattia? Si può gua-rire? Si può diventare etero?». C’è da scommettere cheil suo terzo film a sfondo gay, dopo Milk e Sal, riaccen-derà anche il dibattito sulla sessualità dell’attore e sullasua reputazione di sex symbol transgender. All’epoca ri-
spose con una serie di sfacciate fotografie en travestiscat-tate da Terry Richardson che finirono in mostra nelle gal-
leria d’arte. «Io non sono prigioniero dei dogmi di Glatze»,dice, «la mia famiglia è religiosamente molto eclettica».
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A DICIOTTO ANNI MOLLAI LA SCUOLA PER FUGGIRE A LOS ANGELES. HO RIPRESO GLI STUDI A VENTISETTE,PER LA TESI HO DOVUTO LEGGERE CENTOCINQUANTALIBRI. ADESSO SONO ANCHE DOCENTE. ADORO INSEGNARE. SI IMPARA DI PIÙ
IL FILM CHE ABBIAMO APPENA FINITO DI GIRARE SU MICHAEL GLATZE SOLLEVERÀMOLTE POLEMICHE: L’OMOSESSUALITÀ È UN FATTO GENETICO? È UNA MALATTIA?SI PUÒ DIVENTARE ETERO?
DOPO ANNI DI CAMPAGNE
PUBBLICITARIE HO VOLUTO INDAGARE
L’UNIVERSO DELLA MAISON
DI FRIDA GIANNINI.NE È NATO
UN DOCUMENTARIOIN BIANCO E NERO,OMAGGIO A LADRI
DI BICICLETTEE UMBERTO D
L’incontro. Irrequieti