I due inferni di New Orleans - la...

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DOMENICA 16 MAGGIO 2010/Numero 275 D omenica La di Repubblica i sapori Benvenuti nell’era del post-pane LICIA GRANELLO e MARINO NIOLA l’incontro Peter Brook, quando il teatro è ribelle LEONETTA BENTIVOGLIO spettacoli Ridere kosher, i comici ebrei americani MONI OVADIA e VITTORIO ZUCCONI cultura Achille Campanile, maestro di nonsense PAOLO MAURI la società Fenomenologia della minigonna ANAIS GINORI NEW YORK « N on esiste fede pari a quella di chi costruisce case lungo la costa della Louisiana», dice Ab- dulrahman Zeitoun. E questo muratore si- riano-americano continua a costruire. Il 29 agosto 2005 era nella sua New Orleans quando la furia dell’uragano Katrina fece saltare gli argini. Ci rimase quando l’80% della città era allagata. Restò nell’orrore che seguì: i 1500 morti, i due milioni di pro- fughi nell’intera regione del Golfo. Zeitoun è ancora lì che costruisce oggi, mentre la Louisiana assorbe lo shock della marea nera, quella che alcuni hanno previsto (o sperato) diventi «la Katrina di Barack Obama». In questi cinque anni Zeitoun ha visto due volte l’Apoca- lisse, due catastrofi si sono accanite contro la sua terra promessa. (segue nelle pagine successive) FEDERICO RAMPINI Z eitounsi svegliò dopo le nove, stremato dagli ululati dei cani. Quel giorno voleva trovarli a tutti i costi. Dopo aver pregato, percorse in canoa il giardino inondato. I cani sembravano vicinissimi. Attraversò la strada e svoltò a sinistra su Dart Street. Appena qualche casa più in giù, trovò esatta- mente ciò che cercava. Conosceva bene quella casa. Si avvicinò pagaiando, e i cani im- pazzirono. I loro guaiti disperati provenivano dall’interno. Ora doveva trovare un modo per entrare. Il primo piano era alla- gato, ragione per cui i cani — a occhio e croce due — dovevano esse- re intrappolati al piano di sopra. Vicino alla casa c’era un albero con molti rami. Ci si avvicinò e legò la canoa al tronco. (segue nelle pagine successive) DAVE EGGERS I due inferni di New Orleans La marea nera che devasta le coste della Louisiana. E il libro-verità di Dave Eggers che narra i retroscena sconvolgenti dell’uragano Katrina ILLUSTRAZIONE DI GIPI Repubblica Nazionale

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DOMENICA 16MAGGIO 2010/Numero 275

DomenicaLa

di Repubblica

i sapori

Benvenuti nell’era del post-paneLICIA GRANELLO e MARINO NIOLA

l’incontro

Peter Brook, quando il teatro è ribelleLEONETTA BENTIVOGLIO

spettacoli

Ridere kosher, i comici ebrei americaniMONI OVADIA e VITTORIO ZUCCONI

cultura

Achille Campanile, maestro di nonsensePAOLO MAURI

la società

Fenomenologia della minigonnaANAIS GINORI

NEW YORK

«Non esiste fede pari a quella di chi costruiscecase lungo la costa della Louisiana», dice Ab-dulrahman Zeitoun. E questo muratore si-riano-americano continua a costruire. Il 29

agosto 2005 era nella sua New Orleans quando la furia dell’uraganoKatrina fece saltare gli argini. Ci rimase quando l’80% della città eraallagata. Restò nell’orrore che seguì: i 1500 morti, i due milioni di pro-fughi nell’intera regione del Golfo. Zeitoun è ancora lì che costruisceoggi, mentre la Louisiana assorbe lo shock della marea nera, quellache alcuni hanno previsto (o sperato) diventi «la Katrina di BarackObama». In questi cinque anni Zeitoun ha visto due volte l’Apoca-lisse, due catastrofi si sono accanite contro la sua terra promessa.

(segue nelle pagine successive)

FEDERICO RAMPINI

Zeitounsi svegliò dopo le nove, stremato dagli ululati deicani. Quel giorno voleva trovarli a tutti i costi. Dopo averpregato, percorse in canoa il giardino inondato. I canisembravano vicinissimi. Attraversò la strada e svoltò a

sinistra su Dart Street. Appena qualche casa più in giù, trovò esatta-mente ciò che cercava.

Conosceva bene quella casa. Si avvicinò pagaiando, e i cani im-pazzirono. I loro guaiti disperati provenivano dall’interno.

Ora doveva trovare un modo per entrare. Il primo piano era alla-gato, ragione per cui i cani — a occhio e croce due — dovevano esse-re intrappolati al piano di sopra. Vicino alla casa c’era un albero conmolti rami. Ci si avvicinò e legò la canoa al tronco.

(segue nelle pagine successive)

DAVE EGGERS

I due inferni di New OrleansLa marea nera che devasta le coste

della Louisiana. E il libro-veritàdi Dave Eggers che narra i retroscenasconvolgenti dell’uragano Katrina

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34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 16MAGGIO 2010

la copertinaInferni

Zeitoun, un uomo nel disastro

Per la seconda volta in cinque anniNew Orleans è al centro di un’apocalisseE mentre la marea nera avanza verso la costae mette alla frusta il governo Obama, un libro

di Dave Eggers di cui pubblichiamo un brano

in anteprima racconta la storia degli abusi

commessi dal governo Bush durante

le terribili giornate dell’uragano Katrina

(segue dalla copertina)

Si issò sull’albero, arrampicandosi finché non riuscì ascorgere una finestra al primo piano. Non vedeva i cani,ma li sentiva. Erano in quella casa, e molto vicino. L’al-bero su cui era salito si trovava a circa tre metri dalla fi-nestra. Saltare era impossibile. Troppo lontano. In quelmomento vide un’asse di legno, larga trenta centimetri

e lunga quattro o cinque metri, che galleggiava nel cortiletto accan-to alla casa. Scese dall’albero, raggiunse l’asse con la canoa, la portòvicino alla casa e l’appoggiò contro l’albero. Poi risalì sui rami, e sol-levando l’asse creò un ponte tra l’albero e il tetto. Si trovava a circacinque metri da terra, due metri e mezzo dalla superficie dell’acqua.

Il ponte che aveva creato non era troppo diverso dalle impalcatu-re di cui si serviva ogni giorno al lavoro, e così, dopo averlo saggiatorapidamente con un piede, lo attraversò e raggiunse il tetto.

Una volta lì, forzò una finestra e s’introdusse in casa. I latrati si fe-cero più forti e frenetici. Attraversò la stanza in cui era entrato, sen-tendo i cani farsi sempre più isterici. Percorrendo il corridoio del pri-mo piano, li vide: due cani, un labrador nero e un incrocio più pic-colo, chiusi in una gabbia. Non avevano cibo, e la ciotola dell’acquaera vuota. Sembravano sufficientemente esasperati da poterlo mor-dere, ma Zeitoun non esitò. Aprì la gabbia e li lasciò uscire. Il labra-dor si fiondò fuori dalla stanza, l’altro indietreggiò nella gabbia im-paurito. Zeitoun si fece da parte per lasciargli spazio, ma lui rimasedov’era.

Il labrador non poteva andare da nessuna parte. Corse in cima al-le scale, ma subito vide l’acqua ad appena pochi centimetri sotto ilprimo piano. Tornò da Zeitoun, che nel mentre aveva pensato cosafare.

«Aspettatemi qui» disse loro.Riattraversò il ponte di legno, scese dall’albero salendo sulla ca-

noa, e tornò a casa sua. Si arrampicò sul tetto, entrò dalla finestra escese i pochi scalini che non erano stati sommersi. Sapendo cheKathy teneva sempre il freezer pieno di carne e verdure, si protese erecuperò due bistecche, affrettandosi a richiudere lo sportello perimpedire al poco freddo rimasto di disperdersi. Tornò sul tetto, pre-se due bottiglie di plastica piene d’acqua e le gettò con le bistecche

nella canoa. Scivolò a bordo e tornò dai cani.Di nuovo lo sentirono avvicinarsi, stavolta facendosi trovare in at-

tesa oltre la finestra, con le teste che spuntavano da dietro il davan-zale. Sentendo l’odore della carne, benché congelata, attaccarono adabbaiare e scodinzolare come matti. Zeitoun gli riempì la ciotola del-l’acqua, e loro ci si avventarono. Riempiti i serbatoi, passarono alle bi-stecche, che masticarono finché la carne non si fu ammorbidita. Zei-toun rimase a osservarli per qualche minuto, stanco ma felice, finchénon cominciò a sentire altri latrati. C’erano altri cani, e lui aveva uncongelatore pieno di cibo. Tornò a casa sua per organizzarsi.

Caricò sulla canoa altra carne, quindi si mise in cerca degli altri ani-mali abbandonati. Quasi subito, appena si fu allontanato da casa,sentì altri latrati, stavolta più attutiti, provenienti grosso modo dallostesso punto in cui si trovavano i primi due cani.

Si avvicinò, chiedendosi se per caso in quella casa non ce ne fosseun terzo. Ancorò di nuovo la canoa all’albero, prese due bistecche esi arrampicò. Da un ramo a mezza altezza si voltò verso la casa vicina,quella a sinistra, e vide altri due cani che saltellavano dietro una fine-stra.

Sfilò l’asse dalla prima casa e la spostò verso la seconda. I cani, ve-dendolo arrivare, cominciarono a saltare e girare in tondo furiosa-mente.

Poco dopo, Zeitoun riuscì ad aprire la finestra ed entrare. I due ca-ni gli balzarono addosso. Lanciò le bistecche, e quelli ci si avventaro-no, dimenticandosi completamente di lui. Doveva procurare del-l’acqua anche a loro, per cui tornò a casa a prendere altre bottiglie euna ciotola.

Zeitoun gli lasciò la finestra aperta abbastanza da far entrare un po’d’aria fresca, dopodiché riattraversò l’asse e dall’albero si calò nellacanoa. Impugnato il remo ripartì, pensando che fosse ora di chiama-re Kathy.

Mentre remava, notò che l’acqua si stava facendo più sporca. Eradiventata scura, opaca, striata di nafta e benzina, piena di detriti, ci-bo, immondizia, vestiti, pezzi di case. Ma l’umore di Zeitoun era alto.Si sentiva rinvigorito da ciò che era riuscito a fare per quegli animali,dal fatto di averli potuti aiutare, e che quattro cani destinati a moriredi fame ora sarebbero sopravvissuti perché lui era rimasto, e perchéaveva comprato quella vecchia canoa. Non vedeva l’ora di dirlo aKathy.

Arrivò alla casa in Claiborne Avenue a mezzogiorno. Todd non c’e-ra, e la casa era vuota. Entrò a telefonare.

«Oh, grazie a Dio!» esclamò Kathy. «Dio, grazie, grazie, grazie.Dov’eri finito?». Lei e i figli stavano ancora viaggiando verso Houston.Accostò.

«Di cosa ti preoccupavi?» le chiese Zeitoun. «Te l’avevo detto cheavrei chiamato a mezzogiorno. È mezzogiorno adesso».

«Chi era quell’uomo?» chiese lei.«Che uomo?».Kathy gli spiegò che, quando al mattino aveva provato a telefona-

re, le aveva risposto qualcun altro. Zeitoun rimase turbato. Mentreparlavano, cominciò a guardarsi intorno. Non c’erano segni di furtoo effrazione. Niente serrature forzate o finestre rotte. Che l’uomo inquestione fosse un amico di Todd? Disse a Kathy di non preoccupar-si, che avrebbe indagato.

Kathy, ora più calma, fu felice di sapere che suo marito era riuscitoad aiutare i cani, che si sentiva utile. Ma non voleva assolutamenteche rimanesse ancora a New Orleans, e pazienza quanti cani da nu-trire o persone da salvare avesse.

«Voglio che tu venga via, sul serio» gli disse. «Dalla città arrivano no-

DAVE EGGERS

IL LIBRO

Zeitoun di Dave Eggers esce

il 28 maggio da Mondadori

(traduzione di Matteo Colombo,

312 pagine, 17,50 euro)

È un’opera di non fiction basata

sui racconti di Abdulrahman

e Kathy Zeitoun. Lui è un siriano

immigrato negli Usa;

lei un’americana convertitasi

all’Islam. Abdulrahman diviene

vittima delle autorità Usa

Nel caos della New Orleans

in ginocchio a causa dell’uragano

Katrina, viene accusato

di essere un affiliato di Al Qaeda

Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35DOMENICA 16MAGGIO 2010

(segue dalla copertina)

Come il medico solo di fronte alla peste nelromanzo di Albert Camus, nella tragediaZeitoun ha provato la sua umanità. E

contro questo eroe indifeso si è accanita la logi-ca assurda della ragion di Stato. La sua storia ètroppo perfetta per essere un romanzo. PerciòDave Eggers, l’enfant prodige di San Francisco,ha lasciato in un angolo il genio letterario; perraccontare la storia di Zeitoun si è fatto umilecronista. Ha represso lo sdegno, rinunciato al-l’invettiva. I nudi fatti sono più che sufficienti.

Nell’agosto di cinque anni fa, la moglie Kathye i quattro figli di Zeitoun fuggono per tempo difronte all’avanzata di Katrina. Lui da solo deci-de di restare in città. Quando New Orleans èsommersa, salta sulla sua canoa, si aggira inquel paesaggio sconvolto. Ci sono anziani ab-bandonati, a cui porta le prime provviste. Soc-corre i cani che abbaiano disperati, sentono l’o-dore della morte. Il primo giorno Zeitoun salvacinque persone. «Non aveva mai sentito tantaenergia, tanto senso di uno scopo nella vita.C’era bisogno di lui». Al terzo giorno del disa-stro, quando le acque luride e puzzolenti si gon-fiano di cadaveri che galleggiano, Zeitoun ha ilprimo contatto surreale con lo Stato. Due vec-chi vicini di casa, i coniugi Williams, devono es-sere portati via ma la sua canoa è troppo picco-la. Lui rema in cerca di aiuti e finalmente avvi-sta dei soldati. Lo cacciano: «Non è il nostro me-stiere». Hanno radio ricetrasmittenti ma dico-no di non poterle usare. Passano altri cinquegiorni. Il 6 settembre Zeitoun è in casa quandofanno irruzione cinque uomini e una donna intuta mimetica, con fucili automatici M-16. Locaricano su un battello militare. Da quel mo-mento comincia per lui il vero incubo, un’altratragedia nascosta dentro la storia di Katrina.Una vicenda crudele e sconosciuta.

Tutti associano l’inondazione di New Or-leans con il punto più basso dell’Amministra-zione Bush: l’indifferenza, l’incompetenza, ladisorganizzazione. Uno spettacolo da Terzomondo nel cuore dell’America. Il ritardo in-spiegabile degli aiuti, le vittime abbandonate.Ma in mezzo a quella débacle, si scopre, ci fu an-che uno sprazzo di paranoica efficienza. L’a-genzia della protezione civile dopo l’11 settem-bre 2001 era finita dentro la Homeland Secu-rity, un superministero degli Interni. E dai ver-tici della Homeland Security durante l’agoniadi New Orleans arriva un avvertimento chesembra tragicomico, se non avesse conse-guenze tanto sinistre. L’uragano può essere“sfruttato” da gruppi di terroristi. In vari modi:«Sequestro di ostaggi, attacchi a rifugi di sfolla-ti, attacchi elettronici o sostituzioni di personeatte a impersonare responsabili dell’ordine».Così, mentre centinaia di cittadini americanimuoiono annegati in telecronaca diretta, ri-presi sugli schermi della Cnn, mentre nello sta-dio Superdome gli sfollati impazziscono di fa-

me sete e caldo, a due passi da lì inizia la co-struzione di un carcere. Nella stazione abban-donata degli autobus di linea Greyhound, l’e-sercito deporta centinaia di detenuti dal peni-tenziario Angola, per dei lavori forzati moltospeciali. Bisogna tirar su in fretta una prigione.La Guantanamo segreta dell’uragano Katrina.

Zeitoun ci starà quasi un mese. «Un talibano,uno di al Qaeda», dice un soldato dopo aver vi-sto la sua faccia da arabo. Un mese senza poterparlare con la moglie, che non sa più nulla di lui.Senza avvocati. Accusato di aver saccheggiatouna casa: la sua. Come lui ci sono altri 1.200 de-tenuti, a maggioranza neri. Saranno rilasciatisenza scuse, né indennizzi, senza uno stracciod’inchiesta per capire come sia potuto succe-dere. L’uragano Katrina ha sospeso i diritti civi-li e la Costituzione. Alla fine la moglie di Zeitoun,Kathy, dovrà sentirsi perfino riconoscente perun gesto di umanità, quando un funzionariodella Giustizia «per compassione» restituisce lapatente al marito. L’unico documento rimastonel portafoglio, dal quale sono spariti dopo l’ar-resto i contanti e le carte di credito.

La storia vera di Zeitoun, degna di Kafka e diCamus, è più d’un atto di accusa contro un epi-sodio storico, contro un governo. Diventa lametafora di una condizione umana aggrappa-ta a un gesto d’amore, a una testimonianza, auno straccio di solidarietà: di fronte a un’astra-zione insensata quale appare lo Stato.

Oggi Obama fa del suo meglio perché la ma-rea nera della Louisiana da disastro ecologiconon si trasformi in un disastro politico. Il bilan-cio delle vittime non è paragonabile. Gli aiutisono stati più veloci. Ma resta un divario incol-mabile tra la logica dello Stato — bisognerà purcontinuare a trivellare, l’America avrà ancorabisogno di compagnie che estraggono petroliooffshore — e il volto umano di quest’ultima ca-tastrofe. Charles Robin, l’erede di cinque gene-razioni di pescatori, dice: «Katrina ci ha scava-to la fossa. Eravamo lì dentro, annaspavamoper uscirne, e ci arriva addosso questa mareanera». John Richie, un artista del French Quar-ter, quando ha sentito che i capelli servono adassorbire il petrolio, è andato a donare la suacriniera bionda. Shannon Powell, musicistajazz al Preservation Hall, parla a nome di tanti:«Cosa possiamo fare noialtri contro questa Co-sa orrenda? Ci svegliamo ogni mattina e nonsappiamo come difenderci». Il disastro stavol-ta non è arrivato di schianto ma accerchia len-tamente, come la peste, tutto ciò che è vivo nelGolfo. Le inchieste del governo e del Congres-so, le cause contro i petrolieri, viste dalla Loui-siana sono riti beffardi. Cinque anni dopo Ka-trina il 41 per cento dei bambini di New Orleanscontinua a soffrire di anemia: il doppio rispet-to ai senzatetto nel resto degli Stati Uniti. «Nellinguaggio umano — disse nel 2005 lo scrittoredi New Orleans Richard Ford — manca una pa-rola per dire la morte di una città».

La caccia al “terrorista”mentre la gente annega

FEDERICO RAMPINI

tizie terribili. Gente che ruba, uccide. Rischi che ti succeda qualcosadi brutto».

Zeitoun percepì la sua preoccupazione. Ma del caos di cui parlava,lui non aveva visto traccia. Ammesso che fosse vero — e Kathy sape-va benissimo quanto i media fossero portati a ingigantire — dovevaessere concentrato nel centro. Lì da lui, disse, era tutto così silenzio-so e calmo, così strano e surreale, che correre rischi era impossibile.Forse, aggiunse, c’era davvero una ragione se era rimasto, se avevacomprato quella canoa. Se in quel preciso momento si trovava inquella particolare situazione.

«Sento che devo stare qui» disse.Kathy tacque.«È la volontà di Dio».A quello, sua moglie non seppe come rispondere.Passarono a parlare di questioni pratiche. A casa di Yuko il cellula-

re di Kathy non prendeva bene, e così diede a Zeitoun il numero fis-so. Lui se lo annotò su un pezzetto di carta e lo lasciò accanto al te-lefono in Claiborne Avenue.

«Appena arrivi a Phoenix, trova una scuola per i bambini» le disse.Kathy alzò gli occhi al cielo.«Naturalmente» rispose.«Vi voglio bene, diglielo» concluse Zeitoun, poi si salutarono. Ripartì, e subito vide Charlie Ray, il vicino della casa a destra. Era

un falegname sui cinquant’anni, con gli occhi azzurri, nato a New Or-leans, un tipo simpatico e alla mano che Zeitoun conosceva da anni.Sedeva nella sua veranda come se fosse una giornata qualunque.

«Sei rimasto anche tu» disse Zeitoun.«Eh, già».«Ti serve qualcosa? Acqua?».Charlie non aveva bisogno di nulla, ma presto forse ne avrebbe

avuto. Zeitoun promise che sarebbe ripassato più tardi, quindi si al-lontanò, chiedendosi quante persone fossero rimaste in città. SeFrank era rimasto, e anche Todd e Charlie avevano superato la tem-pesta senza andarsene, di certo dovevano essercene a decine di mi-gliaia. Zeitoun non era stato l’unico a sfidare la sorte.

Proseguì, sapendo che avrebbe dovuto sentirsi stanco. Eppurenon lo era affatto. Non si era mai sentito più forte.

Copyright © Dave Eggers, 2009 © 2010 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A. Milano

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Si allontanò,chiedendosi quantepersone fosserorimaste in cittàSe Frank erarimasto, e ancheTodd e Charlieavevano superatola tempestasenza andarsene,di certo dovevanoessercene a decinedi migliaia...Proseguì, sapendoche avrebbe dovutosentirsi stancoEppure non lo eraaffatto. Non si eramai sentito più forte

© RIPRODUZIONE RISERVATAILLU

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Finalmente in Italia,la linea professionale

del parrucchiere N°1 di Parigi,in profumeria e nei supermercati.

Scoprilo stasera in TV!

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*per numero di saloni presenti sul territorio.

Repubblica Nazionale

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PARIGI

La libertà femminile è incomincia-ta a poco a poco, con un orlo chelentamente si alza, svelando pri-ma le caviglie, poi le ginocchia, in-

fine le cosce. La gonna è qualcosa di più di unsemplice pezzo di stoffa. Ogni centimetro gua-dagnato o perso ha segnato una nuova tappanel cambiamento sociale. A campana, a por-tafoglio, lunga o mini, strettissima o con lospacco, nelle sue infinite geometrie e trasfor-mazioni ha accompagnato il cammino delledonne per secoli, rispecchiando la decenza e lamorale dell’epoca. Indumento femminile pereccellenza, definisce il genere sessuale sin dal-l’antichità. «Già nella Bibbia viene menziona-to il divieto per le donne di vestirsi da uomo»,ricorda Christine Bard, autrice di Ce que soulè-ve la jupe, storia politica di questo capo vestia-rio.

Sotto alla gonna, come suggerisce il titolo dellibro, si nascondono le fantasie erotiche degliuomini ma anche, a livello sociale, la gerarchiatra i sessi. In Francia, fino agli anni Sessanta unprete poteva rifiutare la comunione a una don-na con i pantaloni, e non è ancora stata abro-gata un’ordinanza che vieta alle donne di usci-re a Parigi indossando i calzoni. Solo nel 1980 ilparlamento ha autorizzato le deputate a pre-sentarsi in pantaloni: merito della comunistaChantal Leblanc che, respinta dagli uscieri, hapreteso che cadesse l’ultimo tabù.

Per secoli, indossare la gonna è stato un ob-bligo, il marchio di un’inferiorità. «Un vestito

aperto, segno della disponibilità del corpofemminile, da contrapporre a quello chiuso eprotetto degli uomini», spiega Bard, docente distoria contemporanea all’università di Angers.«Anche da un punto di vista pratico, significa-va una costrizione, c’era l’idea di intralciare ilmovimento». Le gonne erano pesanti, sovrap-poste alle sottane, si trascinavano a terra. Allafine dell’Ottocento, la prima suffragetta fran-cese, Hubertine Auclert, fondò la “Lega per legonne corte”: insieme al diritto di voto, riven-dicava anche quello di liberare le gambe. Nel1897, durante un incendio al Bazar de la Cha-rité di Parigi, morirono centodieci donne e so-lo sei uomini. Secondo le femministe dell’epo-ca, le vittime non erano riuscite a scappare percolpa delle loro gonnelle. È proprio nella BelleEpoque che viene inventata la gonna-pantalo-ne, per andare in bicicletta o fare sport. La guer-ra dà un’altra spallata alle convenzioni. Men-tre gli uomini sono in trincea, le donne devonolavorare. In fabbrica, portano i pantaloni. Fu-mano, slacciano busti e corpetti, si tagliano icapelli. Le chiamano le garçonnes, maschiacci.

Intanto, l’orlo si accorcia. Nel 1925 arriva fi-no al ginocchio, negli Stati Uniti vengono per-sino varate leggi per fissare l’altezza della gon-na. La rivoluzione è cominciata. Anche se neglianni Trenta con la Grande Depressione e l’av-vento del nazismo la moda ricambia e torna il«rispetto delle differenze» tra uomini e donne.La direttrice della rivista femminista LaFrançaise scrive allora: «La gonna, simbolo estrumento dell’ineguaglianza tra i sessi, rima-ne un feticcio difficile da toccare senza crearescandalo». Ma è questione di poco. Le donne si

36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 16MAGGIO 2010

Donne sull’orlo

pisodio è nato un progetto di educazione civi-ca che si ripete ogni anno in decine di scuole, la“Primavera della gonna e del rispetto”. Il capodi vestiario è il pretesto per parlare d’altro. Ditolleranza e pregiudizi, di violenza non solo fi-sica ma verbale, di autodeterminazione delproprio corpo. L’obiettivo è scardinare l’equa-zione gonna uguale puttana. «Per molti giova-ni rappresenta ciò che era nell’antichità: un ve-stito aperto, quindi sinonimo di disponibilitàsessuale», racconta Bard. «Le ragazze che si ve-stono così si sentono più esposte, in pericolo».

A celebrare le giovani neofemministe con lagonna è arrivato l’anno scorso anche un film.Isabelle Adjani nei panni di un’insegnanteprende in ostaggio i suoi alunni e chiede comeriscatto al governo una giornata della gonna,

de oggetto di consumo». Una questione politi-ca. Tanto che Georges Pompidou è costretto arisponderne in campagna elettorale. Favore-vole o contrario alla minigonna? «La modacambia, io mi adeguo», dice, sapendo che or-mai è impossibile schierarsi. Sua moglie Clau-de, rompe la tradizione, entrando all’Eliseo inpantaloni.

«Ancora oggi portare la gonna non è un ge-sto banale, senza conseguenze», osserva Chri-stine Bard. «Implica una consapevolezza delproprio corpo. È un potente rivelatore dei rap-porti sociali tra maschi e femmine, e tra le stes-se femmine». Dal 2005 esiste in Francia un“movimento della gonna” nato in un liceo del-la Bretagna, dopo che una ragazza era stata stu-prata perché «vestiva troppo sexy». Da quell’e-

appropriano dei pantaloni a partire degli anniSessanta, con i mitici tailleur di Coco Chanel ei jeans americani che spopolano tra le intellet-tuali di Saint-Germain-des-Près.

Ma proprio in quegli anni la gonna ritrova lasua forza sovversiva. Da simbolo di oppressio-ne, diventa emblema della liberazione sessua-le. Nel 1959, Yves Saint-Laurent svela il ginoc-chio di una modella durante una sfilata. DaLondra arriva la “mini” di Mary Quant. PerChanel è un indumento «sporco». Lo stilistaAndré Courrège manda invece la minigonna inpasserella, dedicandola alle «Donne del Due-mila». Due visioni si contrappongono, e non èsolo questione di moda. A proposito del duelloChanel-Courrège, il filosofo Jean Baudrillardscrive: «Il corpo è diventato il nostro più gran-

LA FOTOLa copertina

di Life,

21 agosto 1970

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IL LIBRO

Ce que soulève

la jupe di Christine

Bard, pubblicato

in Francia

(Autrement,

170 pagine,

17 euro), traccia

una storia politica

della minigonna,

dagli anni

Sessanta a oggi

La gonnada prigionea bandieradi libertà

In principiofu la veste bisexper eccellenzaCol tempoè diventatamolto piùche un semplicepezzo di stoffa,segnandoil confine tra i sessie le molte tappedell’emancipazionefemminileOra, in Francia,un librone ripercorrela lunga storiaChe al di làdelle apparenzeè tutta politica

la società

ANAIS GINORI

Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37DOMENICA 16MAGGIO 2010

affinché le sue alunne «non vengano trattatecome mignotte quando la indossano». Scopri-re le gambe è di nuovo un atto militante, la ri-vendicazione di un diritto. È questa la parte delcorpo più nascosta delle donne. «Nel Medioe-vo — ricorda Bard — si potevano ostentareprofondi decolleté, però mai centimetri di pel-le dal busto in giù». Nonostante tante trasfor-mazioni, la gonna costituisce ancora una tra-sgressione all’ordine. «Il pantalone, invece, si èrapidamente spoliticizzato: da cinquant’annifa è di uso comune tra le donne».

Nel Ventunesimo secolo l’indumento fem-minile potrebbe servire all’affermazione del-l’identità transgender. «Dalle prime gonne peruomini create da Jean-Paul Gaultier negli anniOttanta — ricorda la storica — si è creata una

nuova sensibilità tra giovani uomini che chie-dono di impadronirsi di questo capo vestiario.Credo sarebbe un bene tornare all’idea che èunisex». Gonna, dal latino gunna, in origine erainfatti una veste, anche maschile, che coprivail corpo. La parola gonna, fa notare la storica,eredita tuttora una connotazione negativa.Qualche mese fa, il cardinale André Vingt-Trois aveva commentato a proposito del sa-cerdozio femminile: «Non basta indossare unagonna, occorre avere qualcosa nella testa». Do-po quella battuta, delle cattoliche progressistesi sono unite per denunciare pubblicamentel’oscurantismo nella Chiesa. Hanno creato il“Comitato della Gonna”. Là sotto c’è davveroun mondo.

MARYQUANTAnni ’60,la stilistaingleseinventala minigonna

LADY DIANAHa rottogli schemialla corteingleseanchein minigonna

© RIPRODUZIONE RISERVATA

TWIGGYL’icona

della modadegli anniSessantaè sempre

in mini

BRIGITTEBARDOTDa Piacea troppi in poiha mostratole gambe

al cinema

JANE FONDABarbarellae la squillo

di Klutesono i suoi

personaggiin mini

“Da 30 anni,nei miei 600 saloni,

la mia passione è rendere sublimi

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Una vedova va al cimitero ogni giorno fino a quando non muoresulla tomba del marito. Titolo: “Tanto va la gatta al lardo”È uno dei motti fulminanti dell’autore di “Centocinquanta

la gallina canta”, maestro del nonsense, precursore di Ionesco, umoristaper natura. Ora un epistolario rivela il suo privato: l’ansia per un libro in uscita,la stima di Montale, il timore di Cardarelli, la collaborazione con Zavattini

38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 16MAGGIO 2010

di Campanile può ora seguirne la lunga vicenda at-traverso l’epistolario dello scrittore, Urgentissime

da evadere, ben curato da Silvio Moretti e AngeloCannatà, per l’editore Aragno (528 pagine, 25 euro),con l’avvertenza che il Nostro scriveva lettere mal-volentieri e dunque qui si ritroveranno soprattuttole lettere dei suoi principali interlocutori. Che furo-no molti e, se così possiamo dire, sceltissimi, a testi-monianza del fatto che Campanile era una presen-za importante nel panorama letterario italiano, an-che prima che le nuove generazioni lo riscoprisse-ro a partire dal ’71, quando Einaudi pubblicò in vo-lume i suoi lavori teatrali. Lo leggevano in tanti: Cec-chi, Baldini, Ojetti, Montale, D’Amico…

Nel ’27 Enrico Dall’Oglio gli pubblica il primo ro-manzo Ma che cosa è quest’amore?. Andrà a ruba esarà anche ben recensito da Pancrazi sul Corriere. Il10 giugno l’editore lo rassicura, presiederà lui stes-so all’ultima revisione dell’opera, comunque «se El-la ci tiene la prego di essere a Milano lunedì mattinaper licenziare le prime novantasei pagine primad’andare in macchina». Come tutti gli autori, ancheCampanile segue con apprensione la sua creatura.Il 18 luglio (il romanzo era uscito da tre giorni) l’edi-tore cerca di rasserenarlo: «Ho ricevuto tutto: l’e-spresso del 14, la lettera iraconda del 15, il tele-gramma pacificatore del giorno 16, la successivalettera del giorno 16…». Con Dall’Oglio ci sarà poiuna frattura, ricucita solo moltissimi anni dopo.Campanile passerà a Treves, poi a Mondadori e in-fine a Rizzoli, per citare solo i suoi principali edito-ri. Ma in molti lo cercano e lo corteggiano per averequalcosa di suo. Valentino Bompiani che pubblicaun Almanacco letterario gli chiede, nel ’27, qualco-sa di originale. E gli suggerisce «una serie di “inter-

RICORDIA destra: Campanile

a dieci mesi;con la moglie

Giuseppina BellavitaSopra, il padredello scrittore,

Gaetano CampanileMancini nel 1920

Il genio follenascostonella battuta

La sera del 17 ottobre 1930 andò in sce-na al teatro Manzoni di Milano L’amo-

re fa fare questo ed altrodi Achille Cam-panile. Un maestro si traveste da bam-bino per meglio insegnare a un altrobambino. La regia era di Guido Salvini

e a recitare c’erano, tra gli altri, Vittorio De Sica, chedi Campanile era parente, e Giuditta Rissone. Unabuona parte del pubblico — il teatro era stracolmo— cominciò a rumoreggiare, gli altri applaudivano.Raccontano le cronache che persino i carabinieri diservizio discutessero tra di loro. A un certo puntoqualcuno vede Pirandello in un palco, insieme aldrammaturgo Dario Niccodemi (La nemica etc).C’è una vera ovazione per Pirandello. Campanile sistufa, si affaccia alla ribalta e grida: ma l’autore so-no io! Viene sommerso dai fischi. Raccontò poi chePirandello lo aveva guardato con odio e Pirandellostesso, scrivendo a Marta Abba, ricordò l’episodio,parlando di «fiasco colossale di quella scipita buffo-nata del Campanile» e degli applausi rivolti a lui. Larappresentazione fu interrotta. Tre anni dopo, alBarberini di Roma, gli attori della compagnia ZaBum n.8 si rifiutarono di continuare dopo il primoatto, mettendosi a recitare un’altra commedia. Unacosa mai vista. Questa volta Campanile ricevette lasolidarietà da diversi colleghi. Anche da Pirandello.

Il teatro di Campanile, che Ionesco riconobbe trai propri padri nobili, non era per tutti. Nel ’25 in viadegli Avignonesi a Roma Anton Giulio Bragaglia ge-stisce il Teatro degli Indipendenti e chiede un testoa Campanile: vien fuori di getto Centocinquanta la

gallina canta. Chi ama l’opera buffa e il “riso scemo”

Le lettere assurdePAOLO MAURI

CULTURA*

CAMPANILE

Repubblica Nazionale

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tiva. Era Milano-Serache nel ’49 lo assunse come in-viato. Ricordò nei suoi diari che quel giornale eraben strano e il direttore non aveva autorità sui suoiredattori e nemmeno sugli uscieri: anzi un usciere,essendo capocellula del partito, dava del tu al diret-tore e controllava gli articoli facendo fare delle mo-difiche. Informato della cosa, Campanile tenevad’occhio un usciere, ma era… quello sbagliato.

Come inviato speciale Campanile, che aveva la-vorato per La Gazzetta del Popolodi Ermanno Ami-cucci e per La Stampadi Curzio Malaparte, si era an-che trasformato in giornalista sportivo seguendo ilGiro d’Italia e il Tour. Naturalmente a modo suo.Così come molto campanilesca è l’intervista al Mo-stro di Loch Ness che soffre di solitudine e alla finemuore. Fittissima è la corrispondenza con Zavatti-ni col quale condivise la direzione del Settebello, set-timanale umoristico che insidiava il Bertoldo. C’èanche una lettera del professor Di Lauro, già inse-gnante di Campanile al liceo ginnasio Mamiani diRoma. A lui l’undicenne Achille portò il quadernocon la tragedia di Rosmunda messa in versi. Alboi-no la invita a bere nel cranio di suo padre e lei: «Ca-ro Alboino/ bere non posso/tutto quel vino/dentroquell’osso».

Oggi si fanno anche convegni sul nonsense e l’e-ditore Salerno ha appena stampato gli atti di un sim-posio tenutosi a Cassino tre anni fa. C’è anche uncontributo su Campanile di Barbara Silvia Anglani,che ricorda un Campanile lettore dell’assurdo nel-la realtà. Ecco la sua reazione alla morte di un bam-bino: «Ma guarda un po’ quel bambino, così picco-lo e già morto… È ammirevole a quell’età, non lo ne-ghiamo: è un caso di precocità sorprendente».

© RIPRODUZIONE RISERVATA

FOTO DI GRUPPOSotto, Campanile(il primo da sinistra)con i colleghidella redazionedel Travaso;a sinistra, una letteradi Malaparte

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39

viste fulminanti” apocrife di non molte ma vivacibattute». Campanile, introdotto dal padre Gaetanoalla Tribuna come correttore di bozze, ha ben pre-sto rivelato le sue doti di battutista. Arriva la notiziache una vedova, solita a recarsi ogni giorno sullatomba del marito, muore anch’essa proprio lì. E ilgiovane Campanile titola: «Tanto va la gatta al lar-do», sicché il critico teatrale Silvio D’Amico, che cu-rava la terza pagina del giornale, commenta: questoè un pazzo o un genio.

Probabilmente Campanile era un po’ tutte e duele cose. L’assurdo richiede genialità e un po’ di fol-lia e non a tutti la cosa piaceva. Vincenzo Cardarel-li lo mette in guardia: «Caro Campanile, leggo sullaFiera letteraria il pezzo che mi riguarda e mi com-piaccio di constatare come finalmente lei sia riusci-to a scrivere su me qualcosa di garbato. Io sono unsuo vecchio estimatore e in qualche momento misono persino illuso che noi fossimo diventati amici.Veda di non turbare in seguito, se le sarà possibile,con scherzi avventati, questi miei sinceri e umanis-simi sentimenti a suo riguardo…». La lettera è delgiugno 1927: Campanile ha ventotto anni, Carda-relli una quarantina.

Il 27 ottobre 1930, Lando Ferretti, capo ufficiostampa di Mussolini, lo informa che sarà ricevuto da“S. E. il Capo del Governo” a palazzo Venezia lunedì10 novembre alle ore 17. Quando il fascismo cadde,Campanile ironizzò sul fatto che Mussolini era sta-to capace di governare contro quaranta milioni diitaliani: non se ne trovava più uno che fosse stato fa-scista. Ma fascista non era stato nemmeno lui: siconsiderava un apolitico. Gli capitò invece, moltianni dopo, di lavorare per un quotidiano comuni-sta, lui che proprio comunista non era e non si sen-

DOMENICA 16MAGGIO 2010

CARTEGGIA sinistra,un biglietto scrittoda Campanilea Franco Zeffirelli;sopra, una letteradi VincenzoCardarelliTutte le immaginidi queste paginesono trattedal volumeUrgentissimeda evaderea cura di SilvioMoretti e AngelaCannatà(Aragno Editore)

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40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 16MAGGIO 2010

la memoriaPatrioti

La guerriera di Garibaldi

Si chiamava Antonia Masanello, con il marito raggiunsele camicie rosse, si spacciò per maschio e combattédalla Sicilia al Volturno guadagnandosi il grado di caporalePoi la morte per tisi e un lungo oblio. Fino a quandoil suo paese, in Veneto, ne ha recuperato la storiaper raccontarla nell’anniversario dell’Unità d’Italia

Il 23 maggio del 1862 usciva su LoZenzero, «giornale politico popo-lare» di Firenze, un articolo, bre-ve ma commosso, intitolato sem-plicemente Antonia Marinello.L’anonimo articolista si rivolgeva

ai «Popolani miei carissimi». Domanda-va loro se avessero visto «jeri l’altro seraquella bara che portava un cadavere al-l’ultima dimora», e se sapessero chi fos-se la persona morta: «...dissero una Gari-baldina... Non sapete altro?... Dunqueascoltate». Chi ascoltò, e lesse, appreseche la morta era Antonia Marinello, «cheappena attaccata la guerra nell’ItaliaMeridionale assieme a suo marito corse

colà nelle file del Generale Garibaldi».Una vivandiera, dunque? «No, vi ho det-to che combatté, che vuol dire che colsuo fucile in spalla fece tutto quel che fe-cero quei generosi giovani», dalla Siciliaal Volturno. E lo fece sotto mentite spo-glie, facendosi passare per il fratello delconsorte, dato che l’arruolamento delledonne non era consentito. Così, permolto tempo, «i suoi camerati non si era-no avveduti, che essa era una femmina».

Antonia, o Tonina, esule veneta, eramorta due giorni prima di tisi a Firenze,

dove abitava con il suo compagno in una«delle più umili casette che sono allapiazza de’ Marroni». Di lì a poco, in luglio,avrebbe dovuto compiere ventinove an-ni. Al suo funerale andarono in tanti. E aquella folla dovette unirsi anche France-sco Dall’Ongaro, uno dei poeti più ama-ti del Risorgimento. Non molto tempodopo dedicò un canto struggente, musi-cato in seguito da Carlo Castoldi, alla gio-vane che aveva indossato la camicia ros-sa dell’Esercito Meridionale di GiuseppeGaribaldi. Scrisse: «L’abbiam deposta lagaribaldina / all’ombra della torre a SanMiniato». E ancora, parafrasando Dante:«Era bella, era bionda, era piccina, / maavea cuor da leone e da soldato». I versivennero incisi sulla lapide nel cimiterodelle Porte Sante di San Miniato. Di To-nina, come ormai la chiamavano affet-tuosamente, parlò persino un quotidia-no di New Orleans, The Daily True Delta.Il 10 agosto di quel 1862 raccontò di «anitalian heroin», un’eroina italiana, fracronaca e leggenda. Poi su di lei cadde ilsilenzio. E venne dimenticata.

L’oblio durò a lungo. Fino a quando aCervarese Santa Croce, un paese in pro-vincia di Padova, tra il fiume Bacchiglio-ne e i Colli Euganei, Giovanni Perin, poe-ta «per diletto» in lingua veneta, suo figlioPiero, scultore, entrambi scomparsi, esoprattutto Alberto Espen, storico e bi-bliotecario, hanno cercato di riportareun po’ alla luce la storia della garibaldi-na. Il suo vero nome era Antonia Masa-nello. Nata a Cervarese nel 1833 in unafamiglia contadina, aveva cominciatogiovanissima a cospirare contro gli au-striaci con l’uomo con il quale si sarebbesposata, che verosimilmente si chiama-va Marinello. Pare che i due fossero statiincaricati di aiutare chi voleva espatria-re dal Lombardo-Veneto e raggiungere il

Piemonte. Non si ha notizia di quandoTonina, il suo compagno e la loro

figlioletta, che nel frattempoera nata, passarono a loro

volta il confine. Sorvegliatidalla polizia, sospettati di

professare idee liberali emazziniane, prossimi

a essere arrestati, nei primi mesi del 1860riuscirono a riparare a Modena.

Si stava preparando l’impresa gari-baldina in Sicilia. Lasciata la figlia a Mo-dena da un amico, Tonina e il marito cor-sero a Genova. Lì seppero che erano ap-pena salpati il “Piemonte” e il “Lombar-do”. Non si persero d’animo. S’imbarca-rono nel giro di qualche settimana, forsecon la spedizione guidata dal paveseGaetano Sacchi, una delle tante cheavrebbero portato rinforzi e armi a Gari-baldi. Lei si arruolò come Antonio Mari-nello e venne inquadrata nel terzo reggi-mento della Brigata Sacchi, facendo tut-ta la campagna di liberazione.

Fu la sola donna garibaldina del 1860,oltre alla moglie di Francesco Crispi, cheaveva seguito i Mille dallo scoglio diQuarto? Per quanto concerne le trupperegolari, non si sa. Vestiva la divisa delleGuide, ma senza nascondere la sua bel-lezza, la contessa Martini Giovio dellaTorre, che si era invaghita del Generale.C’era qualcuno che conosceva la realeidentità di Tonina? Si dice che ne fosseroa conoscenza soltanto il maggiore Bossie il colonnello Ferracini, altre fonti ag-giungono Francesco Nullo, bergama-sco, il «più bello dei Mille», e lo stessoEroe dei Due Mondi, che avrebbero vistosciogliersi i suoi capelli biondi, dappri-ma raccolti sulla nuca, nel furore di unoscontro.

Rammentò Lo Zenzero che Tonina«quando gli toccava o gli veniva ordina-to montava le sue guardie, faceva le sueore di sentinella a’ posti avanzati — il suoservizio di caserma; insomma facevatutto ciò» con «disinvoltura e coraggio».Nella sua monografia su Cervarese San-ta Croce, Espen afferma che gli ufficialidicevano che Tonina «avrebbe potutocomandare un battaglione se la sua con-dizione di donna non gliel’avesse impe-dito». Vennero la gran battaglia del Vol-turno, il trionfo di Garibaldi, di Bixio, diCosenz, di Medici, di Dezza, di Türr, deipicciotti siciliani, di Sacchi. La garibaldi-na ottenne, il brevetto da caporale e ilcongedo con onore. Arrivò il giorno del-la smobilitazione. I piemontesi incassa-

rono l’Italia fatta dalle camicie rosse e lemandarono a casa.

Tonina e il marito andarono a pren-dere la loro bambina, trasferendosi a Fi-renze. Vissero in povertà. A un certo pun-to lei si ammalò. Era una malattia, disseLo Zenzero, «acquistata nelle fatiche del-la guerra». Spirò «nelle braccia del mari-to lasciandolo nel pianto in terra d’esi-lio». Ada Corbellini, una poetessa di Par-ma deceduta anche lei giovane, a venti-sei anni, in una notte di luglio del 1863compose una lirica in cui espresse il de-siderio di essere sepolta accanto allatomba di Tonina, a San Miniato. Ora lespoglie della garibaldina non sono piùall’ombra della torre. Nel 1957 vennerotraslate nel cimitero fiorentino di Tre-

spiano. Aveva dato la vita per fare l’Italia.E ovviamente l’Italia la dimenticò. Sola-mente Cervarese Santa Croce, il suo pae-se, la ricorda. Nella biblioteca comunalec’è una scultura, opera di Piero Perin,che ne immagina il viso. È il volto della“Masenela”, come si dice in veneto, cheGiovanni Perin, il papà dell’artista, ave-va descritto così: «Tra i tanti eroi della no-stra storia/ registrar dovemo la Masene-la/ per conservar viva la memoria/ de stagueriera dona, forte e bela».

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Sulla sua tomba questiversi: “Era bella,era bionda, era piccinama avea cuor da leonee da soldato”

“Poteva comandareun battaglione,se la sua condizionedi donna non glieloavesse impedito”

MASSIMO NOVELLI

LA PARTENZANel maggio 1860,

Antonia Masanello (raffigurataqui sopra) e il marito

si imbarcano a Genovaalla volta della Sicilia

L’INQUADRAMENTOAntonia si arruola

come Antonio Marinelloe viene inquadrata

nel terzo reggimentodella Brigata Sacchi

LE BATTAGLIEDalla Sicilia al Volturno,

Antonia partecipaalle battaglie al seguito

di Garibaldi. Ottieneil brevetto da caporale

LA FINECongedata con onore,Antonia si trasferisce

con marito e figliaa Firenze. Muore povera

nel 1862, a ventinove anni

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Tre americani su cento hanno origini ebraichema tra i comici di mestiere il rapporto è ottanta su cento. Ora un libro di Lawrence J. Epstein,con la prefazione di Moni Ovadia,spiega perché lo straziante sorrisodel ghetto ha conquistato il mondo

SPETTACOLI

42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 16MAGGIO 2010

ma editore, racconta.Fu per primo il New York Timesad avve-

dersi in una inchiesta del 1979 di questodato sbalorditivo. In una nazione doveerano appena il tre per cento, gli ebrei era-no l’ottanta per cento dei comici in attività,dai clubbini di spogliarello a Chicago aglihotel casinò di Vegas, dal lungomare diAtlantic City agli studi della televisione.Passando per gli aberghi resort dei montiCatskills, quei mega hotel dove un came-riere chiamato Jerry Lewis, nato Levitch,scoprì la propria capacità di far ridere in-ciampando e rovesciando un vassoio di ci-bo kosher addosso al rabbino che recitavale preghiere del “Shabbes”, del sabato. Ri-se anche il rabbino.

Dipanare la matassa di questo sensa-zionale successo è impossibile e rischioso,perché tesse ragnatele di luoghi comuni,di generalizzazioni e sotto sotto di razzi-smo, che alla fine non spiegano come ge-nerazioni di uomini e di donne abbianosaputo solleticare il “funny bone”, l’ossodella risata. Se c’è un filo rosso che lega l’u-morismo familiare e affettuoso di un My-ron Cohen che sfotteva la mamma ocula-ta massaia («andava dal fruttivendolo echiedeva: quanto vengono due cetrioli?Cinque cent. E uno solo? Tre cent. Bene, midia quello da due») alla ribellione autodi-struttrice del tormentato Leonard Schnei-der, Lenny Bruce, primo e unico comicosatirico a essere condannato al carcere perscurrilità, questo filo è nella spia di quei no-mi d’arte sovrapposti al nome autentico.

Il dramma universale dell’immigrato,che si contorce sempre fra i desideri oppo-sti di integrarsi e di mantenere la propriaidentità, si tende fino a spezzarsi, come nelcaso di Lenny Bruce Schneider, morto in

rovina per overdose. Il percorso della co-micità, la ricerca di quella risata che si-

gnifica accettazione («semplicemen-

Di quante lacrime è inzup-pato il sorriso del ghetto, diquante paure è lastricato ilsentiero della risata chedall’Europa dei pogrom haraggiunto e conquistato i

palcoscenici di New York, gli studios diHollywood. Eppure è in quella dolorosasperanza trascinata attraverso l’Atlanticonelle stive fetenti dei vapori, nei termitaiumani della Lower East Side di Manhattanil segreto per capire che cosa abbia spintotre generazioni di immigrati ebrei a diven-tare comici, a soffrire per far ridere e dun-que farsi accettare e amare. Magari soltan-to per cercare quella che Henry Bergson,nel proprio saggio sulla risata, chiamava«la passeggera anestesia del cuore».

Oggi sembra normale che nell’Americache ride, tanti uomini e donne che la in-trattengono abbiano nomi ebrei o li na-scondano dietro pseudonimi “anglo”. DaWoody (Konigsberg) Allen ai fratelli Marx(il loro vero nome), dalla regina dell’umo-rismo femminile più feroce Joan Rivers(Rosenberg) all’immenso Mel Kaminski,in arte Mel Brooks, nei cento anni trascor-si fra lo sbarco nel 1899 a New York della fa-miglia di Benjamin Meyer, che divenne ilpatriarca della comicità kosher facendosichiamare Jack Benny, e il trionfo di JerrySeinfeld, che orgogliosamente usò il pro-prio cognome come bandiera del suoshow (scritto da Larry David, altroebreo) nel 1998, c’è una storia di risa-te strazianti. Un viaggio di ansie e didilemmi culturali e umani che fi-nalmente un incantevole saggio,Riso kosher di Lawrence J.Epstein (titolo originale: The

Haunted Smile, il sorriso tor-mentato), tradotto da Sago-

VITTORIO ZUCCONI

FANNY BRICESopra, l’attriceinterpretaBaby Snooksnel 1949

MILTONBERLEL’attoreal microfonodella Cbsnel 1944

MEL BROOKSIl registadel film di cultoFrankensteinJunior

LA COPPIASWINGGracie Allene GeorgeBurnsnel 1935

ED WYNNIl comico venivachiamato“The Perfect Fool”dal titolo di un film

Milton BerleA teatro ho visto una commediacosì brutta che da una poltronasi è alzato un signore che ha gridato:“C’è un attore in sala?”

Fanny BriceNon mi sono mai piaciutigli uomini che ho amato,e non ho mai amato gli uominiche mi sono piaciuti

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RidereKosher

I FRATELLIMARXChico,Harpo,Grouchoe Zeppo

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43DOMENICA 16MAGGIO 2010

Negli Stati Uniti l’intera temperie culturale delNovecento è stata fortemente influenzatadalla minoranza ebraica, ma per ciò che attie-

ne al mondo dello spettacolo e ancor di più a tutte leforme del comico e dell’umoristico, la vastità dellapresenza ebraica ha dell’inverosimile e persino delmiracoloso [...] L’umorismo nel mondo ebraico (manon solo nel mondo ebraico) è sempre stato ben dipiù e ben altro che un modo per divertirsi e ridere, èstato una Weltanschauung, una filosofia, uno stru-mento ermeneutico e una delle forme del pensierosociale che ha permesso agli ebrei di attraversare imomenti più tragici della loro esistenza senza che laloro identità ne venisse demolita. Il tratto salientedell’umorismo e della comicità ebraica è l’autodela-zione, il ridere di se stessi, dei propri guai, delle pro-prie angosce e paure anche sul limitare dell’abisso odella tomba, mai cedendo alla logica della volgaritào della violenza. Questa attitudine è nata dalla con-vergenza di tre particolari fattori: esilio, sradicamen-to, persecuzione, condizioni esistenziali tutte diffici-li ma foriere di eccezionali sollecitazioni.

Un’attitudine, si diceva, divenuta una secondanatura e un passe-partout per l’accesso in una so-cietà in piena e dinamica trasformazione, ricca di

orizzonti e prospettive, che inaugurava nuovi e di-rompenti strumenti di comunicazione come radio,cinema e televisione. La prima società di massa, laprima società dello spettacolo, il primo e gigantescomelting pot, con tutte le sue angosce, insicurezze edesplosive contraddizioni, aveva un bisogno vitale diqualcuno che esorcizzasse i conflitti, le intolleranze,le violenze incendiarie per farle deflagrare nelle risa-te invece che nelle aggressioni. I comici e gli umoristiebrei offrirono come “vittime” sacrificali dei loro mi-cidiali strali se stessi e i buffi e sgangherati tipi tragi-comici della loro gente, con i guai e le disavventureche ne scandivano l’esistenza. Progressivamente in-segnarono alla società statunitense, minoranze emaggioranze, a ridere di se stessa, contribuendo co-sì a creare un territorio culturale ed esistenziale co-mune. I nomi di questi “eroi” della comicità sonotroppo noti perché si debba elencarli, fanno partedella topografia sociale e culturale degli Stati Uniti,ma anche di quella di tutto l’Occidente. Il loro spiri-to è entrato anche nel paesaggio interiore di tutti noie, in qualche misura, ha contribuito a formarci.

© Moni Ovadia, 2010

L’autoironia, un passe-partout

nella società del melting pot

MONI OVADIA

te non si può odiare chi ti fa ridere e questoi comici lo capiscono subito», dice l’italo-americano Jay Leno) offre un surrogato disicurezza e di calore a chi ben poco ne co-nobbe. Jackie Mason, nato Jakob MosheMaza, portava questo calvario dell’iden-tità anche dentro se stesso, in famose sati-re della psicoanalisi: «Il mio analista mi hadetto che mi farà trovare il vero me stesso.Bravo dottore, e se poi scopro che non mipiaccio lei mi restituisce i soldi?». Lui ave-va imparato a calcare la mano sul proprioebraismo, forzando l’accento yiddish, il te-desco reinventato dalle comunità ebreenell’Europa Centrale e Orientale, fino afarli diventare parte dell’inglese america-no d’ogni giorno. Parole come schlepp, fa-ticare, meshugge, pazzerello, schlock, pa-tacca, schmuck, minchione, sono passatedai ghetti di Varsavia ai club di Manhattan.E lo schlemiel, l’inetto, l’eterno perdente, èil personaggio classico della cultura popo-lare ebraica che Woody Allen ha trasferitonei suoi monologhi e poi nei suoi film.

Proprio in uno dei capolavori di Allen-Konisberg, Zelig, l’angoscia dell’identitàimpossibile raggiunse la propria maturità,con l’uomo che è tutto per tutti e dunquenessuno. L’autoironia, l’autoanalisi, l’au-todeprecazione sono state l’arma che hareso tanti di questi artisti amati e accetta-bili, come ora sta accadendo con una nuo-va generazione di comici afroamericani.Nella spietata autocommiserazione («chinon sa fare le cose le insegna, chi non sa in-segnare insegna ginnastica, chi non sa fa-re né insegnare veniva scelto come profes-sore nella mia scuola», recitava Woody)c’era la lama di una satira sociale accetta-bile e non offensiva soltanto perché a dop-pio taglio, che ferisce chi la impugna primadi chi la riceve. Ma sempre, anche nei piùgiovani come Jerry Seinfeld, con il sospet-to che sotto la pelle si nasconda la carne vi-

va. In un famoso episodio del dentista chesi converte all’ebraismo soltanto per po-ter raccontare le barzellette sugli ebreisenza passare per antisemita, quando ilmedico chiede a Seinfeld se le sue battutelo offendessero come ebreo, Jerry rispon-de asciutto: «No, lei mi offende come co-mico».

Nessuno dei suoi predecessori avreb-be azzardata una risposta che insiemesferza il dentista idiota e rifiuta la suscet-tibilità etnica e culturale che la barzellet-ta razzista dovrebbe far scattare. I suoivecchi, quelli che battevano il circuitodelle vacanze con blande prese in giro deitic e delle patologie familiari («il becchinochiama il genero della donna morta echiede: dobbiamo imbalsamare, crema-re o seppellire sua suocera? Faccia tutte etre, per non correre rischi») o che ripete-vano i classici sketch coniugali cercavanol’inoffensività come rifugio.

Per le femmine, le regine della comicitàkosher, matrioske che portavano e porta-no dentro di sé la doppia condizione alie-nante di ebree e di donne, l’umorismonon poteva che essere ancora più graf-fiante e cattivo. Joan Rivers, nata Rosen-berg, caricatura della vacua signora delloshopping e della vanità ingioiellata, reci-

ta con gusto la parte della sguaiata ricca esfacciata: «In fatto di relazioni sessualicon gli uomini, sono molto selettiva: senon respirano, non li prendo». MentreRoseanne Barr, rarissima ebrea cresciutanello Utah dei mormoni, trovò un im-menso successo nella parodia della“jewish mother”, della mamma e casalin-ga bruttina, sovrappeso, ansiosa ma in-soddisfatta di fronte a un marito indiffe-rente e assente. «Non ho ancora capitoquale sia il mio lavoro — recitò in un epi-sodio della sua serie Roseanne — ma sequando mio marito torna a casa trova tut-ti i bambini ancora vivi, credo di avere fat-to il mio dovere».

Non c’era bisogno di essere ebrea, diessersi addestrati alla polemica con il Si-gnore nelle scuole talmudiche, di averevissuto il cammino della lacrime da Leo-poli o Byalystock perché le donne capis-sero lo humour acre della Barr. Il filo dellacomicità tessuto da questi artisti è dive-nuto parte dell’arazzo americano. Il MelBrooks che si permette di schiaffeggiare lasussiegosa, incestuosa “intellighenzia”artistica di Manhattan con il suo meravi-glioso The Producers,nel quale un’orren-da apologia in forma musical di Hitlerconquista il pubblico, si permise di inter-

pretare in una parodia dei western ungrande capo Sioux che parlava yiddish

stretto e senza sottotitoli. Ma ormai, cento anni dopo la marea

umana che si riversò sui pontili diManhattan, prima che fosse costruita El-lis Island, quando in meno di trent’anni ilnumero dei residenti ebrei di New Yorkpassò da ottantamila nel 1885 a un milio-ne e mezzo nel 1910, anche il riso amaro èdivenuto “mainstream”, parte della cor-rente maestra. Seinfeld è, come già lo eraAllen, più il classico nevrotico newyor-chese egoista, il Peter Pan della genera-zione post baby boom, lontano davveroun secolo dai “tenements”, dei falansteridove future stelle come George Burns vi-vevano rubando la frutta dalle bancarellee poi rivendendola sottocosto alle loromamme.

I loro padri, fonte di infinito materialeper i monologhi e i copioni, («ci sono tan-ti comici ebrei perché ci sono stati tantipadri ebrei», scherzava ma non troppoCarl Reiner, il regista) quasi sempreabietti fallimenti come il padre dei Marx,sarto soprannominato “Taglia Sbaglia-ta” perché prendeva tutte le misure a oc-chio e le sbagliava, sono stati impiegati,funzionari, professionisti come i loro col-leghi anglo, italiani, ispanici o irlandesi.Lo yiddish è un ricordo di famiglia, ormaidiluito nello slang. Ci sarà certamenteuna quarta generazione di comici popo-larissimi con cognomi ebraici non piùmimetizzati, ma faranno ridere perchéfaranno ridere, perché ci sarà semprequalcosa, qualcuno da sfottere, per l’or-rore degli assolutisti e dei potenti. Ma lalezione di questo secolo di risate amaresarà entrata nel tessuto di una cultura li-bera e multietnica: imparare a ridere congli altri, non degli altri.

Zelig, lo strano caso

dei comici ebrei

© RIPRODUZIONE RISERVATA

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I TREMARMITTONILarry Fine,Moe Howarde CurlyHoward

WOODYALLENIl primo film,Prendi i soldie scappaè del 1969

EDDIECANTORL’attorein una scenadi Whoopeefilm del 1930

IL LIBRO

Riso kosherdi Lawrence J. Epstein(Sagoma Editore, trad. di AlessandraOlivieri Sangiacomo,350 pagine, 18 euro)La prefazione è di MoniOvadia. Sagomapartecipa al Salone del libro di Torino

Woody Allen- Dottore, mio fratellocrede di essere una gallina- Perché non lo interna?- E poi le uova chi me le fa?

Jerry LewisLa felicità non esisteDi conseguenzanon ci resta che provaread essere felici senza

Harpo Marx Groucho MarxCome ci si può divertirein una festa in cui le birresono calde e le donnesono fredde?

Eddie CantorIl matrimonio è tentaredi risolvere in due problemiche non sarebbero mai sortise fossi rimasto da solo

Mel BrooksPer ogni dieci ebreiche si battono il petto,Dio ne ha creato uno che divertaquelli che si disperano: sono io

34

4

10

8 9 10

9

8

Si può ridere del passatopurché si siaabbastanza fortunatida sopravvivervi

IL DUOSTORICOJerry Lewise Dean Martinin una fotodel 1955

Repubblica Nazionale

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erauna volta il pane. E c’è ancora, sempre più costretto in catego-rie che non gli dovrebbero appartenere. Da una parte, le pessimemichette precotte, che nel giro di poche ore si trasformano in cor-pi contundenti o chewingum di farina. Dall’altra, i carissimi pa-ni super salutari tutti fibre, dall’alto peso specifico e irrimedia-bilmente punitivi nel gusto. In mezzo, le forme profumate e ario-se dei pani d’autore, lievito naturale e forno a legna. Irresistibili.

È per molti versi colpa delle cyber-pagnotte, se il presente-fu-turo del pane è punteggiato di cialde e sfogliette, schiacciatine dicrusca e snack integrali, grissini light e cereali estrusi. Perché ne-gli anni, la scelta degli ingredienti — farina e lievito, in primis —ha subito un crollo. Per spendere meno, ovviamente, ma anche esoprattutto per contrarre al minimo i tempi di fermentazione.

Gran parte delle sostanze usate per standardizzare la produzio-ne — dagli acceleratori di lievitazione agli anti-muffa — non sonorintracciabili dopo la cottura in forno. Ma il nostro corpo, purtrop-po le avverte fin troppo bene. Così, intolleranze e allergie sono cre-sciute in maniera esponenziale, ben al di là delle ipersensibilità di cuistatisticamente soffre una minima parte della popolazione. E allora,via libera ai piccoli grandi sostituti del pane che fu. A metà tra ansia da

imminente prova-co-stume e necessità medica,i sacchettini leggiadri e im-palpabili confinati fino aqualche anno fa nei tristanzuo-li negozi di dietetica, oggi (anchegrazie agli investimenti dei grandimarchi) campeggiano negli scaffalidella grande distribuzione.

Qualità in ribasso e nutriceutica— il business di inizio millennio chelega industria farmaceutica e ali-mentare — non danno scampo: dauna parte, bocconcini e ciabattemen che mediocri, dall’altra il rassi-curante post-pane curativo e diete-

tico. Certo, la produzione massificata non giova né all’immagine né alla sostanzadei nuovi prodotti: utilizzare grani antichi, lavorare le farine con macine a pietra,capaci di preservare la parte germinativa, impastare con acque surgive, fa la diffe-renza anche in alimenti nati più per surrogare che per ingolosire. In più, baste-rebbe leggere le etichette per sapere che la quota calorica è quasi la stessa: sempli-cemente, non siamo abituati a pesare il pane, né a pensarlo come alimento a séstante. Non a caso, Milano — città-regina di diete e show-food — getta nella spaz-zatura ogni giorno quasi due quintali di pane. Un dato che, allargato all’Italia in-tera, farebbe lievitare lo spreco a quasi 300mila tonnellate l’anno, cifra insoppor-tabile nel Paese dove cinquant’anni fa si incidevano a croce le forme da infornareper sottolinearne la sacralità (e per migliorare la lievitazione).

Ancora una volta, la nuova cucina riesce a legare nuove tendenze e alta gastro-nomia. Se assaggiate i grissini di carruba di Matias Perdomo (Pont de ferr, Milano)o le cialde di mais di Antonino Cannavacciuolo (Villa Crespi, Orta, Novara), sco-prirete che il post-pane può riuscire attraente e goloso quanto il suo antenato. Ba-sta non pretendere di fare scarpetta.

C’

i saporiEvoluzione

44 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 16MAGGIO 2010

LICIA GRANELLO

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Cialde, grissinie crackerlargo ai dietetici

Pane I celiaci

in Italia

500mila

Le calorie in una

cialda di riso

28

Le fibre in una

fetta Wasa

24%

Post

Intolleranze alimentari, diete tiranne,scarsa qualità delle pagnotteindustriali hanno aperto la stradaa una molteplicità di surrogatidel cibo per antonomasia,sempre più presenti sugli scaffalidei supermercati e sulle tavoledi famiglia.E i nuovi chef si sono affrettati a cogliere la moda, trasformando questi “rimpiazzi” in primattoridell’alta gastronomia

Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 45DOMENICA 16MAGGIO 2010

itinerariTerracinesetrapiantatoa New York,Roberto Caporuscioè il pizzaiolo-patrondi Kesté, pizzeriad’autore nel cuore

del West VillageTra le sue ricettepiù popolari, la focacciarealizzata con un mixdi farine senza glutine

Villareggia (To) Roma Monterenzio (Bo)Nella capitale, l’arte bianca di tradizione

ebraica si esprime nei forni certificati

Kosher, dove la stretta osservanza

della Torah si coniuga con pruduzioni

sane e golose, e dove il pane azzimo

regna sovrano

DOVE DORMIREMORPHEUS ROOMS

Via Palermo 36

Tel. 06-48913750

Camera doppia da 80 euro,

colazione inclusa

DOVE MANGIAREGLASS HOSTARIA

Vicolo de' Cinque 58

Tel. 06-58335903

Chiuso lunedì,

menù da 40 euro

DOVE COMPRAREBOCCIONE

Via del Portico d’Ottavia 1

Tel. 06-6878637

Nella campagna emiliano-romagnola

esistono alcune tra le realtà biologiche

più importanti d’Italia. I “coltivatori

di biodiversità” trasformano i cereali

non raffinati, macinati a pietra,

in snack e tarallini

DOVE DORMIREPALAZZO LOUP

Via S. Margherita 21, Loiano

Tel. 051-6544040

Camera doppia da 120 euro,

colazione inclusa

DOVE MANGIAREMARCONI

Via Porrettana 29, Sasso Marconi

Tel. 051-846216

Chiuso domenica sera e lunedì,

menù da 50 euro

DOVE COMPRAREALCE NERO E MIELIZIA

Via Idice 299, Monterenzio

Tel. 051-6540211

Al confine tra le province di Torino

e Vercelli, terra-madre delle risaie

piemontesi, si stanno diffondendo

piccole realtà agrobiologiche

Produzione di risi integrali e, in scia,

cialde, gallette, grissini

DOVE DORMIREVILLA MATILDE

Viale Marconi 29, Romano Canavese

Tel. 0125-639290

Camera doppia da 175 euro,

colazione inclusa

DOVE MANGIAREGARDENIA

Corso Torino 9, Caluso

Tel. 011-9832249

Chiuso martedì,

menù da 45 euro

DOVE COMPRARELA FINESTRA SUL CIELO

Via Rondissone 26, Villareggia

Tel. 0161-455511

La lunga marcia da alimento-base a ghiottoneriaMARINO NIOLA

Nonabbiamo che cinque pani. Lo dicono gli apostoli a Gesù. E ilfiglio di Dio risponde con il celebre miracolo della moltiplica-zione sfamando cinquemila bocche. Oggi ad essere in cinque-

mila sono i pani con tutti i loro derivati. Ma questa volta la moltiplica-zione è opera del mercato. È un miracolo economico. Che ha pro-gressivamente trasformato l’alimento per antonomasia, il minimo vi-tale della sussistenza in uno sterminato catalogo di fantasie da forno.Forme e pezzature sempre più minute, sempre più ricercate. Conbuona pace del pane comune, sopraffatto da uno tsunami di pani spe-ciali. Alle olive, al sesamo, ai semi di papavero, di finocchio, al pomo-doro, alle noci, all’uvetta, alle erbe, allo zafferano, allo zenzero. E chipiù ne ha più ne metta.

Nella civiltà del benessere, insomma, non si vive di solo pane. Mapiuttosto di panini, soffiate, coppiette, michette, ciriole, grissini, ta-rallini, crackers, schiacciate, pancarré, panbrioche, scrocchiarelle,brezel, bagel, sfoglie, gallette. Piaceri leggeri, fragranti, golosi, fatti perstuzzicare il palato più che per riempire la pancia. È il trionfo del post-pane. Specchio di un edonismo di massa che moltiplica gli sfizi comei vizi, le preferenze come le intolleranze. E parcellizza il pane propriocome il lavoro. Pani monoporzione per un’umanità sempre più sin-gle, alimenti interinali a misura di un popolo di partite iva.

Il fatto è che il pane non è più la base della nostra piramide nutri-zionale ed è diventato poco più di un surplus voluttuario. Sempre più

elaborato e costoso, proprio come quelle focacce condite e filoni far-citi che una volta arricchivano la tavola dei signori, accanto a carni epesci prelibati. Ghiottonerie condannate dalla Chiesa in quanto sim-boli del peccato di gola, di un mangiare da ricchi epuloni. Un segnomorale e politico che resta impresso in nomi come kaiserbrot, her-renbrot, pane del prete, pane del principe, pan ducale, galletta del re.O nell’etimologia di parole potenti come Lord, che in origine significail custode del pane ben lievitato. E come Lady che nell’inglese anticodesignava per antonomasia la donna che impasta, nostra signora del-la lievitazione.

Mentre i contadini e le plebi urbane, i dannati della terra che assal-tavano i forni per la fame, non avevano null’altro che pane. E certo nondi quello bianco, fragrante e profumato. Ghiande, crusca, segale, mi-glio, farro, orzo, tutto era buono per far pagnotte. Era questo il nero nu-trimento dei poveri cristi, quello che non a caso compare nelle rap-presentazioni dell’Ultima Cena. O nelle immagini dell’umile grotta diBetlemme dove spesso accanto alla Vergine c’è una gerla di pane scu-ro. Quello che adesso chiamiamo integrale e che abbiamo elevato aemblema supremo di salute e di salvezza. In un cortocircuito tra fibravegetale e fibra morale. E così noi epuloni buonisti, cerchiamo di farquadrare il cerchio tra edonismo e temperanza comprando a prezzida ricchi alimenti da poveri. È il contrappasso della gola che cerca diredimere le sue colpe. Nel nome del pane.

L’appuntamentoA Valderici, Trapani,

dal 19 al 27 giugno,

“Unpanicunzatu Fest”

Nato su Facebook grazie

alla comunità virtuale

“Fiero di essere siciliano”,

è stato concepito come

un grande laboratorio

gastro-culturale a cielo

aperto. Si prepareranno

in diretta i pani di tutte

le culture presenti in Italia

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CialdeRiso, mais, farro, in versione

sbiancata o integrale, con o senza

sale: solo cereali soffiati nei dischi

rotondi e leggerissimi. Nella versione

dolce, metà superficie è cosparsa

di cioccolato bianco, latte e fondente

AzzimoÈ senza lievito (dal greco a-zymos)

il pane delle tradizioni rituali ebraica

(matzah) e cristiana (l’ostia

eucaristica). Nella ricetta originaria,

l’impasto di acqua e cereali integrali

viene cotto su pietra o a legna

TortillasIl pane messicano, fatto di sola masa

harina (finissima farina di mais)

e acqua calda, steso sottile e cotto

in padella, si trasforma in leggerissimi

triangoli da infornare con formaggio

e peperoni piccanti (nachos)

ChapatiLe leggerissime focaccine indiane

di farina integrale (ma anche miglio,

orzo, grano saraceno), acqua e sale

(o zucchero, nella versione dolce)

vengono cotte su piastra di ferro

unta con burro chiarificato (ghee)

Cracker di miglioSono croccanti e alcalinizzanti

(ideali contro l’acidità di stomaco)

le sfoglie a base del cereale coltivato

in Oriente ed Egitto, tradizionale

di molte cucine tra Africa e Asia,

simile al frumento, ma privo di glutine

SoffiettiHanno l’aspetto di piccole sfere

impalpabili, le palline di mais soffiato,

commercializzate in sacchetti tipo

snack. Variante con verdure

essiccate ed erbe per aumentare

l’effetto drenante

WasaNate in Svezia nel 1919, le croccanti

fette rettangolari di segale integrale

(da oltre 10 anni di proprietà Barilla)

sono diventate un marchio-simbolo

della moderna dietetica mondiale,

grazie al contenuto di fibre proteiche

Grissini di risoNiente glutine nei friabili bastoncini

messi a punto come sostituti

del pane per la dieta quotidiana

di celiaci e intolleranti alle farine

Realizzati con o senza lievito,

vantano un basso impatto calorico

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46 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 16MAGGIO 2010

le tendenzeChiodi fissi

Giubbotti in pelle, borchie,zatteroni e magliette strappateDagli happeningdegli anni Settantaalle ultime passerellelo stile più ribelle della storiatorna riveduto e correttoAlmeno quanto bastaa non cadere nel ridicolo

ModaRock

BORCHIATISono d’argentogli orecchini ChanelMa non per questorinuncianoalle piccoleborchie

METALLO E PELLEPantaloni

Philippe Pleinda citazionerock: in pelle

con ginocchiererigorosamente

borchiate

AGGRESSIVOUn mocassino,

ma con taccododici centimetri,

quello firmatoMiu Miu: in

vernice e resoaggressivo

dalle miniborchie

SFRANGIATOIl mini jeansDiesel sfrangiato,a suo modoun classico(per chi se lopuò permettere)

ESSENZIALIBraccialiOviessecolorati,semplici

ed essenziali:sono le borchie

a rimarcarelo stile

VERTIGINOSOTaccovertiginosoe pizzod’ordinanzaper lo zatteronein stile rockDolce&Gabbana

«Rock’n’roll is here to stay».Perché? Ovvio, «Can ne-ver die». Così cantavaNeil Young nel 1979. Enon è che tutti ci credes-sero. Oggi, invece, è as-

solutamente evidente. Lo dice anche Greil Mar-cus, forse il critico musicale più famoso del mon-do, che paragona il rock a Moby Dick e a Il Grande

Gatsby. E nella moda? Pelle nera, borchie, zatteroni, ca-

pelli in piedi, magliette strappate e jeans lisi sonoormai un grande classico. Esattamente come lacamicia bianca, il tubino, il trench e la collana diperle. E non è esagerato dirlo. Alle ultime sfilate erasu tutte le passerelle, quindi non fa più tendenzaperché il rock è il modo più facile e immediato perattualizzare qualsiasi stile. Basta guardarsi in giro,per la strada: l’eleganza da manuale è pratica-mente sparita e la gente è convinta di dover darespettacolo. Esattamente come faceva Elton John(che per una vita tutti hanno preso per i fondelliper via degli occhiali stranissimi, ora assoluta-

mente normali) o Mick Jagger (con le sue giac-chette di pelle smilze e i jeans da orchite, ora qua-si una divisa). Sono sempre loro le icone a cui ispi-rarsi, assieme a Lou Reed, Jim Morrison, i Sex Pi-stols... Pensavano di essere trasgressivi, invecesono diventati come Jacqueline Kennedy o GraceKelly, un look book da imitare.

Che dire? Da una parte piacciono l’estremi-smo, le esagerazioni, il gioco perché sono indicidella libertà di cui gode la moda, uno dei pochi for-tunati settori non colpiti dalla censura, almenoper ora. Dall’altra è certo che una vittima sacrifi-cale c’è, ed è il buon gusto. Perché il rock è ancheun grande trappolone. Non basta saper strimpel-lare quattro note con una chitarra elettrica per fa-re un bel concerto. Allo stesso modo non bastapossedere un paio di pantaloni da biker o degli sti-vali cattivi per essere “giusti”. Anzi, si può diven-tare ridicoli. Qualche consiglio? Scegliere solo undettaglio rock: per intenderci, mai giacca e panta-loni di cuoio coordinati, borchie come collane,bracciali o sulle scarpe, nero total e trucco pesan-te tutto assieme. Se avete il chiodo, mettetelo conuna gonna longuette, quasi bon-ton. Se i leggingssono di pelle, indossateli sotto un vestito roman-tico. Se volete i jeans sdruciti, date loro dignità conuna bella giacca. Se vi piacete con rossetto e smal-to viola, usateli per far arrabbiare il solito tailleur.Il rock perderà lo shock ma diventerà chic.

MICHELA GATTERMAYER

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Quandola trasgressioneè un classico

WARHOLIANALa t-shirt firmatada Pepe Jeansè di cotonecon stampa:ovviamenteAndy Warhol

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 47DOMENICA 16MAGGIO 2010

ISPIRATOAnche un sandaloGeox può ispirarsiallo stile rock:l’importanteè che sia neroe con borchie

ALCOLICAÈ confezionatain una specialeedizione“rock”la bottigliaVodka Absolut,tutta pellee borchie

GRAFFITAROL’orologiocon il disegnoin stilegraffitaroper Marc EckoWatches

STILE DIVALacci, pelle nerae placche:ecco i tronchettiGucci in stilediva del rock

TESCHIO SU PELLEBasta un teschiod’argentoper trasformarel’eleganteborsa di pelleJohn Richmondin un’icona rock

L’OCCHIALE POPIl brevetto Aviatorvenne depositatoil 7 maggio 1937:occhiali che seguendol’incavo dell’occhioproteggevano i pilotida raggi infrarossie ultraviolettiFurono chiamati “Ray Ban”da “bannish rays”,ovvero che bandiscei raggi. Registraticome “Large Metal”diventarono per tutti“Aviator”. Con oltredue milioni di paia vendutiogni anno sono il modellopiù popolare al mondoOra arrivano sei nuovimodelli: metal glide,craft, spirit, titanium,ultra gold e tech

JEFF BECKAviator sul naso,

il chitarrista inglese

fotografato nel 1975

BLONDIEAl secolo

Deborah Harry,

nel 1978

ERIC CLAPTONUno dei grandi

del rock,

qui nel 1977

DON FELDERLo storico chitarrista

degli Eagles

fotografato nel 1977

GIOVANNI CIULLO

Quelle due goccesui nasi delle star

A New York la festa Ray Ban

NEW YORK

Lo sapesse il luogotenente John Mac-Cready, che gli occhiali protettivi a gocciacon lenti verdi in vetro minerale li chiese piùdi ottant’anni fa dopo aver attraversato l’A-tlantico sul suo pallone aerostatico, non cicrederebbe. Eppure da allora i mitici Avia-tor hanno davvero cambiato mestiere: natiper difendere i piloti d’alta quota dai raggiultravioletti, hanno finito per accompa-gnare più spesso le rockstar — Mick Jagger,Bruce Springsteen, Blondie, Eric Clapton— sotto il flash dei paparazzi. Non è un ca-so che mercoledì scorso il modello di RayBan più popolare al mondo (oltre due mi-lioni di pezzi venduti nel 2009, con numeriin continua crescita) abbia festeggiato sestesso e sei nuovissime versioni, rivoluzio-nate nei materiali e nei colori, non in unhangar dell’Air Force One, ma nella MusicHall di Williamsburg, cattedrale della mu-sica indie di Brooklyn, New York. Quattro-cento ospiti e celebrities (Chlöe Sevigny,Mark Ronson, Juliette Lewis, Sean Len-non...) e sul palco un bel pezzo della storiadel rock di ieri e oggi per un marchio che dadieci anni parla italiano (Luxottica l’hacomprato dall’americana Bausch&Lomb).

Hanno aperto i Free Energy (rock banddell’anno con l’album Stuck on Nothing)ma l’evento più atteso era l’esibizione diIggy Pop con gli Stooges (il loro Fun House,1970, contribuì a far nascere la leggenda delrock’n’roll). Spettacolo allo stato puro: Iggya petto nudo davanti al microfono, stessaenergia di sempre, prima invita il pubblicoa salire sul palco e poi si lancia in tuffo sullafolla adorante. «Il legame con la musica ènel dna di Ray Ban e dagli anni Settanta a og-gi cosa c’è di più rock degli Aviator, il nostromodello più popolare?», dice Sara Bene-venti, brand director di Ray Ban. «Abbiamopensato a questo evento come a una festa,non un lancio promozionale. Gli artisti nonsono nostri testimonial, la location è un ve-ro tempio della storia della musica. Abbia-mo celebrato sia Ray Ban che il rock». Conl’occasione sono stati presentati i sei nuovimodelli che, eccetto quello in carbonio chearriverà a Natale, saranno disponibili in Ita-lia già da giugno. «Gli Aviator rappresenta-no circa il 20% dei 16 milioni di Ray Ban chevendiamo ogni anno. L’obiettivo per il 2010è ambizioso, ma non lontano: vorremmoarrivare a quota 18 milioni».

Intanto la festa degli Aviator e del rockcontinua. Si replica a Londra, il 26 maggio,con i New York Dolls, i Big Pink e le Plastici-nes.

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Il decalogodella moda rock

La pelle nera

I jeans lisi

La T-shirt con i buchi

Le borchie, i teschi, le catene

Gli occhiali scuri

Gli stivaletti a punta o zatteroni

La giacca da smoking vintage

I pantaloni neri super slim

Gli occhi truccati

I capelli senza mezze misure

IGGY POP & THE STOOGESLa band anni ’70 è stata

protagonista dell'evento

Ray Ban a New York

Repubblica Nazionale

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48 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 16MAGGIO 2010

l’incontro

‘‘

Maestri

Anche Shakespeareera costrettoad arrangiarsiMalgrado la mancanzadi fondi e l’idioziadei governantil’arte restalo spazio del possibile

A ottantacinque anni, porta ancoracon sé lo spirito ribelle di quandosi fece espellere dall’universitàa causa dei primi esperimenti teatrali

Ora la nuova sfidadel grande registaè “Il Flauto magico”di Mozart, lontano da ognieffetto specialePerché nell’era di web e tv, «oggi solo il teatro

è il luogo fatto per condividereun’esperienza non raggiungibiledavanti al gelo di uno schermo»

L’incontro con Il Flau-to Magico di Mozartpare un accadimen-to naturale e inevita-bile nel viaggio di ri-cerca di quel purista

del gioco scenico che è Peter Brook, pro-babilmente il massimo regista teatralevivente, attratto dalle dimensioni piùelevate ma anche più sensuali e contin-genti dell’espressione artistica. Brook èl’interprete per eccellenza della genia-lità del semplice, il cantore di un’essen-zialità che da miraggio diviene conte-nuto. Da tempo insegue la rappresenta-zione distillata del cuore delle cose,quello catturato dal suo amato Shake-speare, o raccolto dalla magia bambinaeppure sapientissima di Mozart, dove lasfera del naïf si fa iniziatica e rituale, co-me nel Flauto. «In ogni musica mozar-tiana emerge la voce di un uomo che hacinque anni e ne ha pure cento o mille,perché dimostra di aver compreso e at-traversato tutto, ogni esperienza dellavita», afferma Brook. «Nel Don Giovan-ni affiora il Mozart più passionale, l’a-mante del sesso e delle donne, ma an-che il colpevole oppresso dal rimorso,che teme il rogo dell’inferno e ciò nono-stante scherza nell’intrecciare i generiin un’opera buffa e drammatica, gioco-sa e invasa da presagi metafisici. In ogniistante Mozart è il mistero della morte eun’esuberanza vitale travolgente».

A proposito del Flauto si tende spes-so a evocare il Mozart votato alla mas-soneria, «ma sono idee che servono so-lo ad appesantire il tutto. La verità è chela musica mozartiana è qui per noi conineffabile ricchezza, dimostrandociche il compositore non fa alcuna propa-ganda di concetti filosofici o teorie;

piuttosto vuole e sa comunicarci unsentimento che corrisponde alla suainiziazione spirituale e al tempo stessoè generoso nel farci percepire il Papage-no che è in lui: il magnifico buffone, l’e-terno fanciullo, la risata che affranca l’e-sistenza dalle briglie delle convenzio-ni».

Brook metterà in scena il suo FlautoMagiconel teatro delle Bouffes du Nord,sede del Centre International de Créa-tions Théâtrales che ha fondato a Pariginei primi anni Settanta: un ex padiglio-ne industriale dalle atmosfere slabbra-te e fascinose, a pochi passi dalla Garedu Nord. Debutto il 9 novembre di que-st’anno, con repliche fino a tutto di-cembre; e dal 22 febbraio al 19 marzo2011 lo spettacolo arriverà al PiccoloTeatro Strehler di Milano, coprodutto-re dell’impresa. «Il mio unico punto dipartenza sarà la musica di Mozart, sen-za premesse figurative. Ogni regista cheaffronta Il Flauto si chiede: quale stilescenografico caratterizzerà l’allesti-mento? Una complessa scena d’epoca,con ingranaggi che consentono trasfor-mazioni a vista? Una cornice moderna,con le vistose tecniche e possibilità diBroadway? O qualcosa di super-con-temporaneo, con proiezioni e video, co-me va di moda oggi? Invece qui alleBouffes eviteremo tutto questo, comin-ciando da un grado zero dell’immagi-nazione, e affidandoci solo all’ispira-zione di una musica profondamenteumana, che abbiamo riadattato insie-me al musicista Franck Krawczyk e cheverrà eseguita al pianoforte da AlainPlanès, forse con l’intervento di qual-che altro strumento, sulla base della ri-duzione del libretto che ho fatto conMarie-Héléne Estienne. In scena ci saràun piccolo gruppo di cantanti giovani,aperti e disponibili a un lungo lavorod’improvvisazione sui personaggi chestiamo per iniziare adesso». Il risultatofinale durerà appena un’ora e mezza,«perché bisogna avere il coraggio d’in-tervenire sulle lungaggini e assurditàdel librettista Schikaneder, l’impresa-rio che commissionando a Mozart ilFlauto cercava un successone per il suoteatro di periferia, e che costruendonela trama pensava soprattutto a un ruolocomico per sé, quello di Papageno».Sbrogliando, asciugando, depurando,in vista di un’azione «intima e leggera,che illumini la linee della musica comese le si ascoltassero per la prima volta»,Brook, in questo Flauto Magico («forselo intitoleremo semplicemente UnFlauto»), si avventurerà nella medesi-ma «distillazione» realizzata nellaTragédie de Carmen, con cui negli anniOttanta, suscitando le ire dei meloma-

ni, tradusse la Carmen di Bizet in un’o-pera lieve e disadorna, ricreata per tro-vare «la sorgente della narrazione e la fi-nezza della partitura» all’opposto del-l’artificialità del melodramma. Un ma-nifesto contro le varie Carmen «ridon-danti di balletti, festosità forzate, auto-matismi da grand spectacle»; e nellastessa prospettiva anti-effettistica, il re-gista inglese ha riletto il Don Giovanni,montato nel ’98 al Festival di Aix-en-Provence e accolto nello stesso anno dalPiccolo a Milano.

Nato nel 1925 a Londra da una fami-glia di ebrei russi, questo spericolatocontestatore della tradizione teatrale,che paradossalmente è oggi il più «clas-sico» e puro tra i numi della scena inter-nazionale, avverte per la prima volta«l’importanza del semplice» da bambi-no, di fronte a un piccolo teatro di car-tone dai colori netti e con figurine terse«che trovavo tanto più convincenti delmondo là fuori». A diciassette anni, stu-dente a Oxford (il padre lo vorrebbe lau-reato in legge), si fa espellere dall’uni-versità grazie ai primi, burrascosi espe-rimenti teatrali, e ha già messo in scena

titoli di Shakespeare, Marlowe e Coc-teau quando, a ventidue anni, viene as-sunto come direttore delle produzionialla Royal Opera House Covent Gardendi Londra, contesto che gli si rivela orri-pilante, con scenografie ammuffite esoprani elefantiaci e immoti. Un regnodi vieux monstres gonfi di gestualità re-torica e «venerati da un pubblico senzacriterio, pronto a sorbirsi qualsiasi ca-duta di gusto. Per questo in seguito horifiutato sempre le regie operistiche. So-lo arrivando nell’ambiente delle Bouf-fes du Nord ho capito che avrei potutoesplorare una lirica diversa, come ades-so questo Flauto, nel quale la vicinanzatra pubblico e interpreti permetterà al-lo spettatore di accedere alla magia e al-la tenerezza dell’opera».

Dopo l’intensissima e fruttuosa dire-zione della venerabile Royal Shake-speare Company e un gran numero disuccessi applauditi nel mondo, Brook,molto famoso negli anni Sessanta, ri-getta l’appeal del teatro “borghese” perpuntare a un’esperienza teatrale “di-versa”, lanciata in palcoscenici en pleinair e in grado di scoprire testi e autoriinusuali e di occupare spazi-camaleon-te come le Bouffes, «un po’ cortile, unpo’ casa e un po’ moschea». Lo scopo ul-timo è un teatro necessario, portatore di«quell’emozione chiamata dagli inglesithe suspension of disbelief: qualcosache, come nella tragedia greca, sospen-da l’incredulità di chi sta guardando». Invista di tale obiettivo, Brook fa rivivere laleggenda di Prometeo tra le rovine diPersepoli, evoca la cultura tribale afri-cana (Les Iks), attinge alla tradizionepersiana (La conferenza degli uccelli),s’immerge nella sterminata densità delpensiero indù (il Mahabharata), svela lastraordinaria vitalità del teatro politicosudafricano, indaga i testi “neurologici”di Oliver Sacks accanto a Cechov, aBeckett e all’irrinunciabile Shakespea-re. E non rinuncia all’affondo nei guastiprovocati dal fanatismo religioso, comenello spettacolo del 2005 Tierno Bokar,ispirato a una storia dello scrittore delMali Amadou Hampaté Bâ. La nuovaversione inglese di questo pezzo, intito-lata Eleven and Twelve, sarà quest’annoal Festival di Spoleto (2, 3 e 4 luglio).

«Tierno Bokar è eloquentissimo sul-l’Islam e sui nessi tra religione e politica.Ogni africano ha una sua religiosità, ali-mentata da un forte rapporto con la na-tura, che assume forme diverse tra cuil’islamismo. All’inizio della vicendaTierno Bokar, nel suo villaggio, vive inun’oasi di felicità e saggezza. Ma ad al-terare la situazione giungono conflittitribali e intolleranze, causa di faide emassacri. Ed è qui che l’opera si apre al-

la Storia, nella linea di Shakespeare»,genio miracoloso che nel suo teatro sacollegare i vari piani dell’esistenza,«quello volgare o popolare, quello so-ciale e politico, e quello metafisico, inun passaggio continuo tra cielo e terra».

Ma esiste il pubblico che recepiscetutto questo? La scena teatrale non è for-se cambiata radicalmente, in un impo-verimento progressivo, tra l’indifferen-za o lo spregio dei governanti e l’assotti-gliarsi del dialogo con le grandi platee,che sembrano sempre più lontane dalsuo tipo di ricerca? «Parlare di pubblicoin generale è un’astrazione, non esisteun unico interlocutore, ci sono tanti in-dividui diversi. Oggi il pubblico teatraleè un’élite, parola che negli anni Sessan-ta era politicamente scorretta, mentreadesso è altro. Grazie alla televisione e aInternet non c’è più alcuna élite nellacomunicazione e nell’arte, nessun pro-dotto artistico è inaccessibile, e il teatrocome élite vuol dire un luogo rigene-rante e positivo fatto per chiunque ab-bia voglia di andarci nel desiderio dicondividere un’esperienza non rag-giungibile nell’isolamento e davanti algelo di uno schermo».

Quanto ai governi che nella crisi ta-gliano i contributi alla cultura, «il solomodo per fronteggiare tutto questo»,sostiene Brook, «è prendere esempiodai massimi maestri di tutti i tempi:Shakespeare e Mozart erano due lavo-ratori costretti ad arrangiarsi con glistrumenti che avevano a disposizione,l’uno creando un teatro popolare, l’al-tro accettando le commissioni dei suoisponsor, ma entrambi senza compro-mettere l’autenticità e l’onestà della ri-spettiva ricerca. Malgrado la mancanzadi fondi e l’idiozia dei governanti, l’arteresta il luogo del possibile».

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LEONETTA BENTIVOGLIO

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Peter Brook

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