Ludla Aprile 14 Sito:Layout Ludla - Il dialetto romagnolo ... · come strumento di poesia. Tutto...

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la Ludla 1 “Poca favilla gran fiamma seconda” Dante, Par. I, 34 la Ludla (la Favilla) Periodico dell’Associazione “Istituto Friedrich Schürr” per la valorizzazione del patrimonio dialettale romagnolo Autorizzazione del Tribunale di Ravenna n. 1168 del 18.9.2001 Questo numero è stato realizzato con l’apporto del Comune di Ravenna Società Editrice «Il Ponte Vecchio» Anno XVIII • Aprile 2014 • n. 4 SOMMARIO Mario Gurioli - La divuziõ dla nostra campãgna di Bas-ciân Devozione popolare: i Santi pro- tettori di Vanda Budini La Trova d’Gabanon (e quela d’Chichinen) di Pietro Barberini Zerta, l’era pröpi lò! di Rosella Bucci Illustrazione di Giuliano Giuliani E’ gorgh di Giancarlo Nanni Illustrazione di Giuliano Giuliani Le figure magiche nelle fiabe popolari romagnole: IV - La fata (Parte seconda) di Cristina Perugia Parole in controluce: perìcol Rubrica di Addis Sante Meleti Stal puiðì agli à vent La riðera di Lina Miserocchi Garavél di Angelo Emiliani - Stuvanen - Sergio Celetti Maurizio Livio Gasperoni - I’òu- tum pansìr di Paolo Borghi p. 4 p. 6 p. 7 p. 8 p. 9 p. 10 p. 11 p. 12 p. 14 p. 15 p. 16 Dinanzi allo scenario della poesia praticata in Italia, era usuale chie- dersi, fino a ieri, se quella esternata in dialetto, non fosse da reputare altro che una paccottiglia di serie “b”, degna al più del sorriso e di un’arrendevole condiscendenza. Un tempo diffuso, un pregiudizio del genere viene ridimensionato oggigiorno dalla finalmente raggiunta cognizione che l’autentica poe- sia è tale a prescindere dal linguaggio in cui viene espressa tant’è che, specie in dialetto, sta dilatando i suoi confini al di là di un regionali- smo divenuto troppo angusto per i suoi meriti e suoi contenuti. Non è dunque fortuito che proprio la poesia che ci riguarda più da vicino, vale a dire quella connessa alla lingua materna, stia riscuoten- do negli ultimi tempi consensi che hanno ini- ziato a espandersi ben al di fuori del territorio d’appartenenza, affran- cando gli autori che la praticano da una suddi- tanza nei confronti di quelli in italiano, ormai spoglia d’ogni fondamen- to e attendibilità. Da anni – precursore Tonino Guerra con la celebre traduzione de I bu (The oxen) – diversi poeti: da Baldini a Baldassari, da Nadiani a Monti, vanno per certo cedendo i loro versi ad altri idiomi estranei a quello di casa propria. Continua a pag. 2 Poeti di Romagna tradotti di Paolo Borghi Aprile 2014 The oxen Tell the oxen they are dismissed, tell them that what is done is done, now that tractors plow better. All hearts are broken, so is mine, they've worked for thousands of years, and now they go away, heads low, following a butcher's long rope. I bu Andè a di acsè mi bu ch’ i vaga véa, che quèl chi à fat i à fat, che adèss u s’èra préima se tratòur. E’ pianz e’ cór ma tótt, ènca mu mè, avdài ch’i à lavurè dal mièri d’an e adès i à d’andè véa a tèsta basa dri ma la córda lònga de mazèl. Tonino Guerra

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la Ludla 1

“Poca favilla gran fiamma seconda”Dante, Par. I, 34

la Ludla(la Favilla)

Periodico dell’Associazione “Istituto Friedrich Schürr”per la valorizzazione del patrimonio dialettale romagnolo

Autorizzazione del Tribunale di Ravenna n. 1168 del 18.9.2001

Questo numero è stato realizzato con l’apporto del Comune di Ravenna

Società Editrice «Il Ponte Vecchio» Anno XVIII • Aprile 2014 • n. 4

SOMMARIO

Mario Gurioli - La divuziõ dlanostra campãgnadi Bas-ciân

Devozione popolare: i Santi pro-tettoridi Vanda Budini

La Trova d’Gabanon (e quelad’Chichinen)di Pietro Barberini

Zerta, l’era pröpi lò!di Rosella BucciIllustrazione di Giuliano Giuliani

E’ gorghdi Giancarlo NanniIllustrazione di Giuliano Giuliani

Le figure magiche nelle fiabepopolari romagnole:IV - La fata (Parte seconda)di Cristina Perugia

Parole in controluce: perìcolRubrica di Addis Sante Meleti

Stal puiðì agli à vent

La riðeradi Lina Miserocchi

Garavéldi Angelo Emiliani - Stuvanen - SergioCeletti

Maurizio Livio Gasperoni - I’òu-tum pansìrdi Paolo Borghi

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Dinanzi allo scenario della poesia praticata in Italia, era usuale chie-dersi, fino a ieri, se quella esternata in dialetto, non fosse da reputarealtro che una paccottiglia di serie “b”, degna al più del sorriso e diun’arrendevole condiscendenza.Un tempo diffuso, un pregiudizio del genere viene ridimensionatooggigiorno dalla finalmente raggiunta cognizione che l’autentica poe-sia è tale a prescindere dal linguaggio in cui viene espressa tant’è che,specie in dialetto, sta dilatando i suoi confini al di là di un regionali-smo divenuto troppo angusto per i suoi meriti e suoi contenuti.Non è dunque fortuito che proprio la poesia che ci riguarda più davicino, vale a dire quella connessa alla lingua materna, stia riscuoten-

do negli ultimi tempiconsensi che hanno ini-ziato a espandersi ben aldi fuori del territoriod’appartenenza, affran-cando gli autori che lapraticano da una suddi-tanza nei confronti diquelli in italiano, ormaispoglia d’ogni fondamen-to e attendibilità.Da anni – precursoreTonino Guerra con lacelebre traduzione de I bu(The oxen) – diversi poeti:da Baldini a Baldassari,da Nadiani a Monti,vanno per certo cedendoi loro versi ad altri idiomiestranei a quello di casapropria.

Continua a pag. 2

Poeti di Romagna tradottidi Paolo Borghi

Aprile 2014

The oxen

Tell the oxen they are dismissed,tell them that what is done is done,now that tractors plow better.

All hearts are broken, so is mine,they've worked for thousands of years,and now they go away, heads low, following a butcher's long rope.

I bu

Andè a di acsè mi bu ch’ i vaga véa,che quèl chi à fat i à fat,che adèss u s’èra préima se tratòur.

E’ pianz e’ cór ma tótt, ènca mu mè,avdài ch’i à lavurè dal mièri d’ane adès i à d’andè véa a tèsta basadri ma la córda lònga de mazèl.

Tonino Guerra

la Ludla2 Aprile 2014

Segue dalla primaStiamo vivendo all'interno diun’epoca esposta a sostanziali modi-fiche in dipendenza delle qualiambiente, cultura e società paionosoggiacere a uno scomposto, febbrileprocesso di massificazione; un per-corso che, in ambito filologico, stacomportando il dilagare di un ingle-se che già oggi può essere considera-to quale modo d’esprimersi egemo-nico a livello mondiale.Dall’altro lato, viceversa, possiamovalutare in svariate centinaia i lin-guaggi considerati pressoché allascomparsa e fra questi, purtroppo,c’è da annoverare anche il roma-gnolo.A ogni buon conto, la nota distinti-va che caratterizza questo malaugu-rato percorso di declino, è che ilnostro dialetto, disertato in massimaparte dalla platea dei suoi con-sueti utilizzatori, stia recupe-rando visibilità e prestigiocome strumento di poesia.Tutto questo ad opera di unasintomatica gamma di poeti ed’irriducibili idealisti, coral-mente decisi al recupero di ungergo che potremmo definireormai di nicchia e, nel contem-po, alla riabilitazione di unlocalismo inteso non in sensodeteriore, bensì come riacco-stamento emotivo a una fonteprimaria di esperienze chefanno parte di noi tutti, scatu-rite da un patrimonio nonancora disperso di relazionicon consuetudini e figure con-giunte, sì, al passato, ma pocoo punto docili alla dimentican-za e all’abbandono.Le ragioni per cui un così signi-ficativo insieme di autori delnostro territorio, abbia optatodi rivolgersi a un linguaggioche loro stessi giudicano scon-fitto, sono complesse e in granparte da verificare, tanto cheall’interno potrebbe starci per-sino il tentativo di contenerein qualche forma tale declino,congiunto a quello magariinconscio, senz’altro velleita-rio, comunque suggestivo, dinon sottomettere la propria

parlata allo strisciante insediamentopraticato a livello mondiale da uninglese, diventato codice precipuodella comunicazione.Tutto questo sbarazzandosi di un ita-liano che, a furia di fiscal compact espending review, questa battaglia sem-bra incline a perderla, e cercandoasilo dietro il coinvolgente ed emble-matico caposaldo di un dialetto cheè stato troppo e troppo a lungoemarginato dal gioco, per il semplicefatto di non averne saputo scorgeremolto prima di quanto sia poi acca-duto, le potenzialità concrete, ingen-ti e in buona parte da sperimentare.È verosimile, tuttavia, che anche ilromagnolo e i suoi fautori si sianoavventurati in una lotta eroica,forse, ma quanto meno utopistica,innanzi tutto perché una linguacarente di frequentatori non può

rimanere durevole e praticato stru-mento di relazione solo con l’aiutodella poesia, e in secondo luogo per-ché sono motivi più che contingentiquelli che hanno posto l’inglese nel-l’attuale stato di predominio.Non è certo questo il momento perapprofondire le cause di un’egemo-nia che non ha bisogno, peraltro,d’eccessive ratifiche, e nondimeno èdoveroso prendere atto di un’ultimatestimonianza che ci perviene dauna collana dell’inglese CinnamonPress la quale, con Poets from Roma-gna, si prefigge di esportare di là deipropri confini naturali, un sostan-zioso compendio di poesia dialettaleche questo privilegio, indubbiamen-te, non se l’aspettava:In effetti, e non solo per quantoconcerne gli idiomi praticati ogginel mondo, è solo dall’alto di un

indiscutibile predominio che cisi può permettere il lusso disostenere la tutela dei vinti, deidiseredati, degli esclusi.Ed ecco che questa roccaforted’impegno e di autarchica fierez-za del Romagnolo, edificata contanta partecipazione e un pizzicodi spavalderia, si trasforma in uneffimero bunker di sabbia e icontenuti al suo interno fagoci-tati con premura pressoché amo-revole da un inglese che, ancorauna volta, dà prova della sua nonsi sa quanto fortuita ma senz’al-tro indiscussa determinazione alprimato.Annoverati d’autorità in que-st’area cosmopolita della poesiadialettale, di fronte a Poets fromRomagna sorge spontanea un’esi-genza di puntualizzazioni eapprofondimenti, che trae spun-to iniziale dalle norme adottateper selezionare i poeti inseritinella raccolta.La più determinante – sempreche non si sia trattato solo di unripiego, magari persino plausibi-le, valso a restringere la cerchiadegli inclusi – è stata quella dipossedere un anno di nascitasuccessivo a quelli dell’ultimoconflitto mondiale.Sottoscrivibile o meno, è pro-prio questa “clausola tempo” che

Le copertine di alcuni libri con traduzione in lingue estere diopere di poeti romagnoli. Qui sopra:Poets from Romagna, a cura di Giuseppe Bellosi. Traduzionidi Andrea Bianchi, Jan Fortune, Silvana Siviero. Blaenau Ffe-stiniog (Galles), Cinnamon press, 2013 (Poesie in dialettoromagnolo con traduzione inglese)Nella pagina a fianco:Giovanni Nadiani, Ningún sitio. Traduzione di MercedesAriza. Tenerife, Ediciones Baile del Sol, 2010. (Traduzione inspagnolo di Invel)Raffaello Baldini, Small talk. Introduzione e traduzione diAdria Bernardi. Gradiva, 2009

la Ludla 3Aprile 2014

ci induce a riscontrare quanto l’etàanagrafica di una preponderante esintomatica percentuale degli autoriprescelti – per intenderci quelli piùin confidenza con i sessant’anni checon i cinquanta – li inquadri all’in-terno di una generazione sullaquale, in una maniera o nell’altra,gravano buona parte della responsa-bilità e del successivo rammarico, dinon aver saputo o ancor peggio volu-to trasmettere a figli e nipoti il pro-prio linguaggio di appartenenza.Tale comportamento, adottato rinta-nandosi nell’alibi di aver promossoin luogo del dialetto materno diffe-renti forme di comunicazione, hacontribuito a ridurre in modo drasti-co la cerchia dei parlanti, dirottan-doli verso codici probabilmente edegoisticamente avvertiti, al momen-to, come degni di maggior credito eautorevolezza e questo, senza consi-derare che l’evento avrebbe ancheinnescato un processo irreversibiledi oblio e rigetto, nei riguardi di unpatrimonio prezioso, privo di con-fronti e soprattutto insostituibile dicultura e di memoria.C’è da considerare, inoltre, che ilsummenzionato declino dei parlan-ti non poteva tradursi altro che inuna generalizzata riduzione delnumero di autori all’altezza di ser-virsene come strumento letterario,dimostrando quanto non sia pernulla fortuito, bensì alla prova dei

fatti ineluttabile, che fra gli scritto-ri attualmente attivi in dialettoromagnolo scarseggino tanto quelligiovani.Proprio Poets from Romagna dà espli-cito riscontro a questa carenza d’ulti-me leve giacché, al suo interno, i sog-getti di età inferiore non ai quaran-t’anni ma addirittura ai cinquanta-cinque, sono in netta inferioritànumerica, il che non fa che compro-vare quanto appena asserito: vale adire che l’egemonia del novero dipersonaggi “sperimentati” su quellodei “neofiti”, muove dal presuppo-sto che questi ultimi, fanno parte diun drappello minoritario, falcidiatoin conseguenza d’essere capitato almondo in un’epoca che il dialetto selo stava e purtroppo se lo sta tutt’og-gi lasciando alle spalle.È il caso di menzionare, tuttavia,che la poesia del luogo annovera unulteriore e sostanzioso elenco diautori oltre a quelli reperibili nel-l’opera, e per appurarlo sarebbe suf-ficiente una scorsa agli arretratidella Ludla – ove non mancano rag-guagli sulle molteplici e persuasiveraccolte date da loro alle stampenegli ultimi tempi – integrata,magari, da un viaggio virtuale sulsito www.argaza.it al cui interno,nella sezione Poeti della Ludla, oltre aquelli in auge è ospitato un cospi-cuo ventaglio di autori meno diffu-si, certo, ma non per questo trascu-rabili. Tornando all’antologia e ai criteri diselezione adottati nel vaglio deipoeti, balza agli occhi l’ingratitudineimprescindibile, ma in fin dei contiquasi opportuna, con cui il procedi-mento ha reso di fatto categorica lamessa al bando degli indimenticabi-li romagnoli scomparsi negli ultimitempi, ciascuno dei quali, in ognicaso, ha vissuto abbastanza per vedertrapiantate all’estero le proprie rac-colte ben prima dell’avvento di Poetsfrom Romagna. A tal proposito comenon citare se non altro: Small Talk(Ciacri) di Raffaello Baldini... Thehoney (Il miele) e Il viaggio di ToninoGuerra... le molteplici poesie di Tol-mino Baldassari tradotte a NuovaYork o Parigi.D’altra parte è plausibile che analiz-

zando la situazione dalla visualeforse egoista e nondimeno appassio-nata e pragmatica, di coloro che siadoperano per una rianalisi delpanorama poetico romagnolo, sia daconsiderare più efficace e rimunera-tiva la divulgazione dei poeti, attual-mente e concretamente operosi erisoluti ad esprimersi, rispetto aquella degli scomparsi, degli inertida tempo o di coloro che, pur nonavendo in deposito molto di nuovoda comunicare, persistono a ribadir-si inesausti nei medesimi concetti enelle medesime nostalgie, una rac-colta dopo l’altra: come tutto ciòche ha attinenza con l’uomo, persi-no la poesia – e quella dialettale nonè esentata dal processo – per soprav-vivere ha bisogno di mantenersi incontatto coi tempi, necessita dinuova linfa, rivendica insomma unosvecchiamento continuo che la scin-da, memore ma senza ripensamenti,da tutto ciò che non si palesa più insintonia con le sue esigenze.Nell’attuale stato di precarietà in cuisi destreggia, il dialetto romagnoloha un bisogno disperato di polarizza-re su se stesso l’attenzione e il credi-to della gente, e a tal fine ogni con-tributo idoneo a suscitare ed a veico-lare interesse può manifestarsi pre-zioso, inderogabile, meritorio: Poetsfrom Romagna procede senz’altro suquesta rotta.

la Ludla4 Aprile 2014

Nella Romagna di un tempo le clas-si subalterne avevano scarsissimeoccasioni di venire in contatto conculture diverse da quella popolare:rimanevano escluse dal mondo dellaletteratura, dell’arte, della politicaed in generale da tutte le manifes-tazioni che non fossero trasmissibiliper via orale. L’unica eccezione erarappresentata dalla cultura religiosa,che permeava di sé – almeno fino aqualche decennio fa – tutte le gene-razioni degli strati più umili dellapopolazione. Anche questa culturaveniva prevalentemente trasmessaper via orale attraverso la media-zione della Chiesa: la lettura direttadella Bibbia era di fatto proibita dal-l’autorità ecclesiastica e, d’altraparte, pressoché impossibile per unapopolazione il cui tasso di analfa-betismo sfiorava il 100 per cento.Attraverso le messe, le omelie, lepreghiere, le benedizioni, le proces-sioni, le rogazioni, la visione deiquadri e dei cicli pittorici nellechiese ecc., il popolo veniva in con-tatto con la cultura religiosa, nono-stante gran parte dei messaggi gli

giungessero incomprensibili perchétrasmessi in una lingua totalmentesconosciuta come il latino. Lepreghiere in latino venivano stor-piate e fraintese, ma non per questonella coscienza del fedele perdevanola loro efficacia, anzi diventavanoquasi formule magiche alle quali lalingua misteriosa conferiva maggiorpotere.Il calendario liturgico scandiva iperiodi dell’anno e le varie festivitàsegnavano l’inizio dei lavori agricolio chiudevano il ciclo delle attività

annuali. Ad esempio il 25 marzo,l’Annunciazione, segnava il rinnovoo l’inizio dei contratti dei garzoniagricoli, il 24 giugno, San GiovanniBattista, l’inizio della mietitura, il26 ottobre, San Gallo, il culminedella semina; l’11 novembre, SanMartino, la scadenza dei contratticolonici o di affitto di terreni e case. Oggi, complice la trasformazione del-l’economia e della società, quasi nes-suno ricorda più queste date, comenon ricorda le solennità religiose ilcui carattere festivo civile venneabolito nel 1977: San Giuseppe, il 19marzo, l’Ascensione (il giovedì qua-ranta giorni dopo la Pasqua), il Cor-pus Domini (il giovedì successivo alladomenica di Pentecoste), San Pietroe Paolo (il 29 giugno). In quell’annovenne anche abolita la festività civiledell’Epifania, poi ripristinata ottoanni dopo nel 1985 a furor di popo-lo (soprattutto romano). A queste festività religiose eranolegati numerosi riti di carattereanche popolare, come la processionedel Corpus Domini, o momenti dialtissima sacralità come nel caso del-l’Ascensione, giorno nel quale, se-condo il detto popolare, non simuoveva gnânca e’ picin int l’ôv. Èscomparso anche il ricordo delleRogazioni, processioni che si svol-gevano nei tre giorni precedenti ilgiovedì dell’Ascensione lungo lestrade delle parrocchie di campagnaper impetrare l’aiuto divino a favoredi una buona annata agricola.Per non dimenticare tutto questo,giunge quanto mai opportuno illibro di Mario Gurioli La divuziõ dlanostra campãgna (Ed. Tempo al Libro,

Mario Gurioli

La divuziõ dla nostra campãgna

di Bas-ciân

la Ludla 5Aprile 2014

Faenza, 2014) nel quale l’autore ci farivivere alcuni aspetti della religiositàdella gente delle nostre campagne,descrivendo con grande cura i variriti senza mai dimenticare diriportare la forma dialettale dei ter-mini delle cerimonie, i proverbilegati alle festività, un’ampia docu-mentazione fotografica e il raccontodi gustosi aneddoti come quello cheriportiamo qui di seguito come sag-gio del volume.

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La giudëla

A metà degli anni Venti a Fregiolo,parrocchia fra Modigliana e Tre-dozio, una decina di bambini si sta-vano preparando a ricevere il sacra-mento della Cresima. Arrivavanoalla spicciolata dai poderi sparsi suipendii di qua e di là del torrenteTramazzo, che scorre incassato sulfondo della valle. Il vicario Monsi-gnor Fiorentini li aspettava sullaporta della chiesa. Qualcuno avevagli zoccoli, ma i più erano scalzi e lescarpe che portavano appese al collose le mettevano soltanto prima dientrare in chiesa. Il prete li osserva-va mentre si ripulivano i piedi dalfango o dalla polvere che li ricopri-vano e gli veniva da pensare a comeerano diversi da lui, bambino dibuona famiglia.Alcuni dovevano spingere forte perfar entrare i loro piedini, induriti esformati per il lungo girare scalzi, inun paio di scarpe ormai troppostrette, ma che dovevano bastarealmeno fino al raccolto successivo.Riunito il suo piccolo gregge, lo face-va sedere sulle prime panche e con ilsuo fare paziente e bonario spiegavaai bambini quanto era necessarioper ché fossero ben consapevoli delsacramento che di lì a poco sarebbestato loro impartito per farlidiventare dei bravi soldati di Cristo.Lo ascoltavano con molta atten-zione, specialmente quando parlavadei miracoli del Signore e dei Mar-tiri che avevano dato la vita pur dinon rinunciare alla loro fede. Tuttipresi dal suo raccontare, riacquista-vano la loro vivacità solo quando ilvicario li accompagnava nella grande

cucina dove la Zelësta aveva semprepronto uno spuntino che li avrebberimessi in forze, prima di ripartireverso le loro case sparse fra un grep-po e l’altro. Al giorno della Cresimamancava soltanto una settimana edurante la pastura dei maiali il gar-zone disse a Menghino che stava allaCasaccia di prepararsi bene, perchéprima il vescovo gli avrebbe piantatoin fronte una giudëla e poi il prete gliavrebbe fasciato la testa con un nas-tro per coprire la ferita. A confermadi quanto sosteneva, gli fece vedere etoccare la cicatrice che aveva infronte, una specie di fossetta lascia-tagli anni prima da i s-ciupet. Mengh-ino, molto impaurito dalla storiadella giudëla, ne parlò con Carlucciodelle Tombe, che era nel bancoinsieme a lui.Carluccio non ne sapeva niente, magli promise che si sarebbe informatodai suoi cugini più grandi, che eranostati cresimati diversi anni prima.Quando, nel pomeriggio, li inter-rogò sulla giudëla, i due siguardarono e bastò una strizzatad’occhio perché il maggiore glirispondesse: “Dzerta che i t’piãntauna giudëla, e e’ zej Gianì u t’té stret!L’è ôn che l’ha dla fôrza e i l’ha ciamê lóapòsta par tnit a la Cresma” (Certoche ti piantano unchiodo, e lo zioGianì ti tiene stretto!È uno che ha dellaforza e l’hannochiamato appostaper tenerti alla Cresi-ma). A Carluccio civenne il mondoaddosso e la mattinadopo, quando loseppe, a Menghinoancor di più. I due sigiurarono di man-tenere quel terribilesegreto e di scapparenon appena si avvici-nasse il vescovo perpiantare la giudëla.Arrivato il giornodella Cresima, i duebambini si ritrova-rono sul sagrato dellachiesa infagottati nelvestito buono, che a

Carluccio stava largo per via che eraquello dei suoi cugini e a Menghinopizzicava terribilmente come ciavesse dentro degli spini di marruca(maruga).Il vicario li radunò, diede le ultimeistruzioni raccomandando ai bambi-ni di fare i bravi e di stare fermi ezitti. Carluccio, piccolo di statura,era il primo nella fila dei maschi;Menghino, più grande e robusto, erafra gli ultimi.Il vescovo si mosse dall’altare con lamitria in testa e il pastorale inmano, seguito dal vicario, da unseminarista e alcuni chierici. Carluc-cio inghiot tì il groppo che aveva ingola, guardò verso Menghino e poivia, sgusciò veloce fra la gente e rag-giunse la porta della sacrestia.Menghino avrebbe voluto seguirlo,ma stretto di qua e di là dai compa-gni e dai loro santoli non si potèmuovere.Carluccio lo trovò il vicario su per lascaletta del campanile che batteva identi mormorando: “La giudëla no,la giudëla no!”.Gli ci volle un po’ a calmarlo, mapoi lo riportò in chiesa, lo riaffidò alsantolo che era rimasto lì allocchitoe il vescovo, da primo che dovevaessere, lo cresimò per ultimo.

Fognano, anni trenta-quaranta del 1900: una processione delCorpus Domini per le vie del paese.

la Ludla6 Aprile 2014

Anche quest’anno, nel periodo dei Lom a mêrz, l’Associa-zione Il lavoro dei contadini, coordinata da Italo Graziani,è tornata ad accendere focarine presso numerosi agritu-rismi dell'alta e della bassa Romagna. Ovunque la ricor-renza è stata allietata da musiche e cibi della tradizione,da iniziative ludiche e culturali. A queste ultime ha datoil suo contributo la nostra Associazione, intervenendocon i propri esperti di tradizioni romagnole. Le manife-stazioni sono state aperte da un convegno a Imola: nelprestigioso Palazzo Tozzoni, con la collaborazione del-l'Amministrazione Comunale, è stata inaugurata lamostra dedicata ai Santi Protettori nella devozionepopolare. Hanno esposto oltre quaranta opere sette arti-sti e artigiani di Romagna: formelle in ceramica, xilogra-fie, tele stampate a ruggine o dipinte, sculture, cerami-che sonore. La ricerca sui Santi ci ha portato alla pubbli-cazione di un volumetto-guida, che mi piace chiamare“quaderno didattico-divulgativo”. Per la sua realizzazioneho consultato i numerosi volumi della collana editadalla Schürr, oltre a varie pubblicazioni agiografiche estoriche di vite di santi. Santi per proteggere una città,santi per difendere i raccolti, santi per la salute delcorpo, santi a protezione di un mestiere e orazioni anti-che, in dialetto, per cantarli e chiedere il loro aiuto. Lamostra verrà riproposta a Forlimpopoli, durante la setti-mana artusiana e si arricchirà di altri santi locali, perché

da secoli in Romagna ogni malattia ha il suo santo tau-maturgo ed ogni località il suo protettore!

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Come saggio del “quaderno didattico-divulgativo” riportiamola scheda dedicata al patrono di Rimini, San Giuliano

San GiulianoLUOGO: II culto di San Giuliano si sviluppò a Rimini, mafu probabilmente tributato ad un giovane, martire in Cili-cia, originario dell’Istria. Il sarcofago che ne conteneva ilcorpo era giunto in un tempo imprecisato galleggiandofino alla città, che ne aveva adottato il patronato. La leg-genda di Giuliano l’ospitaliere, un tempo molto nota,portò successivamente ad identificare i due Santi (cfr. Cri-stina Ghirardini, Antiche orazioni popolari romagnole, 2004).RICORRENZA: 9 gennaioATTRIBUTI: palma e corona, in una stampa riminese del1603, che raffigura probabilmente il martire, primo patro-no. L’Ospitaliere viene rappresentato con la spada.PATRONATI: Compatrono della città di Rimini, patronodegli albergatori e dei pellegrini.IN ROMAGNA:La vita di San Giuliano è narrata in un’antica leggendaattestata in Italia fin dal XIII secolo. In Romagna è notain diverse “lezioni”. In esse si narra di un giovane al qualeera stata fatta la predizione che avrebbe ucciso lui stesso isuoi genitori. Per evitare questo terribile destino, Giulia-no si allontana dalla famiglia. Nel luogo lontano dovegiunge sposa una nobile donna e riacquista tranquillità.Un giorno, mentr’egli è assente, giungono alla sua casa glianziani genitori, che da tempo ricercavano il loro figliolo.Si presentano alla moglie di Giuliano e si fanno ricono-scere. Vedendoli stanchi per il lungo viaggio la donnaoffre loro la stanza del marito perché nell’attesa del suorientro possano riposare. In alcune versioni è il Demonio,il “falso amico”, che sollecita Giuliano a lasciare la caccianella quale è impegnato per ritornare a casa, insinuandoche sua moglie lo sta tradendo:Té t’sé’ qua a usilèe la tu moi l’è a ca cun prit e frèe di signorche ti ven ben a te un grandi disunor

Devozione popolare:

i Santi protettori

di Vanda Budini

la Ludla 7Aprile 2014

(Tu sei qua ad uccellare / e tuamoglie è a casa con preti e frati / edei signori / che viene ben a te ungran disonore)Al suo rientro il giovane intravededue sagome nel suo letto. Tanto glibasta per trucidare i due sfortunati e,solo dopo il malfatto, li riconoscecome i vecchi genitori. Giuliano èdisperato, ma con il consiglio e l’aiu-to della moglie, si dedicherà da alloraalla penitenza: La su moi la i diss: “Zulian, nun fé, nun fé, tulèn de li fanciulle da maridè e pu tulen e’ pont d’Remen da fê

par scanzlè questo gran pichê”. (La sua moglie gli dice: / “Giuliano,non fare, non fare, / prendiamo dellefanciulle da maritare / e poi prendia-mo il ponte di Rimini da fare / percancellare questo gran peccato”). A questa parte di racconto, contenu-to nell’“orazione” raccolta dal Bagna-resi, s’innesta la leggenda dellacostruzione del ponte di Rimini.Non riuscendo a portare a terminel’opera, Giuliano accettò l’aiuto deldemonio che gli chiese in cambio laprima anima che vi fosse transitata. Ilponte fu terminato in tre giorni equando andarono a vederlo il diavolo

lo tentò. “È più bello di qua che dilà” gli diceva, ma la moglie aveva unformaggio e un cagnolino. Fece ruzzo-lare il formaggio per il ponte ed ilcagnolino lo seguì, così il demonioebbe in pagamento l’anima di uncane!Il racconto agiografico della vita diGiuliano l’ospitaliere riferisce inveceche la sua penitenza durò per anni,durante i quali assistette pellegrini eammalati, fondando “ospitalia”, finoa quando, mentre assisteva un lebbro-so, questi gli rivelò di essere Gesù egli concesse il perdono definitivo delsuo atroce delitto.

Via Trova si stacca dalla strada pro-vinciale Gambellara poco primadella salita, la rata de’ fiom, che portaal ponte di Ghibullo.Percorrendo questa bella strada cam-pestre, non si può non notare unaparticolare sinuosità: curve e contro-curve che si susseguono una dopo l’al-tra. Un antico percorso fluviale quel-lo “ricalcato” dalla Trova: prima di ter-minare nella parte interna di quellache un tempo era la laguna Classica-na, il corso d’acqua serpeggiava pigra-mente per l’esigua pendenza.Vediamo se anche la toponomasticariporta all’acqua?Alla voce Trova così scrive il Polloni(Toponomastica Romagnola, OlschkiEditore, 1966):“TROVA, Porta (Tróva – Cesena): a.1106 Loco q.v. Troa (MR, VI, 35); v. illat. class. trua, -ae = vasca, catino, eporta (DELL, 704) e il corso, trovola.PONTE TROVOLE (Val Bidente,19E3). TROVA (S.Sofia). POZZODELLA TROIA (Val Bidente) conincid. di troia (sus femina). Però nellat. med. troia, (anche macchina, lan-cia-sassi). TRUIA (Udine). Distinto:RIO TROGO (affl. Bidente, ERR,pare dal lat. med. traugum (truogolo)conca, bassura, in rapporto al lon-gob. *trog = catino, truogolo (Rew,8932). Tra i due elementi può esse-re avvenuta incidenza. TROVO(Pav.), TROGHI (Fir.).”

Qualcuno mi ha parlato del termineromagnolo trova riferendosi adun’area di esondazione del fiumeSavio.Dopo aver cercato inutilmente neivocabolari di dialetto romagnolo inmio possesso, mi sono dedicato allaricerca sul campo.Ho scoperto così che la parola vieneusata sulle due sponde del Savioall’altezza di Castiglione di Ravennae di Castiglione di Cervia. Qui ilfiume Savio si attorciglia in ampieanse fluviali che hanno permessol’accumulo di grandi quantitativi didetriti alluvionali.Queste vaste aree golenali si svilup-pano fra gli argini e il froldo [parteinterna dell’argine lambita dalla corren-te, n.d.r.].In particolare due di queste “trove”sono assai conosciute: si tratta della“trova d’Chichinen” situata alla sini-stra del Savio e, dalla parte di Casti-

glione di Cervia, della “trova d’Gaba-non”, ancor oggi coltivata a frutteto.Queste zone erano conosciute e fre-quentate dai cacciatori che dopo unamattinata di appostamenti infruttuo-si, sulla via del ritorno, potevanorecarsi int la trova, dove a fiancodelle aree coltivate vi erano arbusti,bosco e sottobosco che proteggevanol’avifauna: si poteva cacciare la bec-caccia, la galèna, e il fagiano che veni-va allo scoperto sui coltivi di Chichi-nen. Le sedimentazioni fluviali hanno“regalato” terre buone dove i suddet-ti coltivatori, Bubani detto Chichinene Gabanon ricavano ancora ottimeproduzioni e frutti squisiti.Ora non si caccia più e la trova nonfa trovar sorprese venatorie da riem-pire il carniere desolatamente vuoto! Soltanto i ricordi riescono ad appa-gare curiosità e memoria, ma chitrova la “trova”, ce lo segnali!

La Trova d’Gabanon

(e quela d’Chichinen)

di Pietro Barberini

la Ludla8 Aprile 2014

L’era un lon matena int al sët a la fend’mêrz o in prinzipi d’abril, parchèl’êria l’era þa tevda.Me a ‘rturneva a Fenza in curira da laPi d’Zizê indù ch’a sera andêda e’sàbat prema par fê visita a una mizeia. La curira la purteva a Fenza toti burdel ch’i andeva al scôl medi e las’afarmeva longh e’ Naveli o la Ram-gnâna (strade della campagna faentina)in chi post fisé.Tot i burdel mëz indurminté i ciaca-reva in dialet e i m tuleva ins e’ ròzalpar e’ dialet zitaden.Ma cla matena un fat u i distè adpösta: j oc spalanché, chi burdel iguardeva int e’ fònd dla curira.Là int e’ fond u j era un frustir, u scapeva benèsum da la su amanadura.I cminzè tot a fê di cument manimânch’i munteva sò e i s n’adaseva dla supresenza.“Ét vest clu ch’a là? Chi sral? Guêrdacum l’è amanê! E i bragon? E e’ bar-nus?” I l canzuneva senza la minima preo-cupazion che cl’òman e’ putes capì.Acsè a rivesum avsen a Fenza. Vers e’cavalcavia e’ frustir u s’alzè, l’avnèdnenz e puntend la mân vers ogni

burdël e’ dgè in dialet:“Te t’si dla Pi d’Zizê, te d’Sânt’Indré,te d’Frumlen, te d’Prêda” (sono par-rocchie della campagna faentina).E par ùltum, vultê vers ad me, e’ dgè:“E te a n t’ò capì, sgond me te t’venda la Basa, da Cunsëls o via là”. L’aveva cnunsù la parochia d’indùch’i avneva ogni burdël da com’ iscureva… E me? Mi pê l’era ad Prêdae mi mê la vneva pröpi da Cunsëls.L’era una dona istruida e fena parla-dora, ma la n’avleva che me a scures

in dialet. Ma li la ciacareva in dialetcun e’ bab e acsè me a javeva ciapê sòdal parôl da tot du.Zerta, l’era pröpi lò: Friedrich Schürrch’e’ þireva par al nòstar campâgnascultend nenca al dismitê di burdelpar garavlê dal parôl nôvi pr i sustudi. Fat òman! S’a i putes scòrar incudè a i dgirebche e’ dialet e’ vêl sol parchè u t’l’àinsignê tu mê, ch’l’à mes in cal parôli valur e la strê bona dla tu vita e tote’ ben ch’la t’à vlu.

Zerta, l’era pröpi lò!

di Rosella BucciIllustrazione di Giuliano Giuliani

la Ludla 9Aprile 2014

A javeva dòg èn quânt che e’ mi ba um cuntè e’ fat, a sema a Majân dri e’fion par tajê dla caneza. A m’arcurdcme incù che intânt ch’e’ cunteva, u javneva zò di guzlon e la su vosa la tar-meva. Guardend ste fion e’ dgè:«U m ven int la ment quânt ch’a stase-ma a e’ “Puget” tachê la macia, pochluntân da Pog a la Lastra. Me a javevavintri èn, a m sera spusê cun la tumâma da ‘na vintena ad dè e te ta nsira incóra vnu a e’ mond. A fasema icuntaden druvend la sapa da la mate-na a la sera, int un câmp indù ch’l’erafadiga stê dret tânt e’ pindeva. U s sin-tiva luntân aglj utmi s-ciuptedi d’unaguera ch’e’ pareva la n duves mai fni.D’int e’ bòsch u n s sintiva gnânca unuslin cantê, int l’eria ogni tânt dalvampêdi ad zoifan, sora la tësta in êltdi brench ad aparec nir che i ciuteva e’zil, fors in viaz vers ca.E’ “Puget” l’era quàtar ca ad sas scurcun tânta umiditê, a sema si famej inste racòz isulê tra i munt, u j era unmurizôl drì ‘na stradina pina ad giarullêrga cme un sintir, pugê e’ mur u j era‘na funtanëla d’aqua svidra, indù cheandasema a bé, a tu l’aqua par ca, e apurtema a be al bes-ci. A fòsum svigé

‘na nòta da un grân tramischê, u s sin-tiva di grend rog ch’i vniva da la funtâ-na. Tot quent (doni e òman) andase-sum fura impaurì sota e’ cêr dla lona.Dri l’ebi u j era un suldê tedeschch’l’avrà avu sè e no zdot èn, cun ladivisa tota strapêda, disarmê e impau-rì. A capesum ch’e’ tinteva ad scapê, us fasè capì che lò l’aveva bandunê e’ surepêrt, sperend d’ësar aiutê a turnê aca su. U s’era farmê a bé, quânt cheda sora la strê e’ dasè fura si set òman,che dop ‘vel lighê i j dasè un sach adböti. Che burdel e’ sanguneva da laboca e dagli ureci, quânt che incora

lighê i l purtè dentra ‘na stala, i ltachè sò a ‘na trêva spudendi adòs.Apena che fo dè i s’inviè zò par la stra-dina ch’la purteva a e’ fion, cun dichilz e sganason i l caicheva avânti parla calera.Che burdel e’ cuntinueva a caschê, aldoni al cminzè a rugê zarchend adcunvènzar chj òman che i aveva fat steparsunir che la guera la jera fnida e unzòvan acse senz’êtar u n n’aveva coipapar quel che j ìtar j aveva decis. U n’ifò manira, cun che ragaztin impaurìch’e’ sanguneva pr e’ sintir i s’avsinè ae’ fion, dal doni li si butè adös, pian-zend e strisend par tëra, al s mitè inznöc davânti sti òman zarchend ad feismet e lasê lèbar e’ burdël. Nenca e’mi ba cun qui de’ Puget i zarchè d’intervenì in difesa de’ suldê, ma i vnèminacé cun di s-ciop cun la prumesache e’ prem ch’u s muveva l’era môrt.‘Na vôlta rivé drì l’aqua i mandè vi aldoni cun di spatës, ma questi al sramasè drì la riva cuntinuend a rugê eimplorend ad no fê quel che agli avevaormai capì. E’ daseva fura e’ sol dasora e’ mont quânt che i s’avsinè a ungorgh, i cuntrulè che e’ zòvan e’ fosben lighê da la tësta a i pi, intânt chequi de’ Puget taché la riva i cuntinue-va a dì ad lasê pérdar che la guera lajera fnida. Lighê cme un salâm i ciapèin braz e’ tedesch e i l butè int e’gorgh, lò e’ sparè sot’aqua e dop un pôe’ dasè fura rugend e pianzend, ma chjòman zigh da un ôdi ch’e’ môrta larason, cun un baston i l piceva int latësta fasèndal turnê sot’aqua, e’ dasèfura incora ‘na vôlta rugend “No...no... mamma” u n’avnè piò a gala.»E’ mi ba e la mi mâma arpinsend a stefat i piânz incora.

E’ gorgh

di Giancarlo Nanni

Racconto terzo classificato ex aequo alla 7a edizione del concorso “e’ Fat”.Dialetto di Meldola

Illustrazione di Giuliano Giuliani

la Ludla10 Aprile 2014

Benché questo essere magico man-tenga sempre la propria valenza posi-tiva, a volte esso si rivela estrema-mente severo e rigoroso nell’educaree nel punire le trasgressioni, giun-gendo anche a trasformare in statuele figlie della regina, “bëli, mo acsèmaneschi, ðmunghêdi e dispetóði, ch’agljéra al sët cap de’ gêvul”1; è quanto fa lafata Verde, per castigare le tre princi-pesse del loro cattivo comportamen-to, dicendo loro:«Vuiêtri, cun al vöstar tëst balzâni, a javì pérs ognona tarðènt péral dal piò bëlich’eðesta. Adës, par pèna, a vanzarì a lèindò ch’a si coma tre stêtuv, insèna ch’un’avnirà on ch’e’ truva al nôvzènt péral,e pu, dêt che me adës a v’incév a quedentar a sta câmbra e a bot la cêv int e’laghet, lo l’arà da pischê la cêv, e pudop, tra vuiêtar tre, l’arà nench da indvi-nê quela ch’l’à magnê e’ mél; e instântch’u n’avnirà quel ch’e’ sarà bon d’fêquel ch’a j ò det, vuiêtri a vanzarì dalstêtuv: a capirì, a vdrì, a sintirì, mo an’putrì gnânch môvar un cavel, ne dìgnit, gnânch un suspir» (…).2

Esattamente come la fata si compor-ta anche la maga che, benchè possaessere considerata, sia sotto l’aspettolinguistico che simbolico, l’equiva-

lente femminile del mago, non svol-ge comunque mai la funzione diantagonista vero e proprio. Nellafiaba E’ prenzip Pasturen3, la magaMalvina, sotto le mentite spoglie diuna vcina, decide d’infliggere uncastigo esemplare alla principessaAla per il suo odio verso gli animalie le torture che fa loro subire, nono-stante si tratti della figlia del sovra-no:«Che te t’sia la fiôla de’ re o d’un garþonda stala, par me u n’à impurtânza, mot’è fat un delet che t’al pagaré chêr. T’anpu vdé j animél? T’impararé a tu spéðquel ch’e’ vô dì èsar un animêl! T’sarépar tri èn una besa, e s’t’aj ariv, par étartri èn t’saré una quaia; s’t’ariv in chêv,par étal tri èn t’saré una cavariôla, e separ chêð t’aglia fé, par tri èn t’impararéa èsar una dòna. A n’so quânti pusibili-tê t’épa d’ðgavignêt, mo questa l’è lapenitenza t’è da fê prema d’avdér i tu».4

Se, come dice Baldini, nelle fiabe “laFata è a volte più vicina alla fairyanglosassone che non al genius lociitalico”5, nel folklore, invece, essa èconsiderata come una sorta di pro-tettrice della casa e della famiglia,una specie di “nume tutelare”6 chetuttavia occorre rispettare, e che èpiù prudente non contrariare:“anche la fata offende quando vienedisubbidita, insultata o semplice-mente trascurata”7. In questa creatu-ra magica, carica di valenze e signifi-cati, sia nella narrativa orale chenella tradizione folklorica, vengonoad incrociarsi più figure, determi-nando un essere ibrido frutto diapporti culturali stratificati:

nelle fate (quelle nascoste in grotte,in luoghi boschivi e inaccessibili, onei tumuli delle più perse colline, edi cui si temeva la presenza) è rico-noscibile (…) l’alieno, arcano e ven-dicativo Fairy people della tradizioneceltica, che vive nascosto agli uomi-ni, ma con cui può capitare il con-tatto o l’incontro, mai scevro dimeraviglia e di pericolo; e sono rico-noscibili, anche, memorie di antichedivinità e ninfe pagane.8

Note

1. Baldini-Foschi a cura di, Fiabe diRomagna raccolte da Ermanno Silvestro-ni, vol. 3, Fiaba n. 56. Al tre principes.2. Ibidem: pp. 291 - 2923. Ibidem, Fiaba n. 46. 4. Ibidem: p. 185.5. Baldini, Alle radici del folklore roma-gnolo: origine e significato delle tradizio-ni e superstizioni, Ravenna, 1986, p.38.6. Ibidem: p. 37. Inoltre aggiunge: “laFata «buona», quella domestica,assume in pieno le caratteristiche digenius loci della casa tipiche degliAntenati; così Antenati, fuoco, Fatadel focolare vengono a ricoprire lostesso ruolo, la stessa valenza protet-tiva, la stessa funzione difensiva epropiziatoria (…).” (Ibidem: p. 39).7. Massaroli, N. (1927). La Fata nellatradizione popolare della Romagnola.Forlì (estratto da «La Piê») cit. in Bal-dini, 1986, p. 38.8. Baldini, Paura e “maraviglia” inRomagna: il prodigioso, il soprannatura-le, il magico tra cultura dotta e culturapopolare, Ravenna, 1988, p. 182.

Le figure magiche

nelle fiabe popolari romagnole

IV - La fata (parte seconda)

di Cristina Perugia

la Ludla 11Aprile 2014

perìcol, espért, ecc.; e poi spertà (incollina) o spartè. Già nel ’700 il diz.lat. Forcellini individuava come etimodi periculum ‘pericolo’ non il verbo lat.composto perire (per+ire), ‘andare inmalora’, ‘perire’, ‘morire’, ma piut-tosto il verbo greco peirào ‘tentare’,‘cercare’, da cui viene pure il lat. expe-riri ‘esperire’, che continua in esperiin-za, esperiment, espért col sinonimodotto perìt.1

La vita in fondo si risolve in una con-tinua serie di prove che ci rendono‘esperti’ a nostre spese. Periculum è la‘prova’, la ‘sfida’ con cui misurarsi.Comporta sempre un rischio piccoloo grande che sia; ma l’esperienza c’in-segna ad evitarlo o, almeno, a ridurneil danno: ta t’ scaltrés, s’ tu ’n séinvurnì da fat.2 A volte però confidia-mo troppo sulla bòna sórta o, allabuona, int ’na bota ad cul.Ad experiri si rifà il sostantivo dial.astratto spertà, o spartè, seguìto dinorma da di + infinito: la spertà adpruvè…, d’insést...; ad risghì…; ecc.).Questa voce – oggi più rara – indica ladecisione immediata di ‘porsi ingioco’ in situazioni straordinarie, di‘tentare’ d’istinto una via d’uscitainsolita.3 La chiamano anche ‘forza

della disperazione’, ma essa non hanulla da spartire con l’etimo di sperè‘sperare’ o disperè. Non spegne lavolontà; la ’n t’ fa perd la testa,almeno in senso figurato. Messi allestrette, talvolta troviamo in noi risorseimpreviste, come capita all’animaleche sconcerta e neutralizza a volte unavversario più forte.4

Note

1. Perizia per ‘attestazione’ è d’uso recen-te: ai fèz fè la perizia o perizié. Dai lat.per+ire) e de+per+ire) derivano deperì,deperiment e ‘perito’ per ‘morto’. Dacirca, ‘intorno’ o ‘d’intorno’, si formò unpopolare *circare, ‘cercare’, zarché e arzar-ché. U i è sempar e’ temerèri in zerca d’pericol, o ch’ u vó côi d’int tera agli éghipr e’ vers dla punta. Si dice pure: u ’ngn’è perìcol che… con quel che segue.2. Schélter ‘scaltro’ e scaltrìs vengono dallat. *ex+cauterire, ‘cauterizzare’ col ferrorovente; a sua volta dal greco. Non sempresi è scaltri per virtù naturale, ma perché siè stati ‘scottati’.In lat. il significato di periculum era piùesteso: corrisponde a ‘pericolo’ solo se pre-figura davvero il peggio: Plauto, Bacch.830: Dic quo in periculo est meu’ filius(Dimmi in quale pericolo s’è messo miofiglio). Ma va inteso diversamente in altricasi; sempre in Plauto, Merc. 768: Vein[visne] me experìrei? (Vuoi mettermi allaprova?); oppure. Càs. 293: Liber si sim, meopericulo vivam; nunc vivo tuo (se fossi libero,vivrei ‘a mie spese’; ora vivo alle tue),come dice lo schiavo al padrone. OppureTerenzio, Eun. 476: fac periculum in litteris,fac in palaestra… (affronta la prova nelle let-tere, affrontala in palestra). Ha quest’origine anche il greco-lat. pirata,che affrontava le sfide quotidiane del piùrischioso dei mestieri. Da quando s’è persal’abitudine di giocare all’antichissimo þóga bulen (o a palini, a piastri, al noð) sonoinvece sempre più rari i modi di dire miréo tiré a e’ palen, o ciapè sota gamba.3. In Vitruvio compare expertione[m]‘prova’ o ‘saggio’. C’è da supporre che, sulmodello di ‘verità’, ‘onestà’, ecc. circolassepure la variante plebea *experità[tem] chespieghi spertà o sparté. Il Quondamatteoregistra pure l’agg. spartéd ‘tentato’. 4. Prima di Plauto, Ennio aveva scritto:tum pavor sapientiam omnem, mi exanimato,expèctorat (allora a me, rimasto senza fiato,la paura trae dal petto tutta la ‘sapienza’):

par spuntéla al pió dal vólti l’è sa [o asé,sat est]. Potremmo tradurre con spertà ospartè. Per gli antichi il petto, anzi ilcuore, era la sede dei sentimenti; nella‘sapienza’ si condensava tutto: esperienza,conoscenze, abilità, intuito, sesto senso,presenza di spirito, sangue freddo.

� � �proletèri, proletarié, in ital. proletario,proletariato. Sono voci latine recupe-rate con le lotte sociali degli ultimidue secoli e riversate dalle varie linguenazionali nei dialetti: i proletari eranoricchi di ‘prole’, di ‘figli da sfamare’.1

Proles deriva da pro (‘in avanti’, ‘per ilfuturo’) e dal verbo lat. àlere ‘alimenta-re’, cioè tiré só, ‘far crescere’. Da àleretraggono origine aliment, alimentè,ecc., e poi altus, èlt ‘alto’2, ovvero‘cresciuto’, con alcuni derivati comealzè ‘alzare’, inalzè ‘innalzare’, altèr‘altare’; e poi alónn, ‘alunno’, che èl’istruì, o tiré só pr e’ so vers a la scóla(o int un imstér). Da *ad+altus derivòadultus ‘adulto’, òm fat.3

Note

1. Fu sempre difficile per il proletariooffrire ai figli modelli linguistici raffinati;vedi Plauto, Miles 752: Nam proletario ser-mone nunc quidem, hospes, ùtere (ora, infatti,caro ospite, usi pure un linguaggio da pro-letari). E Cicerone, Ad fam., IX 21, chiede:nonne plebeio sermone àgere tecum? (non[potrei] trattare con te in un linguaggio ple-beo?) Infine, in Petronio, Satyr. LXVI, unoche parla come può si permette di beffeg-giare l’istruito: Non es nostrae fasciae et ideopauperorum verba derides. Scimus te prae lit-teras fatuum esse (Non sei della nostra fascia[sociale] e perciò deridi le parole dei pove-racci. Ma sappiamo che con le lettere ti seirincretinito). E, conforme al parlar plebeo,compare un idiotismo: prae litteras anzichéprae litteris. È ‘fatuo’ chi non sa quel chedice: in Lombardia, fatüo, fatüòt.2. Altus significava anche ‘profondo’: ciòspiega ‘altomare’. Profònd viene dapro+fundus, da fòdere ‘zappare’, ‘scavare’:tra i derivati fòsa ‘fossa’.3. Dal frequentativo lat. adoléscere viene‘adolescente’, reso con una perifrasi: ch’ l’è incora dré a crès o ch’ u ’n è incoracarsù da fat. Il contrario del verbo lat.ad+olescere era ab+olescere da cui si ricavaabulì ‘abolire’, abuliziòn. Anche indole[m]deriva da intus+àlere (che cresce dentro):l’è d’ ìndol bona.

Rubrica curatada Addis Sante Meleti

da Civitella

la Ludla12 Aprile 2014

Concorso di poesia“Alberto Andreucci e

Pino Ceccarelli”Organizzato dalla C.A.P.It

Gatteo a Mare

Sezione Poesia

Castèl ad sàbia

di Germana Borgini - SantarcangeloPrima classificata

Tiré sò di castél ad sàbiaéun dop cl’ èlte pu zirés,un atùme i gn’è piò,e’ mèru si è ciàp indrì.

Castelli di sabbia Costruire castelli disabbia / uno dopo l’altro / e poi girarsi,un attimo / e non ci sono più, / il mare/ se li é presi indietro.

Una vósa

di Lidiana Fabbri - Cerasolo di RiminiSeconda classificata

An sò se stè i ché an sò se andè via.

An sò se a’ vàgh an sò se a’ stàgh.

A’ mèt i pàn tla vàlisa po’ a la guàst.

Intènt ch’e a i pèns a’ mèt so la cótma l’an è per dó la è snà per mé.

An ciàp la cèva a’ scàp da la porta àrtorni indrìprima cl’as ciuda u i è la tàza sla tèvla.

I s àpana i’ócc u m per da’ santìuna vósa dèntra te’ sàngui.

Am mèt dasdé a’ i voi pansè ancora un minut sa’ fàz bèn o a sbàj…

Una voce Non so se stare qui / non sose andare via. // Non so se vado / nonso se sto. // Metto i vestiti nella valigia /poi la guasto. // Intanto che ci penso /metto su la cucuma / non è per due / èsolo per me. // Non prendo le chiavi /esco dalla porta / ritorno indietro /prima che si chiuda / c’è la tazza sultavolo. // Si appannano gli occhi / mipare di sentire / una voce dentro al san-gue. // Mi metto seduta / ci voglio pen-sare / ancora un minuto / se faccio beneo sbaglio…

Incânt

di Bruno Zannoni - FerraraTerzo classificato

Ricôrd d’un dè luntân; dè d’premavira,int l’óra de tramónt, cla séra d’mazz:tè só e’ canón, mi dólza parðunìra,

cuntënta, stréta stréta stra al mi brazz,cun d’j’óc ch’an n’ho piò vést ad quij

[piò béll,e la stanëla ch’la vuléva a e’ vënt;e mè, spardù int l’incânt di tu cavél,com’estaðiê, a pedaléva lënt.

Pù dóp, inðdé, in cla pêð, sóra e’ rivêl,cun i suspìr dal piòp la só int la vétaed un silënzi màgich tót intóran,e’ prém di nòstar béð, cm’é naturêl.Pugiêda a ‘n piòp, la nòstra biciclétala s’aspitéva, chêlma, p’r e’ ritóran.

Incanto Ricordo di un giorno lontano;giorno di primavera, /nell’ora del tramon-to, quella sera di maggio: / tu sullacanna, mia dolce prigioniera, / felice,stretta stretta tra le mie braccia, / condegli occhi che non ne ho più visti di piùbelli, / e la sottoveste che volava al vento;/ e io, sperduto nell’incanto dei tuoicapelli, / come in estasi, pedalavo lento.// Poi, seduti, in quella pace, sopra l’ar-gine, / con i sospiri dei pioppi lassù incima / ed un silenzio magico tutto intor-no, / il primo dei nostri baci, come ènaturale. / Appoggiata ad un pioppo, lanostra bicicletta / ci aspettava, paziente,per il ritorno.

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Sezione Zirudëla

L’arloj de’ campanil

di Franco Ponseggi – BagnacavalloPrimo classificato

L’arziprit ch’l’è dla da e’ fiõn... a vreb fêj una canzõn s’a saves sunê’ e’ viulẽn, la chitara o e’ mandulẽn. Mo sicöm ch’a-n sò sunê e par þõnta a sò stunê, cun la pèna e la favëla a-j farò una zirudëla!

Stal puiðì agli à vent...

13Aprile 2014la Ludla

L’arziprit ch’l’è dla da e’ fiõn l’à dizið, par fê’ impresiõn a tot cvènt i paruchiẽn, nẽnc spindènd du tri cvatrẽn, (cvãnd ch’u-s dið avé’ dal voj !), d’impiantê’ (pinsì!) un arloj a là so ins e’ campanil, cvéði sóra e’ mi curtil, che sunènd e’ dà dal böt ch’e’ pê cvéði e’ taramöt. Nẽnc se d cva l’è un êt’ cumõn, l’è int la su giuriðdiziõn, parchè a cva, int la nöstra ciða, nõ di prit a-n n’avẽn briða.L’arziprit ch’l’è dla da e’ fiõn par no pérdar l’ucaðiõn, s’a vlẽn stêr a cvel ch’i dið, acsè in prisia, a l’impruvið, l’à pinsê d’aprufitê di cvatrẽn ch’l’à gvadagnê cun e’ rãm e cun e’ fër, ch’i-l purtéva cun i chër chi du dè ch’l’à urganiþê la racôlta par la strê. L’arziprit ch’l’è dla da e’ fiõn l’à riunì la cumisiõn par j’aféri paruchiél e l’à det: “Tot chi cvintél d röba vëcia, fër e rãm, distiné a cavê la fãm

in Braðil, int al misiõn, i n’è trop?, a n’ò raðõn? S’a tajẽn sta cvantitê, cun i suld d’una mitê a cumprẽn un marchingegn (e pu dgim s’a n’ò dl’inþegn!)pr’al campãn de’ campanil, ... cl’êtra mëþa pr’e’ Braðil!” “Ciàcar sẽnza fundamẽnt!”, dj’étr’i dið, “L’è un testamẽnt, l’è una bõna ereditê che un avcet u j’à lasê, du migliõn lasé a la ciða:e’ Braðil u-n gn’ẽntra briða!” Mo ch’e’ seia cum ch’e’ seia, röba véra o sól buðeia, fat e’ sta che l’à piazê un arnéð ch’e’ fa sunê toti agl’ór una campãna che par me l’è una cundãna. L’arziprit ch’l’è dla da e’ fiõn u-n capes la situazion. A-n sẽn piò, incudè, dl’Ötzènt e l’arloj i l’à tot cvènt, e l’è un cvël ch’l’è inùtil dil u-n gn’è bðõgn de’ campanil, e pu ðvegli, celulér, che ormai tot i n’à un zantnér e ogni gènar d’êtr’afêri... e tot cvènt i-t dà l’urêri!

Par furtõna e su buntê tota nöt u-n fa sunê: la matèna e’ cmènza al sì. Me, che incóra a vreb durmì, spes u-m scapa un azidẽnt cun e’ còr e i paramẽnt. A-n m’ariv a indurmintê’ che al sì e mëþ u-l fa sunê’.L’arziprit ch’l’è dla da e’fiõn,se l’aves dla cumpasiõn,e’ putreb cminzêr al sët!Me parò a sò incóra a lëte s’u-n gn’è di scuciadurun’ureta incora a-j dur.S’e’ vô rësar pröpi bõn,l’arziprit ch’l’è dla da e’ fiõn,e’ putreb sunêr agl’öt,cvânt ch’e’ vô, nẽnc trènta böt!Parò agli öt, chi ch’à d’andêpr’i su aféri, a lavurê,o in ufezi, s l’è impieghê,l’è þa ariv o l’è par strê.Cus’a cõntla la sunêdase la þẽnt la s’è þa aviêda?L’è par cvest, par rësar frãnc,ch’e’ putreb pu nẽnc fê’ d mãnc,e’ putreb nenc dêj un tai,e se pröpi u-n sõna maie’ fa mej, in cuncluðiõn,l’arziprit ch’l’è dla da e’ fiõn.

la Ludla14 Aprile 2014

Fnida la guëra, i mi fradel piògrend i n turnè in famì. J avevatruvê lavór e moj indo’ ch’is’atruveva, luntân da nó mo nenchtra d’ló. Cun i genitori, zà anzien, ai sera armasta sol me, la piò znena:u s viveva cun la pension de’ bab,ch’la n’era un granchè. Acsè, fnidala scôla dl’öbligh, durânt a l’istêandè a còjar la fruta e pu a vindmêpar ciapê quelch bajöch parl’invéran.In primavera a sarep andêda a fê lamundena int la risera ch’la jera intun pëz ad tëra dri a e’ mêr, tra laBasona e la Marabena. Una zeia lam rigalè la su bicicleta ch’la n’erapiò bona ad druvê; un’êtra la mfasè e’ “capân”, e’ fazulet da tësta,cun un carton cusì int e’ mëz ch’e’faseva da visira.Ogni paes l’aveva i su “caset”,quédar ad tëra cun atórna un rivêlch’l’aveva da cuntné l’aqua fena a iznoc. Quând in premavira u sduveva mundê e’ ris dagli erbazi, itneva l’aqua basa par avdé mej e’giavon, un’erba ch’la s’asarmieva ae’ ris, la s cnunseva paga biânca inmëz a la foja. Int ogni caset u jandeva dis don, che döp avé côlt e’giavon, al faseva un mazet e al le

laseva drì de’ cul. Me, ch’a sera lapiò zovna, a i duveva còjar e purtejint e’ rivêl. Int i moment lèbar aduveva arivê fena a la “Turaza”ch’l’era una buvarì dri a e’ mêr,ch’la javeva un poz artesiân d’indo’ch’a duveva tu’ l’aqua da dê da bé almundeni: a la miteva in du pitèrd’aluminio cun e’ mângh. A itachèva a e’ manubrio ma spes afaseva e’ viaz d’indrì a pè parchèl’era fadiga pidalê in chi sintir cunche pes.Spes una quelca dona la canteva, am’arcôrd ona ch’la dgeva: “Cosam’importa a me se non son bella, /tengo l’amante mio che fa il pittoree mi dipingerà come una stella”.Puntualment u j arspundeva da un

caset ona ch’la canteva in dialet e laj daseva dla poch ad bon parchè ladgeva publicament d’avé l’amânt. U s magneva da mëzdè, insdé int e’rivêl, dal vôlt u s scambieva un pô ad piê o la fruta, ma e’ magnê l’erasèmpar da puret. I s pagheva döpl’arcôlt, quând ch’l’era stê vindù e’ris e sgond a quânt l’era arivat e’prëz: int j èn ch’a jò lavurê me i sdasè sèmpar piò dla tarefa. A smitèd’andê a la risera quând ch’a mmaridè cun un cuntaden: a javevae’ lavór dri ca, ma u n’era mânchfadigós. A m’arcôrd d’avé paghê lami pêrt ad mubiglia cun i bajochdla risera. Da alóra u n’è pasdl’aqua sota i pont, nench quela dlarisera, che a que la n’esest piò.

La riÝera

di Lina Miserocchi

la Ludla 15Aprile 2014

Me a ’n capés tot ste pienþ a cnoss la fen di agnèl a Pasqua. E parchè i ’n s’ pò mazèi? Par fè dla raza? Un muntòn u po’ bastèia un brenc ad fèmni: acsè l’ha vlu e’ disten.

Se sol al femni in cambi d’erba e spen li dà lena e pu agnèl, lat e furmèi,parchè tot l’ann i mes-c’ i è da sfamèi

pr un pó d’lena ch’ u ’n s’ ciapa du bulen?

A t’ho capì: t’ vó saivè quéic agnelparchè l’è blin e u bela a gola averta;a e’ pès de’ fion ch’u ’n chenta e ch’u ’n è bel,

t’ui sbrenc la boca e pu tl’arbót; ch’u ’n mertad’andè, s’u s’ mòr, con san Franzèsc in zel,o int e’ col de’ Signor ch’u l trova a l’erta?

L’agnello pasquale

Io non capisco tutto questo piangere nel conoscere la fine /degli agnelli a Pasqua. E perché non si possono uccidere? / Perfare razza? Un montone può bastare / a un branco di femmi-ne: così ha voluto il destino. // Se solo le femmine in cambiodi erba e di spini / danno lana e poi agnelli, latte e formaggi,/ perché i maschi sono da sfamare per tutto l’anno, / per unpo’ di lana che non rende due soldini? // T’ho capito: tu vuoisalvare qualche agnello / perché è bellino e bela a gola aperta;/ al pesce di fiume che non canta e non è bello, // sbranchila bocca e lo ributti (in acqua); poiché non merita / d’andare,se muore, con San Francesco in cielo, / o attorno al collo delSignore che lo trova sperduto sui monti.

Garavél

Ch’u s ciamès Domenico Rubini u l dgéva savé al susurëli e qui dl’anagrafe in Cumon a Fenza, puch étar. Ilcnunséva tott par Molotof. Amanê a e’ stes môd d’istê ed’inveran, cun un brètt cajchê int la tësta, un stecadéntsempr in boca, l’êria d’on ch’u j faséva schiv e’ mondintir.La matèna l’era e’ prèm a arivê int i cumunèstar, in viaSeveroli. U s mitéva in sdé int la salèta dal riunion e e’lizéva l’Unitê. E’ faseva i su cument da par lò, u s la cia-péva cun j americhen e s’e’ paséva un quicadon la cman-da l’era sempar quèla: “S’a fet mo te a què? S’a zércat?”,nenc s’l’era e’ segretêri o un êtar di dirigent, i “funziuné-ri” u s dgeva alora.Dop l’andeva in piaza. E’ faseva e su zirten e u s afarmé-va sota a la löza a guardê e’ dafê ad ch’iétar: j arzdur, aldunéti cun la borsa dla spesa, i sinsél, i cazabóbal ch’i naveva gnint da fê tott e’ dè. E’ pareva ch’u j cumpatéstott: “Mo s’aràj da dì sò, da bacajê, da còrar?”.E’ capitè una zôbia a méz ‘d setèmbar ch’u l avdés uncuntaden ch’u l cnunséva. “Ohi Molotof – u j fasè – lóna cmenz a vindmê, a m det una man? U t farà pu còmadciapê quaiquël, a t vègh sempr aquè disocupê!”. Molotofu n pardéva mai la chêlma, mo quèla la j parè trop grösa.U j pinsè un pô, u s guardè d’atorna e pu u j dasè lamöla: “Boja de’ vigliach de’ su singulêr, con tott quich’ja bsogn ‘d lavurê, propri a me t’é d’avnì a rompar e’cazz!”.

L’agnello pasquale

di Stuvanen

Molotof

di Angelo Emiliani

Andema sò par cla schêla longa e streta ðghignazend espatasèndas on cun cl’êtar.E’ mèstar e’ staðeva a lasò, in cla sufeta dri al stël.I dgeva che e’ fos stê un famoð diretor d’urchëstra inArgentina, ch’e’ gvadagneva di capel ad bajoch mo a unzert pont u s’era magnê gnaqvel e u s’era ardot cun al pëziint e’ cul.Alora e’ dicidè, ormai vëc, d’arturnê a e’ paeð cl’l’avevalasê da babin. E’ campeva cun e’ susidi de’ Cumon, in piò e’ garavlevaun quich bajòch faðend lezion ad musica a nujìtar burdel.Apena in dentra a svuitema sora la têvla al sachi pini admuþgon ad zigareti ch’a javema racatê par lò e pu l’in-cminzeva la lezion.E màntar che no a scapuzema int al biscromi, int i diesise bemolle lo u s’avniva dri arvend i muþgon cun al dìdalþali da la nicotina...E’ miteva e’ tabac int un sachet, u l’armiscleva bân bân epu a la svelta u s faðeva la zigareta.A la fen dla lezion u s saluteva, e’ carizeva cun la manschêrna la testa plêda ad Dalmazio e u s dgeva cun cla voðbasa e ruchêda:“Fasì pôch casen zò par la schêla”.A travarsema ad corsa la piazeta e apugié a e’ muret arugiâma vers a la curva de’ fion a laþò da bas:“Croma, biscroma, semibiscromaaaaaaa!!!”U s arspundeva l’eco:“Oma… oma… omaaaaaaaa…”.

E’ mèstar ad musica

di Sergio Celetti

la Ludla16 Aprile 2014

«la Ludla», periodico dell’Associazione Istituto Friedrich Schürr, distribuito gratuitamente ai sociPubblicato dalla Società Editrice «Il Ponte Vecchio» • Stampa: «il Papiro», Cesena

Direttore responsabile: Pietro Barberini • Direttore editoriale: Gilberto CasadioRedazione: Paolo Borghi, Gianfranco Camerani, Veronica Focaccia Errani, Giuliano Giuliani, Omero Mazzesi, Addis Sante Meleti

Segretaria di redazione: Carla Fabbri

La responsabilità delle affermazioni contenute negli articoli firmati va ascritta ai singoli collaboratori

Indirizzi: Associazione Istituto Friedrich Schürr e Redazione de «la Ludla», Via Cella, 488 •48125 Santo Stefano (RA)Telefono e fax: 0544. 562066 •E-mail: [email protected] • Sito internet: www.argaza.it

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Esaminando la cosa da un punto di vista generale, noi tuttisiamo comunque debitori nei confronti di coloro che cihanno preceduto; di conseguenza è fatale che ci si scopra,magari senza manco rendercene conto, a ricalcarne com-portamenti e imprese, compenetrandoci nel ricordo nonmeno che nel loro operato, e si tratta di un impulso, di unaspinta emotiva, di una sorta di pungolo insito nella nostrastessa natura, tant’è che sarebbe inutile rinnegarlo o tenta-re di sottrarvisi.Eppure, se ci contenessimo a questo, vale a dire alla memo-ria, all’imitazione, ad uno sterile rimaneggiamento del pas-sato e di quello che i nostri precursori sono stati capaci direalizzare prima di noi, sarebbe come asservirci a un’e-sistenza di riflesso, un comportamento che ci renderebbedisadatti al futuro e, in definitiva, inadeguati a procedereoltre un livello già conseguito da altri, ben prima dellanostra entrata in campo.

In ambito poetico la faccenda non è suscettibile di radicalimetamorfosi, incluso tutto ciò che concerne le consonanzee i vincoli più o meno emotivi e consapevoli coi nostri tra-scorsi e soprattutto con le figure che, in un modo o nell’al-tro, ci hanno condizionato l’esistenza.Quelle dei genitori, in tal senso, sono senz’altro fra le mag-giormente emblematiche , ma a tal proposito c’è da dire chementre i rapporti con la madre appaiono in linea di massi-ma inequivocabili ed improntati all’affetto, alla nostalgia eal ricordo, finendo alla lunga per palesarsi gratificanti mascontati, quelli col capofamiglia possono risultare non dirado più complessi e problematici, tanto che a volte trovanoconsonanza in noi solo in un secondo tempo, vale a direposteriormente alla sua scomparsa, allorché iniziamo a con-siderare se, quand’era ancora in vita, lo si fosse veramenteconosciuto altro che nelle ovvie dimestichezze del quotidia-no, piuttosto che nelle inquietudini inespresse, nella ritrosiadei silenzi, nelle impervia reticenza dei suoi pensieri. E dunque eccoci asserviti a rievocarne l'immagine, chieden-doci quale sarà stato l’ultimo guizzo della sua mente di-nanzi alla morte, e quale potrà essere il nostro, o se per casonon saremo chiamati tutti a spartirci quel medesimo pen-siero, già sospettando in qualche modo che il giorno in cuiotterremo la risposta, probabilmente non saremo più inte-ressati a conoscerla... Paolo Borghi

Maurizio Livio Gasperoni

I’òutum pansìr

I’òutum pansìr

S’avral péns é mi bà,int i’òutum dé?Quant u n staséiva piò so d’int e’ lèt, e u n magnéiva gnént, mò gnént da fat.

Parché s’là tèsta u i éra.Mo mai che u m’épa dèt un quaicósa,a n’e’ so: un nóm, una vója, un pansìr, un pàis int e’ stóngh, un ségrét.U n’à mai gnénch zàirch e’ prìt.

Quèl ch’à pansarò mè, quant l’avnirà la mì òura?Mé mì bàch’ us n’é andè sénza dì quèl?

Gli ultimi pensieri Cosa avrà pensato mio babbo \ negli ultimi giorni? Quando non si alzava più dal letto,\ e non mangiava più niente,ma proprio niente. Perché con la testa c’era.\ Mai che mi abbia detto qualcosa,\ che so: un nome, una voglia,\ un pensiero, un peso sullo stomaco,un segreto.\ Non ha mai cercato neppure il prete.\ Cosa penserò io,\ quando giungerà la mia ultima ora? \ A mio babbo \ che se ne è andato senzadire nulla? \ O mi verrà in mente mia mamma? \ Che non ho fatto in tempo neanche a salutarla…\ Gli ultimi pensieri.\ Cosa mi verrà in mente?

Ó u m’avnirà int la màint la mi ma?Ch’a n’ò fat témp gnènch a salutéla…I’òutum pansir.Quèl ch’u m’avnirà int la màint?