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DOMENICA 19 APRILE 2009 D omenica La di Repubblica i sapori Il rum dai pirati ai cocktail modaioli RUI FERREIRA e LICIA GRANELLO l’incontro Tiziano Ferro, secchione del pop GIUSEPPE VIDETTI spettacoli L’uomo che ha raccontato il Vietnam MICHAEL HERR e DARIO OLIVERO l’attualità Sulle “montagne ribelli” del 25 aprile PAOLO RUMIZ O gni tanto qualche lettore mi domanda: ma com’è fatto il vero Montalbano? La domanda non sottin- tende che ci sia in circolazione un Montalbano fal- so: quel “vero” vuole riferirsi al personaggio dei miei romanzi, diversificandolo da quello, ormai famoso in quasi tutto il mondo, egregiamente codificato in tv da Luca Zingaretti. Io lo so com’è fatto il mio Montalbano, non perché ne abbia disegnato i trat- ti scrivendolo, ma perché mi è capitato d’incontrarlo in carne e os- sa. Naturalmente non si chiamava Montalbano e non faceva il poli- ziotto. Un giorno della primavera del 1998, mi pare, mi scrisse dal- l’Università di Cagliari il professor Giuseppe Marci invitandomi a un incontro con gli studenti che avevano seguito un corso dedicato al mio Birraio di Preston. Gli risposi accettando. Dopo qualche giorno mi telefonò per stabilire la data dell’incontro. Concludemmo i det- tagli e lui mi disse che sarebbe venuto a prendermi all’aeroporto. «Come faremo a riconoscerci?», gli domandai. E il professore mi ri- spose che avrebbe tenuto in mano una copia del “Birraio”. (segue nelle pagine successive) CURZIO MALTESE ANDREA CAMILLERI I suoi romanzi hanno venduto ventuno milioni di copie, cifra record per l’Italia Ecco il metodo, i vezzi, i retroscena di questa straordinaria bottega di bestseller FOTO CALOGERO RIZZO ROMA I l successo che arriva a settant’anni non ti cambia la vita, d’ac- cordo. Ma incontrare Andrea Camilleri nella casa romana del quartiere Prati, il portone accanto alla sede della radio, nello stesso salotto da pensionato Rai dove l’ho conosciuto tanti anni fa, al principio dell’avventura, è una bella lezione di vita. Esattamente come quel giorno lontano, Camilleri si è svegliato al- le sei, si è sbarbato e vestito di tutto punto per mettersi a scrivere, dalle sette alle dieci, minuto più, minuto meno. Ora, senza intervi- sta, sarebbe in giro per il quartiere, al bar, a comprare le sigarette, a raccogliere le frasi perdute dalla gente, che poi finiranno in qualche suo romanzo. Dopo pranzo si rimetterà al tavolo di lavoro, per ri- vedere le pagine, correggere, riscrivere, per altre tre ore. La sera for- se andrà a teatro con Rosetta, sua moglie da cinquantatré anni. In mezzo a queste due giornate uguali, scandite dagli stessi riti, sono passati tre lustri, una trentina di romanzi, tradotti in tutto il mondo e venduti in ventuno milioni di copie, record per uno scrit- tore italiano. (segue nelle pagine successive) Camilleri la macchina per scrivere cultura Yourcenar, il buen retiro in Italia LAURA LAURENZI e MASSIMO NOVELLI le tendenze In città con lo stile gladiatore IRENE MARIA SCALISE Repubblica Nazionale

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DOMENICA 19 APRILE 2009

DomenicaLa

di Repubblica

i sapori

Il rum dai pirati ai cocktail modaioliRUI FERREIRA e LICIA GRANELLO

l’incontro

Tiziano Ferro, secchione del popGIUSEPPE VIDETTI

spettacoli

L’uomo che ha raccontato il VietnamMICHAEL HERR e DARIO OLIVERO

l’attualità

Sulle “montagne ribelli” del 25 aprilePAOLO RUMIZ

Ogni tanto qualche lettore mi domanda: ma com’èfatto il vero Montalbano? La domanda non sottin-tende che ci sia in circolazione un Montalbano fal-so: quel “vero” vuole riferirsi al personaggio dei miei

romanzi, diversificandolo da quello, ormai famoso in quasi tutto ilmondo, egregiamente codificato in tv da Luca Zingaretti. Io lo socom’è fatto il mio Montalbano, non perché ne abbia disegnato i trat-ti scrivendolo, ma perché mi è capitato d’incontrarlo in carne e os-sa. Naturalmente non si chiamava Montalbano e non faceva il poli-ziotto. Un giorno della primavera del 1998, mi pare, mi scrisse dal-l’Università di Cagliari il professor Giuseppe Marci invitandomi a unincontro con gli studenti che avevano seguito un corso dedicato almio Birraio di Preston. Gli risposi accettando. Dopo qualche giornomi telefonò per stabilire la data dell’incontro. Concludemmo i det-tagli e lui mi disse che sarebbe venuto a prendermi all’aeroporto.«Come faremo a riconoscerci?», gli domandai. E il professore mi ri-spose che avrebbe tenuto in mano una copia del “Birraio”.

(segue nelle pagine successive)

CURZIO MALTESE ANDREA CAMILLERI

I suoi romanzi hanno venduto ventuno milioni di copie, cifra record per l’ItaliaEcco il metodo, i vezzi, i retroscena di questa straordinaria bottega di bestseller

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Il successo che arriva a settant’anni non ti cambia la vita, d’ac-cordo. Ma incontrare Andrea Camilleri nella casa romanadel quartiere Prati, il portone accanto alla sede della radio,nello stesso salotto da pensionato Rai dove l’ho conosciuto

tanti anni fa, al principio dell’avventura, è una bella lezione di vita.Esattamente come quel giorno lontano, Camilleri si è svegliato al-le sei, si è sbarbato e vestito di tutto punto per mettersi a scrivere,dalle sette alle dieci, minuto più, minuto meno. Ora, senza intervi-sta, sarebbe in giro per il quartiere, al bar, a comprare le sigarette, araccogliere le frasi perdute dalla gente, che poi finiranno in qualchesuo romanzo. Dopo pranzo si rimetterà al tavolo di lavoro, per ri-vedere le pagine, correggere, riscrivere, per altre tre ore. La sera for-se andrà a teatro con Rosetta, sua moglie da cinquantatré anni.

In mezzo a queste due giornate uguali, scandite dagli stessi riti,sono passati tre lustri, una trentina di romanzi, tradotti in tutto ilmondo e venduti in ventuno milioni di copie, record per uno scrit-tore italiano.

(segue nelle pagine successive)

Camillerila macchina per scrivere

cultura

Yourcenar, il buen retiro in ItaliaLAURA LAURENZI e MASSIMO NOVELLI

le tendenze

In città con lo stile gladiatoreIRENE MARIA SCALISE

Repubblica Nazionale

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(segue dalla copertina)

Nessuno figura nellaclassifica dei primidieci romanzi piùvenduti, ma quelli,da Eco a Saviano,per ora almeno,

sono autori di un solo grande suc-cesso. Camilleri è una bottega dabest seller, una formidabile mac-china di scrittura. Di questo si par-la.

Il patto con Camilleri è di nonoccuparsi per una volta del battu-tista di Palazzo Chigi, un’osses-sione di molti e anche sua. Ma èpiù affascinante l’altra ossessio-ne, quella nei confronti della piùgrande macchina per scrivere del-la storia della letteratura, GeorgesSimenon. Camilleri l’ha letto, stu-diato, conosciuto, ammirato e na-turalmente imitato per tutta la vi-ta. Gli ha offerto un omaggiostraordinario, e assai gradito daSimenon, curando la più bella tra-duzione in immagini delle avven-ture del commissario Maigret maigirata, quella con l’indimentica-bile Gino Cervi.

Ora Simenon, autore di centi-naia di romanzi, aveva una serieinfinita di trucchi, accorgimenti,più un monumentale archivio,una Biblioteca di Babele fatta diappunti, mappe, documenti. Miguardo intorno nella casa, alla ri-cerca dell’archivio di Camilleri.«Fatica inutile, non esiste un ar-chivio», è la deludente risposta.«Non prendo neppure appunti,

niente. Ho buona memoria, tuttoqui. Sono ordinato per natura, so-no metodico. Ma non ho testa perun archivio. Un’altra cosa, Sime-non era andato a scuola da uncommissario del Quai des Orfè-vres per imparare le tecniche d’in-dagine, io no. Ho conosciutocommissari di polizia soltanto do-po aver scritto Montalbano. Il fat-to è che, a differenza di Simenon,io forse ho l’anima dello sbirro».

Il mito SimenonEppure un punto in comune

con Simenon dev’esserci da qual-che parte, insisto e uno lo trovo,anzi un paio. Gli autori seriali, daSimenon a King, sono come i se-rial killer, tendono a ripetere al-l’infinito le condizioni della primavolta. «Questo è vero. Gli orari discrittura, soltanto al mattino, per-ché poi dovevo lavorare in Rai, ilritmo della giornata, tutto asso-miglia alla prima volta, quandoscrissi Il corso delle cose». L’altropunto in comune con Simenon èla lettura dei fatti di cronaca, pagi-ne e pagine da una decina di gior-nali anche locali, e poi l’immer-sione nella realtà quotidiana delquartiere, la strada. «Mi piace in-zupparmi di realtà. In fondo hopoca fantasia, e poi penso che i fat-ti reali siano sempre più impreve-dibili delle trame degli scrittori».Gogol diceva di non aver fantasia,lo spunto per Le anime morte lo

diede Pushkin. Aveva letto la sto-ria di questo truffatore che giravaper l’immensa Russia per com-prare contadini defunti e ottenerecosì aiuti di Stato. «Come nasce unromanzo? Non l’ho mai capito.Leggi tanti piccoli fatti, ascolti fra-si per strada. Due o tre rimangonoin mente, crescono fino a diventa-re una storia. Ieri sono sceso acomprare le sigarette e ho sentitouna ragazza che parlava al telefo-nino: “Ma come, vuoi fare l’amo-re con me, quando non abbiamoancora consultato le carte?”. Nonè questo un magnifico spunto peruna novella?».

Prima il dialogoNei romanzi di successo con-

temporanei sono quasi sparite lelunghe descrizioni dei classici, dipersone e ambienti e paesaggi. Lastessa faccia di Montalbano è infondo un mistero. È un calcolo, vi-sto che poi quelle i lettori le salta-vano tanto volentieri, o che cosa?«Per me no, non è tecnica. È la miaformazione teatrale. Mi viene na-turale scrivere per prima cosa i

dialoghi, il dialogo nudo e crudo.Quando ho stabilito come parlaun personaggio, allora desumocom’è vestito, dove vive, in qualeambiente si muove. Ex ore tuo teiudico». Mi pare di capire che nonabbia una gran fiducia nelle tecni-che, nelle scuole di scrittura. Checosa racconta ai giovani aspirantiscrittori? «La miglior scuola perimparare a scrivere è ascoltare. Enaturalmente leggere gli scrittoriche ci piacciono e provare a capi-re come hanno fatto». Ho notatoche la sua biblioteca immensa ètutta sistemata in ordine alfabeti-co, tranne lo scaffale dietro la scri-vania. «Qui tengo i prediletti. Ce-chov anzitutto, teatro e racconti.Gogol, Le anime morte e i Raccon-ti di Pietroburgo, che sono la per-fezione letteraria. Poi Beckett,Faulkner, Sterne, Pirandello, maassai più le novelle, il teatro è unpo’ datato. Tutti questi sono diLeonardo Sciascia, che rileggo incontinuazione, qui sta ovviamen-te Simenon, ed ecco Calvino, undio della scrittura».

Ma torniamo alla lingua. Primadi capire come parlano i perso-naggi, ci sono voluti trent’anni percapire come avrebbe parlato lui,l’autore. La ricerca di una lingua,la sua lingua, spiega la tardiva vo-cazione. «Beh, tardiva fino a uncerto punto. Ho cominciato apubblicare, e bene, prima deivent’anni, su Mercurio. Poesie eracconti. Nel ‘47 Ungaretti m’in-filò in un’antologia di nuovi poeti.Nel ‘48 Contini e Bo m’inserironoin un’altra, accanto a Pasolini,

Zanzotto, Turoldo, Danilo Dolci,Maria Corti. Poi, certo, spariscoper mezzo secolo. Mi metto a scri-vere una commedia, Silvio D’A-mico mi consiglia di fare l’accade-mia a Roma e qui Orazio Costa di-rotta il mio cervello dalla scritturaal teatro. Un lavoro stupendo, chenon mi ha lascito mezzo rimpian-to letterario. Quando m’è tornatavoglia di scrivere, allora sì il pro-blema è che non trovavo una lin-gua per raccontare».

Italiano e dialettoCosì ha finito per ascoltare sé

stesso. Molti scrittori parlano me-glio di quanto scrivano, è una vec-chia intuizione. «Proprio così.M’era venuta in mente la storia deIl corso delle cosee volevo scrivere.Ma non ci riuscivo. In quel tempomio padre era malato, passavo lenotti con lui e raccontavo il ro-manzo, alla maniera nostra, inquel misto di dialetto e italianodella piccola borghesia siciliana.Finché non mi venne l’idea: per-ché non scrivere come racconta-vo a mio padre? Lo scrissi in po-chissimo tempo e lo consegnai aNiccolò Gallo, grande critico, chemi promise di pubblicarlo entrol’anno. Ma, come direbbe Gadda,subito dopo si rese defunto. Il ro-manzo aspettò altri dieci anni».Non era facile far passare quellalingua al vaglio degli editor. A pro-posito, come sono stati i suoi rap-porti con gli editor? «In realtà neho avuto uno solo, Gallo, che mifece una montagna di correzioni,tutte preziosissime. Per il resto, hocontinuato di testa mia. Tutti na-turalmente mi consigliavano dilasciar perdere quella lingua ba-starda. Perfino Leonardo Sciasciami ripeteva: figlio mio, ma come

CURZIO MALTESE

32 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 19 APRILE 2009

Fenomeno CamilleriTutti i giorni dalle sette alle dieci, poi altre tre ore alla seraÈ il tempo che passa al computer per costruire i suoi romanzidopo averli immaginati leggendo le cronache dei giornalio inzuppandosi di realtà nelle strade e nei negozi sotto casaSiamo andati a trovare l’autore italiano di maggior successoper farci svelare il suo metodo, i suoi tic e i suoi segreti

Il romanziere a ore fisseche scrive come parla

POUT POURRI. Le fragranze sotto l’aspiratore di fumo LIBRETTI. Libretti dell’opera Il Birraio di Preston regalo dei fan LENTE. Accanto al computer una lente d’ingrandimento

la copertinaSCRIVANIA. Il portapenne, la lampada, il portafogli e le chiavi

Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 33DOMENICA 19 APRILE 2009

“Adesso vi racconto la vera faccia del mio Montalbano”

vuoi che ti capiscano i lettori nonsiciliani? Ma per me era perfetto.Di una tal cosa l’italiano serviva aesprimere il concetto, della stessail dialetto descriveva il sentimen-to».

La gabbia del gialloMa i romanzi storici, bellissimi,

cominciano a vendere con Selle-rio. E poi arriva il botto di Montal-bano. «È nato come un gioco. Perscrivere con metodo avevo biso-gno di una gabbia, e quale miglio-re gabbia esiste del giallo? Il suc-cesso fu una cosa imprevista e in-credibile. Balzai da cinquemilacopie a novecentomila, un delirio,E un ricatto pazzesco. Sono anniche penso di sbarazzarmene, sen-za riuscirvi. Adesso esce l’ultimo epoi basta». È vero che ha accanto-nato l’idea di far morire Montal-bano? «Sì, lo faccio sparire lettera-riamente. Il fatto è che una decinad’anni fa ci trovammo a Parigi conManuel Vázquez Montalbán eJean Claude Izzo e cominciammoa discutere di come far morire inostri investigatori. Poi accadeche Montalbàn e Izzo morironotutti e due all’improvviso, senzariuscire a compiere il delitto. E io,che sono pur sempre meridiona-le, ho cambiato idea».

Come vive il mondo di Montal-bano con quello dei romanzi sto-rici? E soprattutto come si riesce avivere in mezzo a quella folla dipersonaggi? Per uno scrittore è già

difficile convivere con sette o ottopersonaggi alla volta. Dopo un po’diventano persone reali, che si ag-girano per casa, dialogano, vivo-no euforie e depressioni. Camille-ri scrive tre romanzi contempora-neamente, quindi si ritrova induecento metri quadri decine ditipi che pretendono attenzione.«In effetti ogni tanto mi confondo,oppure esco e li lascio soli a veder-sela fra di loro. Ma il mondo diMontalbano è un’altra cosa ri-spetto ai romanzi, è più rilassante,meno impegnativo. Perché queipersonaggi sono in realtà ma-schere fisse, un teatro di pupi. Peril resto, sono abituato alla confu-sione. Io scrivo in un autenticobordello, con gente che va e cheviene, amici, parenti, nipotini chesi siedono sulle ginocchia, il ru-more della città di sottofondo.Mia moglie mi dice, non sei unoscrittore, sei un corrispondente diguerra. Una volta ho provato aprendere una casa in campagna

per concentrarmi e non sono riu-scito e scrivere niente. Quandonon riesco a sviluppare una storia,di solito non smetto di scrivere. Ri-spetto sempre l’orario, come unimpiegato, e piuttosto che nulla,scrivo lettere a me stesso. Bene,quella volta tornai dalla villeggia-tura con un pacco di lettere a mestesso».

L’arma dell’ironiaC’è un ultima curiosità nel fe-

nomeno Camilleri. Non solo è loscrittore italiano che ha vendutodi più ma è anche la smentita piùclamorosa al luogo comune percui i lettori italiani non apprezza-no il senso dell’umorismo. Nellalista dei best seller, in genere im-prontata a una granitica assenzad’ironia, i suoi romanzi spiccanoper doti satiriche, con alcuni ca-polavori del genere, come La pre-sa di Macallè. «Sì, ma non a caso èstato quello che ha avuto un’acco-glienza furibonda dalla critica. InItalia la satira è sempre stata con-siderata un genere minore. È unacolpa dedicarsi a una letteraturanon penitenziale. Per me è fonda-mentale sorridere ogni tanto,mentre scrivo. Far sorridere i let-tori, se posso, lo considero un granvanto, forse il maggiore».

(segue dalla copertina)

Fu così che incontrai Salvo Montalbano al-l’aeroporto di Cagliari con un mio ro-manzo sottobraccio. Era veramente im-

pressionante la sua somiglianza col mio perso-naggio. Dirò di più: la vista del professore uni-ficò in me l’immagine del commissario che fi-no a quel momento era ancora come un puzz-le mancante di alcuni pezzi di sfondo.

Qualche tempo dopo, Carlo Degli Esposti, ilproduttore, cominciò a pensare alla serie tele-visiva e mi domandò delucidazioni sull’aspet-to fisico di Montalbano. E io me la cavai pre-gando il professor Marci di mandargli alcune

sue fotografie. Ma non si trovò un attore che glisomigliasse e allora decisero di prescindere. In-fatti il bravissimo Luca Zingaretti non ha nullaa che fare col Montalbano dei miei romanzi, ba-sta pensare che il mio commissario ha capelli ebaffi.

Assai divertente è vedere come immaginanoMontalbano all’estero. Alcune traduzioni re-cano, in copertina, un disegno che raffigura ilcommissario. Negli Stati Uniti compare con unvolto, duro e deciso, che appartiene più agli in-vestigatori privati americani dell’hard-boiledche a un commissario della Polizia di Stato, perdi più siciliano e gran mangiatore. In Giapponeil disegno di copertina raffigura un signore concappello e valigetta in mano, barbetta alla Ca-vour e occhiali! Sembra un alto funzionario delfisco. Ma come può venire in mente di metteregli occhiali a Montalbano che li odia e addirit-tura rimprovera Augello perché li porta!

Una volta, quando già era apparsa in tv la pri-ma serie di Montalbano, venne indetto un con-corso tra cartonisti per “tradurre” in fumetti al-cune novelle con protagonista il commissario.

Quando alla fine mi mandarono i tre finalisti,ebbi sì la soddisfazione di vedere che nessunodi loro si era lasciato suggestionare da Zinga-retti, ma nello stesso tempo rimasi alquantodeluso perché non erano riusciti a centrarel’immagine. Tra questi disegnatori ce n’è uno,di Genova, che ha ormai “fumettato” una granquantità di racconti per divertimento persona-le: ebbene, anche lui si è lasciato sopraffare daitratti somatici di Zingaretti.

Meglio è andata con i tre giochi interattiviediti da Sellerio e dovuti a un gruppo di dise-gnatori palermitani. Essi si sono ispirati alla fi-gura del commissario Ciccio Ingravallo di Gad-da, cinematograficamente interpretato da Pie-tro Germi. E qui devo confessare che, quandoho cominciato a immaginare il mio Montalba-no, l’immagine di Germi-Ingravallo mi è statamolto presente. Solo che il mio commissarionon è così alto e ha la faccia un po’ più larga, dacontadino.

Ora a Montalbano il mio paese, Porto Empe-docle, dedica una statua. Autore ne è lo stessoscultore che ha già fatto il monumento a Scia-scia a Racalmuto. E, come quello di Sciascia,anche quello di Montalbano troverà la sua col-locazione in mezzo alla strada. Sciascia passeg-gia fumando una sigaretta, Montalbano se nesta appoggiato a un lampione. So già che moltidiranno che non somiglia a Montalbano. E chealtrettanti diranno invece che gli somiglia. Èinevitabile: ogni lettore si crea un suo Montal-bano.

Come ogni personaggio romanzesco, Mon-talbano è, pirandellianamente, uno, nessuno ecentomila.

Danielle Steel

400 milioni

JK Rowling

350 milioni

Stephen King

150 milioni

Clive Cussler

100 milioni

Paulo Coelho

100 milioni

Anne Rice

100 milioni

I NUMERI SI RIFERISCONO

ALLE COPIE VENDUTE

Wilbur Smith

100 milioni

Ken Follett

Anni fa a Parigicon Montalbáne Izzoparlammodi come faremorire i nostriinvestigatoriPoi Montalbáne Izzo morironotutti e dueall’improvvisosenza riuscirea compiereil delitto. E io,che sono

meridionale,cambiai idea

ANDREA CAMILLERI

VENTUNOMILIONISono le copie

vendute

in totale

da Andrea

Camilleri

Il primo libro

fu Il corso

delle cose

(1978)

pubblicato

a proprie spese

Accanto al computer una lente d’ingrandimento SPIRITIERA. La spiritiera nello studio dello scrittore POSACENERE. Sempre pieno, è fisso sulla scrivania PORTASIGARETTE. Il portasigarette, opera della nipotina

DICIOTTOTITOLISono quelli

che vedono

protagonista

Salvo

Montalbano,

commissario

di Vigata,

il primo,

del 1994,

è La forma

dell’acqua

250 milioni

John Grisham

570 milioni

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MIM

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AS

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I/A

GF

Repubblica Nazionale

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34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA

l’attualitàRicorrenze

Parlano meglio di tanti discorsi e monumenti. Sono i luoghi dove le coseaccaddero, le mulattiere tra i canaloni e gli alpeggi che ci possono fare capireoggi perché nacque, nei nostri padri, la scelta di mettersi fuorilegge,di non rassegnarsi, di rispondere a un “muto bisogno di decenza”. Ora un libroci fa da guida, alla vigilia del 25 aprile, sulle montagne della Resistenza

34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 19 APRILE 2009

Quando uscimmo dallanebbia a quota tremila, sulversante nord del crinale sispalancò il biancore abba-cinante dei ghiacciai sviz-zeri. Era l’estate 2003, l’in-

tera Val d’Aosta era immersa nella bam-bagia e, in direzione ovest, verso il colledel Gran San Bernardo, una cresta se-ghettata come la mascella di un caima-no scendeva fino a un gigantesco por-tale serrato da baluardi di roccia: laFenètre Durand. Un posto fuori dalmondo, coperto di muschio e fiori gial-li, immerso in un silenzio rotto solo daifischi delle marmotte.

La sera, a Ollomont, mille metri piùsotto, ci dissero che nel settembre 1943Luigi Einaudi era passato di lì per ripa-rare in Svizzera. Ci mostrarono una fo-to di quei giorni: il futuro presidentedella Repubblica portava basco, alpen-stock, braghe alla zuava e una giacca ditweed. Seduto su un prato, aspettava laguida che l’avrebbe portato oltre, equella guida era uno dei massimi alpi-nisti italiani. Un mito, Ettore Castiglio-ni. La sua firma l’avevo trovata ovun-que, sulle pareti più impervie tra le Do-lomiti e il Bianco.

Pochi mesi dopo quella trasferta par-

tigiana, Castiglioni sarebbe morto nel-la tormenta sulle stesse cime dove s’eranascosto per portare all’estero opposi-tori politici ed ebrei in fuga. Insieme adalcuni alpini, aveva scelto di andare inmontagna, fuirse para el monte, per ri-temprarsi dai lutti di un ventennio e ri-cominciare da zero una vita nuova. Era-no passati sessant’anni, ma Einaudi eCastiglioni erano ancora lì, presenti,nella nebbia della Fenètre Durand.Quel sentiero in Valpelline parlava me-glio di tanti libri e monumenti.

La strada tra nebbia e ghiacciai dice-va un cosa semplice: per capire dov’eranata, nei nostri padri, la scelta solitariae irrevocabile di mettersi fuorilegge, bi-sognava sporcarsi gli scarponi, calpe-stare le mulattiere percorse, prima chedai partigiani, da contrabbandieri, va-gabondi ed eretici. E magari capire chela Resistenza è cosa che continua, con-tro nemici talvolta più infidi di allora: lapestilenza dello spopolamento, il glo-bale che uccide le diversità, la burocra-zia che massacra di divieti l’economiadi quota: pastorizia, malghe, rifugi.

Ed è quanto accade, finalmente. C’è,in silenzio, una svolta nella memorianazionale sul più bistrattato dei temi, laguerra di Resistenza. Dopo tanta retori-ca e tante polemiche, si torna ai luoghi,perché i luoghi — almeno quelli — so-

no indiscutibili. Le Langhe delpartigiano Johnny raccontate daBeppe Fenoglio; le impervie val-li bellunesi dove passò Luigi Me-neghello; le Apuane arcigne del ro-manzo di James McBride; le scarpa-te liguri, piene di cardi e ricci di casta-gno, penosamente calpestate da ItaloCalvino.

Tornare dunque alle “montagne ri-belli”. Così le chiama Paola Lugo nel li-bro dallo stesso titolo che esce alla vigi-lia del 25 aprile per Mondadori. Cam-minare per ricordare, perché l’andatu-ra è la base della narrazione e perché ipartigiani, prima di sparare, cammina-rono disperatamente, macinarono chi-lometri in giorni e notti di paura, piog-gia, solitudine, smarrimento, nel fred-do bestia o nel caldo feroce dei canalo-ni. Camminare perché ricordare “con ipiedi”, talvolta, è meglio che comme-morare con le parole.

Il 24 aprile a mezzanotte, su Raidue,Roberta Biagiarelli reciterà il suo Nevedi giugno arrampicandosi col mitra-gliatore Sten nella nebbia gelida per isentieri dell’Appennino di Piacenza fi-no alle alture di Pradovera, nude comel’Anatolia, e il giorno dopo a Sperongia,tra la Val d’Arda e la Val Trebbia, si inau-gurerà un museo della Resistenza conannessi dodici chilometri di sentiero:un labirinto, nei boschi dove combattéGiovanni lo Slavo, colonna della tren-tottesima brigata Garibaldi in azionesulla Linea Gotica.

A maggio a Recoaro, nella valle delleacque minerali, si apre un sentiero perricordare i mesi belli e terribili in cui fu-rono soprattutto le ragazze del Vicenti-no a garantire approvvigionamenti, ar-mi e collegamento con gli Alleati. Don-ne come la staffetta Cesira Benetti, maipentita nonostante le torture fasciste,che scappò dal carcere di Peschiera,camminò quattro giorni e quattro nottiper tornare a casa sulle sue Dolomiti so-lo per ricominciare imperterrita ad aiu-tare imboscati.

Risentire l’odore dei luoghi, avvertiresotto gli scarponi «la terra ancestrale»aiuta a ricuperare la dimensione del-l’antiretorica e del disincanto, la soffer-ta umanità di una scelta. Tornare dun-

que al territorio: vagare come Fenoglionell’infinito «Sinai delle colline», il va-sto deserto delle alte Langhe, «con nes-suna vita civile in cresta e appena qual-che sventurato casale nelle pieghe diqualche vallone». Sentire il vento «ve-sperale, luttuoso, cricchiante», l’odoredei casali bruciati dalle rappresaglie e la«felicità del camminare in un liberoaliare di venti».

Ne esce una storia fatta spesso didubbi e scoramenti più che di forte co-scienza politica, come mostra Calvinonel suo Sentiero dei nidi di ragno tantoosteggiato, quarant’anni fa, dalla sini-stra italiana. Vero, i ribelli della storiasono i «peggiori possibile», e formanoun reparto «tutto composto di tipi unpo’ storti». Ma che senso ha, obiettaCalvino contro i suoi detrattori, parlaresolo di eroi? Molto meglio raccontare«chi si è gettato nella lotta senza unchiaro perché» e spiegare «l’elementa-re spinta di riscatto umano» che l’haspinto ad agire.

A piedi sui sentieri ribelliUn altro modo di ricordare

PAOLO RUMIZ

Mario Rigoni SternParlavamo tutti sottovoce,ma nessuno cercavadi ricostruire l’ultimo attodi quella vita che si era spentain un canalone dei Castelloni,perché era tutto chiaro

da UN RAGAZZO

DELLE NOSTRE CONTRADE

Luigi MeneghelloNel mezzo della seconda nottela guida si voltò fermamenteverso i monti, per imboccareil Canal del Mis... camminavamotra alte serrande e contraffortiad incastro

da I PICCOLI MAESTRI

Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35DOMENICA 19 APRILE 2009 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35

Italo CalvinoSollievo di togliersi gli scarponi induriti,la sensazione del terreno sotto la pianta dei piedi,le fitte dei ricci di castagne e dei cardi selvatici...quei calzettoni sfondati sugli alluci e sui calcagni...

da LA STRADA DI SAN GIOVANNI

Se non ora, quandoè la domanda chePrimo Levi si pone ripensando a queigiorni, la domanda che sta alla base del-la scelta. Il bisogno di reagire control’annichilimento in atto viene primadel senso del dovere, dell’amor di pa-tria, del bisogno di autogoverno, dell’i-stinto di vendetta, dell’odio o del sensodell’onore. Ed è lì che capisci, nei boschie sulle montagne, tornando ses-sant’anni dopo negli spazi franchi dellarivolta. È lì, camminando, che tra il ‘43 eil ‘45 si riforma un barlume di coscien-za politica nel popolo italiano.

Tornare, s’è detto, è anche scoprireche la guerra continua, con sconfitte,

piccole vittorie e disperati arroccamen-ti. Paola Lugo racconta che nel piccolobed & breakfast di Baiardo, base deisentieri partigiani raccontati da Calvi-no, i gestori vivono la loro quotidianaresistenza in una terra sempre più di-menticata da Dio e dagli uomini. Nellavalle del Mis, sopra Belluno, il peggio èvenuto dopo la guerra: i paesi bruciatidai nazifascisti erano stati appena rico-struiti, e già una diga finiva per som-mergerli o desertificarli, sfigurandouno dei posti più arcani delle Dolomiti.

Gli abitati di Zeri, sotto il crinale chedivide la Toscana dalla Liguria, nutriro-no nel ‘43-44 talmente tanti soldati al-leati in fuga dalla prigionia che la popo-lazione dovette subire feroci rappresa-glie. Oggi a Zeri giovani donne hanno ri-preso con coraggio la pastorizia dopol’abbandono degli anni Sessanta. Pa-scolano, mungono, tosano, caparbia-mente. E spesso devono combatterecontro lo scetticismo, l’ostilità deglistessi valligiani. Per non parlare dellastupida vergogna italiana delle radicicontadine, o delle invidie che separanoi pochi rimasti nelle terre estreme, co-me settant’anni fa gli abitanti di Ebolinel libro di Carlo Levi.

E che dire di Erto, sopra la diga assas-sina del Vajont raccontata da MarcoPaolini e Mauro Corona. Da nessun’al-tra parte il paesaggio parla più chiaro.Dopo l’aggressione totalitaria arrivòl’aggressione idroelettrica, che fu net-tamente la peggiore. Sarà un caso, ma

l’azienda veneta che fece i lavori era inmano a una famiglia che aveva finan-ziato l’impresa coloniale fascista. Saràuna coincidenza, ma la battaglia controla diga annunciatrice di disastri fu ini-ziata da un’ex partigiana, Tina Merlin,che grazie alle infinite traversate comestaffetta, aveva imparato ad aguzzare lavista e ascoltare gli avvertimenti deivecchi.

Quando, dopo l’apocalisse, si volleimporre ai montanari l’insulto di untrasferimento forzato a valle, a sorpresametà paese resistette. Come nel ‘43, un«muto bisogno di decenza» aveva scon-fitto la rassegnazione; così gli ertanibloccarono le camionette dei carabi-nieri e — visto che gli edifici erano ina-gibili — tennero consiglio comunale inpiazza. Oggi sappiamo che è grazie aquella resistenza supplementare che imonti attorno al Vajont non sono già undeserto. Come dopo l’8 settembre del‘43, anche dopo la frana del Toc lo scon-tro era stato contro la tirannia di unpensiero unico che annichiliva i luoghi.

E non è un caso che i sentieri delle due“guerre di liberazione” a Erto coincida-no.

È sull’altopiano di Asiago, al ritornoda una lunga prigionia che l’ha distrut-to nell’anima e nel corpo, che Mario Ri-goni Stern capisce che il suo destino èquello di battersi per la sua montagna.Succede quando gli amici lo convinco-no a ricuperare il corpo di due partigia-ni, gettatisi in un dirupo sopra la Valsu-gana per non essere catturati dai nazi-fascisti. Un viaggio penoso e muto, su-gli stessi sentieri della Grande Guerra,un viaggio dove nessuno cerca «di rico-

struire l’ultimo atto di quella vita spen-ta in un canalone» ma dove finalmentei conti tornano.

Da allora il Mario vivrà la Resistenzanon come libro chiuso o come meda-glia al petto, ma come dimensione divita. Fino agli ottanta suonati tuonerà,ascoltatissimo dalle più alte carichedello Stato, contro la strategia dell’ab-bandono dei territori. Ma la passionecivile che lo brucerà fino all’ultimo deisuoi giorni era nata dagli scarponi benprima che dai libri. Dalla fatica spesasui sentieri, le crode e i pascoli copertidi ranuncoli.

IL LIBROMontagne ribelli, scritto da Paola Lugo e pubblicato

da Oscar Mondadori nella collana Storia (250 pagine,

11 euro) sarà nelle librerie il 24 aprile, vigilia della festa

che celebra la vittoria della guerra di liberazione

Dalle Langhe all’altopiano di Asiago, fino all’Appennino

emiliano, l’autrice conduce il lettore lungo dieci

passeggiate nella natura e nella memoria sui monti

che sono stati teatro della lotta partigiana tra il 1943

e il 1945. Ad accompagnare l’escursionista-lettore

la voce degli scrittori che hanno vissuto e raccontato

quelle vicende: Pavese, Fenoglio, Calvino,

Meneghello, Rigoni Stern

L’INAUGURAZIONEIl “Sentiero del Partigiano e della Resistenza”,

è quello che l’Associazione Nazionale

Partigiani d’Italia di Recoaro Terme (Vicenza)

inaugura domenica 24 maggio in una zona

che fu teatro della lotta di liberazione

nelle Piccole Dolomiti

L a foto di queste pagine scattata

nel febbraio 1945 mostra il trasporto

di un ferito sotto la cresta del Monte Belvedere

© Archivio Istituto Storico Parri

Emilia-Romagna, Fondo National Archives

Repubblica Nazionale

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36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 19 APRILE 2009

VERBANIA

Il «lago e il cielo si confondevano in un unicogrigio». Soltanto sull’Isola Madre un solepallido cominciava a sfrangiare la cortinaspessa di scuro, illuminando i fiori inturgidi-

ti dalla neve rimasta che si stava sciogliendo. Mar-guerite Yourcenar «avanzava camminando silen-ziosa. Gli scialli proteggevano la sua testa, ma i suoiocchi attenti non perdevano nessun particolare deigiardini in cui era entrata. Andava da sola, con la de-terminazione, il buon passo e l’ostinazione di unatartaruga». Paolo Zacchera, raffinato coltivatore diazalee, di rododendri e di camelie sulle sponde pie-montesi del Lago Maggiore, la ricorda così. Ram-menta una mattina di febbraio della metà degli an-ni Ottanta. E si rivede mentre accompagna la scrit-trice francese, che sarebbe morta di lì a poco, nel di-cembre 1987, in un quieto vagabondaggio lacustre,dentro «uno scenario simbolicamente giapponesedi neve tra anticipi di primavera».

Non era la prima volta che la Yourcenar sog-giornava in quei posti, particolarmente cari ancheperché frequentati parecchio tempo addietro daisuoi genitori. Già ospite di Paolo e di sua mogliePuccio, aveva dormito inoltre negli hotel romanti-ci, ricchi di storia e di fascini antichi, che ingentili-scono il lago. Alberghi come il maestoso GrandHotel des Iles Borromées di Stresa, dove He-mingway aveva ambientato una parte di Addio al-le armi, oppure il piccolo e seducente Hotel Ver-bano dell’Isola dei Pescatori, di proprietà di Alber-to Zacchera, il fratello di Paolo. «Rive familiari»,dunque, quanto quelle che rievoca l’imperatoreAdriano, in punto di morte, nel suo romanzo ca-polavoro. E «familiari» le erano diventati Paolo ePuccio, tanto che tra loro sarebbe sbocciata unalunga amicizia e ci sarebbe stato un intenso scam-bio di lettere, inedito fino a oggi (alcune pubblica-te in queste pagine, grazie alla cortesia di PaoloZacchera).

Ma come si erano conosciuti? Racconta Zac-chera: «Avevo venticinque anni. La letteratura miappassionava, ma la lettura di un libro su Goethe esul suo giardino di Weimar mi stava spingendoverso il mondo dei fiori, dei giardini. Nell’invernodel 1978 mi trovavo da qualche settimana negliStati Uniti. Devo confessare che non mi sarei maisognato di raggiungere Mont Desert Island, nelMaine, per conoscere Marguerite Yourcenar, sealla stazione ferroviaria di Orta, pochi giorni primadella mia partenza per l’America, non avessi par-lato con lo scrittore Sergio Ferrero, un amico di fa-

miglia. In pratica mi esortò ad andare dalla scrit-trice i cui libri, come le Memorie di Adriano e L’o-pera al nero, avevano rappresentato molto per lamia formazione».

Nella biblioteca dell’Università del Minnesotaottenne l’indirizzo di Mont Desert, dove la Yource-nar abitava insieme all’amica e traduttrice GraceFrick. Decise di scriverle. La risposta arrivò il 26 di-cembre del 1978. Pur premettendo che «il mese digennaio non è troppo adatto per una visita nel Mai-ne», e che lei stessa aveva poco tempo da dedicar-gli a causa di un libro da terminare e della salute nontroppo buona, gli faceva sapere che lo avrebbe co-munque ricevuto. Aggiunse in coda alla breve let-tera: «Io sono colpita dal fatto che voi avete preso“Adriano” come uno dei vostri compagni di viag-gio». Si incontrarono nel gennaio del 1979 in unagiornata mite, con un sole tiepido e nella baia le la-stre di ghiaccio spezzate dalle maree che si erano

nuovamente congelate in forme verticali. Avrebbedovuto restare solo per mezz’ora, Grace Frick glie-lo aveva imposto. «Invece ci rimasi per oltre un’o-ra. Era lei a tenere viva la conversazione, io mi sen-tivo intimidito. Si parlò di tutto. Lei mi fece delle do-mande sulla mia vita, poi si passò ai libri, ai fiori, al-la tradizioni degli indiani, ai profumi delle erbe del-la Grecia e dell’Italia che Marguerite aveva cono-sciuto bene». Paolo scattò diverse fotografie,riuscendo persino a convincere la Frick, sulle pri-me piuttosto riottosa, a firmare a sua volta una co-pia in inglese delle Memorie di Adriano.

Si rividero in Italia, a Venezia. Grace Frick eramorta e ora la Yourcenar viaggiava in compagnia diJerry Wilson. Racconta ancora Zacchera: «La nostracorrispondenza diventò più assidua, come i nostrirapporti di amicizia. Marguerite, a un certo punto,venne a passare qualche giorno sul Lago Maggiore.Nel frattempo mi ero sposato, ero diventato flori-

L’incontro a Mont DesertIsland alla fine degli anniSettanta, poi l’amicizia

e le visite frequenti della grandescrittrice francese sulle rivee sulle isole del lago lombardoPaolo Zacchera, raffinato

coltivatore di fiori, apreil suo archivio e raccontaun capitolo sconosciutodell’ultima parte della vitadell’autrice delle “Memoriedi Adriano”.Quando, comeuna nonna affettuosa, cullavail bambino di casa in attesadella cena

CULTURA*

ItaliaYourcenar

MASSIMO NOVELLI

in

coltore e abitavo in una casa ai margini di un bosco.Quando stava in hotel, andavo ogni mattina a te-nerle compagnia durante la colazione. Insieme sifaceva il programma per il giorno e quindi leiriprendeva il suo lavoro di scrittura,di correzione delle bozze dell’ulti-mo libro. La sera si concludeva a ce-na a casa nostra». L’anziana grandesignora della letteratura, che era sta-ta accolta, sola donna, all’AcadémieFrançaise, «mentre mia moglie e io fi-nivamo di preparare la tavola, prende-va in braccio nostro figlio di pochi me-si. Lo intratteneva porgendogli piccolipezzi di pane duro, e gli diceva che eraquello che ci voleva per i suoi denti». Co-me ci si doveva aspettare da una vecchiaamica dei vecchi tempi, «cordiale e sem-plice», gentile e affettuosa.

Il buen retirosul Lago Maggiore

SUL LAGODue cartoline

inviate

dalla Yourcenar

a Paolo

Zacchera:

quella a destra

parla della morte

di Grace Frick;

la foto in basso

della scrittrice

sul Lago Maggiore

è stata scattata

da Davide Ravenna

Repubblica Nazionale

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Capri, isola-croceviadi amori e capolavori

LAURA LAURENZI

La Capri più segreta e appartata. Lontano da tutto. È qui che la Yourcenarvenne in «luna di miele» (avrebbe disprezzato questo termine), è qui che siliberò di un amore infelice, per un uomo che l’aveva respinta, è qui che co-

minciò la lunga vita in comune, un vero matrimonio, con Grace Frick, che le sa-rebbe rimasta accanto fino all’ultimo dei suoi giorni, per quarant’anni. Ed è quiche scrisse di getto uno dei suoi libri più intensi, Il colpo di grazia.Come altri in-tellettuali non solo negli anni Trenta, anche lei fu soggiogata e calamitata dagliincanti di Capri. Ma, nell’albo degli ospiti illustri, brillò come la più distaccata, lameno presenzialista, la più schiva: fino all’autocancellazione. Per lei Capri fu so-

prattutto un rifugio occulto, e un luogo di concentrazionecreativa. E insieme una parentesi di quiete — in cui il tempo fucome sospeso — prima di prendere la decisione più impor-tante della sua vita: varcare l’oceano, abbandonare per sem-pre l’Europa sull’abisso della guerra, per poi rinchiudersi an-cora una volta in un’isola-eremo, Mount Desert, nel Maine,dove consacrarsi al furore della scrittura.

Lei e Grace Frick, «la sacerdotessa del frutteto», si eranoconosciute nel febbraio del 1937 a Parigi e non si erano piùlasciate. Hanno entrambe trentatré anni. Marguerite è apezzi per la fine di un amore senza speranza, quello per ilbell’André Freigneau dichiaratamente omosessuale,una non-storia di umiliazioni e rifiuti durata quattro an-ni. Grace Frick è un’agiata giovane professoressa di in-glese di Kansas City; ciarliera, intraprendente, decisa,vivace, saprà presto rendersi indispensabile. Diven-terà non solo la sua compagna, ma anche la sua unicatraduttrice in inglese e la sua assistente plenipoten-ziaria. E in futuro l’amministratrice del mito.

Partono in quella tarda primavera per un lungoviaggio a due carico di implicazioni letterarie. Unitinerario tutto mediterraneo sulle orme della leg-genda: prima visitano Venezia, poi Corfù e Delfi einfine — luglio 1937 — concludono quella che ibiografi definiscono la loro luna di miele a Capri,scrigno insulare di emozioni brucianti. «Le isolemi sono sempre piaciute molto: Eubea, Egina,Capri, che è assai meno turistica di quanto nonsi creda quando si vive in un angolino sperdu-to», dirà Yourcenar. Il loro «angolino sperdu-to» preso in affitto è La Casarella in via Mater-mania al numero 4, portoncino di noce scu-ro, casa a mezza collina sulla strada che si al-

lunga fino all’Arco Naturale, a pochi passi dal sentiero insalita che conduce a Villa Jovis. È in questa casa silenziosa e spalanca-

ta su un panorama senza tempo che la Yourcenar butterà giù in meno di un me-se Il colpo di grazia, pieno di riferimenti autobiografici, momento liberatorio e ri-solutivo che chiude per sempre l’infelice storia con Freigneau. Alla scrittura si al-ternano le lunghe passeggiate capresi, via delle Botteghe, via Fuorlovado con lesue buganvillee e i suoi alberi di limone, e l’erta via Croce profumata di pini e diresina. Le visite ai ruderi tiberiani e alle vestigia augustee scavano in lei un solcoprofondo, emozioni e reminiscenze che sedimenteranno nella sua memoria perriemergere quando scriverà — di getto ma dopo un’incubazione durata oltrevent’anni — il suo capolavoro, Memorie di Adriano. Ad agosto le due amiche la-sciano Capri e, in tempi diversi, raggiungono gli Stati Uniti. Ma meno di un annopiù tardi, nel maggio del ‘38, Marguerite torna in Europa e corre a rifugiarsi nellasua Casarella per una seconda stagione, questa volta in totale solitudine, primadell’addio definitivo al suo continente. Capri le appare «un piccolo villaggio ita-liano, dove ci si sente lontani da tutto, un villaggio che dopo la partenza dei bat-telli degli escursionisti ritorna ogni sera alla sua tranquillità un poco indolente.L’isolamento e il leggero frinire metallico dei grilli sono propizi tanto al riposoquanto al lavoro». Lei si tiene lontana da qualunque appuntamento mondano:l’undicesima edizione degli Internazionali di tennis, il Festival del Cinema al Qui-sisana, l’inaugurazione dei Giardini d’Augusto. Preferisce recarsi ogni giorno aPunta del Capo a godere lo spettacolo di Villa Jovis. Ma di queste sue schive abi-tudini non c’è traccia alcuna in nessuno dei suoi scritti, perché «fedele ai proprisentimenti di riservatezza, lasciava che le emozioni si stemperassero in lei in ispi-razione e in elaborati, e non divenissero argomento di diario o addirittura cro-naca», scrive Ciro Sandomenico nel suo Il “viaggio di nozze” di Marguerite Your-cenar a Capri. Fantasma silenzioso, non lascia impronte. Che avesse preso unacasa in affitto a Capri si seppe molto tempo dopo, nel 1999, quando il nuovo pro-prietario della Casarella fece caso al nome cui erano intestate le bollette della lu-ce. Erano state emesse ininterrottamente per oltre sessant’anni, sin dal lontano’38, a carico di Marguerite Yourcemar (con la emme). Una mattonella di cerami-ca — pretenzioso e pomposo definirla una lapide — orna dal ’99 il muro della di-mora abitata dalla grande scrittrice e ricorda ai passanti che lì fu scritto Il colpo digrazia. Grazia come il nome della donna amata.

CARTEGGIOCartoline illustrate

e lettere inviate

negli anni

Ottanta

dalla Yourcenar

a Paolo Zacchera

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37DOMENICA 19 APRILE 2009

Repubblica Nazionale

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Michael Herr descrisse la “sporca guerra” in quel folgorante diariodal fronte che è “Dispacci”. Più tardi, firmò le sceneggiature di duecapolavori come “Apocalypse Now” di Coppola e “Full Metal Jacket”

di Kubrick. Adesso, dopo anni di silenzio, si racconta in occasione della pubblicazione di un suo libromai uscito prima in Italia. Ecco i ricordi dal set di chi ha trasformato l’orrore in grande cinema

38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 19 APRILE 2009

«Andai laggiù per seguire laguerra, e fu la guerra a seguireme». È una delle frasi che col-pirono gli americani quandosi trovarono di fronte a Di-spacci, quello che il New York

Times nel 1977 definì il «miglior libro nato dallaguerra del Vietnam». Poteva diventare famoso il suoautore. Invece no. Michael Herr rimase semplice-mente Michael Herr. A ventisette anni reporter diguerra e a ventinove già reduce. Con gli incubi cheandavano a trovarlo «come un frammento di shra-pnel che ci mette anni per farsi strada e uscire». Lenotti calde di Saigon, i cadaveri accatastati nell’o-spedale di Can Tho, lui che imbraccia una calibrotrenta per coprire una pattuglia in ritirata, i colleghimorti. Dispaccifu la sua prima catarsi. Lo scrisse e siritirò dalla scena, come avrebbe fatto o tentato di fa-re altre volte nella vita. Ma la guerra continuava a in-seguirlo. Lo richiamò al fronte Francis Ford Coppo-

ce. Comprese le attuali guerre in Iraq e Afghanistan.«Non credo alle nostre guerre e non le sostengo.Non seguo i reportage da quei fronti. In realtà nonsono interessato alla guerra come soggetto e nonseguo molto l’attualità. Niente tv, niente quotidia-ni, poche riviste e soprattutto su Internet».

Esattamente trent’anni fa, a maggio del 1979,Apocalypse Now vinse la Palma d’oro al Festival diCannes. Per Herr, due o tre vite fa. «Lavorai ad Apo-calypse Nowdopo averne visto un breve estratto chetrovai fantastico. Ma la ragione principale era chevolevo lavorare con Coppola che ammiravo e chemi piacque fin dal primo incontro. Era un progettodi cui volevo essere parte e non mi pentii neancheun secondo di averlo fatto».

Le cose andarono allo stesso modo quando lochiamò Kubrick. Ma stavolta fu qualcosa di più diun semplice sodalizio artistico. «Non fu mai unaquestione di soldi. Volevo lavorare con Stanley Ku-brick, credevo molto nel progetto. Fin dal nostroprimo incontro e per i sei anni che seguirono par-lammo di Jung e dell’Ombra. Penso che sia una pre-senza molto attiva in quasi tutto quello che ho scrit-

DARIO OLIVERO

“Mi piace guardare vecchititoli in dvd, non pensodi realizzare più copioni”

“Lavorare a quei filmnon fu questione di soldi,credevo molto nei progetti”

VIETNAM

RITRATTOA destra, Michael Herr

in un disegno di Eunice

Choi; sotto, assieme

al fotoreporter Larry

Burrows; in basso,

Francis Ford Coppola

sul set di Apocalypse Now

la per fargli scrivere la narrazione di ApocalypseNow. Quando si sente la voce di Martin Sheen chedice: «Ognuno ottiene ciò che vuole. Io volevo unamissione, e per scontare i miei peccati me ne han-no data una. Me l’hanno portata con il servizio in ca-mera», c’è la mano di Herr.

Finito il film si ritirò un po’ più lontano, a Londra,Kensington Gardens. Non bastò. La guerra lo rag-giunse ancora. Passò meno di un anno e il suo ami-co David Cornwell, meglio noto come John LeCarré, lo presentò a Stanley Kubrick che stava lavo-rando a Full Metal Jacket. Per sei anni Herr scrisse lasceneggiatura del secondo capolavoro a cui contri-buì. Restò vicino a Kubrick fino alla morte, scrisseun libro su di lui (Con Kubrick, minimum fax) poi siritirò di nuovo. Ora vive sulle Catskill Mountains,Stato di New York. Scrivendo poco e parlando me-no. Oggi Michael Herr, l’uomo che meglio di chiun-que altro ha raccontato il Vietnam, rompe un silen-zio di quasi vent’anni. «Full Metal Jacket fu in asso-luto la fine della linea del fronte del Vietnam per me,la guerra smise di seguirmi dopo tanto tempo», di-

to, alla fonte di ogni violenza nel mondo. Rappre-senta l’atto di repressione nel comportamentoumano. La gente ha sempre una spiegazione razio-nale, “ragionevole”, per la violenza che commette.Ma io penso che venga sempre dal lato oscuro...».

In Italia sta per uscire un libro che Herr ha scrittonel 1990, Mr Winchell, la voce dell’America(Alet, 192pagine, 17,50 euro). È la storia del primo cronista digossip negli anni Trenta. La sua rubrica era pubbli-cata da tutti i quotidiani del gruppo Hearst e poi tra-smessa per radio. Era uno degli uomini più influen-ti d’America, un suo giudizio poteva fare o disfarefortune o successi. Non fu secondaria la sua presadi posizione contro Hitler per l’entrata in guerra de-gli Stati Uniti. La televisione lo travolse. Non c’erapiù posto per lui nel nuovo mondo.

Difficile trovare una biografia più distante daquella di Herr. Eppure un motivo c’è se l’uomo cheè stato paragonato a Salinger per il suo isolamentovolontario ha scelto questo personaggio per unodei suoi rari libri. «Ci sono molte ragioni. Mi ricordodi Winchell nella mia infanzia, lo sentivo alla radio

L’uomoche raccontò

il

Repubblica Nazionale

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qualità che il suo predecessore non sapeva neancheesistessero. Per la prima volta negli ultimi otto anninon mi sento a disagio né provo vergogna per il mioPaese. In teoria l’uomo potrebbe vivere anche sen-za speranza e paura ma, fino a quando non riusciràa farlo, sento qualche concreta speranza che il nuo-vo presidente possa cambiare il modo in cui l’Ame-rica pensa se stessa».

Così l’uomo che ha raccontato il Vietnam, dopoquasi quarant’anni, sembra tornato a casa. Non loinsegue più nessuno. La guerra è lontana, l’Ombraplacata. Una moglie, due figlie grandi, foreste emontagne quando guarda dalla finestra. «È prima-vera qui sulle Catskills, fa ancora freddo e qualchevolta nevica, ma maggio è dietro l’angolo, spero».

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39DOMENICA 19 APRILE 2009

e lo leggevo sul giornale locale sei giorni a settima-na. Sono cresciuto in una piccola città nello Stato diNew York e Winchell rendeva New York City moltoattraente agli occhi di un ragazzo. Amavo la sua sto-ria, un uomo venuto da povertà e anonimato cheraggiunge fama e potere inimmaginabili e poi cadedi nuovo, al punto che quando muore pochi ameri-cani lo ricordano. Ero colpito anche dal suo essereun incrocio tra show business, politica e crimine.Personificava anche molte altre caratteristicheamericane: sangue freddo, ambizione, energia,spirito di iniziativa. Era davvero una figura com-plessa, con tante sfaccettature, una vera canagliama anche affascinante, ammirevole a volte».

Ma un uomo solo, condannato a essere solo, anon avere amici. E sempre sulla linea del fronte.Davvero nessuna affinità? «Siamo molto diversi co-me stile e come vita. Lui era un personaggio pubbli-co, io sono piuttosto riservato. E poi in effetti non homai pensato a me stesso come a un giornalista eneanche a un new journalist, ma come a uno scrit-tore. Ho sempre voluto scrivere sulla guerra e laguerra che scoppiò ai miei tempi era in Vietnam. Po-

tevo affrontarla come soldato o come reporter.Scelsi di fare il reporter, una specie di gioco di ruoloche poi ho giocato in Dispacci». Per questo scrisse dinon credere ai fatti senza il coinvolgimento in pri-ma persona? «Credo nei fatti fino a un certo punto,ma non credo che i fatti siano necessariamente laverità o siano vicini alla verità. La prima persona fuassolutamente cruciale per scrivere quel libro». E lasolitudine che lei sembra aver cercato tutta la vita?«Amo la solitudine, spesso la trovo necessaria, co-me molti scrittori. Ho passato molto tempo senzavedere nessuno a parte la mia famiglia e ne ho sem-pre avuto dei benefici».

Ama ancora il cinema? «Tantissimo. Ma ora loguardo in dvd e soprattutto vecchi film. Sto guar-dando quelli di Rossellini, girati molti anni fa masempre grandi. Non scrivo più per il cinema e noncredo che lo farò ancora. Dopo aver lavorato congente come Coppola e Kubrick mi sento spogliato.Studio e pratico il buddismo Vajrayana, è questoche mi interessa ora e occupa gran parte del miotempo». Pensa che Barack Obama stia dando nuo-ve speranze all’America? «Lo ammiro molto. Ha

Il libro che state per leggere è nato comeuna sceneggiatura e non è stato fatto al-cun tentativo di dissimularne l’origine.

Per ragioni sia pratiche sia caratteriali, è sta-to scritto in prosa invece che nella formaclassica di una sceneggiatura. In altre paro-le, le sue intenzioni originarie erano cine-matografiche, ma la sua spinta motrice e lesue dinamiche probabilmente vanno cer-cate altrove. A essere onesto, ho sempre de-siderato che venisse letto, e in questo sensoho sempre pensato che fosse “qualcosa dipiù” di una sceneggiatura. Con altrettantaonestà, devo aggiungere che i suoi produt-tori lo hanno giudicato “qualcosa di meno”di una sceneggiatura.

Dato che l’ho scritto e che vi sono affezio-nato, trovo questo tentativo di classificazio-ne generica non solo imbarazzante e spia-cevole, ma anche estremamente difficile.Nonostante si basi sulla vita di una personarealmente esistita, di cui spesso utilizza leparole originali, Mr Winchell narra eventiimmaginari, ed è in prosa. Quindi deve trat-tarsi di prosa narrativa. Si potrebbe definireuna sceneggiatura strutturata in forma diromanzo, che si legge come un romanzo masi vede come un film. Forse è una forma deltutto nuova, o un’astuta variante di una for-ma vecchia, oppure un ibrido. Forse è sem-plicemente un romanzo con dentro una ci-nepresa.

Per quanto mi riguarda, la mia massimaaspirazione è quella di creare uno spettaco-lo d’intrattenimento nella tradizione delfilm biografico hollywoodiano, in cui la Sto-ria e le sue ombre variegate e amare faccia-no da sottofondo alle battute. Quella che inun romanzo viene definita “scrittura cine-matografica”, diventa “letteraria” quandocompare in un copione. Scrivere sceneggia-ture è una disciplina che impone di subor-dinare il linguaggio alle immagini. La scrit-tura descrittiva presente nelle sceneggiatu-re assomiglia più a un diagramma che a unracconto; si tratta di note per il regista, chene fa il suo strumento di lavoro. Lo scrittorepuò dare tutte le indicazioni che vuole sulgrado di emozione che deve trasparire dauna certa battuta, su ciò che riguarda il cor-po, l’abito di scena o la luce, ma non può rea-lizzare una messa in scena. E per quanto sipossano decantare la potenza e la bellezzadi quei brevi frammenti disposti sulla pagi-na, capaci di riassumere ampie parti di tra-ma che si sviluppano nel corso del tempo, ilmontaggio è un’esclusiva dei film.

Ora mi appare del tutto chiaro che fin dal-l’inizio, quando credevo di pensare per im-magini, di fatto pensavo in prosa: una prosapiatta e telegrafica, a volte troppo bruscaper costituire una frase completa, che pro-cedeva esclusivamente al presente, anchenei flashback [...] e per lo stesso motivo rap-presenta un risparmio di tempo. Invece disubordinare il linguaggio alle immagini, misono limitato a sublimarlo, e per giunta sen-za troppa convinzione. Sono riuscito a pla-smare il linguaggio in scene perlopiù moltobrevi, e a far fluttuare le scene sul dialogo; undialogo animato, da film, almeno nelle mieintenzioni. In Mr Winchell, il dialogo è l’a-zione, o la maggior parte dell’azione.

© 2009 Michael Herr MGM/UACommunication Company Buckman

Literary Agency © 2009 Alet edizioni

Una cinepresanel mio romanzo

MICHAEL HERR

IL LIBROMr Winchell - La voce dell’America di Michael

Herr, di cui anticipiamo parte dell’introduzione,

è il libro che la casa editrice Alet pubblica

il prossimo 23 aprile (traduzione di Laura

Bussotti, 192 pagine, 17,50 euro). L’autore

di Dispacci si misura con la storia di Walter

Winchell, il giornalista americano “padre”

del gossip che, tra gli anni Trenta e Quaranta,

conobbe l’apice della fama svelando

alla radio e sui giornali i vizi dei potenti

SI GIRAIl set di Apocalypse Now

nelle Filippine; a sinistra,

tra gli appunti di Stanley

Kubrick ricavati

dalle discussioni con Herr,

una foto da Full Metal Jacket

anteprima

Ben Harper Radio CAPITALsolo su

dal 20 al 24 aprile in anteprima il nuovo album.A WHATEVER LUNEDI 20 APRILE ALLE 21:00 L’INTERVISTA DI LUCA DE GENNARO.

Radio Capital, suona diversa.

| tutte le frequenze in fm: n. verde 800 - 051616 | www.capital.it

in uscita il 24 Aprilecd / cd + dvd / vinile

Repubblica Nazionale

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40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 19 APRILE 2009

Piaceri alcoliciNell’immaginario collettivo è la bevanda dei piratiMa anche quel sorso mandato giù tra atmosfere colonialie sigari cubani. Dietro la sua produzione, in AmericaLatina, c’è ancora una società che stenta a liberarsidal latifondismo. Eppure, oggi, il liquore-base dei cocktailpiù bevuti nel mondo è simbolo di un nuovo riscatto

i sapori

RumUn bicchierinocon Hemingway

LICIA GRANELLO

«Quindici uominisulla cassa delmorto, oh-yo, euna bottiglia dirum», cantava-no i terribili pi-

rati televisivi de L’isola del tesoro,segnando per sempre l’immagina-rio alcolico dei ragazzini cresciutinei primi Sessanta, tra sogni di ter-re straordinarie ed emozioni percuori forti. Molto prima che He-mingway ne ridisegnasse i confinigeografici («Mi mojito en la Bode-guita, mi daiquirì en el Floridita»)consegnandoli all’abilità dei bar-man de L’Havana, il rum (dizioneinglese del ron spagnolo e del rhumfrancese) aveva già ampiamenteimpregnato le nostre fantasie col-lettive di afrori coloniali, sigari emelassa, colori ambrati e bottigliericamate di foglie intrecciate.

La fine dell’inverno rappresentaun discrimine eccitante nei consu-mi del rum. Finisce il tempo dei“vieux”, distillati risvegliati da ungiro di tappo dopo lunghissimisonni in botte, da quelle semplici diquercia americana alle raffinatebatterie dei metodi Solera, impre-state al rum dopo aver ospitatobourbon e cognac, giù giù fino al-l’elegantissimo sherry. Piccoli sorsipreziosi, da centellinare alternati auna scheggia di cioccolato fonden-te o aspirando una boccata di siga-ro (cubano, ça va sans dire).

Luce, serate tiepide, i primi as-saggi di mare aprono la stagione deicocktail: rum giovani, giovanissi-mi, “bianchi”, basi indispensabiliper shaker impazienti. Dalla golosapiña colada all’intrigante daiquirì,una sequenza impressionante diricette manda sulla passerella ditutti i bar del pianeta le bottiglieconcepite nei Caraibi.

Dietro la sua produzione, unmondo che ancora stenta a liberar-si dai retaggi del latifondismo, conle sue scie di raccoglitori mal paga-ti, villaggi espropriati, scorciatoie diproduzione per palati insipienti.Una storia punteggiata di boicot-taggi (nei confronti del “Bacardi”,fortemente sospettato di attività re-pressive in centro America) e botti-glie mal rabboccate nei locali (pes-sime misture di alcol, caramello earomatizzanti), ma anche di eti-chette virtuose e realtà sociali final-mente risanate. Ultimo esempio,quello della comunità maya deiChortì, uscita da un tunnel deva-stante di miseria e malattie lavo-rando la palma reale per imprezio-sire le confezioni del guatemaltecoZacapa.

Quando Andrés Botran, amico diRigoberta Menchú, nuova genera-zione eticamente sensibile di unadelle famiglie più ricche del Guate-mala, ha inaugurato il centro socia-le del villaggio, ha voluto far impri-mere nel cemento fresco l’impron-ta della mano di una delle lavoratri-ci. Qualche anno prima, Maria ave-va lasciato morire il suo bambinopiù piccolo per salvare gli altri quat-tro. «Stava malissimo, ma se l’aves-si portato in ospedale mio maritomi avrebbe ucciso a colpi di ma-chete». Oggi, sono le donne chortìad abbellire la bottiglie di ron piùprestigiose dell’America Latina,guadagnando il doppio degli uo-mini che tagliano le canne in pia-nura. E donna — Lorena Vasquez— è la sapiente master blender(cor-rispettivo dei maitre de cave dellochampagne) dell’azienda. Se glielochiedete, sarà felice di alzare unbicchiere di rum cooler (rum, gin-ger ale, zucchero e lime) per brin-dare al nuovo rum democratico.

Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41DOMENICA 19 APRILE 2009

AgricoleSimbolo dell’aoc

francese (la nostra

doc) il suadente

rhum “agricolo”

Clément nasce

in Martinica grazie

alla fermentazione

del vesou,

estratto della canna

da zucchero

macinata

itinerariAndrés Botranè tra gliamministratoridelle IndustriasLicorerasde Guatemala

Laureato a Boston,è stato candidatoal World FoodPrize 2007per il suo lavorodi supportoalle comunità maya

Nella cittadina-

gioiello, sede

delle migliori

scuole

di castigliano

dell’America

Latina,

ex capitale

dall’intatta atmosfera coloniale,

si gustano i migliori ron del Paese

DOVE DORMIREEL CONVENTO BOUTIQUE HOTEL

(con cucina)

2a North Avenue 11

Tel. (+502) 7720-7272

Camera doppia da 90 euro

DOVE MANGIARELA FONDA DE LA CALLE REAL

5a Avenida Norte 5

Tel. (+502) 832-2696

Sempre aperto,

menù da 25 euro

DOVE COMPRARELICORERIA ALMACEN TROCCOLI

3 Calle Poniente

Tel. (+502) 7832-0516

Nella capitale

della Martinica,

l’aperitivo

più popolare

è il Ti’(petit)

Punch,

un goloso mix

di sciroppo

di zucchero, rhum agricole bianco,

lime e ghiaccio

DOVE DORMIREVILLAGE CREOLE

Pointe du Bout, Les Trois-Ilets

Tel. (+59) 6-660319

Camera doppia da 100 euro

colazione inclusa

DOVE MANGIARELE BRÉDAS

Entrée Presqu’île St. Joseph

Tel. (+059) 6-576552

Chiuso nelle sere di domenica e lunedì

menù da 40 euro

DOVE COMPRAREDISTILLERIE DILLON

Place Dillon

Tel. (+59) 6-752020

Fort de FranceCuba Libre,

Mojito, Daiquiri,

Piña Colada:

i più sfiziosi

cocktail isolani

sono firmati

dai ron locali,

bianchi

e ambrati, aromatici ed equilibrati,

dall’Havana Club al Caney Añejo

DOVE DORMIREHOTEL SANTA ISABEL

Calle Baratillo 9

Tel. (+53) 7-8608201

Camera doppia da 70 euro

colazione inclusa

DOVE MANGIAREPALADAR LA COCINA DE LILLIAM

Calle 48 entre 13 y 15

Tel. (+53) 7-2096514

Chiuso sabato

menù da 30 euro

DOVE COMPRARELICORERA CUBAY

Bustamente 105

Tel. (+53) 7-795388

Havana de Cuba

Ma Che Guevara lo usava come anesteticoRUI FERREIRA

MIAMI

Parigi val bene una messa, ma L’Avana… Ah! L’Avana vale mi-gliaia di litri di rum. Altrimenti gli inglesi non si sarebbero presi la bri-ga di occuparla per nove mesi, in un disperato tentativo di controlla-re il commercio internazionale di questo alcol, allora da bassifondi,quando nel Diciottesimo secolo gli scozzesi misero l’embargo nonsolo sul whisky ma anche, per la disperazione dei loro vicini, sui cu-betti di acqua gelata del lago Ness.

Diceva Fernando Campoamor, considerato a Cuba lo storico delrum, che nessuno conosce con sicurezza l’origine del nettare dellacanna da zucchero. C’è solo una certezza, che il rum viene dalla can-na, ma non c’è traccia del nome di colui al quale venne l’idea di striz-zarla, fermentarne il liquido, e metterlo a “riposare” dai tre ai venti-cinque anni fino ad ottenere il colore desiderato.

Nel mondo di oggi, mi viene da pensare che non si tratti altro che diun trucco simile a quello della “formula segreta” della Coca Cola: tut-ti quelli che la imbottigliano la conoscono ma nessuno la svela e con-tinuiamo a vivere nel mistero, perché è più sexy. Nella storia del rumaccade più o meno la stessa cosa e lo dimostrano le vicende della fa-miglia Bacardì, i padri del rum cubano. A don Facundo Bacardì i Mas-sò, un catalano trasferitosi a Santiago di Cuba che aveva un piede aPortorico e lo sguardo sulle piantagioni di canna di Santo Domingo eHaiti, viene attribuita la formula del cosiddetto “rum bianco”, quello

invecchiato tre anni, scoperta in una notte di libagioni alla fine del-l’Ottocento, quando gli americani stavano per affondare la flotta spa-gnola di fronte a Santiago. Più di cent’anni dopo, si dice ancora chenel processo di fermentazione don Facundo aggiungesse una gene-rosa dose di zucchero, che addolciva la bevanda ma soprattutto au-mentava di molto il suo livello alcolico. E magari fu per questo che imarinai galiziani persero la guerra con quelli americani.

Ma nulla è più lontano dalla verità. Il rum venne inventato nell’an-tica Cina ed arrivò in India, dove Marco Polo lo conobbe e lo aggiun-se al suo bagaglio insieme al tè, alla carta e a altri souvenir. In questomodo arrivò in Europa e non al contrario. Quello che accade doposembra un incidente storico. Il rum venne portato nei Caraibi comericompensa per il buon lavoro degli equipaggi delle navi da traspor-to e come medicina per curare numerosi tipi di malattie.

Molti anni più tardi, sulla Sierra Maestra, Che Guevara avrebbe re-cuperato l’uso clinico del rum quando toglieva i denti marci ai guer-riglieri di Fidel Castro. La guerriglia infatti aveva scelto di trasportarerum invece di alcol perché era utile in due casi: per l’anestesia e per losvago. Oggi il rum è indispensabile nella cultura popolare dei Carai-bi e da quando venne mescolato alla Coca Cola — le formule segretefiniscono sempre per diventare complici — è anche il principale in-grediente di uno dei cocktail più famosi del mondo: il Cuba Libre. Me-glio conosciuto come il “jà-jà-jà”. Sì, per via della battuta: «Mi dia unCuba Libre». «Cuba Libre? Ah, ah, ah!».

Colombo porta la canna

da zucchero ai Caraibi

1493l’altezza della canna

da zucchero

3 metrii gradi alcolici

dopo la distillazione

70i gradi dopo l’aggiunta

di acqua distillata

43

Antigua Guatemala

il consorzioDopo quasi quattro secoli

di produzioni gelosamente

custodite nei singoli paesi

della collana caraibica,

è stato costituito

il consorzio di tutela “West

Indies Rum & Spirits

Producers’ Association”,

che sotto il marchio

“Authentic Caribbean Rum”

raccoglie le etichette

delle Indie Occidentali,

terra-madre del distillato

di melassa. A Barbados,

infatti, per la prima volta

venne degustato

il liquore elaborato

alla Mount Gay Distillery

BabàSbarcato a Napoli

grazie ai monsù

(da monsieur),

i cuochi dei reali

di Francia, vive

della fragranza

della pasta lievitata

intrisa di una bagna

di zucchero, acqua

e rum. Prima

di servirlo, ancora rum

Ponce livorneseAlcol, zucchero,

caramello

ed essenza di rum

(rum fantasia

o “rumme”)

per la bevanda

nata nel Settecento

dalla rottura dei barili

di rum di un veliero

sulle balle di caffè

nel porto di Livorno

ScuroA differenza

del bianco,

non affinato, il rum

passato in botte

è ambrato, con aromi

complessi

L’uso del caramello

(come nel Demerara)

accentua

i riflessi tabacco

e arrotonda il gusto

Da melassaLa più vecchia

distilleria del mondo,

fondata nel 1703,

è a Barbados

e produce

il Mount Gay,

rum di tradizione

britannica a base

di melassa, residuo

di lavorazione

dello zucchero

Succo di cannaZacapa XO è il re

dei ron prodotti

in Guatemala a partire

dal miel virgen (succo

concentrato di canna),

che esalta le note

morbide

L’invecchiamento

avviene in alta quota

secondo

il metodo solera

CuneesiInventati nel 1923

da Andrea Arione

(pasticceria

ancora attiva

a Cuneo, in piazza

Galimberti), sono

delle meringhette

farcite di crema,

cioccolato e rum,

ricoperte di glassa

al cioccolato

Banane flambèRicetta gloriosa

degli anni Settanta,

quando i camerieri

flambavano i dolci

direttamente

al tavolo dei clienti

Banane spadellate

in burro, zucchero

e succo d’arancia,

fiammeggiate

col rum

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le tendenzeEccessi di moda

Sandali che ricordano le calzature dei wrestler dell’antichità,un mix di gabbie di stringhe, tacchi a stiletto, pelli e tessutidalle preziosità esotiche. È il tormentone della prossima estate,un’invenzione degli shoe designer che complica la vita ma rende sexy

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43DOMENICA 19 APRILE 2009

Amati dai feticisti e da tutti quelli con-vinti che una donna, per essere sexy,debba arrampicarsi sui tacchi. De-testati da coloro che vorrebbero chela moda fosse una questione di co-modità. Sono il nuovo tormentone

dell’estate: sandali-architettura. Ricordano le cal-zature dei gladiatori ma, tra la suola e il pavimento,ci mettono almeno sette centimetri. Riducono ilpiede in una gabbia di listini di pelle. Intrappolanola caviglia tra intrecci e griglie. Complicano la vitama rendono sexy. Di più. Cattive. Particolarmenteindicati per quelle donne che pensano che la vita sia

una battaglia e che un assetto da combattimentopossa tornare utile, i sandali gladiator style hannoscatenato le fantasie di un esercito di novelle Afro-dite. Sarebbero sicuramente piaciute a Pierre Ha-rel, couturier della calzatura che già nel 1920 creavadécolleté dal tacco Luigi XV e stivali a stiletto, le nuo-ve creazioni a metà tra arte e moda. Ma soprattuttoHarel, anticipatore dei tempi, aveva proposto unamoltitudine di pellami come l’iguana del Mali, il pi-tone e lo struzzo d’Indonesia. Per realizzare unascarpa così pregiata, ai primi del Novecento, ci vo-levano centocinquanta manipolazioni diverse euna meccanica di alta precisione. E sono proprioquelle stesse pelli che, con buona pace degli ani-malisti, ritornano protagoniste.

Non solo. Per soddisfare le modaiole più accani-te, gli shoe designerhanno dato fondo alla creatività.Pelli intrecciate come vimini, tomaie lavorate daimaestri artigiani, tessuti metallizzati, stringhe ripe-tute mille volte, impalcature che sfiorano il ginoc-chio. Le calzature versione 2009 hanno poco in co-mune con i sandali da dea greca che timidamente,nelle scorse stagioni, si erano affacciati su marcia-piedi e passerelle. Più indicati per una puntata di Sex& The City, che per un salto a ritroso nell’Olimpo, siarricchiscono di puntute borchie (Kenzo, John Ri-chmond) o di bande e fasce per un tocco fetish. Ingenere i materiali sono preziosi: trionfano il pitone(Dior, Celyn) e le stoffe saccheggiate dagli abiti dagran sera (Gucci, Emporio Armani, Bally).

E, tendenza per tendenza, c’è anche chi i jeans,naturalmente molto stretti sul fondo, sceglie d’in-dossarli infilati sotto i lacci dei sandali. La strava-ganza arriva da New York ma con i primi caldi qual-che timido esempio di sirenette intrappolate nelmultilaccio s’intravede anche nelle nostre città. Eper chi di altezze vertiginose non vuole sentire par-lare? Le eccezioni non mancano. Il gladiator è statoanche declinato da qualche pietoso couturier inuna più pacata versione rasoterra, indicata nellegiornate di lavoro intenso e di caldo umido quandol’asfalto, a dispetto del fashion, sembra sciogliersisotto i piedi. Vince in questo caso un gioco di lacciche assicura il giusto equilibrio, un incedere di granclasse (Miu Miu, Furla) e un tocco di glamour.

IRENE MARIA SCALISE

Calpestare il mondosulle scarpe-scultura

RASOTERRAUna dea rasoterra

per Furla Talent Hub

Piacerà alle più sportive

il sandalo color oro

con una piccola

frangia decorativa

GUERRIEREIl sandalo Gucci poggia

su un plateau spericolato

Alla caviglia tre cinturini

assicurano la falcata

delle nuove guerriere

INTRECCICinturino doppio alla caviglia,

plateau e tacco intrecciato

per questa scarpa

Ferragamo che non passa

certo inosservata

EFFETTO AFRODITEÈ una moderna

Afrodite la donna

griffata Louis Vuitton

Sandali-scultura,

minigonna e maglia

a lavorazione preziosa

MINIMALÈ minimal

il sandalo azzurro

elettrico

di Emporio

Armani. Si chiude

sul tallone

con una zip severa

SETTE PER SETTESette cinturini

e altrettante fibbie

per i sandali di Celyn

in prezioso camoscio

Ci vuole pazienza

per indossarli e sfilarli

ma l’effetto è garantito

ORIGAMILe creazioni

di Roger Vivier,

in pelle

pitonata,

sono un

capolavoro

di origami,

cinturini

e tacco

vertiginoso

Dopo le dieci

di sera

NIENTE TACCOMorbido camoscio

e un solo cinturino

per questo sandalo

Miu Miu alla moda

ma non aggressivo

FUCSIA CHICLavorazione

artigianale per il sandalo

rosa fucsia di Dior

Il tacco è vertiginoso,

sul davanti fasce

sovrapposte

BAD SHOEÈ quasi una scarpa

da bad girl

il sandalo

proposto

da John

Richmond

Sfiora

il polpaccio

con una serie

di cerchi

concentrici

con tanto

di borchie

a punta e tonde

DEA SENSUALEÈ delicata e sensuale

la dea greca

proposta da Kenzo

Intrecci per scarpe

e vestito e capelli

raccolti garantiscono

fascino senza tempo

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l’incontro44 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 19 APRILE 2009

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Popstar

Ah no, non toccatemila canzonetta...La canzonetta entranella vita della gente,proprio comeè entrata nella miaTutti la maltrattanoma in fondosanno che è preziosa

Ha fatto centro al primo tentativo,un successo folgorante, milionidi dischi venduti ma pochi spiccioliin tasca per un contratto sbagliato

Lo ha salvato la sua naturadi “secchione”: è ripartitoda se stesso, si è laureatoin lingue, si è trasferitoa Londra. Ora, mentreparte per il nuovo tour,questo ragazzo di Latina

si sente cambiato ed è contento“Non sopporto chi ti dice: non cambiaremai. È il consiglio di chi ti odia”

MILANO

Ha gli occhi rossi. «Ognivolta che scrivo una bellacanzone mi commuo-vo», dice. Per la verità,

non sembra il momento ideale per com-porre. Tiziano Ferro sta preparando ilnuovo tour (che è partito ieri sera da Ri-mini), e questa volta non sono solo pala-sport (4 e 5 maggio al Datch Forum di Mi-lano), il 24 giugno lo aspetta lo StadioOlimpico di Roma. C’è un bel daffare:scegliere la sequenza dei brani, istruire icoristi, affiatarsi con il gruppo, coordi-nare i movimenti di scena. E le lezioni dicanto, «perché le corde vocali se le rom-pi non puoi sostituirle come quelle delviolino». Cose da popstar, insomma.«Star?», esclama sgranando gli occhi.Scoppia in una fragorosa risata: «Chi io?Grazie, ma non ne sono sicuro». Comeno? Quattro dischi di successo, milioni dicopie vendute, tour mondiali, fan in de-lirio. E poi dozzine di collaborazioni, unalbum scritto e prodotto per Giusy Fer-reri, il caso discografico dell’anno scorso(«La odiai la prima volta che la vidi can-tare. Mi infastidiva. In realtà ero solostregato dalla sua voce»). Riflette: «Misento felice, soddisfatto, ma non riesco afare un bilancio reale. Siamo in un mo-mento in cui non si sa qual è il punto di ri-ferimento, certo non più la classifica, didischi non se ne vendono. È triste, ma ècosì. Io, per riderci su, dico sempre cheho preso l’ultimo treno».

Tiziano è un secchione. 55/60 alla ma-turità scientifica, poi subito all’univer-sità. Non una facoltà da bamboccione,ingegneria. Nel frattempo scrive canzo-ni. Vorrebbe cantarle, ma la risposta èsempre no. Lo boccia anche l’Accade-

mia della Canzone di Sanremo. È bravis-simo a fare l’imitazione di Mara Maion-chi, quando racconta delle grasse escla-mazioni che lei e suo marito Alberto Sa-lerno (i produttori che hanno intuito ilsuo talento) fanno quando ascoltanoXdono. Bellissima, ma la risposta dei di-scografici è sempre no. «Tu non sei adat-to, falla cantare a qualcun altro», gli di-cono. Invece l’album Rosso relativo, nel2001, esplode come una bomba. Ma iconti non tornano. «Mi sono ritrovatopopstar, ma senza privilegi e squattrina-to». Vendite milionarie, ma la maggiorparte dei proventi finisce nelle tasche deisuoi talent scout. Sul contratto c’è scrit-to così. «La mia situazione economicaera completamente scollata dalla cele-brità», ricorda. «Era un problema ancheaffrontare un tenore di vita all’altezzadella situazione. Non è che volessi la Fer-rari, ma almeno avere la possibilità di ac-cendere un mutuo. Per farla breve, ave-vo pubblicato tre dischi di successo enon potevo comprarmi una casa. Quel-lo è stato il momento in cui ho svalvola-to. Mi sentivo in balìa di una situazioneche non riuscivo a controllare, eranocambiate tante, troppe cose. Temevo lasindrome della popstar: l’isolamento.Non era quella la realtà che avevo imma-ginato per me. Avevo degli amici che aventitré anni si stavano laureando in giu-risprudenza, scienze della comunica-zione o medicina, e io lì a fare dischi, sen-za imparare niente di nuovo. E senza unalira».

Gli viene in soccorso l’altro Tiziano, ilsecchione, quello che a Latina, da adole-scente, cantava nel coro gospel, fre-quentava il liceo, giocava a rugby e scri-veva canzoni. «Allora — nel 2003, dopoaver inciso il secondo disco — prendo ilcoraggio a quattro mani e faccio il testd’ingresso all’università di lingue per in-terprete e traduttore. A Los Angeles. Hoportato avanti il corso di laurea, mi sonotrasferito alla succursale di Puebla, inMessico, perché trovavo Hollywood de-testabile. È stata la prima frattura fra mee il lavoro: dopo il successo sconvolgen-te, ho voluto ristabilire un contatto conme stesso, con la mia quotidianità. Inquei tre anni ho capito come mi piace vi-vere e da lì ho imparato la lezione: d’orain poi si fa, ma si fa come dico io». Non unparola per maledire quel primo contrat-to capestro. «Mi mise in sintonia con lamusica. Di quello volevo vivere. Se al-l’improvviso mi fossero arrivati i milionidei dischi venduti, mi sarei rincoglioni-to», ammette. E sembra sincero. «Ma cheumiliazione quando, a ventitré anni, do-po aver venduto tre milioni di dischi, ildirettore della banca, davanti a mio pa-dre, mi disse: “Ti vediamo ovunque, sap-

piamo che sei famoso, ma qui non ci so-no gli estremi per accendere un mu-tuo”».

Sa che nello star system lui è un casoisolato, che se fosse stato in America, do-po Xdono e Sere nere, avrebbe viaggiatoin limousine e abitato in una villa conmaggiordomo a Beverly Hills. «Forse al-le star piace vivere in quel modo, a meno», protesta. «Quando ho iniziato, vive-vo di speranze. E stupidamente immagi-navo che successo e ricchezza potesserocompensare alcune altre mancanze». Ilsecchione lo riporta con i piedi per terra.Dopo la laurea messicana, non torna aLatina, si stabilisce a Londra. «Ho sem-pre bisogno di affrontare una nuova sfi-da. Vivo in Inghilterra da quattro anni, èbello, stimolante. Non posso fermarmi apensare che a ventinove anni ho vistotutto, imparato tutto dalla vita, quando imiei amici si stanno specializzando inginecologia e studiano progetti all’avan-guardia per multinazionali. Di bamboc-cioni non ne ho mai conosciuti. I mieiamici parlano tre lingue, conoscono be-nissimo il computer, viaggiano. E io do-

vrei accontentarmi di una canzone in tv?Allora mi sono detto, dai muoviti, alza ilculo, fai qualcosa di più».

Insomma, la canzonetta è bella, ma hai suoi limiti. «Ah no, attenzione, la can-zonetta non si tocca», interrompe. «Lacanzonetta cambia la vita alla gente, co-me l’ha cambiata a me. Tutti la maltrat-tano, ma in fondo sanno che è preziosa.Quel che volevo dire è: ho cominciato afare questo lavoro a vent’anni. A quel-l’età non ci si può accontentare delle lu-singhe del successo. Pensavo che con unlavoro universalmente riconosciutoavrei anche potuto fare a meno di unalaurea. Mi sbagliavo. Pensavo che se unosi sente amato e rispettato dagli altri, au-tomaticamente si ama e si rispetta di più.Mi sbagliavo. L’inquietudine resta lastessa». A quanto pare, Tiziano Ferro, ilsecchione, è ancora il ragazzo di Latina.Niente è cambiato. «E invece è cambiatotutto», ammette. «Prima del successo,vivevo con i miei, non mi ero mai mossoda Latina. A parte la gita scolastica a Pra-ga. Un solo aereo in vita mia. Purtroppocambia tutto. Non sopporto le personeche ti dicono: non cambiare mai. È il con-siglio di chi ti odia. Se hai un cervello e uncuore, è normale che cambi di fronte al-le sollecitazioni della vita. “Non cambia-re, resta quel che sei”. E come fai quandotutto il resto cambia, le abitudini, il ca-lendario, le esigenze?».

La passione per la musica è stata ali-mentata in casa. Papà geometra, mam-ma odontotecnica. Lui innamorato diBeatles, Rolling Stones, Pink Floyd, Ja-nis Joplin. Lei tutta per Riccardo Coc-ciante, De Gregori, Battisti, Battiato.«Non ricordo un giorno della mia vitasenza musica», racconta. «Ho consu-mato le cassette del Nostro caro angeloe Cervo a primavera. Un miliardo diascolti. Ma anche del White albume Thewall. Ho scoperto la mia voce scrivendole prime canzoni. Anche se all’inizio leimmaginavo cantate da altri: LauraPausini, Giorgia, Zucchero, Anna Oxa.Poi ho cominciato a usare la mia voce,maleducatissima e assolutamenteistintiva. Il coro gospel era rassicurante,lì ero protetto, mi nascondevo tra gli al-tri. Una volta il direttore sentendomicantare Nobody knows the trouble I’veseen, fermò le prove e mi chiese di fareun passo in avanti. “Ricantala da solo”,disse. Da quel giorno divenni solista. Cipresi gusto. “Quasi quasi me le canto iole mie canzoni”, pensai. Volevo fare del-la musica un mestiere, non importa inche modo, esecutore o autore, no pro-blem. E per quattro anni ho bussato aogni porta. Sono tanti quattro anni...».

Il successo è arrivato all’istante. Nonha dovuto incidere tre album per entra-

re nella testa della gente. Centro al pri-mo colpo. E, come succede alle popstar,con i trionfi arriva l’adorazione. E qual-che stranezza. «Di bizzarrie la nostra vi-ta è piena», racconta. «Una fan svizzeraha fatto realizzare una scultura in cioc-colato massiccio di Tiziano Ferro, qua-si a grandezza naturale, e me l’ha fattaconsegnare in hotel. La cosa più scioc-cante è stata dovermi sbriciolare e spac-carmi la faccia. Mi ha fatto sentire privi-legiato e amato. Tanta attenzione dauna persona che in fondo non ti deveniente. Ma mi ha anche fatto riflettere:il peso specifico che un cantante puòavere nella vita di una persona è enor-me. E poi in America latina... le ragaz-ze... meglio non raccontare. Questa èuna professione che dà tanto e toglie al-trettanto. A me ha tolto il contatto con lepersone. Ciò che paradossalmente do-vrebbe renderti più partecipe della vitadella gente in realtà ti allontana. Inevi-tabilmente cominci a proteggerti, per-ché pensi che non tutti quelli che ti av-vicinano lo facciano con una buona in-tenzione. Io per fortuna ho avuto solouna esperienza di violenza fisica. Hobeccato un pugno in piena faccia dauno che diceva che mi ero stretto trop-po alla sua ragazza in una foto di grup-po con i fan. Basta un episodio comequello per creare un paravento tra te e lagente. Un’altra cosa che non mi piace,di questo lavoro, è che inevitabilmenteti scolla dalla realtà. Per questo io cercodisperatamente di riprendere i mieispazi. Anche se non fuggo mai sull’iso-la deserta. Resto iperattivo anche in va-canza. Se non canto, datemi almeno unlibro di esercizi d’inglese». S’infila ilgiubbotto, chiama un taxi. Di corsa ver-so un altro studio. Ha fretta d’incidere lanuova canzone. Quella che gli ha fattogli occhi rossi.

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GIUSEPPE VIDETTI

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Tiziano Ferro

Repubblica Nazionale