Ucuntu n.95

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211110 www.ucuntu.org - [email protected] il Patto Ma chi governa davvero questo Paese? Fra Andreotti e Berlusconi, non si può dire che i nostri presidenti del Consiglio non abbiano fatto accordi con mafiosi. Insieme, fanno quasi vent'anni di governo... Jack Daniel - Parla la Politica, quella vera... Roccuzzo Morrione Feola Galizia Scatà Acquaviva Scalia || 21 novembre 2010 || anno III n.95 || www.ucuntu.org || Mafiaepolitica

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il numero del 22 novembre 2010

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il Patto

Ma chi governa davvero questo Paese? Fra Andreotti e Berlusconi, non si può dire che i nostri presidenti del Consiglio non abbiano fatto

accordi con mafiosi. Insieme, fanno quasi vent'anni di governo... Jack Daniel - Parla la Politica, quella vera...

Roccuzzo Morrione Feola Galizia Scatà Acquaviva Scalia

|| 21 novembre 2010 || anno III n.95 || www.ucuntu.org ||

Mafiaepolitica

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Antimafia Antimafia “SiamotuttiTelejato”

Pino Maniaci di Telejato

Dalla Bbc, al quotidiano tedesco Bild, sino alla Cnn. Tanti i giornalisti inviati in questi anni a Partinico, provincia di Palermo, per raccontare quello che accade dietro gli schermi di una piccola tv locale: Telajato. Il perché è presto detto. Nata dieci anni fa, la tv a conduzione familiare - an-imata da Pino Maniaci, la moglie Patrizia e la figlia, Letizia - trasmette da un apparta-mento, in cui - come ci racconta il giornalista: “la stanza più grande, figur-atevi, è il bagno!”. Si tratta di un team giornalistico armato di ironia e notizie sco-mode che deride mafiosi, denuncia collusi e corrotti, informa i cittadini, con poche risorse ma tanta tenacia. Telejato, grazie ad internet, condivide con il resto del Paese la sua scommessa per una informazione lib-era, facendo sentire il fiato sul collo ai mafiosi. Ai danni del direttore Maniaci, av-vertimenti, intimidazioni e un pestaggio, avvenuto nel gennaio del 2008 da parte del figlio del boss Vito Vitale.

Ma l’ultima minaccia, dell’ottobre scorso, pesa molto più delle altre. In una lettera, per la prima volta, si fa riferimento anche alla sua famiglia. «Dalle rivelazioni del pentito di mafia, Francesco Briguglio, si è saputo che i capi dei clan avevano dato il loro assenso per farmi fuori - racconta Pino». Maniaci da tempo denuncia quello che sta accadendo a Partinico, di recente oggetto della riunione del Comitato per l’ordine pubblico e la sicurezza. «Qui – di-chiara – si sta giocando la lotta più import-ante per gli equilibri al vertice di Cosa nos-tra. E’ un momento delicatissimo. Si è in-

nescato lo scontro fra diverse cosche». Ma non è solo la faida intestina a portare all’es-calation di violenza. «Ci siamo occupati di un bene confiscato - continua Maniaci – una cava che dopo la confisca è stata af-fidata a una associazione. Fonti attendibili – prosegue – hanno riferito che agli im-prenditori viene imposto di rifornirsi solo da quella cava, in sostanza, il bene è ancora nelle mani della mafia».

Pizzo, attentati, auto incendiate – ricorda Pino - «se ci sono ritorsioni oggi a Partinico è perché qualcuno, comincia dire “no” alle mafie, al pizzo». Dieci anni di la-voro, di sensibilizzazione culturale antim-afia, su Partinico e dintorni sono tanti e hanno portato a cambiamenti concreti, sui cittadini, sui mafiosi e i loro familiari. «Noi li prendiamo in giro – conclude Maniaci – il nostro motto è: loro si sentono uomini d’onore? Per noi disonorarli è una ques-tione d’onore». Tanti i giovani volontari che lavorano con Pino, conducono Tg, van-no in giro con le telecamere a raccontare quello che accade. Il 28 novembre si svol-gerà “Siamo tutti Telejato” una manifest-azione nazionale in sostegno alla tv, cui ha già aderito una vasta rete di associazioni, enti locali, scuole e singoli cittadini. Pino, Letizia e Patrizia, non sono soli, ma a Partinico oggi, continuano a rimanere peri-colosamente esposti.

Norma Ferrarawww.liberainformazione.org

APPELLO

IL 28 NOVEMBRETUTTI IN PIAZZAPER TELEJATO!

Coppola Editore, Corleone Dialogos (Arci-Libera) Gruppo Facebook “Quelli che fan-no come Telejato” e l’associazione Rita At-ria lanciano un appello di solidarietà per la Redazione di Telejato.Ennesima lettera minatoria nei confronti dell’emittente Telejato che trasmette in una zona calda ed è prezioso strumento di in-formazione per i territori del partinicese e del corleonese.

Pino Maniaci e famiglia non vanno lasciati da soli, per questo vi chiediamo di aderire all’iniziativa scendendo il 28 Novembre alle ore 10:00 in Piazza a Partinico, per dire ai mafiosi locali che Pino Maniaci e la sua famiglia non sono soli. Oltre alla solid-arietà fisica e umana, sarà gradita la solid-arietà finanziaria.

Per aderire:[email protected]

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Il 28 novembre in piazza a Partinico per sostenere laIl 28 novembre in piazza a Partinico per sostenere la piccola tv che fa grande informazione contro i bosspiccola tv che fa grande informazione contro i boss

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Mafia e Stato Mafia e Stato Il Patto

“Andreotti Giulio, anni dieci. Berlusconi Silvio, anni otto. Cuffaro Salvatore detto Totò, anni sette. Lombardo Raffaele, anni due e mesi sei...”.

No, non è quello che stavate pensando. E' semplicemente il numero degli anni in cui la Repubblica Italiana e la Regione Sicilia-na sono state governate da politici ufficial-mente e giudiziariamente in contatto con mafiosi. Per un terzo della nostra storia ci-vile, quindi, siamo stati comandati da gente che s'intendeva coi mafiosi. Questo è il Pat-to.

Il Patto non esclude patti minori - anzi, li esalta - ma non coincide con essi. Questi ultimi possono essere considerati delle pa-tologie del sistema, ma il Patto è una fisio-logia.

Uccidere Falcone, ad esempio, può essere stata una scelta eccezionale, una patologia. Ma se ciò è stato fatto per impedirgli di portare Badalamenti (tramite Buscetta) a ri-velare gli incontri Cosa Nostra-Governo - rivelazioni che ora sono agli atti della Sto-ria ma vent'anni fa avrebbero rivoluzionato il Paese – uccidere Falcone allora non sa-rebbe più una decisione occasionale, un caso estremo, ma una componente fisiolo-gica, necessitata, del Patto. Lo stesso per Borsellino, ucciso dalla mafia ma non per essa.

Il Patto, agli albori della Repubblica, consiste in questo: l'Italia è un paese civile, con libere elezioni, ma fino a un certo pun-to. Mezza Italia resta pre-repubblicana, feu-do senza diritti del grande latifondo. L'altra metà è repubblica, ma con un confine pre-

ciso: in nessun caso può andare al governo il partito dei lavoratori dipendenti, che per ragioni storiche si chiamava comunista.

Entro questi binari, la vita della repubbli-ca andava avanti tranquilla. Un nord corpo-rativo e democratico, e tutto sommato euro-peo, in cui lo Stato finanziava gli imprendi-tori e questi garantivano la piena occupa-zione. Un sud largamente autonomo ma non ribelle, in cui i grandi proprietari terrie-ri si evolvevano in “imprenditori” e i loro armati in moderni mafiosi. Due insiemi col-legati dalla Dc e dall'emigrazione.

Nei momenti di crisi (l'occupazione delle terre, l'autunno caldo) s'interveniva con mezzi forti: Portella delle Ginestre, Piazza Fontana. Ma erano casi estremi. A poco a poco la crisi rientrava (i contadini emigra-vano, gli operai accettavano la ristruttura-zione industriale) e tutto tornava nella nor-malità. Che era una normalità italiana, lega-ta al Patto.

* * *Il nostro - sto parlando del Sud: ma ormai

arriva a Milano - è un Paese antichissimo, molto più antico della politica. Da noi la destra non è quella parte del parlamento che siede alla destra dell'onorevole speaker, è proprio il padrone feroce, nato sulla zolla; e la sinistra non è un club di gentlemen ri-formisti, è generazioni infinite di contadini. La paura, la fame, muovevano reciproca-mente i due mondi.

Certo: poi venne De Gasperi, venne To-gliatti; ci siamo inciviliti parecchio, nei no-stri anni belli, prima di diventare quel che siamo. Ma l'imprinting è quello: una lotta

di classe a volte umanamente “politica”, altre volte feroce. In altri Paesi simili (la Grecia del dopo-guerra, la Spagna di Franco) questa lotta di classe fu risolta con stragi di centinaia di migliaia di cittadini. In Italia col Patto.

* * *A Brescia, in questi giorni, sono accadute

- per singolare coincidenza, quasi insieme - due cose che ci ricordano cos'è stato in pra-tica, e cosa ancora è ogni volta che gli si la-scia via libera - la gestione del potere in questo paese.

Sono stati esiliati d'autorità, con un otto-centesco foglio di polizia, i capi di una pa-cifica manifestazione di operai; ché tali erano i senegalesi della gru, prima ancora che forestieri o immigrati: operai.

Ed è stata definitivamente dichiarata im-punita la strage del maggio '74 di Brescia, di trentasei anni fa. Otto italiani ammazzati, feriti più di cento: la giustizia, impotente, alza le braccia.

Perseguitati gli operai, liberi e trionfanti gli stragisti: questo è lo stato del mio Paese nell'anno di grazia 2010. Non sarà la politi-ca piccola a sollevarlo.

Maroni, spingendo Tremonti, tradisce Berlusconi in proprio o per conto di Bossi? Chi ha spinto la Carfagna a quest'ultima storia di Bocchino? Lombardo è più o meno mafioso di Cuffaro?

E che ce ne frega. Pensiamo alla politica seria, almeno noi. Cacciare Berlusconi, de-ridere i suoi cortigiani, sberlursconizzare la sinistra: vi pare un programma da niente?

Riccardo Orioles

|| 21 novembre 2010 || pagina 03 || www.ucuntu.org ||

Brescia: espulsi i capi operai, liberi e trion-Brescia: espulsi i capi operai, liberi e trion-

fanti gli stragisti. Viviamo in un Paese così.fanti gli stragisti. Viviamo in un Paese così.

La piccola politica non bastaLa piccola politica non basta

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In questo Stato In questo Stato

Quei silenzi pericolosi

Ci sono diversi modi per impedire di cercare verità scomode per il potere. Le mafie e le zone grigie in cui si sviluppa-no, li praticano tutti. Se in Russia decine di giornalisti sono stati uccisi e altri ven-gono selvaggiamente aggrediti, a esalta-zione di quel “dono di Dio” con cui Sil-vio Berlusconi definì l’illuminato amico Putin, se la censura vige nei regimi ditta-toriali, dal Medio Oriente all’Asia, dal-l’Africa all’America Latina, l’Italia pre-senta opzioni certo meno tragiche, ma altrettanto valide per il fine che si prefig-gono: il silenzio sulle illegalità, gli affari sporchi, la corruzione diffusa.

La memoria è venuta meno e vengono distrattamente ricordati gli undici giornalisti che negli anni hanno perso la vita per mano mafiosa e mandanti ignoti. La buona informazione affoga ogni giorno nella cronaca nera soggiogata dalle 3 “esse” di un pessimo bagaglio informativo privo di radici etiche e culturali: “sesso, sangue, soldi”.

Il panorama dei telegiornali, per il Censis unica fonte d’informazione di ol-tre il 70 % dei cittadini, è dominato dal-l’irrisolto conflitto d’interessi berlusco-niano, mentre sulla carta stampata – in-sieme con decisioni governative che col-piscono i finanziamenti alle iniziative più indipendenti e senza sponsor – in-combono falsi editori e veri appartenenti a comitati d’affari.

Sfruttamento di giovani precari, quasi sempre costretti a lasciare la passione del giornalismo o a emigrare, isolamento di cronisti di vaglia, mancanza di inchieste, notizie prive di storia e contesto: è la situazione di tanti giornali nel Meridione dominato dagli interessi illegali e mafiosi. E per certi aspetti non è dissimile, in contesti diversi, la situazione al Centro-Nord.

E quando cronisti coraggiosi riescono a superare la cortina delle contiguità editoriali, magari animando blog d’inchiesta che fanno opinione, scattano le minacce mafiose, gli attentati intimidatori, le richieste terroristiche di risarcimenti milionari o a volte i licenziamenti.

I dati dell’osservatorio Ossigeno, che presentiamo, sono impressionanti, ma il governo, le autorità, come l’ informazio-ne stampata e televisiva, li ignorano.

E’ un drammatico errore, che colpisce il cuore stesso della Costituzione , ricor-dando quanto scrisse quasi un secolo fa Joseph Pulitzer: “Al di là della cono-scenza, al di là delle notizie, al di là del-l’intelligenza, il cuore e l’anima di un giornale albergano nel suo senso morale, nel suo coraggio, nella sua integrità, nel-la sua umanità, nella sua solidarietà ver-so gli oppressi, nella sua indipendenza, nella sua dedizione al bene comune”.

Roberto Morrione

Pena di morteall'italiana

La pena di morte in Italia si avvale di due tecniche, entrambe efficaci perché messe a punto nel corso di lunghi anni. La prima è quella di negare il diritto alla salute, come dimostra da ultimo il caso di Graziano Scialpi, un uomo detenuto nel carcere di Padova morto di tumore. Per oltre un anno gli era stata negata una visita specialistica nonostante non riu-scisse più a camminare: quando final-mente è stato portato in ospedale, il tu-more si era ormai esteso dai polmoni a tutto il corpo e non c’è stato più niente da fare. La seconda è quella di creare, grazie al sovraffollamento delle carceri, delle condizioni di vita talmente disuma-ne per cui molti detenuti scelgono di sui-cidarsi.

Si tratta a ben vedere di due tecniche molto raffinate, perché consentono di eliminare il passaggio dal braccio della morte, un passaggio costoso che per di più genera polemiche e scontri nella so-cietà civile.

La via italiana consente invece di otte-nere risultati migliori (se sommiamo i suicidi ai decessi per malattia arriviamo ad oltre 160 morti l’anno, mentre nel 2008 in tutti gli Stati Uniti sono state giustiziate 36 persone) nella generale in-differenza del paese e delle forze politi-che.

È per questo che bisognerebbe lancia-re anche in Italia una campagna per abo-lire davvero la pena di morte, facendo del carcere un luogo rispettoso degli uo-mini che lo abitano, in base al principio che la pena consiste nell’essere costretti a vivere chiusi tra quattro mura e non nel dover subire la violenza arbitraria di un sistema al collasso.

Francesco Feola

|| 21 novembre 2010 || pagina 04 || www.ucuntu.org ||

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Antimafia Antimafia “I fatti devonoandar d'accordocon le parole”

Tre redattori dei Siciliani

Libri, programmi tivvù, dibattiti, ristampe di romanzi e di opere teatrali, domande ascoltate da ragazzi sparsi in as-semblee da Pachino a Modena. Giuseppe Fava incuriosisce, suscita interesse, “torna di attualità”. Perché “torna di moda”?

Io non riesco a parlarne così, visto che è una delle persone più importanti della mia vita di adulto. A lui devo il fatto di saper pi-giare su questi tasti da computer qualcosa che rassomiglia a un articolo di cronaca.

Ai suoi tempi, in realtà, scrivevamo ancora su taccuino e lettera 22. E dopo il suo assassinio è passato un sacco di tempo e tanti silenzi.Ora non c’è più silenzio. Ev-viva! Ma perché tanto interesse postumo e in così grande ritardo?

Il premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi, pochi giorni fa liberata dopo 15 anni da un regime illiberale come quello della ex Birmania, ha detto: “La base della democrazia è la libertà di parola”.

Ecco il punto è proprio questo e riguarda anche la “riscoperta” dell’uomo Fava e l’Italia di oggi, non la Catania, la Sicilia o l’Italia – appunto – degli anni Ottanta quando Fava fu ucciso da cinque colpi di pistola nel centro di una grande città del sud di uno degli otto paesi più industri-alizzati del mondo.

Fava suscita interesse oggi perché era un uomo e un giornalista libero e perché

nell’Italia di 30 anni fa fu ucciso solo per-ché faceva il suo mestiere: metteva insieme notizie e le pubblicava, ragionava sui fatti.

Perché, come scrisse Seneca in una delle sue lettere a Lucilio, “i fatti devono andar d’accordo con le parole”. Bastava questo per essere ucciso, in quell’Italia. E infatti la mafia, per compiacere imprese e politici mafiosi, lo uccise.

Cosa c’entra ora Fava con i nostri giorni?Il solo esercizio della libertà di espressione

a mezzo stampa – qui e ora – è eversivo. Fa emozionare, suscita passioni civili perché in giro ci sono poche idee, parole e modelli di libertà.

Guardatevi intorno e parliamone. E di-fatti se ne riparla, fortunatamente. E Fava suscita interesse, crea libri (altri ne usciran-no) e smuove sentimenti profondi che sem-bravano addormentati. Smuove sentimenti soprattutto tra i ragazzi, da Pachino a Mod-ena, in cerca di parole di verità e di “mod-elli”. Perché in fondo, aveva ragione il vec-chio Hernest Hemingway che nel 1950 disse: “Il mondo è un bel posto e per esso vale la pena di lottare”. Già, è vero: “a che serve essere vivi se non si ha il coraggio di lottare?”, scrisse Fava nella sua prima com-media, “la violenza”.

E quella frase – che è anche un “pro-gramma civile” per i prossimi decenni italiani - continua a parlare al mondo che ci circonda. Guardatevi attorno e parliamone.

Antonio Roccuzzo

|| 21 novembre 2010 || pagina 05 || www.ucuntu.org ||

Perché fra i ragazzi suscita ancora tanto interesse laPerché fra i ragazzi suscita ancora tanto interesse la storia dei Siciliani e di Giuseppe Fava?storia dei Siciliani e di Giuseppe Fava?

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Antimafia Antimafia

Riflessionisull'antimafia siciliana

e Giuseppe Fava

Capita che un giorno, una mattina, ancora assonnacchiata nel letto e colma della stanchezza accumulata nei passati giorni, arrivi una telefonata nel cuore del dormive-glia da cui non vuoi, ma sai di dover uscire.

Capita così che sonno, stanchezza, ti fac-ciano rispondere quasi con un sissignore militare all’interlocutore sintetico e deciso che dall’altro lato del telefono, ti dica di tracciare un ritratto dell’antimafia siciliano all’indomani del Premio Fava Giovani 2010. Capita che riattacchi il telefono e via via che i neuroni si svegliano, riconnettendosi l’uno con l’altro, ti diano la percezione di quanto accaduto.

Capita che realizzi cosi che il Premio Fava Giovani 2010 è passato, veloce come lo scatto di un’istantanea; rapido sì ma duraturo nella costruzione interna che ha edificato dentro. Realizzi che ci hai lavor-ato su per mesi, dandogli, come si fa con la propria creatura, tutta l’anima e la pro-tezione da ogni cosa.

Restano la stanchezza, il sonno da recu-perare, i conti da fare, e, nell’animo, sensazioni miste:la gente che hai incon-trato, quella che ti ha lasciato un segno den-tro, uno spunto, una riflessione.Quella che hai conosciuto bene, quella che hai solo sa-lutato di sfuggita e resta quel qualcosa da scrivere per l’interlocutore telefonico delle 8 del mattino.

Lo si potrebbe chiamare un “articolo”, un “pezzo” di 3000 battute per noi che di penna facciamo vivere l’anima e che con la penna vorremmo tracciare un mondo di verità, ma 3000 battute son ben poche per chi quel premio lo ha pensato e plasmato, per chi in quel premio ha visto ben oltre le parole, oltre i dibattiti, oltre il teatro.

Insomma, capita che scrivi anche più di quelle 3000 brevissime battute che ti hanno richiesto e te ne freghi pure, ma, capita pure di rileggerti e capire che non riesci a farlo secondo l’insegnamento di Pippo Fava, di quell’uomo che 5 colpi di pistola hanno atterrato in nome di Cosa Nostra, dei boss catanesi, dei cavalieri del lavoro.

Pensi solo che nel frattempo sono tras-corsi tanti anni e superficialmente dici a te stessa che in fondo oggi siamo più tran-quilli di allora: non ci spariamo addosso con le pistole né imbottiamo di tritolo le nostre strade, o, almeno, non lo facciamo più come 30anni fa.

Non sentiamo più parlare di morti am-mazzati, di giornalisti morti ammazzati, di imprenditori assassinati, poliziotti sparati, giudici saltati in aria. Insomma, sembra un’isola più felice la Sicilia di oggi, la Si-cilia senza Fava, che osanna alla debolezza della mafia, mentre soffuse, sotterranee, si consumano le stesse storie e gli stessi in-trecci di quel romanzo giallo, quasi fantas-

cientifico che negli articoli de “I Siciliani” si poteva leggere a denuncia di una società anni ‘80 un po’ diversa ma sempre incred-ibilmente gattopardiana: ”cambiare tutto perché non cambi nulla”.

Una società, quella siciliana, che attende risposte. Che si affida ai Ciancimino di turno, alle testimonianze di pentiti vari ed eventuali mentre sulle coste continuano gli sbarchi clandestini e per i campi delle provincie “babbe” di Ragusa e Siracusa, si consuma un’altra Rosarno.

E intanto i traffici, gli illeciti, i giochi di potere continuano, ora come allora, nel si-lenzio dei media che tacciono e dei giornal-isti che tacciono. E pensi che in fondo, tra laboratori del’informazione, giornalisti e politici, e dibattiti e teatro, a questo premio Fava, non ci si è raccontata memoria.

Ci si è raccontata, forse, una verità senza compromessi;”a schiena dritta” come lo era Fava, come lo sono adesso tanti altri artigi-ani della parola, che la parola non vogliono modellare né dosare come farmacisti.

E così, in queste 3000 battute non si pos-sono incastonare quei gioielli che sono queste vite donate ad un’ideale di verità.

C’è chi ha la scorta dietro o, temerario, l’ha rifiutata. C’è chi lavora la sera come cameriere e il giorno come giornalista e non sta a chiedersi, dopo vent'anni così, perché non ha scelto un’altra attività.

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E' cominciato il percorso che ci porterà alla nostra giornata annuale diE' cominciato il percorso che ci porterà alla nostra giornata annuale di memoria e riepilogo, il cinque gennaio. Non è una giornata di cerimoniememoria e riepilogo, il cinque gennaio. Non è una giornata di cerimonie ma di lavoro. Ne parla una delle ragazze che l'organizzano, una di noima di lavoro. Ne parla una delle ragazze che l'organizzano, una di noi

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Antimafia Antimafia

C’è poi chi, andando alla Rai o a Repubblica o al Fatto, non ha dimenticato la dote del cronista vero, le lotte de “I Siciliani” e i compagni di avventura di quel periodo in cui Fava c’era e lottava.

A leggere così i profani penserebbero a giornalisti davvero sfigati e di poca dote.E invece no: sono coloro che il giornalismo vivono con etica, con passione, e come autentico servizio, con quella verità che porta a sacrificare delle vite da impiegati al giornale in nome di ideali più alti.

Ti accorgi che fare il giornalista, il giornalista vero che cerca la verità per al-lertare la pubblica opinione, può diventare una missione più folle e pazza di quella del paracadutista:senti in coscienza l’irrefren-abile vocazione al risveglio delle coscienze di cui un insieme ordinato di parole può es-sere veicolo. Se poi, oltre che giornalista dalle domande scomode, sei anche antim-afioso, non esistono davvero paracaduti che possano salvarti dalla forza dirompente delle tue stesse parole., proprio come per Fava.

E in fondo ti accorgi che questa conven-tion di gente “folle” è la festa del giornal-ismo che Fava, forse, avrebbe voluto. Ci si abbraccia, ci si ritrova tra compagni di battaglia. E’ la guerra contro tutte le mafie che viene combattuta a suon di giornali ma è anche la battaglia contro la mafia nell’in-

formazione e dell’informazione che si tenta di vincere. Lo sa bene chi continua sulla stessa scia di Pippo Fava, raduna giovani, fa nascere testate e giornalisti antimafia sempre convinti che nulla atterrerà mai l’informazione vera.

E con loro, a questo premio, cronisti, at-tori minacciati, e politici che si impegnano nella lotta alla criminalità; sembra davvero un ritrovo di forze all’arrembaggio.

Il pensiero ritorna all’interlocutore delle famose 3000 battute che sono diventate molte di più nell’entusiasmo incontenibile che un evento così lascia: ripensi a quell’isola felice che è diventata la Sicilia dei giornali di oggi e inizi a pensare..

Perché, se viviamo nell’isola felice, bisogna affidarsi a Telejato, a Pino Ma-niaci e alle sue inchietse che denunciano i boss e la malavita locale tramite la sua tv di provincia?

Perché, se viviamo nell’isola felice, cap-ita ancora che un giornalista come Carlo Ruta, veda chiuso il proprio blog e capita che Marco Benanti veda “sequestrato” il proprio giornale e licenziato dal suo “altro”lavoro per via di una pratica giornal-istica “scottante”?

Perché, se viviamo nell’isola felice, Ant-onella Mascali o Pino Finocchiaro, giornal-isti emigrati al servizio del Nord e di grosse aziende, debbano ammettere timidamente

che altrove è diverso che in Sicilia?E perchè parlare di mafia in teatro, de-

ridere il mafioso e condannarlo, ha signi-ficato minacce e una scorta come per il vin-citore del 2010 al Premio Fava, Giulio Cavalli ?

Forse perche, come dice proprio Giulio, nel suo monologo su Fava, viviamo piut-tosto “nell’isola delle parole non dette”, dei fatti accaduti ma non ben raccontati, ma dove Pippo Fava “ha costruito le case di marzapane” più resistenti della città. Case di parole e di pensieri che il tempo sembra avvalorare e non sminuire.

Sì perche Pippo non c’è più, ma il suo in-segnamento è vivo nei giornalisti dalla schiena dritta di oggi, nei giovani che ac-canto ai più vecchi, continuano a lottare con una resistenza fatta di parole, di quella stampa d’inchiesta oramai rara, di parole di quei giornalisti senza giacca e cravatta né redazione potente alle spalle e che vanno tra la gente a tastare il sapore del vero.

Avrebbe gioito Pippo, e con lui, gli altri sette giornalisti uccisi dalla mafia in Sicilia, nel vedere che il giornalismo vero non è morto e che per ogni morto ammazzato nascono 1000, 10000 germogli verdi, giovani e robusti, pronti a dare forza a quei pensieri, su cui si muovono oggi le gambe di questi uomini di penna.

Gabriella Galizia

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Illustrazione di Paolo Infante

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L'abbandono L'abbandono

Antimafia dei fatti?Ma qui le scuolecadono a pezzi

Da quattro anni il Comune di Catania paga a singhiozzo l'affitto di una scuola storica, l'Andrea Doria, nel quartiere San Cristoforo, il quartiere del boss Nitto Santa-paola e sempre i Santapaola sono ancora il clan che comanda a Catania, scrivono i magistrati nelle carte della recente inchiesta Iblis (50 arrestati, 80 indagati tra cui il presidente della regione Sicilia Raffaele Lombardo e 400 milioni di euro sequestra-ti).

Quella scuola dovrebbe essere il presid-io della legalità. Invece ogni anno è sotto sfratto e rischia di chiudere. Nel 2007 venne pure il presidente della commissione Antimafia Francesco Forgione e disse: “La legalità comincia a scuola”.

Anche Librino è un quartiere difficile di Catania. C'è il clan Cappello col il suo braccio armato, gli Arena, che controlla un intero palazzo (il palazzo di cemento) per lo spaccio e il traffico d'armi Pochi giorni fa una donna è stata sfiorata da un proiettile vagante. Probabilmente provavano una pis-tola e il tiro è andato fuori traiettoria.

A Librino le scuole dovrebbero aumen-tare e fare da roccaforti contro la criminal-ità organizzata. E invece chiudono, com'è accaduta all'istituto superiore Lucia Manga-

no, smantellato perchè ritenuto insicuro. “Siccome adesso tutti i docenti devono

fare 18 ore complete, non arriviamo a fare le supplenze e le classi senza professore vengono divise nelle aule dell'istituto. Ecco il risultato dei tagli del ministro Gelmini”, ci dice un'insegnante d'Italiano di una scuo-la di Barriera, un altro quartiere a rischio di Catania. La scuola pare cadere a pezzi: porte di legno con cardini rotti, pareti di compensato sudice e ricoperte di frasi col-orate scritte chissà quando. Un foglio app-iccicato sulla maniglia della porta dice “/\/\ la Squola”.

E' l'ultima ora. Un ragazzo, Simone, con i capelli in aria sta seduto accanto alla catte-dra e facendo dei saltelli gira per l'aula ti-randosi dietro la sedia. Tre ragazzi in fondo si urlano addosso ogni genere d'insulti, una palla di carta e una matita vanno rapida-mente da destra a sinistra come se fossero due palline da tennis. Jenny, una dodicenne della classe accanto, messaggia col suo cel-lulare da cui non si vuole separare. Kevin salta in aria e dice “Cornuto, ti rompo tutto”, e il compagno nemmeno gli ris-ponde e passeggia tra i banchi ridendo e dando schiaffi sul collo agli altri.

|| 21 novembre 2010 || pagina 08 || www.ucuntu.org ||

I tagli del ministro Gelmini distruggono la scuola pubblica e l'universiI tagli del ministro Gelmini distruggono la scuola pubblica e l'università.tà. Nel sud d'Italia tagliare i fondi alle scuole e tagliare i docenti siNel sud d'Italia tagliare i fondi alle scuole e tagliare i docenti significagnifica

abbandonare il territorio e ingrossare le fila dei clan mafiosi,abbandonare il territorio e ingrossare le fila dei clan mafiosi,che arruolano i ragazzini di strada che la scuola non riesce piùche arruolano i ragazzini di strada che la scuola non riesce piùad educare e a coinvolgere. A Catania, nei quartieri più poveri,ad educare e a coinvolgere. A Catania, nei quartieri più poveri,

si chiudosi chiudono o si abbandonano le scuoleno o si abbandonano le scuole

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L'abbandono L'abbandono

“Che devi fare? Chiudi il libro e fai vigi-lanza. L'obbiettivo è che quantomeno non si facciano male”, mi dice l'insegnante.

“Caddiddu” in siciliano stretto significa piccolo uccello. E' il soprannome di Giuseppe, un ragazzo difficile bocciato già due volte che spesso passa il tempo a seg-hettare il banco e a fare lunghe strisce di polvere da mettere in fila e tagliare sul ban-co. Il compagno gli chiede “E che è, cocai-na?” e lui ride.

Parlano di dove puoi nascondere la cocai-na per non farti beccare dagli sbirri. “Nei cerchioni dell'auto” grida uno, e lui “Quan-do mai. Lì si sfracella. La devi mettere sot-to il cambio o sotto il freno a mano”.

“Vengono a scuola perchè altrimenti van-no coi carabinieri in istituto, e preferiscono stare qui, in classe. Ma altri non vengono proprio. Uno è assente dal primo giorno di scuola. Un altro non l'abbiamo mai visto”.

La scuola si accartoccia su se stessa come un castello di sabbia sulla riva del mare, lasciato lì in balia delle onde.

“Questo è un quartiere difficilissimo. Criminalità, mafia, di tutto. Ma la scuola sta per chiudere, non ci sono fondi e i ragazzi, che sono tanti e scalmanati, abban-donano la scuola”.

Diventano ragazzi di strada a nove e dieci anni. “Li vedo girare sui motorini sotto casa mia. Avranno tra gli otto e i dieci anni”, ci dice Andrea, mauriziano dall'accento catanese. Ha anche lui undici anni e parla di loro, dei ragazzi di strada, la manovalanza dei clan. Sono sbandati, ti-rano tardi tutto il giorno, non conoscono casa, e sono deboli. Basta avvicinarli con la proposta di fare un guadagno facile e ti vengono dietro. “Certe volte nemmeno i soldi gli interessano. E' la voglia di fare cose da grandi, cose grosse, pericolose. Loro imitano quelli che vedono per strada, e per strada non c'è bella gente”, ci dice Diego, soprannominato dai compagni “'U tappu”. Anche lui ha sì e no undici anni.

“Dovremmo avere scuole nuove,

dovremmo essere di più e avere uno stipen-dio maggiore che motivi tutti a dare il mas-simo. Hanno tagliato gli insegnati di sostegno e i docenti curriculari. Il risultato è che le classi stanno scoppiando e che i

ragazzi disabili fanno di tutto, senza con-trollo e senza il diritto di studiare come si deve. Qui è un macello”, ci dice un'insegnante di matematica, precaria. “Ogni giorno, quando entro, mi faccio il segno della croce e mi dico che ce la farò: loro continuano a saltare, a urlare, a non comprare libri, a non fare i compiti. In campagna almeno averebbero qualcosa da fare e non starebbero in piazza a bighellonare e a copiare quello che fanno i delinquenti. Non sarebbero carne da macello”, dice scappando via e facendo un gran baccano coi tacchi degli stivali.

Fuori piove, alcuni ragazzi che hanno marinato la scuola hanno scavalcato il re-cinto di metallo e salutano i compagni dalla finestra, durante la lezione. I compagni rio-dono e ricambiano il saluto. La pioggia div-enta più forte. Anche loro che hanno “calia-to” la scuola scappano via. Scappiamo an-che noi.

La scuola, con le sue pareti di compensa-to, diventa subito nera, come se fosse fatta di carta assorbente. “Fra poco vieni giù tut-to”, mi dice un bidello che fino a quel mo-mento era stato zitto, tanto da sembrarci muto. “Giù tutto”, ripete, ridendo.

Giuseppe Scatà

|| 21 novembre 2010 || pagina 09 || www.ucuntu.org ||

Manifesta-zioni per ladifesa della

scuolapubblica

a Catania(G.Scatà)

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Movimenti Movimenti

Compagnia delle Lettere SrlVia Merulana 215

00185 Romatel. 06.45426793

www.compagniadellettere.it

Verso il Primo Marzo 2011L'anno scorso, con un tam tam partito da FaceBook, siamo riusciti a colorare l’Italia di giallo e a fare scendere in piazza oltre 300mila persone per dire NO al razzismo e alle politiche di esclusione, SI a un’Italia multiculturale e arcobaleno. Autoctoni, immigrati, seconde generazioni: abbiamo scelto di lavorare e manifestare insieme per superare la contrapposizione tra italiani e stranieri, tra “noi” e “loro”, questo schema che fa il gioco di chi punta a dividerci per calpestarci più facilmente.E la mixité, d’altra parte, è stata uno dei nostri principali punti di forza.

L'anno prossimo vogliamo fare ancora di più! E pensando al 1° marzo 2011 (che non è così lontano), invitiamo scrittori e giornalisti, professionisti o no, italiani o “stranieri”, a inviarci dei brevi testi sul concetto di mixité e sulla necessità di andare oltre le parole che dividono per trovarne altre, nuove, che uniscano.Saranno raccolti in un libro che vedrà la luce alla vigilia del 1° marzo 2011. I diritti d’autore serviranno a finanziare il lavoro del comitato Primo Marzo.

Mandate i testi (max 10 cartelle, su file) entro il 31 dicembre a: [email protected]/ [email protected]

(allegate una breve biografia, mail e numero di telefono).

|| 21 novembre 2010 || pagina 10 || www.ucuntu.org ||

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Società civile Società civile

Cambiarele cose

Avete mai pensato a come sarebbe bello poter pensare di aprire una attività e non doversi preoccupare del pizzo? Fare un concorso all’università senza dover pensare che tanto è inutile perché alla fine vince il raccomandato? Andare in un ufficio e vedersi serviti senza per forza dover conoscere qualcuno? Bello vero?

Eppure questo mondo esiste, esiste al di fuori del nostro paese, e quello che tanta gente non capisce è che anche le piccole cose fanno parte di quell’atteg-giamento mafioso di cui siamo accusati, anche giustamente dal resto dell’Europa.

Lo so che è un fattore storico – ho sentito tanti studiosi ripeterlo – che il nostro modo di pensare, la nostra mafia, soprattutto al sud, deriva da una storia che ci ha portati a vedere nell’“amico” piuttosto che nel poliziotto, la nostra figura di riferimento.

Eppure è un discorso diverso, che va oltre alla mafia come organizzazione, qui si parla di atteggiamento, un atteg-giamento che ti porta a pensare che tutti siano stupidi, che solo noi siamo intelli-genti, che siamo più furbi di tutti e che

possiamo fare tutto, tanto siamo catanesi, anzi siamo italiani.

E allora se siamo così furbi, così “sperti”, perché ci facciamo intimorire da chi ci viene a chiedere il pizzo? Per-ché abbiamo bisogno dell’amico? Per-ché a livello internazionale i nostri giovani sono indietro di anni rispetto agli altri? È questo essere sperti?

Se siamo davvero furbi come cre-diamo, dimostriamolo, se ci vengono a chiedere il pizzo denunciamo subito! Se vediamo chi sporca la nostra città rim-proveriamolo e prima di tutto pensiamo noi a non sporcarla.

Non ho mai creduto che il nostro fosse un popolo di stupidi, allora non ri-esco proprio a capire perché in Ger-mania il fenomeno del racket è stato stroncato sul nascere, e non dalle forze dell’ordine ma dai cittadini, che si sono subito mobilitati denunciando i loro es-torsori. In Italia non ci riusciamo proprio.

Lo so che è difficile, però è un pro-cesso che deve partire da noi, da noi gente comune, dagli imprenditori, da noi consumatori che dovremmo fare come i tedeschi e finirla con la mental-

ità del “ma tanto non cambia niente” o del “vabbè, ma è il governo che deve cambiare le cose, non noi”.

Nella vita di ognuno le cose cambiano se ci diamo una mossa. Siamo noi che con le nostre scelte, con la nostra capar-bietà costruiamo il nostro futuro, allora muoviamoci! E costruiamo noi la nostra città, il nostro paese del futuro, il mondo in cui vivere.

Basta aspettare il governo, il politico. Facciamo noi quello che loro non vogli-ono o non sanno fare.

Mi auspico che la gente capisca che rispettare ogni legge è l’inizio della leg-alità, di un paese che funziona, pulito e dove tutti hanno le stesse possibilità. Se il sistema paese funziona tutti ne guadagniamo: i giovani diventeranno più competitivi, magari negli ospedali non moriranno più persone tra le mani di medici incompetenti e raccomandati, e magari col tempo arriveremo a non dover più andare via da qui, dal nostro paese e sognare posti come la Ger-mania.

Davide Siracusa

|| 21 novembre 2010 || pagina 11 || www.ucuntu.org ||

Nel 2007 quarantaquattro ristoratori di origineNel 2007 quarantaquattro ristoratori di origine italiana a Berlino si sono uniti per denunciare iitaliana a Berlino si sono uniti per denunciare i propri estorsori. Nel nostro paese, invece, nonpropri estorsori. Nel nostro paese, invece, non si ha una risposta così immediata e istintivasi ha una risposta così immediata e istintiva contro il pizzo. Davide, socio di Addiopizzocontro il pizzo. Davide, socio di Addiopizzo Catania, riflette sui motivi di questa differenzaCatania, riflette sui motivi di questa differenza

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Satira Satira

|| 21 novembre 2010 || pagina 12 || www.ucuntu.org ||

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Autosatira Autosatira

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Satira Satira

|| 21 novembre 2010 || pagina 14 || www.ucuntu.org ||

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Satira Satira

Parla la Politica(proprio lei)

La politica è donna, no? Anche se, di 'sti tempi,non si direbbe. Vediamo cos'ha da dire...

http://dajackdaniel.blogspot.com/

Eccellentissimi Monsignori,Donna fui, e di nobili natali. Non sien

maraviglia le presenti mie condizioni, ché padre mio fu quell’ingegno che tra l’ eccelsi della mortal spezie primo è reputato. Di quell’Aristotile, parlo, che battezzommi e superno mi die’ rango intra l’umane cose.

La Politica son io, e a me volsersi le menti migliori de’secoli andati. Reggitrice e ordinatrice del mondo fui, per cotanti sola ragione di vita e morte: non pochi, in fatto, me invocando e venerando, gl’occhi chiusero alla luce.

Duci superbi dispersi, e umili innalzai e fui io che nell’animi oppressi recavo il ristoro della speranza e promettevo un domani migliore a chi l’oggi avea tristo. Scienza divenni, e non sol’Arte, dacché Ser Machiavelli la mia natura al mondo disvelò.

Nei saecula e negli anni che seguirono l’idioma mio mutò, sì come cangiò il mondo. Avvenne che sempre più numerosi furono i miei amanti: non soltanto ne’ cerimoniosi e cortigiani appartamenti se-dussi e fui invocata, ma, invero, spasimanti miei si ritrovavano, per cantar mie lodi, nei salotti de’ borghesi, nelle taverne e nei caffè.

Fui io la musa di quanti eressero le barricate in quel luglio che a Parigi il mondo novellò e altra epoca dischiuse. Popoli intieri, servi delle rapaci cupidigie dei troni e delle dominazioni, s’avvidero allora dell’esistenza mia, e principiarono a corteggiarmi. Per amor mio, e di chi altri?, posate le vanghe e lasciati i telai, uomini resi duri dal lavoro rubavano ore all’agognato riposo per venir meco e sognare l’alba del sol dell’avvenire.

Impossibile enumerare le biblioteche a me dedicate, i libri scritti in mio onore e i copiosi amanti appassionati e fedeli che mi onorarono delle loro specialissime attenzioni.

“Non siete belli, enemmeno tanto svegli...”

Eppur non bastava, ché, più il tempo scorreva e più s’accorciavano le distanze nel mondo, popoli prima ignari l’uno dell’altro cominciarono ad apprendere della mutua esistenza, e soggetti deprivati di diritti e rappresentanza s’accorsero d’essere cittadini.L iberai lontani e immensi contin-enti dal giogo coloniale e molti impararono grazie a me tante parole sino ad allora ig-note e di una in particolare, democrazia, si innamorarono.

Non c’era diva che rivaleggiasse con me per ammiratori: ero citata ovunque e da chiunque, occupavo le discussioni quotidi-ane nelle case, nelle scuole, nei campi e nelle officine.A ncora il mio linguaggio cambiava, mentre masse sterminate si levavano in mio nome, economie intere si fermavano e davo all’uomo e alla donna l’illusione di poter essere arbitri del proprio futuro, contro ogni sopruso e ogni ingius-tizia.

Nella misura in cui procedeva la cos-cientizzazione dei soggetti intrinsecamente antagonisti rappresentavo l’antitesi nella dialettica del potere innescando dinamiche di contro-reazione e\o contro-potere che smascheravano le falsità delle sovrastrut-ture minando la base stessa della struttura dominante.

Ero arte, divenni scienza, poi tecnica ma, infine, oggi, mestiere e carriera. Non so, belli miei, perché persi i miei amanti migliori. Ricordo giovani bellissimi con lo sguardo limpido e sincero che per me avrebbero superato qualunque ostacolo, ri-cordo uomini meravigliosi, intelligenze su-periori, a me tutti devoti e fedeli.

Mi restate voi, ora, e, vi dico la verità, non siete belli e nemmeno tanto svegli. Non mi amate, lo so, mi usate: vi servo.

Perché comunque piaccio sempre, vero? Lo so che nessuno muore più per me, ma per un mio pompino in tanti si fanno sotto.

E allora venite, ne ho per tutti voi. E non mi costa nulla, ho imparato a farli senza pensare. O meglio, a pensare a quei giovani innamorati con gli occhi luminosi che ritorneranno, sì, ritorneranno, spero, e non mi lasceranno qui a succhiare per sempre i vostri flaccidi cazzi tirati su a viagra.

Jack Daniel

|| 21 novembre 2010 || pagina 15 || www.ucuntu.org ||

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DocumentiDocumenti La casa editrice Einaudiminaccia di querelareil Centro di DocumentazioneGiuseppe Impastato

Torino, 26 ottobre 2010Egregio Dottor Umberto SantinoOggetto. Vostra diffida del 4.10.2010

Riteniamo ingiustificate, gravi e diffama-torie, anche per le modalità con le quali sono state diffuse all'opinione pubblica, le affer-mazioni da Voi effettuate in ordine alla non correttezza e alla lesività di quanto dall'Au-tore e dalla nostra casa Editrice pubblicato, nonché l'accusa di "ricostruzione ...quanto-meno grossolana e superficiale" e le ulteriori analoghe nella Vostra missiva riportate.

Eppure, una semplice e attenta lettura del testo da Voi contestato e, soprattutto, del contesto nel quale esso è inserito, rende evidente che le affermazioni dell'autore nulla tolgono al ruolo svolto dal Centro sici-liano di documentazione "G. Impastato", né tanto meno si propongono l'obiettivo di una ricostruzione storica del delitto Impastato e delle vicende processuali successive.

L'obiettivo del testo "La parola contro la camorra" dal quale sono state estrapolate le frasi ritenute lesive dell'identità del vo-stro cliente, è evidentemente quello di sottolineare il ruolo rilevante che può ave-re un film e, in generale, ogni forma di media, rispetto al compito di riportare alla memoria dell'opinione pubblica episodi di cronaca di pruno piano.

In conclusione, le affermazioni dell'au-tore Saviano non sono in alcun contrasto con la verità storica, ma stanno a testimo-niare, a partire dall’'indubbio .successo del film "I cento passi" e dell'attenzione che ha destato a livello nazionale, l'impor-tanza t i tutti i media nel ricordo delle vit-time di mafia, tema dei resto dell'intero DVD e de! libro contestato.

Appare peraltro singolare che l'ac-

cusa provenga in assunta difesa della dignità e dell'immagine di persone (pe-raltro non firmatarie della comunicazione e che, anzi, hanno manifestato la propria vi-cinanza all’Autore anche in occasioni pub-bliche), quali amici e familiari, che, oltre tutto, sono state espressamente richiamate ne! medesimo testo, come da Lei stesso ri-conosciuto.

Per tali motivi, non riteniamo dovuta al-cuna rettifica né, tantomeno, il ritiro del-l'Opera dal commercio e sin da ora Vi precisiamo che ulteriori iniziative diffa-matorie nei confronti della nostra casa Editrice saranno perseguite nei termini di legge con Vostro aggravio di oneri e spese.

Distinti saluti.Giulio Einaudi Editore S.p.a.

L'Amministratore delegato(Antonio Baravalle)

* * *Cinisi, 8 novembre 2010Spett.le Giulio Einaudi spaOggetto: Vostra del 26.10.2010

Io sottoscritto Giovanni Impastato dichia-ro quanto segue:

E’ vero, come da Voi scritto, che “anche in occasioni pubbliche, ho mostrato la mia vicinanza all’Autore” del libro in questione.

Voglio però precisare che l’amicizia per una persona non pregiudica la richiesta che venga ristabilita la verità dei fatti, richiesta che non mi risulta abbia avuto, come da Voi affermato, “intenti diffamatori”.

Non vedo come possa essere considerata “ingiustificata, grave e diffamatoria” l'af-fermazione secondo cui due pagine di un li-bro a larghissima diffusione cancellano di

|| 21 novembre 2010 || pagina 16 || www.ucuntu.org ||

Il Centro polemizza con alcune imprecisioni su Peppino ImpaIl Centro polemizza con alcune imprecisioni su Peppino Impa--

stato contenute nell'ultimo libro di Saviano e chiede rettifichestato contenute nell'ultimo libro di Saviano e chiede rettifiche

o ritio ritiro. L'editore risponde minacciando un'azione legale.ro. L'editore risponde minacciando un'azione legale.

La letLa lettera dell'editore, la risposta di Giovanni Impastato tera dell'editore, la risposta di Giovanni Impastato

UNA SPIEGAZIONENECESSARIA

Non è divertente pubblicare una lettera contro Einaudi - ma in effetti, in un certo senso anche contro Saviano - in un momento in cui Saviano è impegnato in uno scontro, con Maroni e con altri, dal lato dell'antimafia contro il potere.Ma è nostro dovere farlo per i seguenti motivi:1) Riteniamo che,in generale, il Centro e la fa-miglia Impastato “abbiano ragione” sul fatto.Saviano, occupandosi della storia di Peppino Impastato, se n'è occupato - una volta tanto - superficialmente. E' stato ingiusto con alcuni dei protagonisti di questa storia. E' giusto rista-bilire la verità, anche se - personalmente - avremmo preferito evitare, anche "avendo ra-gione, ogni polemica fra antimafiosi.2) Saviano è un esponente dell'antimafia che ha corso e corre molti rischi, con cui siamo solida-li. Ma Umberto Santino e Giovanni Impastato non ne hanno corso di meno. Sia gli uni che gli altri meritano amicizia e rispetto, nessuno di più e nessuno di meno.3) Nella polemica in questione, mediaticamen-te, il Centro e la famiglia Impastato sono di gran lunga la parte più debole, e corrono dun-que il rischio di essere silenziati.La polemica, per la stampa italiana, non è fra l'antimafioso Saviano e l'antimafioso Impastato, ma semplicemente fra un Vip e un non-Vip: e dunque nemmeno esiste.Noi non siamo d'accordo. Consideriamo diritto dei nostri lettori, e dovere nostro, l'accesso alle argomentazioni di entrambe le parti. trattandosi di parti importanti del movimento antimafioso.4) La stima che professiamo per Saviano, e che ci rende penoso prendere posizione - in questo caso - contro un suo libro, non si estende affatto al suo editore, che è Giulio Einaudi Editore cioè tout-court Berlusconi.Per un tale editore no n vi è alcuna attenuante: sta semplicemente cercando di intimidire, mi-nacciando querele, esponenti del movimento antimafia come Umberto Santino e la famiglia Impastato. Questo non può essere ammesso.

Riccardo Orioles

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DocumentiDocumenti

fatto 24 anni (tanti decorrono dalla morte di mio fratello alle condanne dei mandanti del suo assassinio) di impegno di mia ma-dre, mio e di mia moglie, del Centro (di cui, tengo a dirlo, facciamo anche noi par-te) e dei compagni rimasti, per avere giusti-zia per Peppino. A tali considerazioni, am-piamente motivate, non poteva non seguire la richiesta di una rettifica.

A tal proposito affermo che:1. Non è vero che “la memoria di Impa-

stato” fosse “conservata solo da pochi ami-ci, dal fratello e dalla mamma”.

Il Centro siciliano di documentazione (che era stato fondato nel 1977) non era formato da amici di Impastato e non è stato, nell’80, a lui dedicato per amicizia ma per-ché mio fratello è stato riconosciuto come una figura unica nella lunga storia delle lot-te alla mafia, avendo iniziato con la rottura con la nostra famiglia mafiosa.

Noi come famiglia, i compagni di Peppi-no rimasti e il Centro Impastato, non ci sia-mo limitati a conservarne la memoria, ma, come già scritto nella diffida, fin dal primo giorno dopo il funerale ci siamo attivati per denunciare il depistaggio e dare alla magi-stratura tutte le notizie sull’attività di Pep-pino che indicavano chiaramente la matrice mafiosa dell’assassinio.

In particolare l’11 maggio 1978 il Centro siciliano di documentazione presentò un esposto alla Procura e il 16 maggio mia madre, Felicia Bartolotta Impastato, chiese la costituzione di parte civile, atto allora possibile già in fase di istruttoria. Una scel-ta che prima era stata fatta soltanto da Fran-cesca Serio, madre di Salvatore Carnevale ucciso nel 1955.

In seguito noi familiari e il Centro abbia-mo organizzato, assieme ad alcuni compa-gni di militanza, ogni anno numerose ini-ziative nel nome di Peppino (a cominciare dalla manifestazione nazionale contro la mafia del 9 maggio 1979 a Cinisi, la prima della storia d’Italia).

E ogni volta che è stata chiusa l’inchiesta abbiamo cercato di dare alla magistratura altri elementi per farla riaprire: nel 1984, in seguito all’ordinanza-sentenza del maggio dello stesso anno, predisposta dal consiglie-re Chinnici, assassinato il 29 luglio 1983, e completata dal suo successore Antonino Caponnetto, in cui si affermava la matrice mafiosa del delitto attribuendolo a ignoti, abbiamo presentato il dossier Notissimi

Ignoti (redatto da mia moglie Felicia Vitale, che firma con me questa lettera, e da Salvo Vitale e pubblicato dal Centro) e il libro La mafia in casa mia, con la storia di vita di mia madre, che ha fatto riaprire ancora una volta le indagini.

In seguito all’archiviazione disposta dal sostituto procuratore De Francisci (febbraio 1992) abbiamo ribadito la responsabilità di Badalamenti e nel 1994 abbiamo chiesto che venisse ascoltato il collaboratore di giustizia Salvatore Palazzolo, della famiglia mafiosa di Badalamenti.

La richiesta è stata accolta e nel febbraio del 1996 le indagini sono state riaperte. Si arriva così alla richiesta di rinvio a giudizio di Badalamenti e del suo vice Vito Palazzo-lo e ai processi con le condanne di entrambi come mandanti dell’omicidio.

Torno a sottolineare le date: quello con rito abbreviato contro Vito Palazzolo, è co-minciato nel marzo del 1999 e si è concluso nel marzo del 2001 con la condanna a tren-t’anni di reclusione; l’altro, quello contro Gaetano Badalamenti, in rito ordinario e in videoconferenza si è aperto nel gennaio del 2000 e si è concluso nell’aprile del 2002 con la condanna all’ergastolo. Il film è stato presentato a Venezia nel settembre del 2000 e nelle sale è uscito qualche mese dopo.

2. Pertanto non risponde a verità l’affer-mazione contenuta a pagina 7 del libro La parola contro la camorra, secondo cui “dopo più di venti anni, nasce un film, che non solo recupera la memoria di Giuseppe Impastato […] ma arriva a far riaprire un processo […] Un film riapre un processo”, perché, come già ampiamente dimostrato, date alla mano, i processi (due, non uno) contro i responsabili dell’omicidio erano aperti già da tempo e la Commissione par-lamentare antimafia aveva costituito il Co-mitato Impastato, per indagare sul depistag-gio delle indagini, già nel 1998. Le affer-mazioni del libro non sono veritiere e oscu-rano il nostro impegno, in primo luogo quello di mia madre, e poi il mio, di mia moglie e del Centro (in particolare nelle persone del suo presidente Umberto Santi-no e di Anna Puglisi).

3. Mi è chiaro che l’obbiettivo del testo fosse (come da Voi scritto nella lettera del 4 ottobre 2010) quello di “sottolineare il ruo-lo rilevante che può avere un film e, in ge-nerale ogni forma di media, rispetto al compito di riportare alla memoria dell’opi-

nione pubblica episodi di cronaca di primo piano”.

Voglio, però, in primo luogo farVi pre-sente, che la vicenda di mio fratello non è un episodio di cronaca, ma un fatto gravis-simo che colpisce una delle figure più si-gnificative della lotta alla mafia negli ulti-mi decenni.

Non posso che ribadirlo ancora una volta, l’affermazione “un film arriva a far riapri-re un processo”, non risponde a verità. In ogni caso si tratta di un esempio sbagliato.

Quindi, al contrario di quanto si legge nella Vostra lettera, le affermazioni di Sa-viano sono in contrasto con la verità stori-ca. Il film ha avuto certamente un ruolo im-portante nel fare conoscere la figura di mio fratello, più di quanto abbiamo potuto fare noi e il Centro Impastato, per la limitatezza delle nostre risorse, ma non ha avuto nessu-na influenza dal punto di vista giudiziario.

E voglio sottolineare che il film non è nato per caso e non ci sarebbe stato senza il nostro impegno incessante.

4. Voglio infine far presente che, durante un dibattito, con la partecipazione di Ro-berto Saviano, tenutosi nell’agosto 2009, a Villagrazia di Carini presso la mia pizzeria, in occasione della presentazione del mio li-bro, con Franco Vassia, Resistere a Mafio-poli. La storia di mio fratello Peppino Im-pastato, con la prefazione di Umberto San-tino, in cui vengono ricostruite tutte le vi-cende riguardanti mio fratello, comprese quelle giudiziarie, il giornalista Francesco La Licata aveva sottolineato il ruolo dei fa-miliari e del Centro Impastato per l’accerta-mento della verità. Purtroppo non abbiamo potuto registrare tale iniziativa (come inve-ce è sempre successo qualunque siano stati i relatori) perché c’è stato detto che c’era l’esclusiva di una rete televisiva.

Malgrado sia stato informato, Saviano ha ritenuto di pubblicare il libro ancora con quelle affermazioni. Dopo il lancio su Re-pubblica il 25 marzo 2010, è stata inviata al giornale dal presidente del Centro, e firma-ta anche da me, una lettera di precisazioni, pubblicata soltanto dopo nostra insistenza e malamente tagliata, il 3 aprile.

Faccio mia, pertanto, la richiesta di retti-fica di quanto riportato nel libro in questio-ne.

Distinti salutiGiovanni Impastato

Felicia Vitale

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Noi Noi

mardiponenteSiamo partiti da tanti luoghi diversi, noi del sessantotto. Il nostro sta giù in Sicilia, su una delle due rive della penisola di Milazzo. La sera, se ti sdrai sulla spiaggia, vedi calare il sole immenso e rosso. Ci sono isole all'orizzonte. Passano navi. Ci sono tanti posti dove andare, in treno o in autostop, per un'estate o per sempre.Non siamo stati i peggiori, noi di mardiponente. Buoni compagni, buoni amici. Ciao, Antonio.

|| 21 novembre 2010 || pagina 18 || www.ucuntu.org ||