Ucuntu n.89

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101010 www.ucuntu.org - [email protected] . Ancora scioperi di lavoratori immigrati in Campania Ancora ragazzi in piazza a difendere la scuola Sebastiano Gulisano/ Mafia Appalti Stragi Un depistaggio lungo trent'anni Fabio D'Urso/ Catania al tempo della Gelmini || 10 ottobre 2010 || anno III n.89 || www.ucuntu.org || We have a dream

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il numero del 11 ottobre 2010

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101010 www.ucuntu.org - [email protected]

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Ancora scioperi di lavoratori immigrati in Campania Ancora ragazzi in piazza a difendere la scuola

Sebastiano Gulisano/ Mafia Appalti Stragi Un depistaggio lungo trent'anni

Fabio D'Urso/ Catania al tempo della Gelmini

|| 10 ottobre 2010 || anno III n.89 || www.ucuntu.org ||

We have a dream

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Politica Politica “Sciur padron

dalla bella faccia bianca...”

Gli immigrati vengono qui a fare lavori che gli italiani non vogliono più fare, ma sempre più spesso anche a difendere diritti che agli italiani non interessa più difendere o di cui non capiscono più l’importanza: come quello ad avere una vita dignitosa e un lavoro pagato in modo equo, come quello a non subire la prepotenza delle mafie. Lo sciopero delle rotonde, ieri, e la manifestazione a Caserta, oggi, lo hanno mostrato in modo chiaro.

Le rotonde sono quelle di Casal di Principe, Scampìa, Castelvolturno, Pianura, Giugliano... Terre di nessuno dove alle cinque del mattino l’offerta di manodopera straniera a bassissimo costo si incrocia con la domanda dei caporali.

Ora sono state “occupate” da circa duemila lavoratori (regolari e irregolari, quasi tutti africani) che hanno rotto gli in-dugi e messo al collo eloquenti cartelli: «oggi io non lavoro per meno di 50 euro».

La protesta, organizzata dal movimento migranti e rifugiati di Caserta, con le asso-ciazioni antirazziste campane, è stata ac-colta con sufficienza dai caporali ma in re-altà segna un passaggio importantissimo.

Ha suscitato curiosità tra la gente e solid-arietà tra gli autoctoni. Qualcuno ha cominciato a capire: i ragazzi con i cartelli al collo (che hanno rischiato tanto, soprat-tutto quelli senza documenti) non si stavano battendo solo per se stessi.

Razzismo e clandestinità rappresentano l’humus dove meglio attecchisce la mala pianta del lavoro nero, che serve ad abbas-sare sempre più il costo del lavoro e azzer-are la conflittualità sindacale. Le politiche razziste, le leggi che fingono di contrastare

la clandestinità ma in realtà la favoriscono (vedi la Bossi-Fini) non sono frutto dell’ignoranza ma funzionali alla costruzione di un nuovo modello sociale.

Un modello che non prevede welfare e pari opportunità, riconoscimento dei diritti e vincoli di solidarietà, ma si basa sulla competizione e l’individualismo sfrenato e che purtroppo non è lì da venire: 16 anni di berlusconismo gli hanno già aperto la strada. Gli immigrati sono stati e continu-ano a essere il “luogo” in cui le politiche repressive vengono sperimentate prima di essere applicate ad altri segmenti della so-cietà, a partire dai più vulnerabili.

La loro ribellione riguarda tutti, e non solo per ragioni etiche o di solidarietà umana. Lo stesso vale per le loro richieste di equità, come quelle presentate stamattina a Caserta: la cittadinanza basata sullo ius solis e il diritto di voto amministrativo, una nuova sanatoria aperta a tutti i lavoratori, il rispetto dei diritti dei richiedenti asilo, l’estensione dell’articolo 18, il rifiuto di costruire un Cie in Campania.

Una democrazia che ignori a priori le richieste di una parte significativa della sua popolazione o somministri in modo dis-crezionale i diritti universali è implicita-mente zoppa. Lo sciopero delle rotonde come già la Giornata senza di noi dello scorso primo marzo hanno visto italiani e stranieri vicini e cosapevoli della necessità di combattere insieme.

Questa vicinanza, questa conspevolezza sono la premessa per cominciare a erodere le ingiustizie del presente.

Stefania Ragusa,coordinamento nazionale Primo Marzo

Catania Città ApertaFesta di stradaDomenica 24ottobre dalle 17 in piazza Carlo AlbertoCibi, video, animazione per bambini, danze tradizionali e musiche di African Ngewel e Sangeet groupAnpi, Arci Catania, Arci Melquiades, Geetanjali Circle (Mauritius), Ass. El Amel (Tunisia), Ass. Ghezà, Centro Astalli, Cobas, Convenzione per la Pace, Coordinamento Immigrati CGIL, Cope, Experia, Mani Tese, Officina Re-belde, Open Mind, Rete Antirazzista e immigrati da Senegal, Mauritius, Eritrea, Tunisia, Palestina, Marocco, Afghanistan, Nigeria, Sri LankaNoi non crediamo ai giornali, alle tv, ai politici che dipingono i migranti come criminali e producono leggi liberticide. NO alle leggi che disumanizzano i migranti, alla sanatoria-truffa, alle galere etniche, alle ronde, agli sgomberi dei campi rom, al pacchetto sicurezza, ai respingimenti, alle stragi di migranti.La paura genera il razzismo. Il razzismo genera guerre fra poveri.La Solidarietà unisce i popoli! Mai più clandestini, ma cittadini!

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L'8 ottobre, nel regno della camorrra in Campania, moltiL'8 ottobre, nel regno della camorrra in Campania, molti lavoratori immigrati hanno scioperato per i loro diritti,lavoratori immigrati hanno scioperato per i loro diritti,

proseguendo nel movimento di liberazione iniziato con laproseguendo nel movimento di liberazione iniziato con la rivolta di gennaio e lo sciopero del Primo Marzo 2010rivolta di gennaio e lo sciopero del Primo Marzo 2010

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Politica Politica Vietatoscrivere“sfruttatore”?

A Milano è successa una cosa tremenda: alcuni feroci estremisti, o brigatisti o di Bin Laden o di chissà che banda, sono andati in via Unbria, hanno scelto accuratamente un muro e – a caratteri enormi e, badate bene, in rosso - vi hanno scritto d'un getto: “Mar-chionne sfruttatore”. Poi “Servi dei padroni” (per Angeletti e Bonanni). Infine hanno vergato: una falce; un martello; e una stella rossa.

Quest'ultima, a dire il vero, non era proprio quella dei brigatisti (che è piuttosto, tecnicamente, un pentacolo) ma - piccola, fra l'estremità della falce e quella del martello - aveva un'aria più che altro berlingueriana (“Emblema del Partito sono la falce e il martello, simboli del Lavoro, e la Stella d'Italia che li affianca...”).

Ma non importa: l'allarme – allarme so-ciale – resta; e se n'è fatta portavoce Re-pubblica, con titoli convenevolmente al-larmati, simili – per dare un'idea – a quelli che userebbe se un giorno o l'altro, per as-surda ipotesi, Marchione dichiarasse che la Costituzione della Repubblica non vale più e lo Statuto dei lavoratori è carta straccia.

Ma, filologicamente, si può dire (e scrivere) che un personaggio così illustre come Marchionne sia con rispetto parlando uno sfruttatore? A me, e al mio illustre col-lega prof Marchetti (prima delle leggi razziali si chiamava Marx) parrebbe ovvio.

Potremmo sbagliarci, s'intende: ma si va già in galera, o si passa per brigatisti, a dirlo?

(Non sono invece d'accordo con quel “servi dei padroni” ai poveri Angeletti e Bonanni, che sono semplicemente dei sin-dacalisti alquanto incapaci: ma, anche qui, potrei sbagliarmi).

* * *Siamo impegnati in una lotta ferocissima

con un potere non-democratico e corrotto, quello di Berlusconi. Contro di esso lottano anche, e con determinazione non inferiore, anche i colleghi di Repubblica e gli imprenditori che ne possiedono il giornale. Si tratta, com'è evidente, di gente civile e democratica, del tutto imparagonabile con gli avversari comuni. Sarebbe dunque sbagliato fare troppe polemiche con loro.

Ogni tanto, però, non fa male ricordarsi un attimo che sempre di interessi si tratta, civili e democratici ma interessi; e che la Fiat in particolare, per loro e per tutta la democrazia moderata – è stata per sess-ant'anni ed è tuttora un tabù.

Possiamo pretendere, questo sì, che non confondano cazzi e lanterne (come si dice a Parigi) e non aiutino involontariamente i brigatisti veri attribuendo loro sentimenti che invece sono, da molte generazioni a questa parte, delal gran maggioranza degli operai. E poi via tutti avanti a lottare contro

Caligola e Nerone, loro (senatori) da un lato e noi (schiavi e liberti) dall'altro. Solt-anto, facciano attenzione a non regalare a Nerone liberti e schiavi, come spesso sono tentati di fare.

* * *Saviano – passando ad altro – da quando

ha lasciato il suo vecchio sito Nazione Indi-ana non è migliorato. Ultimamente ha pi-antato là una gran bischerata, occupandosi con leggerezza di Peppino Impastato e dando della sua lotta una versione da fic-tion, ignorando ad esempio il ruolo decis-ivo che ebbero, con gran rischio e coraggio, compagni come Umberto Santino e il suo Centro Impastato.

Umberto (che non per la prima volta viene ingiustamente cancellato dalla storia “ufficiale”) giustamente se n'è doluto e ha protestato. Bene. Poi, però, ha preso carta e penna e ha fatto causa a Saviano. Male.

Io spero, e anzi mi permetto umilmente di chiedere, che questa faccenda finisca con un sorriso reciproco e una stretta di mano. Due antimafiosi, il più grande dei vecchi e il più famoso dei nuovi! Eppure non andrà così, lo sento. E anche questo è un segnale.

Io ho sempre sostenuto che l'antimafia dovrebbe insegnare alla politica, fare (vera) politica essa stessa. Ma occorre un colpo d'ali.

Riccardo Orioles

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Scandalo per una scritta contro Marchionne. E allora? C'è moltaScandalo per una scritta contro Marchionne. E allora? C'è molta

differenza fra la protesta (in questo caso, assai giusta) e il terrodifferenza fra la protesta (in questo caso, assai giusta) e il terro--

rismo o la violenza. Anche la Marcegaglia, adesso, è contro Berlurismo o la violenza. Anche la Marcegaglia, adesso, è contro Berlu--

sconi. Ma questo non vuol dire...sconi. Ma questo non vuol dire...

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Storia d'Italia Storia d'Italia

Mafia, appalti e stragiUn depistaggiolungo vent'anni

La chiacchierata fra i due amici, che ric-alca un articolo pieno di inesattezze pub-blicato in rete da Jannuzzi un anno fa, è un vero e proprio distillato di disinformazione e allusioni sulle stragi del ’92 e su vicende ad esse connesse come, appunto, l’ormai “mitico” rapporto di 890 pagine consegnato dal capitano Giuseppe De Donno al procur-atore aggiunto Giovanni Falcone, il 20 febbraio del 1991, e da questi consegnato a sua volta al procuratore capo, Pietro Giam-manco, che lo chiuse in cassaforte. «Una leggenda», commentano Jannuzzi e Mori, riferendosi a quel rapporto e a quell’inchi-esta. Vero, verissimo. Ormai la leggenda ha prevalso sulla storia e, come ogni leggenda, è intrisa di verità, mezze verità e menzogne scecherate così bene da essersene smarriti i confini. Confini non agevoli da ridefinire con una ricostruzione giornalistica per quanto documentata, approfondita e articol-ata. Però alcuni punti fermi si possono age-volmente fissare, proprio confutando le pa-role di Mori riportate da Jannuzzi, a pro-posito dell’inchiesta su mafia e appalti.

Prima, comunque, necessita una premessa.

L’inchiesta su mafia e appalti prende il via nell’88, in seguito a una “soffiata” ricevuta dai carabinieri che indagano sull’omicidio di un allevatore in un comune delle Madonie. Le successive indagini

svelano che Cosa Nostra non ha più un at-teggiamento parassitario (imposizione del pizzo, di assunzioni, di forniture di materi-ali) ma, come spiega Giovanni Falcone, durante un convegno organizzato dall’Alto commissario antimafia, nella primavera del 1990, «indagini in corso inducono a ritenere l’esistenza di un’unica centrale mafiosa che condiziona a valle e a monte la gestione degli appalti pubblici».

Un'intercettazioneUn'intercettazionedopo l'altra...dopo l'altra...

Un passo dopo l’altro, un’intercettazione dopo l’altra, si arriva al 20 gennaio del 1991, quando De Donno consegna a Fal-cone il rapporto citato, ma il magistrato è ormai prossimo a trasferirsi al ministero di via Arenula e, con gli altri colleghi del pool antimafia, è impegnato in una corsa contro il tempo per chiudere l’istruttoria sugli om-icidi politici (Mattarella, La Torre, Reina) prima che scadano i termini imposti dalla legge, nel passaggio dal vecchio al nuovo codice di procedura penale. Per tale motivo il monumentale documento finisce in cassa-forte, ché anche i sostituti Pignatone e Lo Forte, assegnatari del fascicolo insieme con Falcone, sono impegnati nella medesima is-truttoria, depositata il 12 marzo 1991. L’inchiesta è così complessa e la mole degli atti talmente monumentale che, nel mese di maggio, il procuratore Giammanco decide

di affiancare a Pignatone e Lo Forte altri 6 sostituti (Carrara, De Francisci, Morvillo, Natoli, Scarpinato e Sciacchitano) e il procuratore aggiunto Spallitta.

I Ros dell’allora tenente colonnello Mori e del capitano De Donno individuano 45 persone – mafiosi, noti imprenditori nazionali, progettisti, faccendieri e un paio di politici palermitani – a carico dei quali ipotizzano i reati di associazione mafiosa (per 24 di loro) e di associazione per de-linquere finalizzate alla spartizione degli appalti pubblici (21). L’organizzazione sarebbe capeggiata da Angelo Siino, un massone mafioso legato ai Brusca di S. Gi-useppe Jato, arrestato il 9 luglio ’91 con altre quattro persone: il geometra Giuseppe Li Pera, capoarea in Sicilia occidentale della Rizzani De Eccher di Udine, e gli «imprenditori» Cataldo Farinella, Alfredo Falletta e Serafino Morici, tutti accusati di mafia. Ai cinque, all’inizio del ’92, si aggi-ungeranno Vito Buscemi e Rosario Cascio. Il 13 luglio del 1992, ritenendo di non avere elementi sufficienti per il giudizio, la Procura deposita la richiesta di archiviazione di 21 indagati nell’inchiesta scaturita dal rapporto del Ros e il 22 la presenta al Gip, che il 14 agosto firma il decreto di archiviazione. Resta aperto il fi-lone Sirap, una società della Regione sicili-ana.

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Lo scorso 5 ottobre, il generale Mario Mori, in un colloquio col giornalista-Lo scorso 5 ottobre, il generale Mario Mori, in un colloquio col giornalista-senatore Lino Jannuzzi (che fungeva più da “spalla” che da intervistatore)senatore Lino Jannuzzi (che fungeva più da “spalla” che da intervistatore) ha raccontato la sua versione di quello che definisce «il processo a me, aiha raccontato la sua versione di quello che definisce «il processo a me, ai miei colleghi, al Ros, ai carabinieri» e il cui inizio fa risalire al «16 febbraiomiei colleghi, al Ros, ai carabinieri» e il cui inizio fa risalire al «16 febbraio del 1991, vent’anni fa, quando consegnammo alla procura di Palermo ildel 1991, vent’anni fa, quando consegnammo alla procura di Palermo il rapporto dell’inchiesta detta “mafia e appalti”…»rapporto dell’inchiesta detta “mafia e appalti”…»

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Storia d'Italia Storia d'Italia

Secondo i magistrati della Procura di Palermo, che lo scrivono in una relazione al Csm, alla fine del ’92, l’indagine del Ros ha prodotto «un salto di qualità nelle cono-scenze sino ad allora acquisite sui rapporti tra Cosa Nostra e il mondo imprenditoriale. Ed in effetti emergeva che l’associazione mafiosa non si limitava più a svolgere un ruolo di sfruttamento meramente parassit-ario delle attività economiche-im-prenditoriali, concretatesi nell’imposizione di tangenti, di subappalti, di imposizione della manodopera, ma mirava a realizzare un controllo integrale e un pesante condiz-ionamento interno del mondo imprenditor-iale e del settore dei lavori pubblici in Sicil-ia».

Il 26 luglio del ’91, dopo i primi arresti, la Procura ha delegato i Ros ad approfon-dire il filone d’indagine sulla Sirap, società pubblica incaricata di gestire la realizza-zione di una serie di aree artigianali in Si-cilia, per un ammontare complessivo di mille miliardi di lire. Così facendo, la Pro-cura ha messo in campo una strategia artic-olata in tre punti: 1) l’arresto degli elementi più pericolosi dell’organizzazione, sui quali c’erano elementi sufficienti per ottenere il rinvio a giudizio e la condanna; 2) acquisire altri elementi su soggetti già individuati dai Ros; 3) individuare i referenti politici e am-ministrativi dei boss.

In realtà, non tutto filava liscio, visto che a metà giugno del 1991, la Sicilia, il quo-

tidiano di Catania, avviava una campagna contro la Procura, accusata di tenere «nel cassetto» il rapporto dei Ros, pubblicando anche stralci delle intercettazioni «insabbi-ate». Campagna che presto tracimerà sulle pagine di tanti quotidiani e periodici. In-somma: il «processo» non era ai Ros, come sostiene il generale nella chiacchierata con Jannuzzi, ma ai magistrati.

«L’inchiesta mafia e appalti è diventata una leggenda.

La campagnaLa campagnadel quotidiano catanesedel quotidiano catanese

“È vero, una leggenda. Era solo il primo mattone, ma era una novità assoluta, il cap-itano Giuseppe De Donno, il principale col-laboratore di Giovanni Falcone, che lo chiamava affettuosamente ‘Peppino’ e che era uno dei pochi investigatori che poteva permettersi di dargli del ‘tu’, e non si stac-cava mai da lui, che se lo portava appresso anche all’estero, in giro per il mondo, aveva fatto un ottimo lavoro e, avvalendosi delle confidenze di un geometra, Giuseppe Li Pera, che lavorava in Sicilia per la ‘Rizzani De Eccher’, una grossa azienda del nord, aveva ricostruito la mappa del malaffare tangentizio siciliano, la prima del genere e che anticipava di qualche anno la Tangentopoli nazionale”.

Sul momento, non se ne accorse nessuno.“Se ne accorse Giovanni Falcone, che ci

fece persino lo spunto per un convegno, che concluse col famoso annuncio: ‘La

mafia è entrata in borsa’… E con quell’an-nuncio iniziò la sua fine, perché se ne ac-corsero gli interessati, le imprese, i mafiosi e i politici”.

Ma non successe niente.“La procura di Palermo non ci dette nem-

meno le deleghe per proseguire le indagini e delle 44 posizioni che avevamo individu-ato emise solo cinque ordini di arresto, ma consegnò agli avvocati degli arrestati tutto il malloppo, tutte le 890 pagine del rap-porto, con i nomi e i cognomi di tutti i 44 indiziati”.»

Il rapporto dei Ros sarebbe, dunque, anche il frutto delle confidenze del geo-metra Li Pera al capitano De Donno. Così vuole la leggenda, non la storia. Giuseppe Li Pera è uno dei cinque arrestati del luglio ’91, quando finisce in manette anche An-gelo Siino, anche lui confidente dell’uffi-ciale del Ros che, così si sarebbe “bruciato” ben due fonti. Un bel risultato, non c’è che dire. Ma andiamo con ordine. Dopo l’ar-resto, Li Pera viene interrogato due volte dai pm di Palermo, ma si rifiuta di rispon-dere. Il 17 febbraio 1992, dopo sette mesi di carcere e, soprattutto, dopo il deposito delle intercettazioni che lo inchiodano, in-via ai magistrati una memoria in cui tenta una inutile quanto disperata difesa, di-chiarandosi estraneo ai fatti contestati. Lo stesso fa il 5 marzo, durante un interrog-atorio dei pm Lo Forte e Scarpinato al quale assiste anche De Donno.

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Storia d'Italia Storia d'Italia

5 marzo 1992: questa data è importante, ché alla fine dell’interrogatorio l’ufficiale si apparta coi due pm e, convinto che l’im-putato sia condizionato dal suo avvocato, chiede ai magistrati di poterlo incontrare da solo per convincerlo a collaborare. Per-messo accordato.

Il 9 marzo la Procura chiede il rinvio a giudizio di Li Pera, Siino e gli altri tre coindagati, per associazione mafiosa,

Il 30 aprile ai Ros di Palermo arriva una lettera anonima con la quale li si invita a «interrogare Li Pera» per scoprire «im-brogli» su alcuni appalti pubblici in provin-cia di Catania e a chiedere «informazioni al giudice Lima», al quale i Ros, il 3 maggio, trasmettono l’esposto anonimo e una nota esplicativa.

Risulterà che l’anonimo era stato scritto dallo stesso Li Pera, che dal 13 al 15 gi-ugno e il 27 agosto è interrogato in carcere dal pm etneo Felice Lima, come persona informata sui fatti, mentre il 20 luglio è il capitano De Donno, su delega del pm, a in-terrogarlo.

Li Pera racconta in maniera meticolosa il funzionamento del sistema degli appalti si-ciliano e nazionale, tacendo su Cosa Nos-tra, che si intravede solo nell’espressione «forza di tipo diverso» delegata alla «risoluzione dei contrasti» tra imprese che non riesce a sbrogliare Filippo Salamone, imprenditore agrigentino delegato a sbrogliare le situazioni complicate. Il 14 ot-

tobre 1992, il collaborante è interrogato per la prima volta in presenza di un avvocato, poiché indagato in seguito alle sue stesse rivelazioni.

Li Pera, fin dal primo interrogatorio (13 giugno) mette a verbale che i pm di Palermo non l’hanno mai voluto sentire: af-fermazione falsa e il capitano De Donno, che assiste il pm Lima, lo sa bene. Li Pera, inoltre, sostiene di non fidarsi della Procura del capoluogo, ché, secondo quanto rifer-itogli dal suo legale (successivamente ar-restato e condannato per mafia), nell’estate del ’91 ci sarebbe stata una riunione fra pm e avvocati, in cui sarebbe stato deciso chi arrestare e chi no delle persone accusate dai Ros: lui stesso, Siino e gli altri tre finirono nell’elenco dei «sacrificabili». L’attendibil-ità dell’avvocato, si commenta da sé.

Grandi imprenditoriGrandi imprenditoriregionali e nazionaliregionali e nazionali

I pm di Palermo, della collaborazione di Li Pera, non sapranno nulla fino al 28 ot-tobre 1992, quando il procuratore di Catania e i suoi aggiunti invieranno nel ca-poluogo gli interrogatori di Li Pera, un rap-porto di 843 pagine dei Ros di Palermo red-atto dal capitano De Donno e datato 1 ot-tobre 1992, e una nota introduttiva di 8 pa-gine firmata dai capi dell’ufficio etneo.

Dopo avere chiuso in un cassetto la richi-esta di custodia cautelare avanzata da Fe-lice Lima nei confronti dei vertici della Re-gione siciliana, grandi imprenditori region-

ali e nazionali, professionisti e qualche boss: 22 in tutto. L’inchiesta era incentrata, fra l’altro, su alcuni appalti catanesi della Sirap (gli stessi per i quali indagava Palermo).

Lima, in realtà, aveva provato a contattare Paolo Borsellino (lo ha confer-mato al Csm la madre del magistrato uc-ciso) ma il tritolo lo ha tolto di mezzo prima che i due potessero incontrarsi.

Nello stesso periodo, il capitano De Donno indagava per conto dei pm antim-afia di Palermo e per il pm Felice Lima di Catania, su fatti che a volte si sovrap-ponevano (Sirap) e consegnando corpose informative ai due diversi uffici inquirenti (a Palermo, il 5 settembre 1992), tanto che, scrivono i magistrati palermitani nella relazione al Csm, alla fine del ’92, gli al-legati dell’informativa consegnata a Lima il primo ottobre erano costituiti «in massima parte da fotocopia di atti compiuti dalla Procura della Repubblica di Palermo».

Il 19 ottobre, a Palermo, inizia il processo a Li Pera, Siino e gli altri arrestati, ma i pm non sanno della collaborazione del geo-metra, che apprenderanno solo quando da Catania gli arriveranno i verbali di Li Pera (28 ottobre) e saranno costretti a cambiare completamente strategia accusatoria a pro-cesso avviato.

Non solo. Siccome le dichiarazioni si incastrano alla perfezione col contenuto delle intercettazioni telefoniche alla base

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Storia d'Italia Storia d'Italia

del primo rapporto dei Ros (quello consegnato a Falcone prima di trasferirsi a Roma), le 21 archiviazioni chieste dai pm il 13 luglio e disposte dal gip il 14 agosto, non ci sarebbero state. Questi sono i fatti. Così com’è un fatto che i Ros si sono tenuti per oltre due anni (dal ’90 alla fine del ’92) intercettazioni che coinvolgevano pesantemente uomini politici di primo piano (fra questi, Salvo Lima, ucciso il 12 marzo 1992) nella gestione illecita degli appalti pubblici. Con buona pace del generale Mori, di Jannuzzi e dei loro seguaci che continuano a diffondere leggende.

Allo stesso modo, è leggenda che Fal-cone, dopo avere letto il rapporto del febbraio 91, avrebbe pronunciato a un con-vegno la frase sulla «mafia in Borsa» e sarebbe stato ucciso in conseguenza di ciò, ché quella frase risale all’88, a dopo che Gradini rilevò le imprese del conte Arturo Cassina poste sotto sequestro dall’Alto commissario per la lotta alla mafia.

È parimenti leggenda che la Procura non li delegò a proseguire l’inchiesta: i Ros hanno avuto le deleghe il 26 luglio del 1991 (Sirap) e, in conseguenza di ciò, c’è l’informativa del 5 settembre 1992.

L’inchiesta «insabbiata» dai magistrati di Palermo raggiunge il suo apice la notte tra il 25 e il 26 maggio del 1993, quando ven-gono eseguiti 25 arresti di boss, amminis-tratori della Sirap, imprenditori d’alto

rango e politici di livello nazionale, mentre alcune decine di esponenti politici ricevono degli avvisi di garanzia, per tre dei quali (Nicolosi, Mannino e Buttitta) si rende ne-cessario chiedere alla Camera l’autorizza-zione a procedere. Determinanti, a tal pro-posito, risultano le dichiarazioni di Gi-useppe Li Pera che nel frattempo ha descritto senza reticenze anche il ruolo «regolatore» di Cosa Nostra nel sistema de-gli appalti.

Quando JannuzziQuando Jannuzziattaccava Falconeattaccava Falcone

Il resto dell’intervista meriterebbe ana-loga meticolosità, ma, come ho scritto all’inizio, la materia è troppo complessa per un articolo giornalistico. Ci vorrebbe un libro. E piuttosto corposo. Ritengo, però, che l’analisi dei fatti relativi alla vicenda mafia e appalti renda chiaro quanto sia at-tendibile il generale Mori (che, comunque, di tanto in tanto, dice anche cose vere).

Per qualificare Jannuzzi basta invece un suo editoriale che, quando Falcone si trasferì a Roma, scrisse sul Giornale di Na-poli: «Cosa Nostra uno e due» s’intitolava, e si metteva in guardia dal possibile rischio rappresentato dal fatto che Falcone e Gi-anni De Gennaro potessero diventare, rispettivamente, capo della Dna e direttore della Dia:

«Se le candidature andranno a buon fine, si ricostruirà, al vertice del tribunale spe-ciale e della superpolizia, la coppia che fu

la massima, e la più autentica espressione […] del “professionismo dell’antimafia”.

«È una coppia la cui strategia, passati i primi momenti di ubriacatura per il pentit-ismo e per i maxiprocessi, ha approdato al più completo fallimento: sono Falcone e De Gennaro […] i maggiori responsabili della débâcle dello Stato di fronte alla mafia.

«Ma non è questo il punto. Se i “politici” sono disposti ad affidare agli sconfitti di Palermo la gestione nazionale della più grave emergenza della nostra vita, è, al-meno entro certi limiti, affare loro. Ma l’af-fare comincia a diventare pericoloso per tutti noi: da oggi, o da domani, dovremo guardarci da due “Cosa Nostra”, quella che ha la Cupola a Palermo, e quella che sta per insediarsi a Roma. E sarà prudente tenere a portata di mano il passaporto».

Anni dopo, Jannuzzi si difese sostenendo che intendeva riferirsi solo a De Gennaro, ma il contenuto del suo scritto è inequivoc-abile.

* * *Personalmente, ritengo che l’inchiesta su

mafia e appalti e, più in generale, lo svela-mento di Tangentopoli, siano fra le con-cause delle stragi del ’92-’93, non il movente delle prime due, come sostengono i Ros e i loro seguaci (falsando spesso e volentieri fatti e date), che additano come depistatori e complici di Riina chiunque sostenga altro.

Sebastiano Gulisano

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Catania al tempo della Gelmini Catania al tempo della Gelmini

“Aula magna? Chiusa Nella facoltà di Scienze Politiche di

Catania, il preside ha preferito rimandare

studenti e professori a protestare fuori

dalla aula magna. Con nessuna spie-

gazione, come conviene fare nei tempi

della Gelmini.

"Andiamo a fare l'assemblea, per dis-

cutere come ci organizziamo, adesso".

Dice Giacomo a Maria Claudia.

"Bello, una grande e bella assemblea,

che almeno l'aula magna della facoltà di

scienze Politiche, serve a qualcossa di

bello e utile per tutti".

"Ma come è stata chiamata questa as-

semblea? Assemblea dei saperi?”.

"Come la chiami chiami, qui ci sono

studenti dell'università, precari di ogni

tipo della scuola, disoccupati solidali, gli

operai della città, tutto un mondo che..."

" Senti, già i comunicati dicono che la

Gelmini grida sui comunisti".

" E noi invece andiamo a fare

l'assemblea solenne, qui, che questa è la

sede universitaria dove si discute da

sempre, e sempre in prima linea quando è

il momento di protestare"

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Catania al tempo della Gelmini Catania al tempo della Gelmini

per chi protesta” foto di Marco Scalisi

Così Giacomo e Maria Claudia insieme

ad altre migliaia di studenti, vanno cant-

ando verso il portone della facoltà.

“O bella ciao, bella ciao, bella ciao

ciao ciao, una mattina...”

Finchè non si sentono le urla. Che cosa

è successo? Hanno chiuso l'entrata prin-

cipale della facoltà.

"Ma come, ma come? Che cappere è

successo"

"L'assemblea era stata chiesta regolar-

mente! "

"Mannaggia ai baroni dell'università!".

"Ma perchè mai ? Vuoi vedere che si

voglia la faccia!".

"Ma dove facciamo l'assemblea, ad-

esso?".

" Ci hanno detto, in via Gravina, nella

sede secondaria della facoltà!"

"Ma porco diavolo, soltanto per le ri-

unione del Lions club la aprono adesso

l'aula magna!"

“ Giacomo, credimi, quest'anno faremo

le assemblee anche all'osteria. Via an-

diamo ad organizzarci, che ci sono tante

cose da dirci”.

Fabio D'Urso

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Giornali Giornali

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Movimenti Movimenti z

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In questo Stato In questo Stato

Perché la Germania corree l'Italia no

Pochi scioperi: i sindacati partecipano alla gestione delle imprese e la loro Confin-dustria rispetta la collaborazione. Perché gli stipendi sono spesso il doppio di quelli ita-liani, operai ed impiegati spendono e l’eco-nomia gira. Perché la trasparenza elimina le cricche dei politici e dei loro portaborse. A Cernobbio si è parlato di questo?

Il Presidente della Repubblica ed il Go-vernatore della Banca d’Italia sono interve-nuti in diverse occasioni per suggerire all’I-talia il modello della Germania che è diven-tata una locomotiva non solo per l’Europa ma per il mondo. La Germania cresce con il passo sicuro del maratoneta che sa di dover fare tanto cammino, non ha sprints di acce-lerazione particolari ma procede possente e sicuro per la sua strada.

I pennivendoli dell’economicismo della destra italiana ed anche il giornale della Confindustria tendono a ridurre lo stacco tra Italia e Germania a una questione di produttività e competitività. La ricetta che ne consegue è facile: facciamo la Fabbrica Italia, cambiamo dalle fondamenta i rap-porti di lavoro, decontrattualizziamo.

Riduciamo la spesa pubblica magari li-cenziando duecentomila professori, priva-tizziamo la terra il cielo ed ora il mare (Tir-renia), riduciamo quasi ad una elemosina da quarto mondo le pensioni, abbassiamo tutte le prestazioni di welfare e così facen-do prendiamo la ricorsa per avvicinarci alla Germania.

Questa ricetta adoperata da quasi un ven-tennio è proprio la causa che ci ha ridotto in rovina. Oggi l’Italia appare un paese con “eccellenze” retributive e rendite mostruose ed inaccettabili che sovrastano una palude di infelici a redditi bassi. Lo Stato è aggre-dito da nugoli di cavallette, imprenditori o pseudo tali, che hanno scoperto il business delle privatizzazioni ed è appesantito da oneri derivanti dal costo delle oligarchie politiche.

Pensate quanto costa da sola la nomen-clatura della Lega costituita da migliaia e migliaia di amministratori tutti stipendiati dai contribuenti. Quanto costano i 350 Sin-daci ed amministratori della Lega? Unite a questo segmento di spesa il costo di tutti gli altri partiti e avremo una cifra pari a quasi duecento miliardi di euro annui.

Vorrei elencare alcuni punti di differenza tra Italia e Germania:

1) Il Governo tedesco amministra tenen-do conto degli interessi generali della na-zione. Non è lardellato da Cricche che se-questrano per se e per i loro amici gli ap-palti. Un fenomeno Bertolaso che ammini-stra negli anni qualcosa come dieci miliardi di euro sottratti al controllo della Corte dei Conti non sarebbe pensabile. Il Governo te-desco, pur essendo di destra, non ha inciso profondamente nel welfare delle classi la-voratrici. Lo ha garantito seppur ridimen-sionandolo rispetto a quello dei governi so-cialdemocratici.

2) L’opposizione. La socialdemocrazia tedesca, erede di una grande cultura sociali-sta ed umanitaria che ha impregnato di sè lo Stato e l’Europa non rincorre e non adula l’elettorato di Angela Merkel. Non si sbraca rispetto gli interessi della destra economica. Per quanto abbia attenuato il suo program-ma che non è più neppure quello di Bad Godesberg conserva la sua identità ed il ri-ferimento alle classi popolari.

La scissione che ha subito le è stata salu-tare dal momento che ogni suo spostamento a destra farebbe guadagnare consensi alla Linke. In Italia il PD insegue il peggio delle voglie della destra, aspira a rappresentarla, ha posato i lavoratori, condiziona negativa-mente la Cgil, attacca la Fiom., sta con Marchionne...

3) La Confindustria. Gli industriali tede-schi non sono nell’anticamera del governo a piagnucolare ed a chiedere soldi, soldi, soldi (quelli buoni diceva in una occasione la Marcegaglia). Hanno un rapporto con governo e sindacati “corretto”. Non hanno chiesto ed ottenuto favori come quello della Maddalena. Hanno puntato molto su qualità e solidità dei prodotti. Il prodotto tedesco è accurato, ben fatto, curatissimo nei particolari. Magari meno fantasioso del

nostro ma più resistente e più conveniente.4) I sindacati. I sindacati tedeschi da qua-

si cinquanta anni praticano la politica della codecisione. Gli scioperi sono rari ma non perchè il sindacato è inetto o venduto ma perchè gestisce contratti tra i migliori del mondo. I lavoratori tedeschi sono al quarto posto della tabelle Ocse con un salario me-dio di 27 mila euro. Gli italiani sono al di-ciottesimo posto con 19 mila euro.

Ma in effetti stanno assai peggio perchè la tabella non calcola i seimila precari che guadagnano la metà dei minimi contrattua-li. Insomma siamo in fondo, in fondo alla classifica e con una media che non supera di 13 mila euro annuali.

Per rincorrere la Germania dovremmo aumentare i salari di almeno il trenta per cento subito per tonificare in modo radicale l’economia, rianimare il commercio, alleg-gerire il peso della famiglia in cui i figli so-pravvivono attingendo alle pensioni dei ge-nitori. Inoltre é necessario ridurre il peso delle oligarchie, dei consulenti, dei servizi appaltati.

La sottrazione alla Corte dei Conti dei servizi delle municipalizzate causa aumen-to delle tariffe e appesantimento delle bol-lette e questo per mantenere un nuovo ma-gnacciato pubblico fatto di amministratori pagati con emolumenti scandalosi.

Si possono aumentare i salari di almeno il trenta per cento. Si può perchè l’incidenza del salario sui costi di produzione non è ri-levante neppure nella industria manifattu-riera e perchè si potrebbero innalzare con l’introduzione del SMG (salario minimo garantito) che aiuterebbe moltissimo i pre-cari. L’estensione del contratto a tempo in-determinato a tutti darebbe un elemento di sicurezza non solo ai lavoratori ma all’inte-ro sistema economico.

In conclusione bisognerebbe cancellare la “anormalità” italiana dovuta a governi che fanno interessi di parte, a sindacati che da due decenni cedono uno dopo l’altro i dirit-ti conquistati dalle generazioni precedenti dei lavoratori, ad una confindustria assi-stenzialistica, ad una opposizione che ha perso la sua identità e si sforza di clonare la maggioranza.

Pietro Anconagià segr.Cgil Sicilia

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In questo Stato In questo Stato

“Perdi il lavoro,perdi il permesso...”

Perdi il lavoro, scade il permesso, diventi un matto che parla da solo per strada

Non puoi raccontare il fallimento. Non puoi raccontare la notte. Non puoi raccon-tare il tempo che passa. Non puoi racconta-re le domande. Ti alzi la mattina e non sai cosa fare.

Questa è la vita di tanta gente che cono-sco. Avere degli amici non basta a colmare i vuoti. Avere delle persone che ti sorridono a volte non basta a poter sopportare il peso della vita. Penso ad una signora ghanese conosciuta tre anni fa. Avevo anche scritto un testo su di lei. Invalida, con pochi punti, non aveva diritto alla pensione e non riusci-va più a lavorare.

L’ho vista l’altro ieri. Matta. Parlava da sola. Non sapeva come fare a tornare e rac-contare che era andato tutto a puttane, che l’immigrazione non era tutta rose e fiori, che qualche volta va male. Molto male. Pensava alla sua famiglia rimasta lì, ai figli. Cercava delle risposte a questa vita senza senso. Non le aveva trovate.

Quando l’ho vista camminare gesticolan-do, mi sono nascosto. Ho avuto vergogna, paura che mi potesse riconoscere.

Penso al mio amico Fofana. Lo incontra-vo ogni tanto in giro di notte. Sempre da solo con la birra in mano. Aveva perso il la-voro, era stato cacciato dalla moglie, era fi-nito sulle strade. Era il ragazzo più simpati-co che avessi mai conosciuto, rideva sem-pre, dava sempre una mano a tutti. Sempre disponibile. Poi basta poco. La perdita del lavoro, il permesso scaduto, i problemi a casa e finisce tutto nel buio.

Ho saputo che la famiglia in Africa ha fatto una colletta per farlo tornare. Hanno mandato suo fratello per riportarlo a casa. Lui è stato fortunato. Molti sono rimasti qui. Ne vedo tanti. Quelli nelle piazze sem-pre con la birra in mano, sempre ubriachi, sempre pronti a litigare. Quelli dentro i “bar” in via Palermo. Penso ad una signora ivoriana, separata, con la figlia affidata ad unafamiglia italiana.

La vedo spesso in giro. Cammina. Cam-mina. Qualche volta sorride. Qualche volta si ferma. Così, senza nessun motivo. Parla da sola e poi ricomincia a camminare. La vedo ovunque. L’ultima volta che l’ho vista era vicino al Duomo. Seduta. Testa bassa.

Gli occhi persi. Ho chiuso gli occhi.Sono i falliti dell’immigrazione. Quelli

che non sono riusciti a capire i meccanismi della vita lontana da casa. Quelli che non hanno trovato delle risposte a questa vita. Quelli che non riescono ad accettare che abbiano speso così tanti soldi, energia, sa-crifici per poi ritrovarsi a vivere questa vita da indesiderato. Senza terra. Senza identità. Senza voce.

Non hanno avuto la fortuna che ho io: non solo avere delle persone che mi voglio-no bene, ma anche poter scrivere. Scrivere mi ha aiutato a vivere i drammi di questa mia vita d’immigrato. Ascoltare la mia voce interiore e poter scrivere quello che mi diceva è stato fondamentale. No, vitale direi.

Questo piccolo auto aiuto psicologico è stato molto importante nella mia vita. Da noi non c’è la cultura di andare dallo psico-logo. Per non parlare dei costi che compor-ta. Purtroppo con gli amici conosciuti qui si fa qualche volta fatica a parlare di tutto. Non ti “conoscono”. Non conoscono la tua storia. Non possono capire come vivi certe situazioni. Non ti fidi.

Allora a volte si è soli, soli con i propri fantasmi. Bisogna avere la forza di non la-sciarsi andare. Io ci sto provando. Ma tanti di quelli che conosco non ce l’hanno fatta. E li vedo. Sulle strade. Persi. Soli con le proprie domande. Domande senza risposta.

Cleophas Adrien Diomadomani.arcoiris.tv

PALERMOLA GUERRA DEL SINDACOCONTRO GLI INDIGENTI

E' entrata in vigore un'ordinanza del Sin-daco di Palermo che prevede un'aspra san-zione pecuniaria, tra l'altro, nei confronti dei lavavetri ai semafori delle strade e di persone senza fissa dimora sorprese a bi-vaccare (sic). Il provvedimento ritiene che le loro attività creino problemi di ordine pubblico: l'intento è dunque quello - ha di-chiarato il Sindaco - di "migliorare la quali-tà della vita dei cittadini", rispondendo "an-che ad un sentire comune".

Tuttavia è paradossale che, in una città in cui la violazione delle regole è all'ordine del giorno, si chiamino a rispondere di comportamenti illeciti i poveri, quali sono le persone umane che chiedono qualche centesimo agli incroci o, in mancanza di un'abitazione, si sistemano a dormire tra improvvisati cartoni e coperte. In un mo-mento in cui, secondo i dati Istat, la disoc-cupazione dilaga e si allargano le aree di povertà nella città, questa misura è davvero sorprendente, anche perchè rischia di con-segnare uomini e donne che vivono di espe-dienti alla commissione di veri e propri rea-ti, se non alla mercè della criminalità orga-nizzata.

La decisione, in ogni caso, non risponde affatto al nostro sentire di cittadini e di cri-stiani, che anzi affermano con forza come una vita migliore per Palermo sarebbe, non già quella in cui gli indigenti siano resi in-visibili, togliendo dagli occhi di chiunque lo scandalo della miseria, bensì quella in-tessuta di attenzione, da parte di ciascuno, ai bisogni degli ultimi, in nome di una reale solidarietà e giustizia.

Fra' Graziano Bruno o.f.m.Giustizia Pace Integrità

del creato - SiciliaFra' Giovanni Calcara o.p.

Commissione nazionale di Giustizia e Pace della Famiglia domenicana

Francesco Lo CascioMovimento Internazionale

per la RiconciliazioneSalvatore Scaglia

Commissione nazionale di Giustizia e Pace della Famiglia domenicana

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Società civile Società civile

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