Ucuntu n.99

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301210 www.ucuntu.org - [email protected] In un paese di vecchi patriarchi, loro almeno si sono ribellate. In piazza, a scuola, nella piccola vita quotidiana. Fra opposizioni sfiata- te e furbi cortigiani, sono state le sole a dire “che vita è questa?”, “di- fendiamo la scuola”, “vogliamo un lavoro vero”. E hanno trascinato pure i ragazzi. Cosa combineranno con l'anno nuovo? e e 5 gennaio: le iniziative con Giuseppe Fava 5 gennaio: le iniziative con Giuseppe Fava e e Ciotti Caselli Simeone Feola Tedoldi Ruta Ferrara Orsatti Biani || 30 dicembre 2010 || anno III n.99 || www.ucuntu.org || L'annoloro

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il numero del 30 dicembre 2010

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301210 www.ucuntu.org - [email protected]

In un paese di vecchi patriarchi, loro almeno si sono ribellate. In piazza, a scuola, nella piccola vita quotidiana. Fra opposizioni sfiata-te e furbi cortigiani, sono state le sole a dire “che vita è questa?”, “di-fendiamo la scuola”, “vogliamo un lavoro vero”. E hanno trascinato pure i ragazzi. Cosa combineranno con l'anno nuovo?

e e 5 gennaio: le iniziative con Giuseppe Fava 5 gennaio: le iniziative con Giuseppe Fava ee Ciotti Caselli Simeone Feola Tedoldi Ruta Ferrara Orsatti Biani

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L'annoloro

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Ridi, ridi... Ridi, ridi...

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La crisi La crisi

Sciopero generale?Sì, maantimafioso

Cos'è cambiato da allora? Allora la mafia comandava a Catania, ora in tutta Italia. Ha i suoi sottosegretari, i suoi governatori, i suoi opinion maker riconosciuti. Questo per limitarci a quelli ufficialmente riconosciuti, se no dovremmo aggiungere “i suoi mini-stri e i suoi presidenti”. E i suoi imprendito-ri, naturalmente, che non è una novità.

La cosa più importante, tuttavia, non è che la mafia è forte, è che viene imitata. Il suo modello, cioè, più o meno consciamen-te è diventato il modello vincente di quasi tutta la politica e di buona parte dell'impre-sa. Non più solo a Catania, ma anzi soprat-tutto a Roma e Milano.

Queste ultime, nei confronti di Catania, sono quel che Catania era una volta nei confronti di Palermo: il posto dove la mafia “non esiste”, il posto dove “non ammazza-no nessuno”, il posto dove “non facciamo l'esame del sangue agli imprenditori” e dove il boss Santapaola giocava a bridge nei migliori circoli della città. Una mafia moderna, insomma, digeribile e perbene. I catanesi credevano di essere ancora a Cata-nia e invece erano già a Corleone, a Medel-lin, nel terzo Mondo.

* * *E noi, dove siamo adesso? Qualche

esempio veloce, per capirci in fretta. Buona parte degli affari per l'Expo di Milano (il business del decennio), e comunque quasi tutto il movimento terra, ruotano attorno a capitali calabresi. L'altro giorno a Vibo Va-lentia un tale, che aveva ruggini con una famiglia vicina, l'ha sterminata freddamente - otto morti - in un vero e proprio scontro fra clan tribali. L'esercito italiano, tuttavia, non pattuglia Vibo Valentia (o Rosarno) ma Kabul.

Cacciata (grazie ai Siciliani) da Catania la Famiglia Rendo, quella di cui parlavano Fava e dalla Chiesa, si è riciclata in America e in Est Europa. Negli Stati Uniti una società da lei acquisita del '96, la Invision, ha ottenuto anni fa l'appalto della security dei venti principali aeroporti nazio-nali. In Ungheria, la Famiglia ha acquisito diversi quotidiani a Budapest, ristrutturan-

doli a modo suo. In quel Paese, due setti-mane fa, hanno approvato una legislazione sui media estremamente repressiva.

Nel Sinai, a poche ore di volo da qui, al-cune centinaia di emigranti sono stati cattu-rati da una banda di beduini, che li ha tenuti in ostaggio per settimane, violentando don-ne, uccidendo uomini e rivendendone gli organi a cliniche clandestine. Tutto ciò nel-l'indifferenza del governo locale e della co-munità internazionale, che proprio in que-sto caso, quando avrebbe fatto benissimo a mandar truppe, non è intervenuta.

Alcuni degli emigranti, dopo, sono stati arrestati dalla polizia egiziana per immigra-zione clandestina. I governi egiziano e, libi-co, infatti, sono lautamente finanziati dai peggiori governi europei - fra cui il nostro - per stroncare l'emigrazione in Europa con qualunque mezzo, compresi terrorismo e tortura.

* * *"Accordo storico e positivo" ha detto

Berlusconi del minestra-finestra di Mar-chionne. Ci mancherebbe altro. Per non la-sciare equivoci, subito dopo ha detto che ce l'ha con i “magistrati eversivi” e con gli studenti (escluse, probabilmente, le veline).

Stupisce che di fronte a un nemico così determinato (un sindacalista ha ricordato che l'ultimo episodio del genere risale al 1925, quando Mussolini abolì nelle fabbri-che le commissioni interne, a manganella-te) la sinistra sia così farfugliante e incerta, compreso il buon Bersani, che pure ultimamente aveva fatto sperare bene.

Qualcuno, come Fassino (che a suo tem-po elogiò Craxi e lo mise anzi fra i padri fondatori) si schiera direttamente con Mar-chionne: ”Fossi un operaio voterei per lui”. “Prova a fare l'operaio per davvero”.

* * *Se tutto ciò porterà, come ci sembra logi-

co, a uno sciopero generale, a noi piacereb-be moltissimo che fosse anche uno sciopero generale antimafia. Uno sciopero del gene-re, in realtà, di fatto non potrebbe che esse-re antimafia, visto chi sono buona parte dei peggiori imprenditori: ma sarebbe bene che

lo fosse anche esplicitamente. Lo sciopero antimafia sarebbe non un

momento, ma il momento decisivo dello scontro italiano, e bene fa la segretaria del-la Cgil (a proposito, avete notato che l'uni-ca donna importante, nella politica italiana, sta proprio alla Cgil?) a non volerlo scagliare senza una perfetta preparazione.

Lo scontro, e questo è sempre più chiaro, molto più che politico è sociale. Difficil-mente sarà deciso dalla “politica” (con que-sto termine in Italia si indica un ceto di cir-ca duecentomila persone, che si chiamava la noblesse in Francia nel 1788). Eppure di una politica c'è bisogno, e non improvvvi-sata nè casuale.

* * *“... L'incarico di formare un governo ad

un uomo al di fuori dei partiti, con una for-te caratura economica e/o costituzionale.Personaggi adeguati da un tale incarico ce ne sono in abbondanza, a cominciare dal governatore della Banca d'Italia... (...). Per salvare la continuità politica, il Capo dello Stato avrebbe potuto perfino affidare l'inca-rico ad un eminente della maggioranza ber-lusconiana, del tipo di Gianni Letta, di Pi-sanu, di Tremonti...”.

L'idea di una soluzione di “salute pubbli-ca” ormai come vedete si affaccia - questo era Scalfari - anche nella classe dirigente: che però pensa a banchieri o a notabili illu-stri, magari ex (o moderatamente) berlusco-niani. Congelare tutto, e poi si vedrà

Ma la crisi è tanto urgente e tragica, so-prattutto per la presenza dei poteri mafiosi, che prendere tempo non servirebbe a nien-te, e men che mai affidarsi (ancora) a ban-chieri e imprenditori.

Se “salute pubblica” dev'essere, lo sia davvero, non dando il potere ai notabili ma ai resistenti con le carte in regola, sul pre-cedente del Cln. Governo di Resistenza, unitario ma ostile ai padronati, e con alla testa non un imprenditore o un banchiere ma un uomo dell'antimafia, un servitore di Stato.

Buon anno. Riccardo Orioles

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L'impresa-mafia sempre più potenteL'impresa-mafia sempre più potente

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Chiesa e antimafia Chiesa e antimafia

Con il Vangeloper i dirittiper la dignità

padre Concetto Greco, parrocodei poveri in una periferia di Catania

No a definizioni come “prete antimafia”, e neppure “prete antidroga”, “prete di stra-da”, “di frontiera”.

Etichette di questo tipo rischiano di far passare per “eccezionale” ciò che invece è – o almeno dovrebbe essere – normale e quasi scontato. Un sacerdote non può che schierarsi, con forza, contro le mafie e tutto ciò che le alimenta: dalla corruzione alle in-giustizie sociali, dalla violenza all’illegalità diffusa. Perché fra mafie e Vangelo c’è un’incompatibilità irriducibile, assoluta. Il Vangelo è parola di vita, di libertà, di spe-ranza: è promessa e annuncio di quello che il crimine organizzato, con la sua cultura di morte, invece nega e cancella.

E insieme al Vangelo, a fare da riferimen-to ai sacerdoti come ad ogni altro cittadino, ci sono la Costituzione italiana e la Dichia-razione Universale dei Diritti Umani: testi che su piani diversi affermano lo stesso im-pegno per la verità, la giustizia, la dignità della persona umana.

Questo impegno che salda la terra al cielo trova nella Chiesa espressioni importanti, non solo al Sud e non solo nel nostro Paese. Persone e comunità che ogni giorno si spendono, senza clamore, per costruire di-gnità e diritti laddove le mafie li soffocano con le logiche del ricatto e del favore. Per-sone che, in situazioni spesso molto delica-te, si mettono in gioco per il bene di tutti, credenti e non, ed è allora compito di tutti sostenere, aiutare, incoraggiare.

Poi, certo, non possiamo nasconderci che all’interno della stessa Chiesa ci sono state delle fragilità, dei comportamenti ambigui, accomodanti, in alcuni casi persino compli-ci. E si è “peccato” talvolta di coraggio, di insufficiente determinazione nel contrastare l’illegalità mafiosa. Così, chi quel coraggio lo viveva in prima persona si è trovato più esposto, più vulnerabile.

«Questo qua era un prete scomodo – ha detto il collaboratore di giustizia Salvatore Cancemi parlando di don Puglisi – un prete che disturbava Cosa nostra sicuramente, al mille per mille». Se si fosse «fatto i fatti suoi», continua, «campava cent’anni».

Pochi mesi prima dell’omicidio del par-roco di Brancaccio, un altro collaboratore di giustizia, Francesco Marino Mannoia, di-chiara al magistrato: «Nel passato la Chiesa era considerata sacra e intoccabile. Ora in-vece Cosa nostra sta attaccando anche la Chiesa perché si sta esprimendo contro la mafia. Gli uomini d’onore mandano mes-saggi chiari ai sacerdoti: non interferite».

Ecco invece è proprio questo che deve fare la Chiesa: “interferire”, illuminare le coscienze, denunciare gli affari criminali e le ingiustizie sociali. Così la sognava don Peppe Diana, parroco di Casal di Principe, ucciso dalla camorra il 19 marzo 1994. Lui, che invitava la sua gente a «risalire sui tetti e annunciare parole di vita», chiedeva alla Chiesa di «parlare chiaro» e non rinunciare al suo «ruolo profetico».

Così la sognava anche don Tonino Bello, una Chiesa «per il mondo e non per se stes-sa». Una Chiesa, insomma, che non sta “alla finestra”, o “sul pulpito”, chiusa e di-stante, ma scende ad abitare in mezzo ai poveri, agli ultimi, a chi fa fatica, pronta a sporcarsi le mani per affermare i loro diritti e la loro dignità.

«La mafia – ha detto Benedetto XVI ai giovani siciliani – è una strada di morte». Riprendendo così quel grido del 9 maggio 1993, quando Giovanni Paolo II, dalla Valle dei Templi, la definì un “peccato sociale” e “una civiltà di morte”, invitando pubblica-mente i mafiosi a convertirsi.

Di fronte a parole tanto chiare, nessun cattolico può più pensare di chiudere gli oc-chi davanti al fenomeno mafioso, né di se-parare la dimensione spirituale dalla re-sponsabilità civile.

Sono parole che ci chiedono coerenza, credibilità, impegno, come cristiani e come cittadini. E che mi riportano a un “monito” del mio “maestro”, Padre Michele Pellegri-no: «È dovere della Chiesa, di tutta la Chie-sa, denunciare l’abuso del denaro e del po-tere. Non dico, anzi non lo credo, che la de-nuncia basterà a eliminare quest’abuso, questo peccato che lede la giustizia e la ca-rità fraterna. Ma Dio non ci chiede di elimi-nare dal mondo il peccato. Ci chiede di de-nunciarlo come l’ha denunciato Cristo».

Luigi CiottiLibera

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Don Diana, don Puglisi e un popolo in camminoDon Diana, don Puglisi e un popolo in cammino

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Chiesa e antimafia Chiesa e antimafia

Contro l'indifferenzaapriamo unanuova frontiera

don Helder Camara, vescovodei poveri in Brasile

Come non esiste una sola mafia, così non esiste una sola Chiesa. Ne consegue che è impossibile comprimere entro schemi mo-nolitici ed onnicomprensivi le relazioni fra il mondo mafioso e quello della Chiesa.

Certo è che in questo panorama comples-so risulta minoritaria la Chiesa che occupa posizioni di frontiera per come sa concreta-mente interpretare il suo rapporto con le va-rie forme di illegalità fino a quella mafiosa. Mi riferisco alla Chiesa che sa parlare di le-galità e di mafia uscendo dalle sacrestie.

Non tanto le sacrestie come luogo fisico: piuttosto quelle che sono dentro ciascuno di noi, come perimetro che costringe ad occu-parsi soltanto di determinati ristretti argo-menti, mentre uscire dalle sacrestie signifi-ca coinvolgersi nella più ampia logica so-ciale. Significa non limitarsi alla sola osser-vanza dei precetti formali, ma anche opera-re con passione, sacrificio, impegno: con attenzione ai problemi che angosciano la comunità, e con speciale sensibilità per le esigenze dei più deboli.

Chiesa di frontiera è quella che considera peccato non solo fare le cose che non si de-vono fare, ma anche non fare certe cose. Perché anche l’indifferenza, anche l’omis-sione possono inquinare le coscienze. Mag-gioritari, invece, sono quei settori della Chiesa che si accontentano di un fiacco giustificazionismo, che sono perennemente alla ricerca (spesso in funzione autoassolu-toria) dei più svariati pretesti per continuare

a coltivare rapporti ambigui con mafiosi e paramafiosi.

Finendo per sottovalutare sistematica-mente la realtà della mafia e per conviverci senza mai articolare una reale opposizione , rendendo debole la parola profetica della Chiesa nella società. Senza neppure chie-dersi il perché di tanta consolidata severità (giusta e sacrosanta) nei confronti dell’i-deologia totalitaria del comunismo, a fronte di un’incredibile tolleranza verso la “sacralità atea” della mafia.

Chiesa di frontiera, invece, è quella capa-ce di rompere il giogo delle mediazioni e degli accomodamenti, capace di uno scatto di responsabilità, di uno scatto d’anima - spirituale e concreto – che tenda a coinvol-gere tutti i cristiani.

Chiesa coraggiosa - quella di frontiera - perché non ama il quieto vivere, non si ac-contenta di ipocrisia civile e devozionismo religioso, ma sa vedere il suo prossimo, sa lavorare ad una comunità finalmente capa-ce di rompere le ingiustizie, ripartendo dal-la Costituzione.

Ogni tanto la Chiesa maggioritaria subi-sce scossoni terribili e sembra risvegliarsi: è avvenuto nel maggio 1993, quando Gio-vanni Paolo II, ad Agrigento - il volto indu-rito, il braccio levato - urlò contro i mafiosi parole di condanna aspre, intransigenti e crude, mai ascoltate prima;- è accaduto con l’assassinio di don Puglisi (settembre 1993) e don Diana (marzo1994).

Ma poi riemergono i vecchi vizi: si con-ferma l’incapacità di uno stacco netto dal passato; certe componenti si contrappongo-no addirittura alle istituzioni dello Stato, ri-vendicando per sé il privilegio di essere sciolte dagli obblighi di legge (come nel caso del carmelitano Frittitta, accusato di aver favorito la latitanza del capomafia Aglieri).

Qualcuno, con spudoratezza consentita soltanto dall’anonimato, si spinge a dire che “padre Puglisi è stato assassinato non perché si sia esposto più di altri ma perché è stato più sfortunato” (citato da A. Dino, in “La mafia devota”).

Ma i più partecipano al rito delle comme-morazioni in pompa magna della vittima per purificarsi della propria inerzia , recu-perare l’onore perduto e continuare tutto più o meno come prima. Lasciando i preti di frontiera sempre più isolati ed esposti.

PS - Ho volutamente omesso di fare nomi di preti di frontiera di oggi, ma chi volesse conoscerne qualcuno può trovarlo in “Libe-ra”. Ma non solo.

Gian Carlo CaselliLibera

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Una Chiesa coraggiosa ed una che guarda altroveUna Chiesa coraggiosa ed una che guarda altrove

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Generazioni Generazioni

Il giorno primadella Gelmini

Quelli della Pantera

I movimenti studenteschi tendono a com-parire sulla scena politica nei momenti in cui la società attraversa crisi profonde, con tensioni e contraddizioni politiche e sociali che attraversano più classi e strati sociali.

Il movimento del 1990 nacque in uno dei punti più alti di crisi internazionale, col crollo dei regimi burocratici dell’est, la fine del bipolarismo e dei blocchi contrapposti e l’avvio del così detto unilateralismo Usa. Tutto questo provocò dei veri e propri terremoti nell’occidente capitalista, e in Ita-lia produsse la scomparsa di partiti di mas-sa come la Dc e il Psi, oltre al grande pro-cesso di scomposizione e ricomposizione seguito allo scioglimento del Pci.

La Pantera si è mossa dentro uno “spar-tiacque della storia” con la chiusura del ci-clo storico del socialismo reale e l’avvio della globalizzazione capitalista. In questo contesto quel movimento ha espresso il ri-fiuto delle privatizzazioni e la ricerca di una nuova idea di democrazia, esprimendo un anticapitalismo istintivo.

Se guardiamo alla piattaforma del movi-mento non possiamo non dire che la Pante-ra subì una secca sconfitta. Nessuno degli obbiettivi contenuti nella piattaforma na-zionale del movimento è stato ottenuto. Go-verno e Confindustria però non riportarono una vittoria altrettanta secca. Il pacchetto

Ruberti esprimeva l’obbiettivo di privatizzare l’università e la formazione, sul modello dei College statunitensi.

Questo processo è avanzato con le suc-cessive riforme- in particolare la Berlinguer Zecchino del 1999- ma non è stato ancora compiutamente portato a termine, tanto da agitare ancora negli ultimi anni gli inter-venti di Moratti e Gelmini. Nel nostro pae-se, ma anche nel resto d’Europa, si è proce-duto per tappe , a causa anche delle resi-stenze dei movimenti studenteschi e del movimento operaio.

La riforma Ruberti fu un salto di qualità nell’attacco all’Università pubblica, l’inizio di un processo volto alla creazione delle università di elitè e di quelle dequalificate e nozioniste. Le prime dovrebbero essere l’e-spressione più compiuta della valorizzazio-ne del grande capitale attraverso la produ-zione di scienza e tecnologia, e i luoghi di formazione delle classi dominanti.

La capacità di comandare implica con-quista e possesso dell’egemonia. Senza egemonia, e cioè senza capacità di indurre ad accettare, ad interiorizzare e fare proprio da parte dei dominati il punto di vista dei dominanti, non si può produrre alcuna struttura di dominio.

Questa è una delle funzioni che storica-mente l’università ha svolto, e la creazione

di università d’èlite risponde all’esigenza di razionalizzare tale processo complesso e contraddittorio al minor costo possibile. Per questo servono anche le università dequali-ficate e nozioniste dove formare tecnici qualificati utilizzando la gerarchizzazione e i vari livelli di laurea per “abbassare le spe-ranze dei laureati sull’utilizzo effettivo nel mercato del lavoro delle competenze acqui-site, sulla propria carriera e sul proprio red-dito” in modo da far accettare ai futuri la-voratori qualificati qualunque lavoro, a qualunque reddito.

Ma servono anche per omologare le co-scienze: “sarebbe un grave errore credere che i progetti di riassetto dell’istruzione siano dettati solo da preoccupazioni econo-miche ed efficientistiche. L’omogeneizza-zione della gioventù è per le classi domi-nanti un problema politico, una parte della nuova forza delle classi subalterne, ridotta ma non distrutta dalle sconfitte operaie, dai colpi allo stato sociale e dai processi di ri-strutturazione.

Per questo la restaurazione dei vecchi strumenti selettivi e l’introduzione di nuo-vi, le spinte alla privatizzazione, la separa-zione dei ghetti dalle scuole di censo e di merito, non sono funzionali solo alla drasti-ca riduzione degli investimenti pubblici per i bisogni sociali.

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“Questo non è il Sessantotto”. Beh, neanche il Sessantotto voleva essere il“Questo non è il Sessantotto”. Beh, neanche il Sessantotto voleva essere il Quarantotto. Nè il Settantasette. Nè... Eppure c'è un filo conduttore fra tutti questiQuarantotto. Nè il Settantasette. Nè... Eppure c'è un filo conduttore fra tutti questi momenti, quando i giovani “improvvisamente” si ribellano a chi gli vuole imporremomenti, quando i giovani “improvvisamente” si ribellano a chi gli vuole imporre valori e scuole finalizzati al potere e ai profitti e non alla vita vera e alla cultura.valori e scuole finalizzati al potere e ai profitti e non alla vita vera e alla cultura. Parliamo del più dimenticati di essi, che - forse - è anche quello più attualeParliamo del più dimenticati di essi, che - forse - è anche quello più attuale

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Generazioni Generazioni

Né servono solo a creare nuove occasioni di investimento o a mettere la ricerca uni-versitaria ancora più strettamente alle di-pendenze del profitto”. Rispondono anche all’esigenza di scongiurare lo spettro delle rivolte sociali edi una loro radicalizzazione simili a quelle avvenute negli anni settanta.

Insomma, la Pantera è stata sconfitta, ma la forza che ha messo in campo e la paura che ha provocato, ha costretto Governo e Confindustria a procedere con prudenza e gradualità nella ristrutturazione universita-ria, rallentandone il processo. Ciò non to-glie che la pantera è stata ingabbiata. E la causa principale della nostra sconfitta fu l’isolamento, la totale assenza dei movi-menti sociali ma anche l’isolamento politi-co e sindacale in cui Pci e Cgil in particola-re lasciarono il movimento.

Ad ogni modo, se guardiamo alla storia dei movimenti studenteschi e alle caratteri-stiche del soggetto studentesco di oggi, è sicuramente la Pantera il movimento che più può parlare ai movimenti di oggi- eppu-re continua ad essere il meno conosciuto.

Ma la tradizione degli oppressi in lotta, la storia dei vinti che vollero vincere, vive solo se viene fatta vivere, se ogni genera-zione si riappropria criticamente del passato per farlo agire politicamente nel presente. Per questo ci siamo rimessi oggi a rileggere la Pantera, per contribuire ad un nuovo incontro tra generazioni in lotta.

Nando Simeone

Gli studenti della Pantera,storia di un movimento rimossoEdizioni Alegre

COSI' DICEVANO

“LA PANTERASIAMO NOI”

La pantera, intesa come movimento degli stu-denti, apparve a Palermo all’inizio di dicembre del 1989. Partì tutto dalla facoltà di Lettere per estendersi in pochi giorni prima alle altre facol-tà palermitane e poi al resto d’Italia.

La pantera, intesa come felino, apparve inve-ce alla periferia di Roma alla fine di dicembre dello stesso anno. Furono due pubblicitari a unire le due cose, regalando al movimento un simbolo e uno slogan: la pantera siamo noi.

Le occupazioni finirono nell’aprile del 1990, anche se negli anni a venire la pantera avrebbe continuato a fare capolino durante occupazioni e cortei. La pantera, quella vera, non è mai stata trovata, il che forse potrebbe spiegare perché nei giorni scorsi migliaia di ragazze e di ragazzi hanno riempito con i loro cortei le strade di tut-ta Italia.

A me la pantera, intesa come movimento, fa venire in mente la Palermo dell’estate del ’92. Avevano da poco assassinato Borsellino e la sua scorta; durante i funerali dei cinque agenti la folla aveva preso a pugni politici e capi della polizia. C’era una tensione che non accennava a diminuire.

Io e la mia amica Arvea decidemmo di infi-schiarcene dell’ultimo appello d’esame, lasciar-

ci Roma alle spalle e andare a vedere che cosa succedeva. Partimmo così, senza nessun prepa-rativo: sapevamo che a piazza Pretoria c’era un presidio di palermitani incavolati e nient’altro.

Dopo una notte in treno, stretti tra famiglie di emigranti che tornavano per trascorrere l’estate al sud, arrivammo a Palermo. Nel frattempo i manifestanti avevano occupato palazzo delle Aquile, la sede del comune.

In mezzo a tutte quelle persone conoscemmo Roberto e Antonio. Quando gli dicemmo che non avevamo un posto dove stare, ci dissero che ci avrebbero pensato loro.

Andammo nella casa che Antonio divideva con altri studenti. Due anni prima sia lui che Roberto avevano preso parte alla pantera; nel frattempo si erano laureati ma erano rimasti al-l’università nella speranza di diventare ricerca-tori.

Durante la cena ci raccontarono un po' di sto-rie di Palermo e della sua università: la cappa mafiosa che avvolgeva la città, i “figli di” che facevano carriere folgoranti, le amanti promos-se da un giorno all’altro ad insegnare materie a loro sconosciute e via di questo passo.

La conclusione era che loro due, senza ap-poggi e senza un cognome “pesante” non ce l’a-vrebbero mai fatta. L’unica cosa sensata da fare sarebbe stata cambiare aria, lo sapevano, eppure rimanevano lì, semplicemente perché era la cosa giusta da fare.

Francesco Feola

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Operai Operai

Buon Nataledalla ciminiera

«Chi ci va stasera alla ciminiera?». Il di-rettore butta lì la domanda con noncuranza. La risposta negativa viene a tutti, anche se nessuno apre la bocca per pronunciarla. Sempre con noncuranza, quasi senza nem-meno sollevare lo sguardo dallo schema di pagina che ha davanti, il direttore domanda chi stava seguendo la storia della fonderia, «...Ditoleddi, non eri tu?». Annuisco. In ef-fetti ero io che per tutto il primo mese sono andato là sotto a parlare con quelli del pre-sidio. Poi però la storia si era un po' ingros-sata, c’era stato l’interesse dei media nazio-nali, e allora era stato lo stesso direttore a prendersela in carico.

Ciò succedeva quest’estate. Oggi, a Nata-le, improvvisamente torna a me, ah ah.

«Dovrebbe esserci una messa – dico – l’aveva annunciata Piepoli, il segretario cit-tadino del sindacato. Ma se continua a pio-vere così, forse salta tutto». Il direttore fa un cenno soddisfatto con la testa, si compli-menta per il fatto che mi sono tenuto ag-giornato sugli eventi. Mi dice che uno sguardo bisogna comunque andare a darlo, senza accontentarsi di telefonare.

Noto lo sguardo in tralice di Sara, rivolto non all’aguzzino che rompe le scatole bensì a me perché non rifiuto quest’incarico di urgenza dubbia. Potevamo forse passarla insieme, questa serata. Se glielo avessi chiesto, naturalmente. Se avessi fatto l’uo-mo. Se lei non avesse altri posti in cui stare insieme ad altre persone.

Bene, la vita e il lavoro mi chiamano da un’altra parte. E qui alla ciminiera, piove. Viene giù da tre giorni, verrà giù per

almeno altri tre secondo le previsioni del tempo in tv. All’inizio tentava di nevicare, poi si è un po' sciolta. Non so cosa sia meglio per quelli lassù. La neve perlomeno forma uno strato isolante, quando supera un tot di centimetri; la pioggia no, scioglie le ossa e la determinazione.

Il presidio è quasi vuoto. Rispetto ai pri-mi giorni, quando faceva caldo e qui veni-vano le troupe delle tv, si è molto rimpic-ciolito. Ad agosto c’erano una decina di tende, e per i figli degli operai era stato al-lestito una specie di asilo nido, con campo giochi e doposcuola. Roba grossa, a segna-re la volontà di resistenza di una comunità di 400 operai che non volevano rassegnarsi alla delocalizzazione.

Adesso c’è solo una specie di baracca messa su con i pallet e riparata con teloni di plastica pesante. L’arredamento è un tavolino con una tovaglia a fiorelloni stampati, una sola lampada da campeggio che fa una luce forte e fredda, e un cavo volante che porta al generatore, il quale va in continuazione producendo una vibrazione calda di solidarietà.

La temperatura all’interno non è molto diversa da quella esterna, anche se c’è una stufetta sotto il tavolo. Cioè, più che altro una seconda luce considerata l’efficacia termica. Ci sono due mogli di operai della fonderia che si sono asserragliati sulla ciminiera, e due altri operai, facce che ho già visto ma non riesco ad associare a nomi. Mi verranno in mente forse domani notte, se mi ci impegno un po'.

Chiedo di Piepoli. Il tipo cui l’ho chiesto

e una delle mogli non dicono niente, perché mi hanno riconosciuto in quanto giornalista e sanno che il mio taccuino non è quasi mai chiuso, ma le loro facce si sono per un attimo immalinconite.

Domando se ci sarà la messa. Mi indica-no un angolo della baracca, dove c’è un te-levisorino portatile. «Quella del papa», di-cono in coro. Questa battuta se la sono pre-parata da un po', ha il sapore dell’amarezza accettata a fatica.

Se fossi un giornalista normale potrei fi-nirla qui. Andarmene a casa, sul tragitto te-lefonare magari a Sara, dirle che ho finito. Poi stanotte ci sarà gente ancora in giro fino a tardi, dopo la messa di mezzanotte, qualcosa da fare in compagnia si trova. La notizia (bè, notizietta) ce l’ho. 40 o 50 ri-ghe le posso scrivere al volo. Magari il di-rettore prenderà spunto addirittura per un pezzo di colore.

Ma siccome sono Ugo Ditoleddi, non mi basta. C’è qualcosa in questa nottata. Sarà la pioggia, saranno le 7 persone lassù.

Domando a tutti e nessuno in particolare se lassù hanno di che coprirsi. Una delle mogli guarda l’aria in una direzione che io non posso vedere, e forse vorrebbe rispon-dere che non si è mai abbastanza coperti a 30 metri da terra, in un posto esposto alle intemperie, lontani da casa e dai figli. L’al-tra guarda me, e mi rassicura che sì, hanno tutto per resistere, e intendono stare su fin-ché sarà necessario.

Rimango in piedi, sull’ingresso del presi-dio. Loro sono seduti intorno al tavolo, i piedi vicini alla stufetta.

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Nella fabbrica occupata, stanotte è arrivato un tipo strano...Nella fabbrica occupata, stanotte è arrivato un tipo strano...

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Operai Operai

Alle mie spalle la pioggia produce un fruscio continuo. Da qualche parte c’è il rumore di uno sgocciolamento, ma non si capisce da dove possa provenire a causa del brontolio anche lui continuo del generatore.

E si sente un rumore di campanelle, come quelle delle slitte di Babbo Natale nei film. Mi giro. E in effetti è una slitta da Babbo Natale, con tiro di renne e interni in pellic-cia. Forse un po' più rustica di come appare nei film, ma questo solo a voler tagliare il capello in quattro.

Il tizio che la conduce è credibile, nel senso che la barba sembra sua e non frutto di un travestimento, e anche l’abito ha un’aria usata, come se fosse indossato abitualmente e non soltanto poche ore l’anno tra un passaggio in lavatrice e una stirata come si deve. E non manca il saccone dei regali, naturalmente.

Il tizio scende, mi fa l’occhiolino. Mi scosto per lasciarlo entrare, e il suo ingres-so è tutt’uno con un saluto roboante, una ri-sata e la richiesta di qualcosa da bere.

Sul tavolo è stata messa una bottiglia, non sono riuscito a capire da dove sia saltata fuori. Uno degli operai versa in bicchieri di carta, riempiendoli a metà. Il liquido è trasparente, ma non è certo acqua.

«Sono già stato su – dice Babbo Natale – ho ricevuto la vostra lettera. Ci sono cose che non posso regalare nemmeno io. Posso darvi molti oggetti, cibo, giocattoli per i vo-stri figli. Cose che fanno benino all’anima, ma che si esauriscono in fretta. Le cose più durature, più vere... sono al di là del mio potere. Non ho una fabbrica di costruzione

di giocattoli nella quale assumervi, quella è una cosa di fantasia».

Si abbandona su una sedia, comparsa anche lei da un posto che non ho visto. Uno degli operai gli dà una pacca leggera su un braccio, consolatoria. Sperava in qualcosa di più, forse, ma se nemmeno Babbo Natale ce la fa, allora... bè, bisognerà farsene una ragione, e prendere semmai provvedimenti diversi.

Una delle mogli gli domanda se sa come andrà a finire. Babbo Natale tenta di guar-darla negli occhi, ma non ci riesce, «io non so prevedere il futuro» dice.

Si mettono a parlare del più e del meno, come fosse la cosa più normale. Lui do-manda delle loro famiglie, delle loro situa-zioni. È come se li conoscesse da quando erano bambini, e forse è effettivamente così. Gli dicono della scuola dei figli, del-l’aiuto che ricevono dai parenti, del soste-gno della comunità. Gli raccontano dei sette che sono scesi dalla ciminiera tre settimane fa, perché sono stati assunti in un’altra fabbrica ed era un’occasione che non potevano rifiutare.

Uno degli operai parla meno degli altri, ma si aspettano tutti che dica qualcosa. An-che Babbo Natale, che non gli fa domande dirette ma lo sollecita con un movimento amichevole del corpo.

«Con l’inizio dell’anno andrò via da qui – dice il tipo – con alcuni amici abbiamo comprato un capannone nella zona industriale nuova, cominciamo un’altra attività». C’è un sospiro, una specie di sospensione della paura. La vita continua.

La si fa continuare.Da fuori proviene un suono di campanel-

le. Sono le renne che chiamano.«Devo andare», dice Babbo Natale. Gli

offrono un altro giro di liquore, ma non ac-cetta perché «deve guidare». Guardo la slit-ta, parcheggiata in un posto dove la pioggia non la bagna, e il saccone di regali non c’è più. In effetti adesso occupa uno degli an-goli del presidio, tiene via quasi metà dello spazio. Prima di andarsene Babbo Natale lo apre e ne toglie un pacco, e me lo mette in mano.

Mi fa l’occhiolino. Sono sorpreso, se ho capito cos’è... wow, è proprio quello che... come faceva a saperlo? Ma non faccio in tempo a ringraziarlo, è già andato via.

Cerco con lo sguardo le facce degli altri del presidio, per cercare conferma o smen-tita a quello che ho visto. Mi sembra di es-sere l’unico stordito che non ha capito bene cosa sia successo. Una delle mogli sta facendo l’inventario dei regali, e sa a chi consegnarli perché sono muniti di biglietto con il nome del destinatario. Mi arriva in mano un bicchiere di carta, riempito per metà di liquore. Lo mando giù a piccoli sorsi. Se facessi come nei film, tutto d’un fiato, finirei steso il fiato dopo.

Una delle mogli prende di tasca il telefo-nino, e chiama il marito, 30 metri più su. È il momento degli auguri. È il momento in cui io sono di troppo.

Metto giù il bicchiere, «buon Natale», dico. Ricambiano gli auguri. Esco.

Guido Tedoldi

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Modica Modica

In fondo alla Siciliala politicadegli affari

Ancora una inchiesta incombe sull’ex sindaco di Modica Piero Torchi Lucifora. L’ex primo cittadino dell’Udc, assieme al-l’ex assessore al bilancio, Carmelo Drago (fratello dell’ex parlamentare Peppe), e a 17 dirigenti comunali sono indagati per abuso d’ufficio in concorso per aver effet-tuato negli anni 2006/2008, con particolare riguardo al periodo concomitante e ricon-ducibile alla tornata elettorale del 13/14 aprile 2008, il conferimento arbitrario di in-carichi con mansioni superiori a personale dipendente del comune di Modica.

L’amministrazione Torchi avrebbe preferito far scattare avanzi di carriera in maniera illegale, in periodo elettorale, rispetto ad un normale rispetto della normativa prevista.

L’attività di indagine venne innescata agli inizi di questo anno, a seguito di una ispe-zione effettuata presso il Comune da un funzionario Ministeriale, all’esito del quale quest’ultimo, in una corposa relazione con-testava all’amministrazione comunale di Modica gli atti posti in essere dalla Giunta Municipale e dai Dirigenti nel periodo 2006 – 2008.

Secondo il funzionario gli atti amministrativi emessi consentivano a de-terminati dirigenti indebite progressioni verticali delle carriere arrecando un grave danno al bilancio comunale.

La Tenenza della Guardia di Finanza di Modica, delegata dal procuratore di Modi-ca, Francesco Pulejo, ha esaminato una mole di Determine Diregenziali emesse nel periodo in questione. Dai controlli è stato appurato che gli atti non erano motivati da obiettive esigenze di servizio ma dalla mera valutazione discrezione del Dirigente. Dalle indagini risulta che il probabile comporta-mento truffaldino della precedente ammini-strazione abbia arrecato un danno per l’En-te pari a circa 300.00 euro.

Gli accusati si difendono e danno manda-to ai legali di agire.

L’Udc modicano torna ancora una volta sotto i riflettori per vicende poco lusinghie-re. Infatti, Piero Torchi Lucifora, Carmelo Drago, Peppe Drago e altri esponenti (o ex esponenti) del partito di Casini sono coin-volti, a vario titolo, in un‘inchiesta della Procura di Modica per concussione, abuso d’ufficio, riciclaggio e associazione a delin-

quere.Secondo il Procuratore capo di Modica,

Francesco Pulejo, grazie a ingenti somme di danaro pagate da imprenditori, sarebbero stati pilotati i meccanismi di assegnazione degli appalti e inoltre, in cambio della rinuncia a una parte dei crediti vantati verso il Comune di Modica, che era in stato di dissesto finanziario, alcuni imprenditori e professionisti avrebbero ottenuto una corsia preferenziale nel percepire le spettanze.

I reati contestati sarebbero stati commessi a Modica dall’ottobre del 2003 al settembre 2007.

Più noto è il caso di Peppe Drago, oggi nelle file del Pid di Saverio Romano, che in questi giorni si è dimesso dalla carica di de-putato dopo l’interdizione temporanea ai pubblici uffici in seguito ad una condanna definitiva per peculato.

Insomma, a Modica, nel ragusano, molte ombre e molte certezze infangano l’agire morale e politico di una classe dirigente ca-tastrofica.

Giorgio RutaIl Clandestino

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L'Udc modicano ancora sotto inchiestaL'Udc modicano ancora sotto inchiesta

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Catania Catania

Librinooltrela periferia

Un quartiere rimasto al buio per mesi, un posto dimenticato dalle istituzioni per anni, Questo era il quartiere Librino nel-la città di Catania sino a qualche anno fa: per tutti un posto dal quale tenersi alla larga, un quartiere “ghetto” con den-tro delinquenza, spaccio, mafie e disagio sociale.

Per molti il luogo degli “invisibili”.Poi lentamente qualcosa è cambiato e

anche Librino ha avuto una voce capace di raccontare “l’altra Librino”.

Nel 2008 dopo dieci anni di volonta-riato scout nel quartiere, alcuni ragazzi decisero di fondare il mensile “La Peri-ferica” e un’associazione “Oltre la Peri-ferica” che editò il giornale e un sito web. Strumenti d’informazione che sono diventati luogo di parte cipazione a Ca-tania nei quartieri di Librino, Pigno, Zia Lisa, San Giorgio, Villaggio Sant’Agata. Il mensile è diretto da un giornalista de “I Siciliani” e animato da una redazione di giovani volontari.

«Librino è il quartiere nel quale risie-

dono buona parte dei giovani e bambini catanesi, coloro che domani, da cittadini e genitori, dovranno portare avanti que-sta città vivendola e partecipando attiva-mente alla sua crescita – dichiara Massi-miliano Nicosia, direttore editoriale del free press, eppure Librino è il quartiere catanese con il più alto tasso di disper-sione scolastica; è il quartiere con il più alto numero di minori ospitati nel centro di prima accoglienza di Catania ».

Il primo numero de “La Periferica” dopo una pausa forzata di cinque mesi (difficoltà economiche) è ritornato nei quartieri nel novembre scorso e ha dovu-to raccontare di un istituto superiore che chiude i battenti. Troppe le promesse fat-te a parole in questi anni raccon tano sul giornale – e poche quelle e poche quelle portate a termine dalla politica che qui, troppo spesso, si spinge solo per raccogliere i voti durante le elezioni.

«Da anni è Librino a decidere in larga misura chi vincerà e chi perderà le ele-zioni locali – continua Nicosia. Il nostro dovere è anche quello di impegnarci di-rettamente per il cambiamento di Librino perché - come ha detto don Sapienza, parroco a Zia Lisa, in un recente conve-gno: «occorre un nuovo modello di de-mocrazia deliberativa secondo cui i cittadini non danno più deleghe in bian-co ai politici restando poi a guardare, ma è necessario che tutti i cittadini parteci-pino attivamente alla vita della città con-tribuendo alle sue decisioni».

Poi le buone notizie che arrivano dal quartiere degli “invisibili”: tre anni fa il gruppo scout 18 di Catania si era ferma-to, il 5 dicembre scorso è tornato con tanto di fazzolettone biancogiallo, ripor-tando lo scautismo in attività a Librino.

Norma FerraraLiberainformazione

WEBE ADESSO LA PERIFERICAESCE OGNI SETTIMANA

Comincia per noi de la Periferica una nuova avventura: una edizione web che cercheremo di pubblicare con cadenza set-timanale e che si aggiungerà all’appro-fondimento mensile stampato e distribuito nella periferia di Catania.

Siamo orgogliosi di lanciare questa iniziativa proprio nella settimana che precede il 5 gennaio, data in cui, insieme all’associazione Lavori in Corso e ad al-cune testate giornalistiche, amiamo onorare la memoria di Giuseppe Fava lavorando.

Dopo aver girovagato per due lunghi anni senza sede fissa e dopo essere stati costretti a fermare la stampa del giornale per 5 lunghi mesi a causa della carenza di fondi siamo tornati più carichi di prima.

Per questo dobbiamo ringraziare prima di tutto i nostri lettori che non hanno mai smesso di farci sentire il loro sostegno e incoraggiamento; poi don Aristide Rai-mondi, neo-parroco a Librino, che, cogliendo una forte esigenza del territorio, ha immediatamente spalancato le porte dei locali della parrocchia Nostra Signora del SS. Sacramento anche a quelle realtà culturali che, come noi, non avevano spazi per le loro attività. E infine i nostri inserzionisti che con la loro pubblicità sul assicureranno la stampa su carta de la Periferica per almeno tutto il 2011.

Noi stiamo cercando di cogliere questi segnali di fiducia attraverso questa nuova sfida settimanale e altre ancora che ver-ranno; voi continuate se possibile a sos-tenerci e ad inviarci idee, segnalazioni, iniziative e, perchè no, proposte di col-laborazione.

La redazione de “La Periferica”[email protected]

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Il quartiere degli “invisibili”. E la sua voceIl quartiere degli “invisibili”. E la sua voce

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In questo Stato In questo Stato

Il compitodi noi poverelli

Altro è il compito che incombe a noi po-verelli: lottare per la liberazione dell'u-manità intera; opporci al governo della guerra assassina e del colpo di stato fasci-sta; difendere la biosfera; essere nitidi e intransigenti nella scelta della nonviolenza: solo la nonviolenza può salvare l'umanità.

Altra è la politica che dobbiamo organiz-zare e condurre: femminista, ambientalista e nonviolenta; socialista, libertaria e non-violenta; di difesa nitida e intransigente della legalità costituzionale; di difesa nitida e intransigente dei diritti umani di tutti gli esseri umani. Di ripudio nitido e intransi-gente di tutte le guerre, tutte le armi e tutti gli armigeri; di ripudio nitido e intransigen-te della violenza che è sempre assassina: solo la nonviolenza può salvare l'umanità.

È ancora nostro il motto di Bertolt Brecht al congresso di Parigi: "Compagni, parlia-mo dei rapporti di proprietà".

È ancora nostro il motto che fu dei resi-stenti di Giustizia e libertà: "Insorgere per risorgere". Insorgere con la forza della veri-tà. Insorgere con la scelta della nonviolen-za. Insorgere per la legalità che salva le vite. Con la forza della verità. Con la scelta della nonviolenza.

Insorgere per la Costituzione della Re-pubblica Italiana contro il regime hitleriano al potere. Con la forza della verità. Con la scelta della nonviolenza. Solo la nonviolen-za può salvare l'umanità.

Io non so se riusciremo a sconfiggere il maschilismo e il patriarcato che da millenni lacerano e massacrano l'umanità. Non so se riusciremo ad abolire la guerra divoratrice di esseri umani. Non so se riusciremo a im-pedire la devastazione della biosfera.

Non so se riusciremo ad adempiere il compito lasciatoci in eredità dalle sorelle e dai fratelli che sconfissero Hitler, non so se riusciremo ad inverare il programma scritto col sangue dei martiri della Resistenza nel-la Carta delle Nazioni Unite, nella Costitu-zione della Repubblica Italiana, nella Di-chiarazione universale dei diritti umani.

Non so se riusciremo a costruire società di persone libere ed eguali in cui valga il principio "da ciascuno secondo le sue capa-cità, a ciascuno secondo i suoi bisogni".

So che vale la pena lottare per questo. So che questa lotta o è nonviolenta o non è. Solo la nonviolenza può salvare l'umanità.

Peppe Sini

Letteradal Guatemala

Un abbraccio a tutti! Come forse sapete, ho anticipato di un mese circa l'arrivo della missione salute che inizierà il 24 gennaio. Abbiamo in cuore una nuova tappa da per-correre. E siccome è molto dura, mi è stato donato di iniziarla proprio il giorno di Na-tale. Il viaggio è stato lunghissimo e trava-gliato per via del gelo che aveva morso tut-ta l'Europa proprio in quei giorni.

Ma anche qui in Guatemala sta facendo un freddo birbone, come mai l'avevo soffer-to. Stanotte ho dovuto vestirmi e aggiunge-re una trapunta al mio comodo letto. Avevo già due coperte.

Poi, stamattina presto, quando appena al-beggiava, ho incontrato don Alfonso (qua si dà del "don" alle persone grandi e sposate), gli ho offerto un caffè caldo, e lui mi ha raccontato con il massimo candore che in questi giorni di raccolta del mais (giorni che possono prolungarsi anche per un mese e più) lui, come tutti i contadini guatemal-techi (perché tutti i contadini in Guatemala coltivano il mais), sta dormendo fuori, al-l'addiaccio, accanto ai mucchi di pannoc-chie già raccolte, perché nessuno gliele rubi.

Allora, dentro di me, ho provato vergo-gna. Ho fatto mente locale e mi sono reso conto che nessuna famiglia povera, da que-ste parti, possiede tante coperte da poterne dare una per ogni membro. Enrique, bambi-no di dieci anni che accompagnava stamat-tina il nostro maestro Brunemilio, alla mia domanda ha risposto che lui dorme insieme ai due fratellini nell'unico letto di casa e tutti e tre hanno per coprirsi due coperte in tutto; ho preso coscienza che il loro corpo, fin da bambini, in questa epoca di gelate, si adatta, è costretto ad adattarsi, alla soffe-renza del freddo, che ti punge non soltanto la pelle ma anche il sangue e la carne, le ossa e il cervello, l'anima e lo spirito. Si adattano i poveri, come si sono adattati alla fame e all'emarginazione. Ma questo non significa che stanno bene così, anzi, questo grida il loro bisogno di liberazione.

Oggi poi è anche la memoria dei bambi-ni, chiamati "i santi innocenti", fatti uccide-re da Erode. Questo re voleva far fuori co-lui che -così era convinto Erode - poteva minacciargli il potere. Il potere infatti ine-bria e droga: fa arrivare al delirio dell'onni-potenza e alla pazzia dell'immortalità. Non essendoci più l'umiltà del senso del limite,

si impone il limite della schiavitù e della morte a coloro che ci ricordano che siamo un soffio, che siamo polvere. I poveri ci ri-cordano chi siamo e noi, per questo, li emarginiamo ulteriormente, perché ci sono scomodi. Sapere stamattina che tutte le fa-miglie che mi circondano nelle loro cata-pecchie hanno sofferto stanotte per gli spif-feri dell'aria gelida, mentre io me la godevo sotto le tre coperte, mi riporta al silenzio di chi si era arroccato nella sicurezza della propria condizione di ricco.

Questo, allora, mi pungola ancor più energicamente a far bene i primi passi del nostro nuovo progetto, quello di immerger-ci nel turpe mondo dello sfregio della vio-lenza sessuale sui bambini, per trovare e of-frire poi loro una via di liberazione. È un giorno simbolico anche questo allora, gior-no dei bambini oltraggiati. Già essere parti-to proprio il 25 dicembre mi aveva fatto molto riflettere: la data era venuta a caso, perché eravamo alla ricerca di un biglietto aereo che non costasse troppo, e ci era capi-tata un'occasione con la partenza proprio il giorno di Natale. Solo alla vigilia della par-tenza ho intuito la simbologia potente di questo fatto: quelle bambine e quei bambini hanno bisogno di nascere ancora alla vita, e per noi, aver fatto il primo passo, verso quella speranza, proprio il 25 dicembre, si-gnifica che siamo, ancora una volta, sulla strada giusta, quella che la fede nel Figlio dell'Uomo, che tanto ha sofferto e tanto continua a soffrire ancora oggi giorno, ci spinge a percorrere già da dieci anni.

Sono le otto, mi metto in marcia. Che Dio mi accompagna ne sono certo, accom-pagnatemi anche voi con la vostra simpatia, come anche io prego perché abbiate pace e speranza!

Carlo Sansonetti

Centro per la pace, [email protected]

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In questo Stato In questo Stato

Auguri, che ne abbiamotutti bisogno

Auguri. A chi questo mese non ha visto la tredicesima e forse non la vedrà mai. Augu-ri a chi neanche sa che cos’è la tredicesima. Auguri a chi aspetta che qualcuno paghi. Auguri a chi non ha niente da aspettare. Auguri a chi è in cassa integrazione e a chi è in scadenza di contratto. Auguri a chi il contratto ancora non l’ha. Auguri agli stu-denti che dovranno inventarsi un modo to-talmente nuovo di vedere il futuro. Perché oggi qualcuno lo ha sottratto, il futuro, a un’intera generazione. Auguri a quei pochi politici che fanno ancora politica. Auguri a un popolo intero che non ne può più dei po-litici ma ha un desiderio enorme di politica vera. Auguri a quelle famiglie che si stanno dissolvendo davanti agli effetti delle crisi. Auguri a chi sta su un tetto, su una gru, su un cavalcavia e una torre. E a chi si è auto incarcerato all’Asinara.

Auguri chi si rifiuta di pagare il pizzo, a chi denuncia, a chi lotta contro la mafia, a chi fa nomi e cognomi rischiando la pelle ogni giorno. Auguri a quei tanti servitori dello Stato che la battaglia alla mafia conti-nuano combatterla. Nonostante tutto. E au-guri a chi cerca di dare un senso ai fin trop-pi misteri sulle stragi di stato e di mafia, sui delitti politici e sugli intrecci fra mafia e politica.

Auguri a chi non ha retto più ed è andato via da questo paese.

Auguri a chi non ha retto più ed è venuto in questo paese e ora paga un prezzo che nessuno dovrebbe pagare.

Auguri a quegli imprenditori coraggiosi che rimangono qui, investono, fanno con-tratti e patti chiari con i lavoratori. Auguri a chi coraggiosamente non esercita ricatti sulla pelle dei lavoratori pagando il prezzo di essere svantaggiato davanti a chi invece esercita una concorrenza scorretta barando sulle regole.

Auguri a tutti quegli scrittori, poeti, artisti, attori e registi, scienziati e ricer-catori, insegnanti e intellettuali che continuano a cre-dere che sia un valore fondamen-tale dare continui-tà alla nostra cul-tura. E, come in trincea, continua-no a lavorare in questo paese.

Auguri a tutte quelle comunità abbandonate da questo governo dopo l’ubriacatu-ra della propagan-da: dai terremota-ti agli alluvionati, da chi si ribella contro “’o siste-ma della monnezza” a chi si batte contro la Tav e il ponte sullo Stretto e contro la deve-stazione della cultura del cemento.

Auguri a chi come noi continua a raccon-tare questo paese. Sui giornali, in televisio-ne, sulla Rete, in radio. Auguri a noi, che continuiamo ad avere il coraggio e la testar-daggine di non arrenderci. Anche se ci ta-gliano fondi e possibilità, ci ricattano, cri-minalizzano e minacciano.

Noi continueremo a stare qui, senza risorse e senza padroni, a fare informazione. A raccontarlo sul serio questo paese. Ne abbiamo bisogno di auguri. Come ne avete bisogno voi che ci seguite.

Pietro Orsattigliitaliani.it

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PREMIO G.FAVA 2011 Scritture e immagini contro le mafie Palazzolo Acreide2-3-4 gennaio 2011 2 GENNAIO 10:30 Aula ConsiliareVISIONI URBANE:SQUARCI DI RESISTENZASonia Giardina, documentarista e giornalista17:30 APA 1991-2011:20 ANNI DI ANTIRACKETPaolo Caligiore, Pres. Associa-zione Anti-racket “Pippo Fava”Leonardo Licitra, Presidente

giovani imprenditori RagusaConfindustria RagusaGiorgio Straquadanio, Libera - Coordinamento RagusaAddioPizzo CataniaFilippo Casella, imprenditore che ha detto no al racketMassimiliano Perna, IlMegafono.orgA seguire:Intervista a Danilo Chirico , giornalista, assoc. “daSud”21:30 via Maestranza 28/30BLOB - Contenitore MultiusoMusica Contro Le MafiePeppe Qbeta/ LaPazziingresso libero

3 GENNAIO 10:30 Aula ConsiliareGRAPHIC NOVEL -L'ANTIMAFIA A FUMETTILuca Ferrara, fumettistaLelio Bonaccorso, disegnatoreLuigi Politano, giornalista16:30 PremiazioneII Concorso scuole G. Fava “Un impegno contro le mafie”17:30 Presentazione del fumetto "Pippo Fava, lo spirito di un giornale"di L. Politano e L. FerraraLuigi Politano, giornalistaLuca Ferrara, fumettistaAvv. Adriana Laudani

18:30 DAL BENE AL MEGLIO:USO SOCIALE DEI BENI CONFISCATI ALLE MAFIEOn. Benedetto Fabio Granata, Vicepresidente CommissioneParlamentare AntimafiaArmando Rossitto, già dirigente scolastico, assessore alla legalità del Comune di LentiniAlfio Curcio, Cooperativa “Beppe Montana” Giusy Aprile. Coordinatrice provinciale Libera Siracusa21:30 via Maestranza 28/30BLOB - Contenitore MultiusoTeatro Contro Le MafieMagma Teatro: I SIcilianiingresso libero 4 GENNAIO 10:30 Aula ConsiliareGIORNALISMO A SUD:FORUM DI INFORMAZIONE LIBERA IN SICILIALavori in corso: UCuntu, StepO-ne, La periferica, I Cordai, Ca-tania possibile, Magma, Il Clan-destino, AdEst - CorleoneDialo-gos, Il Megafono, La Civetta17:30 Aula ConsiliareMISTERI E STRAGI:DA PORTELLA DELLE GINE-STRE ALL'AGENDA ROSSANicolò Marino, sost.Procuratore DDA Procura CaltanissettaClaudio Fava, giornal., scrittoreFrancesco Viviano e Alessan-dra Ziniti, di “Repubblica”Riccardo Orioles, de “I Siciliani”Coordina Pino Finocchiaro di RaiNews24A seguire:"IO HO UN CONCETTO ETICO DEL GIORNALISMO..."Gaetano Alessi, AdEst - Pino Maniaci, TeleJato - Gianluca Floridia, Coord.prov. Libera Ragusa - Gabriella Galizia, Coordinamento FavaCONSEGNA DELV PREMIO GIUSEPPE FAVA/ SEZIONE GIOVANI“Scritture e immaginicontro le mafie”a Gaetano Alessi

5 GENNAIO 17:00 Catania, via G.Fava PRESIDIO ALLA LAPIDE IN RICORDO DI GIUSEPPE FAVA 18:00 Catania, Centro ZoCONSEGNA DELPREMIO GIUSEPPE FAVAai giornalisti calabresi20:30 Catania, CittàInsiemeAssemblea di Lavori in Corsorapporto 2010 e progetti 2011 6 GENNAIO 20:00 Catania,Gapa (v.Cordai)VISIONI URBANE:SQUARCI DI RESISTENZAcon Sonia Giardina

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