StreetBook Magazine #3
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CONTENUTI
RACCONTIIGIUSTISENTIMENTI//FRANCESCABORDONALI//P.6
PIAZZASANLEONARDO//LUCANOTARIANNI//P.12ILVIOLINISTADELDIAVOLO//ALESSIODELDEBBIO//P.16
RINASCITA//VANESSALUCARINI//P.22
CONTENUTI EXTRAPOSTOFFICE//JACOPOAIAZZI//P.21
INDUBBIAMENTE//SIMONEPICCINNI//P.26
ILLUSTRAZIONITHREEFACES//MARCOFRANCO//P.2REMEMBER//GIULIABRACHI//P.4IGIUSTISENTIMENTI//BRUCIO//P.7S.O.S.//LAPOBAMBINI//P.10THEUNUSUALSUSPECT//MARCOCASTELLI//P.15ILVIOLINISTADELDIAVOLO//MARCOFABRI//P.17RINASCITA//ELISABURACCHI//P.23ESELUNGOILVIGNETO//FEDERICOBRIA//P.25
FOTO & GRAFICADIAVIOLINO//NICCOLÒGAMBASSI//COVERSENZATITOLO//BENEDETTABENDINELLI&MATTEOCAVALLARI//P.9
EDITORIALE & POESIEEDITORIALE//THREEFACES//P.5F.15//M.E.P.//P.11ESELUNGOILVIGNETO//VALERIOORLANDINI//P.25
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e d i t o r i a l e
Questo numero di StreetBook Magazine, come quelli precedenti, non è stato dotato
di un tema specifico. Un po’ perché pensiamo sia giusto che i racconti, le illustrazioni
e le fotografie si sviluppino autonomamente come ciuffi d’erba in un prato d’asfalto, un
po’ perché le strade già tracciate sono spesso le meno interessanti. Ed è proprio dalle
Scritture da Strada, il nostro concorso letterario, che abbiamo tratto i testi che troverete tra
le pagine di questo numero.
La nostra strada è un brulicare di reticoli nascosti, diversi, composti da mille sfaccettature
e significati: la strada è come un percorso di vita, condensato nel raffronto tra i tanti inverni
passati da un nonno e le poche primavere vissute dalla nipotina ne I giusti sentimenti;
oppure, assumendo una connotazione più fisica e comunemente intesa, è come la piccola
via cittadina che conduce (o conduceva?) il giovane Pietro fino a Piazza San Leonardo, per
giocare al pallone con gli amici e per sfatare qualche luogo comune proprio degli adulti.
Una strada che può essere fatta di asfalto, acqua, aria e, perché no, anche di ingiurie
e offese, come la lettera Caro Samir contenuta nella rubrica Post Office; o ancora, quella
tracciata per unire l’aldilà con l’aldiquà, imboccata da Matteino ne Il violinista del Diavolo.
Oltre a quella della morte, un’altra strada che non possiamo evitare è quella diretta verso la
nostra interiorità: un percorso intimo e rivelatorio, come in Rinascita. Può anche succedere
che la strada imboccata si riveli essere completamente sbagliata, soprattutto quando si
cerca di raccontare l’ambiente esterno sottraendosi ai suoi più naturali stimoli, come in
Breve storia quasi inventata di un’invenzione mai decollata: l’Isolatore, in questa puntata
di Indubbiamente.
Insomma, che ci piaccia o no, ognuno di noi è impegnato a percorrere una e più strade;
il riuscire o meno a percorrerle dipende soltanto dalle scarpe che s’indossano. E mentre
scegli quelle più adatte per intraprendere il tuo cammino, ricorda:
Lotta, leggi, pensa, vivi. Non estinguerti.
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Dallamentedi//FrancescaBordonaliIllustrazionedi//MarcoDegl’Innocenti
Voglio morire con i giusti sentimenti.
Mio nonno aveva gli occhi persi nel vuoto mentre
lo diceva.
Uomo massiccio, uomo di mondo, aveva fatto
la guerra. Ora sembrava sbagliato chiamarlo
vecchio. Ottantaquattro anni, addosso a lui, erano
come un vestito classico, mai fuori moda. Le
note del tempo lo attraversavano e ne uscivano
amplificate, soavi all’ascolto.
Io avevo undici anni e la speranza nel cuore.
La giovinezza mi regalava una spensierata
superficialità, anche se poca è quella concessa al
sesso femminile a quell’età. Portavo i calzoni corti
e giocavo con i miei cugini nei campi, ma non
quel giorno. Quando il nonno disse quella frase
ero l’unica ad ascoltare. Eravamo due facce di una
medaglia: non ci eravamo mai visti davvero.
Mia nonna è morta a centotré anni, con i giusti
sentimenti, mangiava polenta fredda e saliva le
scale, continuava mio nonno. Uomo che era stato
attraversato dalla guerra e da due infarti. Non
aveva lasciato che lo ferissero, era rimasto alto
e fiero. Tutto si era trasformato in racconti per i
suoi nipotini maschi. Lui, terzo di undici fratelli,
rivolgeva ora queste parole a me.
La fanciullezza mi avrebbe permesso di ridere
alla frase del nonno, ma l’indole sensibile mi
portava a ripensarci prima di far trapelare una
risata sciocca. Il mondo fuori guardava immobile,
come solo a ferragosto è capace di fare. Il suono
delle sue parole mi entrava nelle orecchie, ma la
mia mente non era sicura di aver capito e stava
in silenzio.
Anche io voglio morire così, con i giusti sentimenti,
diceva. Mio nonno per vivere avrebbe voluto
cantare, ma le sue mani deformate raccontavano
che non aveva potuto. Ora la sua voce era quella
di un vecchio, solo più dolce. Cantava canzoni
napoletane e di chiesa, usando la voce e il cuore.
La guerra gli aveva portato via ogni possibilità di
scelta. Non aveva mai desiderato combattere, se
non per i propri sogni, e la lirica sarebbe stato un
bel sogno per cui combattere.
Uomo tenace e uomo d’azione. Io, bimba gracile
fin dalla nascita. Al nonno piaceva raccontare
ai nipotini come faceva ridere i compagni al
militare. Mi avvicinavo per ascoltare, ma mia
nonna mi prendeva per mano per portarmi con
sé. Mi faceva conoscere le erbe e decorare i dolci.
Mio nonno mostrava ai nipoti maschi la foto di lui
sul carro armato, da giovane, un sorriso amaro
sul volto ancora di fanciullo. Un sorriso ancora
più amaro sul suo volto anziano. Io guardavo di
nascosto la stessa foto durante la notte, quando
nessuno poteva vedermi. Immaginavo le storie
che non mi era concesso ascoltare.
Il nonno mi voleva bene. A volte vedevo i suoi
occhi bagnarsi quando mi guardava. Mi portava
alla fiera e mi comprava le caramelle. Non parlava,
ma so che mi voleva bene. Era un uomo tutto
d’un pezzo e a quelli come lui non è concesso
confessare certe debolezze.
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Mio nonno era un uomo buono. La religione gli
aveva insegnato a rispettare sempre il prossimo.
La cultura del suo paese gli aveva insegnato
che il genere femminile è diverso e come tale
va trattato. Mio nonno voleva bene alla sua
unica nipote, ma con lei certe cose non pensava
di poterle condividere. Le sue memorie non
potevano essere affidate ad una bimba. Forse per
discriminazione. Forse per ignoranza. Forse, in
fondo, per proteggerla.
Le memorie di mio nonno erano orrore, sofferenza,
sacrificio. Una bimba per lui doveva pensare a
bambole, vestiti e fiori. I nipoti maschi invece
dovevano sapere. Preferiva non immaginare
un destino di dolore per la nipotina. Per i nipoti,
invece, il triste destino era un’eventualità.
Perché il nonno non mi racconta mai le storie?,
chiedevo a mia nonna. Lei mi dava una carezza
e diceva che lui sa parlare solo di cose da
uomini. Sedevamo assieme ad un grande tavolo
preparando i ravioli per il pranzo. Io seppellivo
la sofferenza dentro di me, senza riuscire
a comprenderne completamente la causa e
incapace di chiedere spiegazioni.
Voglio morire con i giusti sentimenti. Ormai
abituata a non essere interpellata da mio nonno,
rimasi in silenzio, di fronte a quella frase. Lui non
mi guardava. Guardava le foglie fuori, immobili
e indifferenti. Loro non si curavano delle nostre
vite, troppo occupate a risplendere al sole.
Pensavo di aver capito ma di non aver diritto a
ulteriori spiegazioni. Le sue parole erano perfette
così come erano.
Mio nonno aveva viaggiato per anni con questo
segreto. Aveva provato ad affidarlo lungo il
cammino a un amico, a un parente o alla sua
anima gemella. Non ci era riuscito. Aveva iniziato
a pensare che sarebbe stato sepolto assieme
alla sua confessione. Vide in me qualcosa. Il
mio sguardo non accusava. Le mie parole non
giudicavano. Non possedevo la tipica crudeltà
della fanciullezza. Io ero una culla in cui adagiare
con delicatezza il suo segreto. Quando lo fece, lo
accolsi come il bene più prezioso del mondo. Non
capivo il senso delle sue parole ma avevano scelto
me e niente poteva rendermi più felice, allora.
Anni dopo capii cosa aveva voluto dire. Giusti
sentimenti: voleva esserci. Fino al suo giorno
di addio lui voleva essere se stesso. Come sua
nonna che mangiava polenta fredda e saliva le
scale. Azioni simbolo di una consapevolezza di
sé sufficiente a una morte serena. Nel suo ultimo
giorno voleva baciare sua moglie, salutare i figli e
abbracciare i nipoti. Io l’avrei guardato negli occhi
e lui questa volta avrebbe ricambiato lo sguardo.
Visto? Ce l’abbiamo fatta. Questa sarebbe stata la
frase complice scambiata in silenzio. Nel giorno
peggiore saremmo stati uniti, per darci forza.
Questo sarebbe stato il nostro lieto fine.
Il nonno, sdraiato nel letto, aveva un corpo magro e
due occhi vuoti. Un mostro aveva divorato la mente
e la dolcezza. Non cantava più, mio nonno, ma io
quando lo guardavo sentivo ancora l’armonia della
sua voce. Non sapeva il mio nome e forse neanche
il suo. Quando mi lasciò, mio nonno non aveva i
giusti sentimenti e io ero l’unica a sapere che
quello era stato il desiderio più grande della sua
vita. Un desiderio che aveva affidato in custodia
alla sua unica nipotina femmina.
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Pietro attraversa piazza San Leonardo dalle tre
alle quattro volte al giorno: la mattina per andare
a scuola, all’ora di pranzo quando rientra in casa
e il pomeriggio per giocare a pallone. Piazza San
Leonardo sorge ai piedi della stazione ferroviaria
di un piccolo paese in provincia di Roma,
esattamente tra i binari del treno e un pezzo di
fiume che scorre lento. Una lunga discesa d’asfalto,
una rotonda, l’inizio di un’antica villa romana e la
strada principale del paese disegnano i contorni
di questa piccola e storica piazzetta. Di storico,
in senso artistico e architettonico, ha ben poco.
È storica in senso umano. Una materia che non
s’insegna in nessuna università, figuriamoci
nella scuola media dove va il piccolo Pietro. Il
ragazzo passa sempre attraverso la piazza
per guadagnare tempo, perché è più comodo;
per evitare di attraversare la strada principale,
dove passano troppe macchine e a volte bisogna
aspettare anche cinque minuti. Per un ragazzo di
dodici anni cinque minuti durano anche ore. Non
si può perdere tempo a quell’età.
Pietro attraversa la piazzetta anche al ritorno da
scuola, anche se è in salita; anche d’estate, per
fermarsi qualche minuto prima di rientrare a
casa, a prendere un po’ di vento sotto l’ombra di
uno dei faggi che si ergono all’interno di quello
sputo trapezoidale. Il pomeriggio, invece, va con
i suoi amici a giocare a calcio, a fare la tedesca.
Come porta usano lo spazio tra due panchine
mezze rotte, nell’angolo dalla parte della ferrovia,
perché dall’altro è più facile che il pallone finisca
in strada o, peggio, direttamente nel fiume. A
dodici anni perdere un pallone è come perdere
il lavoro.
Pietro e i suoi amici non sono gli unici abitanti
di quella piazzetta. I suoi genitori, in realtà, non
Dallamentedi//LucaNotarianniIllustrazionedi//ChiaraPiccinni
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sono felici che passi del tempo lì e non fanno altro
che rimproverarlo: - Non andare a giocare in quel
posto, vai da un’altra parte, c’è la villetta comunale
che è più grande -. È vero, la villetta comunale
è più grande, ma è anche più lontana, ci sono i
bambini più piccoli rompiscatole e i genitori che
si lamentano perché i ragazzi giocano a pallone.
Questo è il più grande mistero per Pietro: gli
adulti che urlano perché i ragazzi giocano. - Non
sei mai stato piccolo tu, papà? -, risponde spesso
Pietro ai rimbrotti del genitore.
La piccola piazza sotto la ferrovia, invece, è
perfetta. Vicina, larga quanto basta e gli adulti che
la frequentano non si lamentano. Ogni tanto, anzi,
fanno anche loro due tiri a pallone, oppure se ne
stanno lì a sbrigare i loro affari, senza rompere.
Sono loro, però, il motivo per cui i genitori di
Pietro non vogliono che frequenti quella piazza.
Eroinomani e alcolisti, di quelli vecchio stampo.
Di quelli che avevano portato le sostanze
stupefacenti negli anni Ottanta in quel paesino
della provincia romana. - Non parlare con loro, se
ti rivolgono la parola, non rispondere e scappa, se
trovi qualche siringa per terra, non raccoglierla e
chiama i carabinieri -, ripete incessantemente il
padre del ragazzo. A Pietro viene spesso da ridere
nell’ascoltare queste raccomandazioni. Agli occhi
dei genitori sembra che ogni volta vada a giocare
in un campetto nel basso sud dell’Afghanistan,
durante i bombardamenti americani. Per lui,
come per quasi tutti i bambini, la cosa è molto più
semplice: Pietro vuole divertirsi, i suoi genitori
fanno di tutto per impedirglielo, i “drogati” della
piazzetta no, quindi poco gli importa di quello che
dice suo padre. Cosa può capirne quell’adulto di
quarantacinque anni che vorrebbe mandarlo
a giocare nella villetta comunale in mezzo ai
poppanti. Tifa anche per la Roma, mentre Pietro
è laziale. - Daje Lazio -, come esclama spesso
uno degli abitanti della piazza. Il più simpatico.
Un signore di cinquantatré anni, con i capelli
ancora un po’ lunghi e totalmente bianchi. Sempre
sorridente. Ha cinquantatré anni, ma ne dimostra
almeno dieci di più. Sarà il sole preso in piazzetta
che gli avrà invecchiato la pelle, pensa Pietro.
Tutti lo chiamano Luc, anche se il suo vero nome
è Franco. Ogni tanto riesce a scambiarci qualche
parola: - Perché ti chiamano Luc? -, gli chiese un
giorno Pietro.
- Ah Piè, perché dicono che sò bello, che sembro
n’attore. Luc Merenda! -, rispose Franco, con il suo
solito sorriso accattivante.
Luc Merenda era un attore, piuttosto belloccio,
protagonista di molti film polizieschi degli anni
Settanta in Italia. Come Maurizio Merli. Sparatorie,
bande di gobbi, mitraglie, attentati, inseguimenti.
Insomma, quel genere di film che piace anche al
padre di Pietro, con quelle musichette accattivanti
che invece piacciono al giovane ragazzo. Luc
Merenda sparava, inseguiva, andava in prigione,
prendeva i cattivi, faceva a pugni. Un bel tipetto.
Franco lo chiamano Luc, non perché spara e
fa a pugni, piuttosto perché è bello come quel
protagonista cinematografico. Luc Merenda
trivellava di colpi in nome della giustizia, per
vendette private, ma era un attore, non avrà
mai varcato neanche per sbaglio le porte di una
prigione. Luc/Franco non ha mai preso in mano
neanche una pistola giocattolo, forse una volta
avrà tirato una pizza in faccia ad un suo amico,
perché faceva lo stronzo. Luc/Franco è stato
quindici anni in carcere ed ha preso anche un
sacco di botte.
- Eh! Ah Piè, in carcere ce sò finito perché nun
ho mai fatto l’infame. Gli amici m’hanno lasciato
solo, ma nun lo sanno che ‘a coscienza mia m’ha
sempre fatto compagnia. Ricordate Piè, gli altri
sò stronzi, te potranno sempre tradì, ma se sei
onesto cò te stesso non dovrai mai vergognarti de
guardatte allo specchio, e quanno te piace quello
che vedi nello specchio, quell’immagine te la puoi
guardà per tutta la vita. E devi vedé come te fa
compagnia, Pietro mio! -.
Sono circa due settimane che Pietro non passa
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in piazzetta. Il padre lo accompagna a scuola
in macchina tutti i giorni, lo va a prendere e il
pomeriggio gli vieta di uscire. Quindici giorni fa
hanno trovato delle siringhe nella piazza e una
bambina stava per pungersi. Un gran casino.
Carabinieri, polizia e il padre di Pietro che di
conseguenza impedisce al figlio di andarci.
Drogati di qua, drogati di là, che fine ha fatto
questo paese?, ripete in continuazione al figlio
stanco di ascoltarlo. Nell’animo del ragazzo sale
una rabbia fortissima. Non capisce come il padre
possa dispensare giudizi così velocemente, lui
che non ha mai parlato con nessuno in quella
piazza, che non sa neanche perché Franco lo
chiamano Luc. Pietro non riesce a capire come il
padre abbia così a cuore non farlo uscire piuttosto
di rendersi conto che da più di un mese non gli
chiede come sta. Luc, invece, gli chiedeva sempre
com’era andata a scuola e se faceva bene i compiti.
Luc cacciava dalla piazzetta gli altri adulti che
sporcavano e lasciavano cose in giro, urlando -
Ah pezzi de’mmerda, qua ce stanno li ragazzini,
annate da n’artra parte a fa ‘ste porcate -. Sarà
stato anche un delinquente Luc, ma in qualche
modo Pietro lo vedeva buono, gli appariva come
una persona che tiene a qualcosa. A differenza
del padre.
Oggi Pietro ha disubbidito al divieto. Lui e i suoi
amici, dopo quasi tre settimane, sono passati in
piazzetta. Stupidi adulti, ancora non hanno capito
che imporre un divieto è il miglior modo per
spingere a infrangerlo. Sulla solita panchina è
seduto Luc. Oggi sembra un po’ più scuro in volto,
un po’ triste. Pietro gli fa un cenno con la mano e
lui lo chiama insieme agli amici: - Ah belli, venite
n’attimo. Tiè, pijateve sta caramella! È bona, è
all’anice. A noi gente de strada ce piace perché ce
rinfresca la bocca. Ah Piè, me raccomando però,
nun te la magnà subito. Conservatela. Magnatela
quanno te voi toglie ‘no sfizio. Quanno sei triste e
te voi tirà su. Oppure quanno hai fatto qualcosa de
bello e te voi regalà un premio. Daje Lazio! E mo’
annate a studià -.
Che strano personaggio Luc. Non aveva neanche
accennato al perché quei ragazzi non si fossero
fatti vedere per tutto quel tempo. È come se
sapesse il motivo e non volesse metterli in
difficoltà. Gli amici di Pietro, voltato l’angolo, hanno
subito gettato le caramelle, dicendo che sarebbero
potute essere piene di droga. Il ragazzo, invece,
ha conservato la sua in tasca.
Il giorno dopo, sempre disubbidendo, Pietro
ripassa in piazzetta. Come al solito i suoi genitori,
dopo qualche ramanzina, si stancano subito
anche di imporre divieti. Passando si accorge
che Luc non c’è. Sente una sensazione strana. È
forse la prima volta da mesi, da anni, che Pietro si
accorge che Luc non è seduto su quella panchina.
È la prima volta che vede la piazzetta senza di lui,
eppure anche altri giorni sarà mancato. Strano.
Avrebbe voluto mangiare la caramella davanti a
lui oggi, per mostrargli che non aveva paura come
tutti gli altri.
Luc oggi non c’è, perché è morto ieri sera. Da solo,
d’overdose di eroina. Nessuno ha visto niente,
nessuno sa niente. Era stato quindici anni in
prigione per non aver parlato, mentre tutti gli altri
lo avevano incastrato. Adesso è morto, sempre
senza parlare, e gli altri, che imparano le lezioni a
modo loro, hanno deciso di stare zitti. Tradito sia
da vivo che da morto, il povero Luc. Non lascia figli,
non lascia soldi, solo una branda in uno scantinato
di una vecchia osteria.
Pietro va a scuola in silenzio, rigirando con la
mano, per gioco, la caramella nella tasca del
pantalone. Ignaro della morte di quello strano
personaggio. Ignaro di possedere, nelle sue mani,
il più grande tesoro che un uomo possa lasciare in
eredità. La sua umanità.
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Dallamentedi//AlessioDelDebbioIllustrazionedi//MarcoFabri
Matteino voleva fare il violinista. C’era poco che
sua madre potesse dire o fare, lui proprio non
sembrava ascoltarla e più gli dava addosso più lui
prendeva il violino e cominciava a strimpellare,
catturando l’attenzione degli abitanti di Terrinca.
Succedeva sempre così: qualunque cosa stessero
facendo, tutti in quel momento si fermavano e
alzavano la testa, prestando orecchio alle note che
il violino di Matteino diffondeva nell’aria.
Erano tempi bui quelli, soprattutto nei paesini
dell’Alta Versilia. Se il clima era stato inclemente,
i raccolti potevano essere seccati o spazzati via,
per cui i contadini dovevano sempre stare all’erta
e non perdere tempo in sciocchi diletti. Motivo
per cui dopo poco tempo in paese Matteino non
fu più voluto.
- Smettila di suonare e vieni ad aiutarci nei
campi! -, divenne l’opinione popolare. Ma per
quanto la sua povera madre provasse, pregasse e
si prostrasse, il ragazzo non ne voleva sapere. Lui,
a rufolare nei campi, non ci voleva andare.
- Maledetto quel giorno che ti portai a Retignano-,
diceva sempre la donna, riferendosi a un viaggio
intrapreso anni addietro verso un paese vicino,
quando, durante una tempesta, erano stati
costretti a trovare riparo in una grotta presso
Levigliani. Una grotta da cui gli abitanti del luogo
si tenevano a distanza non soltanto perché era
tenebrosa, ma perché di notte ne uscivano vampe
di fuoco, urla inquietanti e zaffate di zolfo, da far
credere ai più che fosse l’anticamera dell’inferno.
Ma Matteino di bagnarsi non aveva voglia, così
aveva afferrato la madre e il loro mulo e li aveva
trascinati in quella grotta, faticando non poco per
convincere entrambi, con la donna che aveva
scalciato quasi più della bestia, affatto desiderosi
di trascorrervi la notte. Ma le insistenze del
giovane e l’alternativa di rimanere all’addiaccio
avevano vinto i loro timori, costringendoli infine
a calmarsi.
- Non c’è nulla da temere -, aveva detto Matteino,
quindi, voltandosi verso il fondo della grotta, aveva
gonfiato i muscoli e urlato: - Diavolaccio, dove sei?
Questa grotta è fredda e buia, ma a me proprio non
fa paura. A casa brucia un bel focherello, anche
per te se non fai il monello! -.
In tutta risposta, dal fondo dell’anfratto era
sortito uno sbuffo di fumo, strappando un grido
alla donna e al mulo, poi nient’altro. Ciò aveva
convinto il giovane che fossero tutte favole. Così
si era disteso, riparandosi con la mantella, e
aveva invitato i recalcitranti compagni di viaggio
a fare altrettanto. Al mattino, a burrasca passata,
si erano preparati per ripartire, avvedendosi
soltanto allora di un sacco abbandonato in una
rientranza della caverna. Matteino l’aveva
scosso con un bastone, temendo vi fosse qualche
animale, incontrando soltanto qualcosa di duro.
Era un violino, vecchio ma ancora in buono stato,
avvolto in una tela di canapa.
Incurante degli strilli della madre, che accusava
il diavolo di averlo lasciato per lui, Matteino lo
aveva preso con sé, dando poi una sculacciata al
mulo e avviandosi per tornare a Terrinca. Da quel
giorno la sua vita era cambiata e aveva smesso
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di occuparsi degli affari di famiglia, come della
povera madre che, vedova e con un solo figlio,
faticava a tirare avanti. Tutto quello che Matteino
desiderava era suonare il suo strumento.
Lo suonava sempre, in casa e per strada, alle feste
del paese o ad ogni occasione gli si presentasse.
All’inizio chiedeva soldi, poi iniziò a esibirsi anche
gratis, travolto da un desiderio incontenibile
di suonare, dichiarando di sentirsi appagato
soltanto con l’archetto in mano e le corde che
vibravano al ritmo della sua musica. E la musica
ai paesani piaceva pure, abituati com’erano a
sentire ben pochi suoni: il muggire delle mucche,
il chiocciare delle galline e l’ululato del vento. Ma
poi, piano piano, una lenta inquietudine iniziò a
diffondersi, quando gli abitanti si accorsero che
le galline davano meno uova, il latte delle mucche
veniva cagliato, la frutta sugli alberi tendeva a
marcire troppo in fretta e le verdure faticavano
a maturare. La risposta unanime fu che la colpa
era di Matteino e del suo maledetto violino, che
distraevano i paesani e gli animali dal loro lavoro.
Qualcuno giunse addirittura a sussurrare (ma fu
solo un sussurro, perché il diavolo non doveva
sentirlo o se la sarebbe rifatta su tutti loro!) che il
violino fosse maledetto e la sua musica deleteria
per chiunque la udisse. Così, un po’ con la minaccia
di zappe e forche, un po’ con le suppliche, la madre
di Matteino si ritrovò a implorarlo di mettere via
quel diabolico strumento, ma non ottenne altro
risultato che un’occhiata scocciata. Poi, datole le
spalle, il figlio impugnò l’archetto e cominciò a
suonare.
In quel momento, la folla assiepata fuori dalla casa
udì un tuono, ma il cielo era terso e nessuno capì
da dove provenisse. Forse dal mare o dalla piana
di Lucca? Fu quando Matteino fece vibrare di
nuovo le corde che un secondo tuono riecheggiò
e stavolta fu chiaro da dove venisse. Non dal cielo,
bensì dalla terra, che si mosse facendo tremare
le case attorno, disperdendo in fretta gli impauriti
paesani. Esausta e sconvolta, la madre crollò a
terra perdendo i sensi, ma il ragazzo nemmeno
se ne avvide, preso com’era dall’eseguire una
nuova sonata. Neppure s’avvide dell’unico che
non era fuggito: un giovane dai capelli biondi e
impomatati lo osservava appoggiato a un palo
della veranda, lisciandosi il bel vestito nero e
carezzandosi il pizzetto. Sogghignò soddisfatto,
rimanendo qualche minuto in ascolto, prima di
svanire in una nube di zolfo.
Quella notte, disteso nel suo giaciglio, Matteino
udì una voce. No, realizzò prestando orecchio,
non una, bensì una moltitudine. C’erano tante voci
di giovani che ridevano e cantavano, e li vedeva
ballare davanti a un falò, lamentandosi del fatto
che nessuno tra loro sapesse suonare davvero
bene. Quando si svegliò, con ancora in testa tutte
quelle voci, Matteino prese il violino, lo avvolse nel
sacco di canapa e uscì, avviandosi lungo un’erta
mulattiera che saliva sui monti vicini. Lo videro
in pochi, e quei pochi si scansarono, rimanendo a
osservarlo finché la sua sagoma non sparì dietro
un curvone, pregando per quel figlio scapestrato
e la sua povera madre.
A quelle preghiere Matteino non diede peso,
spingendo le gambe su lungo il sentiero, senza
sentire né fatica né fame, deciso a trovare il luogo
dove erano in corso quei festeggiamenti, chiamato,
quasi attirato, da una melodia che dal mattino non
aveva smesso di solleticargli i sensi e che, ad
ogni bivio, gli indicava la giusta direzione. Vide
numerose marginette lungo la mulattiera, ma non
le degnò neppure di uno sguardo, fermandosi
soltanto a una polla d’acqua per rinfrescarsi il
viso e bere un po’. Senza essere scorto, a seguire
Matteino, vi era il giovane ben vestito il quale,
ridacchiando in silenzio, si fermò alle marginette
per pisciarci sopra.
Poco prima del tramonto Matteino raggiunse
un ampio spiazzo in mezzo al bosco, dove
infine si fermò sedendo su un tronco d’albero e
asciugandosi la fronte. Aveva camminato per ore
e adesso la stanchezza e la fame lo aggredirono,
ma si ricordò di non aver portato niente con sé.
Tastando la giacca trovò un pezzo di focaccia con
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le olive che sua madre doveva avergli messo in
tasca il giorno prima, quando se ne era andato
a suonar per i campi. Intristito, capì di averla
bistrattata ingiustamente e si promise che, al
suo ritorno, le avrebbe chiesto perdono. Tolse lo
strumento dalla tela e lo pulì, accordandolo, per
poi concedersi una sonatina prima che il sole
scomparisse nel mare lontano. Ma non appena
l’archetto sfiorò le corde decine di lumini si
accesero attorno a lui apparendo dal bosco e
divenendo sempre più grandi, fino a permettergli
di individuare una trentina di persone.
- Non andare. Resta! -, disse qualcuno, sebbene la
voce risuonasse nella sua testa. - Suona per noi! -.
Matteino capì che erano coloro che gli erano
apparsi in sogno e fu certo di essere nel posto
giusto. Così mise da parte la spossatezza e iniziò
a suonare per far ballare i giovani, e il bosco
risuonò delle loro urla festose. Al ragazzo parve
addirittura di vedere le fronde scuotersi a ritmo
di musica, i rami allungarsi verso di lui, le foglie
danzare attorno al gruppo festoso.
Quasi non si accorse del sopraggiungere della
notte.
- Ora basta, ragazzo! -, gli disse uno dei ballerini,
ore dopo. - Siamo stanchi. Basta così! -, ripeté,
ma Matteino non smise e l’uomo continuò a
ballare, percuotendo il terreno con passi che con
l’avanzare dell’oscurità erano diventati sempre
più veloci, al punto da sfinire i ballerini. - Ti prego!
Smetti di suonare! -. Ma Matteino non riusciva a
staccare la mano dall’archetto, il quale continuava
a scivolare su e giù lungo le corde, aumentando
persino l’intensità dei toni, continuando a far
ballare quel gruppo che, da festoso com’era,
divenne un coro di dannati che urlavano,
supplicavano e maledicevano quel giovane.
- Io… -, riuscì infine a dire Matteino, - non riesco
a smettere! Non so come fare! -, confessò di
fronte agli sguardi spaventati dei ballerini. - E
non devi, mio buon amico -, parlò allora una voce
risuonando per l’intera radura, prima che vampe
di fuoco si sollevassero rischiarando il bosco e
tra esse comparisse il giovane ben vestito. Ma
né gli abiti né la sua aria distinta riuscirono a
coprire l’odore di zolfo, né a mascherare il ghigno
perverso che gli deformava la bocca, permettendo
a tutti di capire chi fosse.
- Hai fatto un bel lavoro, te ne do atto. Da tempo
desideravo scoprire dove si riunissero gli ultimi
streghi. E oggi, finalmente, porrò fine alla loro
esistenza. Che gran divertimento ucciderli a
passo di danza! -, ironizzò il diavolo, con un sorriso
mellifluo. Quindi, prima che qualcuno potesse
replicare, si sciolse in una vampata scarlatta
che subito si allungò in molteplici direzioni,
travolgendo il gruppo di streghi, stritolandoli e
divorando i loro corpi, mentre Matteino, impotente,
continuava a suonare e così facendo inibiva i loro
poteri. - Eh sì, ti ho usato -, ridacchiò il diavolo,
balzando da un corpo all’altro in un turbinar di
fuoco e fetidi venti. - Ma non prendertela, in fondo
ti ho dato quel che volevi, no? Esibirti di fronte a
un pubblico che ti apprezzasse. Oh, io so bene
cosa vogliono gli uomini. Gloria e onori. Perciò
prenditeli, sono generoso, non come quei villici
che non sanno apprezzare la buona musica -, e
nel dirlo piombò su un altro strego.
- Smetti… di suonare… -, riuscì quest’ultimo
a mormorare prima di ardere nelle fiamme
infernali. E Matteino avrebbe davvero voluto farlo,
ma come poteva? Era il diavolo a guidare la sua
mano. Lui gli aveva lasciato il violino, lui aveva
voluto che imparasse a suonarlo, per portarlo lì a
bloccare con quel requiem di morte il potere degli
streghi, i coraggiosi Signori dei Boschi che da
secoli proteggevano la natura e le Montagne della
Luna. Gli streghi, a cui anche sua madre lasciava
offerte sperando nella loro benedizione sui campi
e negli orti. Gli streghi, che avevano curato una
brutta febbre che l’aveva colpito dopo un bagno
nel torrente. E ora lui, con la sua ingordigia e la sua
indolenza, li stava condannando all’estinzione.
- No! -, trovò infine la forza di urlare, gettando via
l’archetto e facendo sprofondare la radura in un
irreale silenzio.
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i caduti. Innalzarono una pira per bruciarli,
servendosi anche del vecchio tronco su cui
Matteino si era seduto per accordare il violino,
e soltanto allora videro che in mezzo alla stoffa
bruciacchiata c’era un pezzo di pane.
- No, è una focaccia -, disse uno strego odorandola.
- Ripiena d’amore -.
Così, quella notte, gli streghi portarono la focaccia
a casa della madre, lasciandogliela sulla soglia,
e lei, vedendola, capì e pianse. La tenne stretta
quando dormì e voci dicono che continuò a
tenerla con sé per molto tempo. A volte la metteva
alla finestra e quando il vento dal Monte Corchia
o dall’Altissimo soffiava forte, passando tra i
buchi nella focaccia o nelle olive traforate, le
sembrava di udire il fischiettare di una melodia.
E immaginava Matteino lì, a suonare il violino e a
vegliare su di lei.
- Oh, pare tu abbia rifiutato il mio dono. Sei un
discoletto -, lo redarguì il diavolo, assumendo
nuovamente forma umana e avanzando verso di
lui in una nube di zolfo e fiamme. - Ma tornerai
presto a suonare -, e nel dirlo fece schioccare le
dita, permettendo all’archetto di tornare in mano
a Matteino. - Me lo devi, non credi, dopo che ho
realizzato il tuo sogno -.
Il giovane lo guardò confuso, mentre il diavolo gli
poggiava una mano su una spalla fissandolo con
occhi di brace, poi annuì. Gettò un’ultima occhiata
ai pochi streghi superstiti (che adesso non gli
sembravano più dei giovani festaioli ma degli
uomini di mezza età vestiti in lunghi sai marroni)
e sospirò.
- Tutto quello che ho avuto… tutto quello che
credevo di avere... è stata un’illusione. Un inganno
e niente più -, disse, conficcando l’archetto nel
cuore del diavolo e osservandolo bruciare. Poi,
mentre il temibile avversario si riprendeva dalla
sorpresa, sollevò lesto il violino e lo spaccò contro
il tronco dell’albero.
- Vile! -, ringhiò allora il diavolo, con i tratti del
volto deformati da renderlo più simile a un mostro
che non al bel giovane elegante con cui amava
mostrarsi. Lo afferrò, ustionandogli la pelle e, per
quanto si divincolasse, lo scaraventò a terra.
Gli streghi tentarono di intervenire, ma il diavolo
li tenne a distanza con un muro di fiamme,
per poi divenire anch’egli un’immensa vampa
rossastra che sibilò nell’aria per qualche istante
e si infilò nelle narici di Matteino, diffondendosi
in tutto il suo corpo. Tremò, il giovane violinista,
mentre le vene si ingrossavano, luccicando come
magma ardente, ed esplodevano, incendiandolo
dall’interno. Quando gli streghi riuscirono a
raggiungerlo, di lui non era rimasto niente,
soltanto i resti bruciacchiati dei vestiti e una nube
tossica che si disperse all’istante, non prima di
aver emesso quella che ai loro orecchi parve una
macabra risata di trionfo.
- Tornerò -, ricordò loro il diavolo in un sussurro.
Si erano salvati in cinque e adesso piangevano
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Post OfficeDallamentedi//JacopoAiazzi
Caro Samir,
Recenti vicende mi hanno riportato alla memoria ricordi di un passato lontano,
di cui sento il bisogno di scriverti. Come forse saprai vengo dalla realtà di un
piccolo paese in cui, all’epoca di quando ero ragazzino, c’era soltanto una scuola
e tutti conoscevano tutti. In quel periodo la mia famiglia non se la passava troppo
bene: mia madre aveva subìto un aborto spontaneo ed era caduta in una profonda
depressione che la costringeva a girovagare di notte per le strade, in vestaglia e
pantofole, barcollante e triste come uno spettro. Una sera, durante una di queste
sue frequenti passeggiate notturne, venne vista da un mio compagno di classe e
il giorno dopo questo disse in giro che mia madre era una prostituta per barboni
e che da loro aveva contratto pulci e malattie di ogni genere. Era sempre stato un
ragazzino molto simpatico; gli bastava prendere in giro un altro compagno per
far ridere tutta la classe.
Le altre volte ridevo, ma questa no. Mia madre non era davvero una prostituta,
non aveva pulci né malattie strane. Mia madre stava male!
Credimi, Samir, non sai quanto avrei voluto picchiarlo per togliergli dalla sua
arrogante faccia di merda quell’espressione di superiorità, distruggergli la
bicicletta nuova, avvelenargli il cane, farmi saltare in aria insieme a tutti quegli
stronzetti divertiti dalle offese che quel gran bastardo riservava a me e a mia
madre. Avevo paura, lo ammetto, perché quel ragazzino era decisamente più
grosso di me ed io non ero abituato a certe situazioni. Feci passare qualche
settimana, nella speranza che la cosa terminasse così com’era iniziata, ma ciò
non successe. Quel ragazzino continuò imperterrito e decisi infine, sull’orlo
dell’esasperazione, di parlarne con mio padre. E sai cosa mi rispose? Forse
non ci crederai, Samir, ma mio padre disse che non sarebbe servito a niente
picchiarlo: mia madre sarebbe rimasta depressa ed io sarei diventato per tutti
un violento. Meglio lasciar perdere, rispose mio padre, perché in ogni nucleo
di persone, che sia popolo o gruppo più piccolo, esiste lo stronzo. Se non riesci
a vederlo, probabilmente lo stronzo sei te, disse. Qualche mese dopo quel
ragazzino si beccò la mononucleosi, quella che noi, da adolescenti quali eravamo,
scioccamente chiamavamo la malattia dei sudici e, ti lascio capire il perché, da
quel momento il ragazzino smise di fare lo stronzo.
Ti saluto, Samir, augurandoti di realizzare i tuoi sogni, che siano raggiungere le
nostre coste o cambiare il tuo paese.
Mia madre, per quando verrai, preparerà i suoi biscotti migliori.
Un abbraccio
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Dallamentedi//VanessaLucariniIllustrazionedi//ElisaBuracchi
Una breve sosta ricognitiva e le decolleté si
mettono nuovamente in moto verso un bancone
costellato di aperitivi dai colori sgargianti.
Il rosso fiammante che mi artificializza le labbra
scandisce una breve ordinazione. Un barman
dall’aria annoiata versa un Martini e vi immerge
due sottili scorzette di limone. La banconota scivola
sul bancone. Il tubino scivola sullo schienale di
una poltrona di velluto. Dalla parte opposta della
hall un abitino identico ingabbia torace e fianchi
di un corpo immobile. Una ragazza dagli occhi
tristi mi fissa e mi svela tacitamente il segreto
di una malinconia antica che, ridotta quasi a
rassegnazione, all’improvviso ha deciso di
prorompere in un grido così acuto da frantumare
i precari scudi antiriflesso che filtravano il mio
mondo, penetrandomi direttamente nelle pupille
e lasciandomi con nient’altro che uno scheletro di
plastica appoggiato sul setto nasale.
Una domanda solitaria mi rimbalza sonoramente
nel cervello svuotato: Come può un collo tanto
esile sorreggere tutte quelle perle? Il brillantino
incastonato sull’incisivo fa capolino allo schiudersi
di un piccolo sorriso: quante assurdità affollano la
mente durante l’attesa!
Mi schernisco pensando alle perle che mi
riposano sul petto, alla loro pesantezza apparente
e alla leggerezza reale: è tutta un’illusione, mi
dico. Tuttavia continuo a disegnare con gli occhi
i contorni di quella figura bislacca e tanti piccoli
pensieri mi formicolano in testa. Pruriginosi
e indiscreti si addensano attorno ad un’anima
visibile solo a sprazzi. Un’anima fragile che
traspare da un paio di ginocchia nude, tremolanti
e disarmate, per poi sparire nuovamente sotto
una coltre nera di cotone e di superbia. Un’anima
Riporta l’agenda: “Martedì, ore 11:30. Hotel Palace.
Colloquio con K.. Ordinare un Martini con scorza
di limone.”
Lo sportello si apre, il tacco a spillo si pianta
sull’asfalto: un rumore secco e via, si parte.
Tac, tac, tac. Il rumore si ripete uguale a se stesso
a intervalli quasi regolari; non vuole imitare il
ticchettio di un orologio, ma solo insistere nel
sottolineare una presenza: quella di un paio di
decolleté nere prive di ornamenti che, arroganti
quanto costose, proseguono in linea retta verso
un’unica meta prefissata.
Ancora pochi passi. Termina il marciapiede. Tre
scalini di marmo. Finalmente le mattonelle lucide
di un pavimento su cui si specchia un soffitto.
È un pavimento bianco, asettico, immemore
di ogni passo o ruota di trolley che lo abbia mai
solcato, indifferente rispetto al passaggio di
quelle decolleté appena inaugurate, acquistate
appositamente per trascinare un corpo esile e
privo di volontà, più simile a una canna al vento
che a un vero e proprio organismo umano.
Mura immacolate elette a incorniciare prodigi
d’arte contemporanea, plafoniere in ceramica
rese superflue da raggi solari che irradiano
vetrate imponenti, via vai insensati, sguardi
altezzosi di chi ormai dà tutto per scontato, voci
misurate intorno a tavolini prodotti in serie, volti
spenti su tesserini nominali applicati ad anonime
uniformi, cinque stelle argentee sfolgoranti
alle spalle di una receptionist dal sorriso finto
e smagliante, sintesi centimetrale dei novanta
metri quadri circostanti.
Tutto si riflette sulle lenti graduate dei miei
occhiali griffati, ma niente vi penetra attraverso.
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vagamente familiare che so di conoscere, ma che
non riesco a riconoscere.
Scossa da un turbamento innaturale, avverto
con orrore il fluire del sangue caldo nelle vene, lo
sento scorrere attraverso i capillari, propagarsi
nell’intero organismo fino a riscaldarlo nella sua
totalità. Cerco di annullarmi nuovamente in un
sorso di Martini. Non funziona. Sento l’alcool che
scende lungo la gola inaridita e un saporaccio
violento mi devasta le papille gustative. Mi viene
spontanea una smorfia di disgusto e con la coda
dell’occhio, sul volto della ragazza dall’altra parte
della hall, scorgo la stessa espressione. La verità
mi coglie con la dolcezza di un pugno nello
stomaco. Vene e arterie prendono a pulsare più
forte. La coscienza si risveglia e lo stato di inerzia
in cui a lungo mi sono trascinata si pone già alla
stregua di una reminiscenza lontana. Finalmente
ricordo… Finalmente penso! Come ho potuto, anche
solo per un istante, dimenticare quello sguardo?
Come ho potuto non riconoscere a colpo d’occhio
l’incertezza di quelle caviglie ossute? Eppure non
sono passate che poche ore da quando lo specchio
applicato sull’anta scorrevole del mio armadio mi
ha mostrato gli stessi particolari.
Mi do della sciocca, ma non riesco a biasimarmi:
così come in un panorama metropolitano asfalto
e grattacieli lasciano orfane d’attenzione le
rare macchie verdi che ne rappresentano le
ultime testimonianze del profilo originario, la
sofisticatezza di quel look alla Audrey Hepburn
adombra la luce naturale di uno spirito astratto, di
cui semmai ci si può accorgere solo in un secondo
momento.
Terminato è il sonno. Mi sono svegliata e i panni
che ho indosso non mi appartengono. Il sangue
continua a scorrere, le guance si colorano. I dubbi
mi fanno girare la testa. Affondo le unghie laccate
nei braccioli vellutati della poltrona, li deterioro
leggermente, ma non importa: mi sento troppo
ridicola per badare ad una simile inezia!
La ragazza mi guarda con gli occhi arrossati e
pieni di lacrime. D’un tratto l’attillatura del tubino
mi soffoca, la fragranza del rossetto alla ciliegia
sgradevolmente mescolata all’amaro del cocktail
mi dà la nausea, la pesantezza delle perle si fa
effettiva, persino il mascara mi pesa sulle ciglia
e le scarpe – le maledette decolleté che avevano
deciso di trascinarmi in quel luogo assurdo –
mi massacrano i mignoli e creano fastidiose
lacerazioni appena sopra ai talloni.
Continuo a sentirmi ridicola. Passiva come una
bambola nelle mani di una bambina dalla fervida
immaginazione mi sono lasciata trasformare,
demolire e ricostruire ex novo secondo un
modello che non condivido per impressionare
uno sconosciuto meritevole soltanto di avere in
tasca la chiave d’accesso a un futuro che, in fin
dei conti, non mi è mai realmente interessato.
Il cuore si placa. Riacquisto l’equilibrio, ma stavolta
lo domino, non lo subisco. Niente più inerzia: sono
viva, respiro.
Sento dei passi in avvicinamento. Non mi volto,
ma so che K. sta arrivando.
La ragazza dall’altra parte della hall mi guarda
ancora: non ha voglia di parlare con lui, né di
sentirsi dire che non c’è niente di più affascinante
di una bella donna che sorseggia un Martini. Gli
occhi ora le brillano di una determinazione che
sembrava irrimediabilmente estinta.
Inavvertitamente si alza, si sfila le scarpe e le
abbandona disordinatamente sulle mattonelle
bianche. È sicura di quello che fa, sicura di ciò
che vuole e priva di sensi di colpa per ciò che
non vuole. Le indirizzo un sorriso e, voltandole
le spalle, la lascio scomparire nel nulla mentre, a
piedi nudi, mi allontano dall’hotel.
Riporta l’agenda: “Martedì, orario da definire.
Ritorno a vivere. Non ordinare mai più un
Martini con scorza di limone.”
Poesia&Illustrazione E se lungo il vigneto
Dallamentedi//ValerioOrlandini //FedericoBria
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INDUBBIA/MENTE – INDUBBIAMENTE
IN/DUBBIA/MENTE
BREVE STORIA QUASI INVENTATA DI UN’INVENZIONE MAI DECOLLATA: L’ISOLATORE
Dallamentedi//SimonePiccinni
Era il luglio del 1925 quando lo scrittore, inventore
ed editore lussemburghese Hugo Gernsback,
dalle pagine del suo magazine “Science and
Invention”, annunciava quella che, nelle sue
previsioni, sarebbe dovuta essere la sua
invenzione definitiva: l’Isolator, o Isolatore.
Si trattava di un incrocio tra un enorme
preservativo imbottito ed un casco da palombaro,
da collocarsi in testa, che avrebbe permesso al
soggetto interessato di estraniarsi completamente
dal mondo esterno, focalizzandosi esclusivamente
sul lavoro. Il rivestimento imbottito del casco
impediva a qualsiasi suono di filtrare all’interno,
mentre le piccole lenti rotonde riducevano lo
spazio visivo ad una fessura appena sufficiente
a vedere il foglio da lavoro. Per la respirazione
l’inventore aveva ideato un sistema con bombola
d’ossigeno collegata all’altezza del naso.
Un’idea geniale che regalava al fruitore una pace
idilliaca, completa, incontaminata. Il sogno di ogni
pensatore asociale.
Ovviamente la mole di lavoro da affrontare, viste
le molteplici vocazioni di Gernsback, può essere
considerata come un indizio sul motivo che lo
spinse a volersi isolare a tal punto dal mondo
esterno. Ma poi si scopre che il lussemburghese
fu sposato tre volte. Il ché, probabilmente, può
essere una causa molto più plausibile.
Si narra infatti che la prima moglie di Gernsback,
una certa Rose Harvey, di Montgomery, sposata
nel 1906 a soli 22 anni dopo essere appena
sbarcato negli Stati Uniti, fosse una casalinga
devota, timorosa di Dio e di qualsiasi altra
cosa sulla Terra. La donna, inoltre, aveva
l’odiosa abitudine di scoraggiare il marito con
inesauribili moniti e presagi di sventure. Il
nostro, che era un fior fior di sognatore con una
spiccata propensione alle fantasticherie e alla
creazione di mondi immaginari (non a caso è
considerato uno dei padri fondatori del genere
fantascientifico) non sopportava l’indole paurosa
della consorte. Lei, come reazione, più lo scrittore
manifestava desiderio di libertà e di scoperta,
più lo rimbrottava costringendolo a sempre più
assurde precauzioni nei confronti del mondo.
Finché, un bel giorno del 1910, lei gli intimò di non
uscire di casa per il rischio di essere investito da
un’auto. Voci di corridoio parlano di un Gernsback
esasperato, il quale, dopo aver tentato di spiegarle
che le auto a giro erano una decina in tutta New
York, al grido di – ...e allora vai a cagare te e tutto
l’Alabama! – la spinse giù dalla finestra del loro
attico, rimanendo magicamente vedovo.
Il caso fu archiviato come suicidio e tutti vissero
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felici e contenti per qualche tempo, a parte la
povera Rose.
Ma la prima scottante esperienza matrimoniale
non scoraggiò Hugo, il quale, tra un progetto e
l’altro, prese nuovamente moglie nel 1913. Dorothy
Kantrowitz era una donna autoritaria e severa,
come le origini teutonico/polacche suggerivano.
Non vi dico le scenate quando il povero scrittore,
preso dalla sua nuova pubblicazione, dimenticava
di svuotare il portacenenere dai fondi di sigaro, o
quando dimenticava la tavoletta del water alzata.
O le ombrellate con cui puniva gli sguardi
del marito rivolti alle procaci signorine che
incrociavano per la strada.
Anche la seconda signora Gernsback, però,
divenne presto vittima dello spirito incontrollabile
di Hugo. Più precisamente fu invitata dal marito
(con un po’ d’aiuto) ad ingoiare l’ombrello con
cui ella soleva colpirlo, a mo’ di mangiatrice di
spade, accarezzata nei suoi ultimi istanti dalle
dolci parole di lui: – Rimproverami ora sul rumore
che faccio mentre mangio le tue merdose patate,
scrofa mangiacrauti! –.
Anche questo episodio passò misteriosamente
come un incidente domestico (il “buon” inventore
era imbottito di soldi e contatti, visto il suo lavoro,
ma questo probabilmente non c’entrava granché).
Ma come sempre accade non esiste un due senza
un tre, e la pace dello scrittore non durò a lungo:
nel 1923, Gernsback incontrò Mary Hancher. Era
una donna mondana, non nel senso di donna di
mondo, bensì di frequentatrice dei salotti bene
e delle scatenate feste swing dell’epoca, di cui
era considerata la regina. Era molto popolare nel
jet-set newyorchese di quegli anni: divertente
e sfacciata, con un’aria di civettuola malizia
cortigiana.
Dopo gli anni passati a sopportare megere
autoritarie e casalinghe impaurite, il buon Hugo
ne rimase folgorato e, dopo una breve relazione,
la sposò.
Purtroppo per lui, la realtà venne presto a galla:
dietro la facciata aperta e solare, la ragazza
nascondeva uno spirito bigotto e prevenuto verso
qualsiasi cosa non appartenesse al suo brillante
mondo dorato. Non sopportava i plebei, i borghesi,
i mendicanti, gli stranieri e le persone prive di
spirito (sempre che non avessero il portafogli
ragionevolmente farcito). Le sue reazioni
nei loro confronti oscillavano dallo sguardo
di commiserazione all’aperta invocazione di
un’epurazione massiva.
Gernsback, che era sì personaggio discutibile, ma
dalla sicura apertura mentale, non sopportò la
scoperta di tale lato caratteriale della nuova moglie.
Ma anche per i maestri dell’insabbiamento ci
sono dei limiti: la tripletta di mogli decedute
avrebbe potuto generare sospetti che anche
la sua immensa fortuna economica avrebbe
avuto difficoltà a coprire. “Cosa fare dunque per
risolvere il problema?”, si domandò lui.
Mi piace immaginarlo così, il buon Hugo: in
salotto, mentre si rigira tra le mani le sue bozze
di scritti, con le lamentele di Mary sulla sporcizia
della città o sul malcostume di questo o quell’altro
frequentatore di feste come sottofondo. Mi piace
immaginarlo mentre sbuffa un refolo di fumo
azzurro dal suo cohiba e s’ingegna su come
mettere il silenziatore a quell’oca starnazzante.
Finché, improvvisa, arriva l’illuminazione: “Se
io mi escludo dal mondo, il mondo si esclude da
me! Se riesco a isolarmi da ogni singola sorgente
esterna, tutto quello su cui riuscirò a focalizzarmi
sarà ciò che ho in testa e che posso riportare su
foglio. Ok, posso leggere, ma solo ciò che mi trovo
davanti e che io, nella mia completa coscienza e
autonomia, decido di far rientrare nel mio campo
visivo. Eureka!”, pensò Gernsback.
Tutto sembrava andare alla grande: l’inventore
realizzò il suo prototipo e lo mise alla prova
mettendosi a lavorare su alcuni suoi progetti
letterari. Dopo poco, però, Gernsback si rese
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conto che i mondi che riusciva a concepire con
la fantasia erano sempre meno vividi, meno
realistici e credibili. Finti, ecco la parola. Finti
perfino per il mondo fantascientifico che lui
stesso aveva contribuito a creare. Come se ciò che
voleva inventare fosse basato su una realtà che
gli stava lentamente scivolando da sotto i piedi.
Il povero inventore si rese allora conto che,
eliminando gli stimoli esterni dannosi, aveva
eliminato anche tutto quello che di positivo c’era
nel mondo reale: tutte quelle strane e misteriose
fonti d’ispirazione che si celavano in ogni minima
cosa, se cercate con il giusto tipo di sguardo,
erano sparite. Quelle magiche connessioni
sinaptiche che lo facevano balzare dalla vista del
volo di una farfalla all’ideazione di un’astronave
intergalattica, erano sparite insieme alle odiose
lamentele della terza signora Gernsback. E non
c’era modo di riattivarle, con l’isolatore addosso.
Gernsback meditò a lungo, sfiorando la
depressione, finché ad un tratto una nuova
scintilla balenò nel suo cervello.
Il giorno dopo, Mary trovò nel cassonetto accanto
alla porta di casa l’invenzione del marito. Salì da
Hugo e gli chiese spiegazioni: – Che è successo
all’Isolatore, non dovevi mandarlo in produzione il
mese prossimo? Ci tenevi così tanto... –.
Il marito sorrise sornione e le rispose con tono
dolce: – E’ che mi sono reso conto che non
è questo ciò di cui ha bisogno l’umanità in
questo momento, cara. E’ stata un’ardua e lunga
riflessione a portarmi a questa conclusione, e ora
ho proprio bisogno di distrarmi: che ne dici di una
romantica gita in barca sul lago? –.
La moglie fu sorpresa dal cambio d’idea di
Gernsback ma, abituata alla sua imprevedibilità,
lo seguì senza fare storie. La sventurata non ebbe
neanche la prontezza di spirito di domandarsi
cosa volesse dire il ghigno compiaciuto sulla
faccia del marito, né la grossa sacca dall’aria
pesante che egli portava in spalla.
... ...
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NOTE REDAZIONALITHREEFACES
DIRETTORE EDITORIALE// SIMONE PICCINNI
REDATTORI & COLLABORATORI
// JACOPO AIAZZI // LAPO BAMBINI // GIANLUCA BINDI // GIULIA BRACHI // FEDERICO BRIA // ELISA BURACCHI
// EMILIO CALDERAI // MARCO CASTELLI // P. TIZIANA CAUDULLO // TIZIANO CORONA
// MARCO DEGL’INNOCENTI // NICCOLO’ D’INNOCENTI // MARCO FABRI // ANDREA FEDERIGI
// NICCOLO’ GAMBASSI // MATTIA MARTINI // MATTIA MEI // CHIARA PICCINNI // SIMONE PICCINNI
IMPAGINAZIONE & GRAFICA // CHIARA PICCINNI
COVER// NICCOLO’ GAMBASSI
LETTERING TITOLI// TIZIANO CORONA
RINGRAZIAMENTI// M.e.P. (Movimento per l’Emancipazione della Poesia)
Progettato, ideato e realizzato da: ThreeFaces//Associazione di promozione Cultural-Editoriale
//Rivista aperiodica riservata ai soci//
Tutti i contenuti narrativi di questa rivista sono opera di fantasia. Ogni riferimento a cose o persone
realmente esistenti è puramente casuale.
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//JACOPOAIAZZI //WILDMOGG.WORDPRESS.COM
È AUTORE DI INNUMEREVOLI IDEE STRAMPALATE, SINTETIZZATE IN ROMANZI, RACCONTI BREVI, ARTICOLI GIORNALISTICI E, CON L’AIUTO DEL
FIDATO NICK GAMBASSI, ANCHE DI FUMETTI. GLI PIACE LEGGERE, SCRIVERE E TALVOLTA FARE ENTRAMBE LE COSE INSIEME.
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NON VUOLE PIACERE, VUOLE DIRE LA SUA. NON VUOLE ESSERE RICORDATO, LUI E’. SEMPRE.
//BENEDETTABENDINELLI //BEHANCE.NET/BHOOKA
SCRITTRICE E FOTOGRAFA. DIPLOMATA IN REPORTAGE FOTOGRAFICO PRESSO IL CENTRAL ST. MARTIN’S COLLEGE OF ART&DESIGN. HA
29 ANNI E VIVE A MONTECATINI TERME (PT).
//FRANCESCABORDONALI
HA VENTISEI ANNI E VIVE A PAVIA, CITTÀ CHE L’HA CRESCIUTA. DI GIORNO È UN’INGEGNERE DELL’AUTOMAZIONE CHE LAVORA A
MILANO, NEL TEMPO LIBERO UNA SCRIBACCHINA CHE RACCONTA STORIE.
//GIULIABRACHI //BRACHIGIULIA.BLOGSPOT.COM
HA STUDIATO GRAFICA PRESSO L’ACCADEMIA ITALIANA DI FIRENZE E ATTUALMENTE LAVORA COME GRAFICA E ILLUSTRATRICE.
HA 23 ANNI E VIVE A PRATO.
//FEDERICOBRIA //BEHANCE.NET/FEDERICOBRIA
ILLUSTRATORE. É LAUREATO IN STUDI INTERNAZIONALI, MA LA SUA GRANDE PASSIONE È IL DISEGNO. HA 27 ANNI E VIVE A FIRENZE.
//ELISABURACCHI //BEHANCE.NET/ELISABURACCHI_BEH
27 ANNI, AVVIA LA SUA CARRIERA COME FREELANCE PER VARI STUDI GRAFICI E COME GRAFICA PUBBLICITARIA, AFFASCINATA DAL
POTERE PERSUASIVO DELL’IMMAGINE; È INVECE L’ATTRAZIONE PER LA SUA POETICA CHE LA RIPORTA VERSO UN APPROCCIO PIÙ
ILLUSTRATIVO.
.
//MARCOCASTELLI //MARCO-CASTELLI.COM
FOTOGRAFO. SA SUONARE DEI JINGLE CON LE MANI UTILIZZANDO LA BOCCA COME CASSA DI RISONANZA. QUANDO HA TEMPO
PARTECIPA A MOSTRE E/O FESTIVAL DI FOTOGRAFIA NAZIONALI ED INTERNAZIONALI. VORREBBE FARE IL GIGOLÒ, MA SI AFFEZIONA
TROPPO. DIVENTERÀ ATTORE O REGISTA (SECONDO LUI).
//TIZIANOCORONA //INSTAGRAM.COM/BLEK_DESIGN
GRAPHIC DESIGNER E STREET ARTIST. HA 26 ANNI, VIVE A FIRENZE DOVE STUDIA GRAFICA ED ARTI VISIVE PRESSO
L’ ACCADEMIA DELLE BELLE ARTI. MEMBRO DEL COLLETTIVO DI WRITERS 400 DROPS.
//ALESSIODELDEBBIO //ALESSIODELDEBBIO.IT
VIAREGGINO, HA PUBBLICATO IL ROMANZO “OLTRE LE NUVOLE – STORIE DI AMICI” NEL 2010, “L’ABISSO ALLA FINE DEL MONDO” NEL
2014 E “ANIME CONTRO” NEL 2015. NUMEROSI SUOI RACCONTI SONO USCITI IN ANTOLOGIE E RIVISTE.
//MARCODEGL’INNOCENTI //BRUCIODISEGNI.BLOGSPOT.COM
IN ARTE BRUCIO, STUDIA ARCHITETTURA. PUBBLICA FUMETTI E ILLUSTRAZIONI SU LO-FI COMICS, PARTECIPANDO ANCHE ALLA
PRODUZIONE DI ALCUNI FUMETTI. SUONA NEL GRUPPO DUSTINSIDE E COLLABORA CON MESCALEROS CREW, ETICHETTA SPEZZINA.
HA PUBBLICATO ALCUNE TAVOLE E FUMETTI SULLA FANZINE FIORENTINA “IL SOPPALCO”.
HANNO COLLABORATO A QUESTO NUMERO:
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//MARCOFABRI //FACEBOOK.COM/MARCHOFA
DISEGNATORE DA TUTTA UNA VITA, NEGLI ULTIMI ANNI SI È DEDICATO A INVESTIGARE NUOVE FORME DI ARTI VISIVE;
VIDEOPRODUZIONE COME SCENOGRAFIA TEATRALE E DI EVENTI, SALTUARIE INCURSIONI NEL MONDO DELLA STREET-ART FINO A
SINGOLARI ESPERIMENTI DI LIGHT-PAINTING.
//MARCOFRANCO
ILLUSTRATORE E TATUATORE. NASCE A FIRENZE MA VIVE E LAVORA A MILANO, HA FREQUENTATO L’ACCADEMIA DI BRERA DOVE SI
È LAUREATO IN RESTAURO.
//NICCOLÒGAMBASSI //NICKGAMBASSI.BLOGSPOT.IT
NICK GAMBASSI SI CHIAMA COSÌ PERCHÉ HA I CAPELLI ROSSI; ED HA I CAPELLI ROSSI PERCHÉ È UN RAGAZZO MALIZIOSO E CATTIVO.
UN GIORNO SCOPRÌ LA PASSIONE PER L’ARTE E DECISE DI DEDICARVISI SENZA SOSTA. SPERA DI DIVENTARE, QUANDO SARÀ PRONTO,
UN BRAVO FUMETTISTA.
//VANESSALUCARINI
HA VENTITRÉ ANNI E VIVE A PRATO. LAUREATA IN LETTERE MODERNE, SI STA SPECIALIZZANDO IN FILOLOGIA MODERNA PRESSO
L’UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI FIRENZE. AMA SCRIVERE E LEGGERE CLASSICI, IN PIÙ STUDIA CANTO E PIANOFORTE.
//LUCANOTARIANNI
NASCE A ITRI, PICCOLO BORGO IN PROVINCIA DI LATINA. HA 30 ANNI E DA UNDICI VIVE A ROMA DOVE LAVORA COME PSICOLOGO NEL
SETTORE SOCIALE. SCRIVE PER PASSIONE E PER DIMENTICARE, ALIMENTATO DA UNA GRANDE CURIOSITÀ VERSO IL SUO MONDO
INTERNO E CIÒ CHE LO CIRCONDA.
//VALERIOORLANDINI
VALERIO ORLANDINI È UN MONTANARO INTRAPPOLATO IN CITTÀ CHE SI DEDICA ORMAI DA DIVERSO TEMPO A MUSICA E POESIA.
JOHANNES FACTOTUM ATTIVO IN DIVERSE REALTÀ DEL SOTTOBOSCO FIORENTINO, HA DECISAMENTE PIÙ INTERESSI DEL TEMPO
PER DEDICARVISI.
//CHIARAPICCINNI //CHIARAPICCINNI.TUMBLR.COM
SEMPRE STATA AFFASCINATA DALLE FORME DELLA NATURA E DALLA POTENZA DELLE IMMAGINI, S’IMPROVVISA AMANTE DELLA
BELLEZZA. DOPO GLI STUDI A FIRENZE SI TRASFERISCE A MILANO PER LAVORO E AMORE. SOGNA DI COLLINE E GIOCA A FARE LA
PSICOLOGA.
//SIMONEPICCINNI //SIMONEPICCINNI.JIMDO.COM
29 ANNI, È UNO DEI CO-FONDATORI DI THREE FACES; DOPO UN’ADOLESCENZA E UNA GIOVENTÙ VOTATA AL CAOS E ALLA VITA SUL
FILO DEL RASOIO DECIDE DI DEDICARSI COMPLETAMENTE ALLA SCRITTURA, PASSIONE CHE LO ACCOMPAGNA DA SEMPRE.
//M.E.P. //MOVIMENTOEMANCIPAZIONEPOESIA.TK
IL MOVIMENTO PER L’EMANCIPAZIONE DELLA POESIA, FONDATO A FIRENZE NEL MARZO 2010, È UN MOVIMENTO ARTISTICO CHE
PERSEGUE LO SCOPO DI INFONDERE NUOVAMENTE NELLE PERSONE INTERESSE E RISPETTO PER LA POESIA.
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