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la Ludla 1 “Poca favilla gran fiamma seconda” Dante, Par. I, 34 la Ludla (la Favilla) Periodico dell’Associazione “Istituto Friedrich Schürr” per la valorizzazione del patrimonio dialettale romagnolo Autorizzazione del Tribunale di Ravenna n. 1168 del 18.9.2001 Questo numero è stato realizzato con l’apporto del Comune di Ravenna Società Editrice «Il Ponte Vecchio» Anno XVII • Marzo 2013 • n. 3 SOMMARIO Il rischioso uso delle «false fonti» folkloriche di Eraldo Baldini e Giuseppe Bellosi Modi ‘d dì di Checco Guidi La filosofì di Mauro Mazzotti E’ montgomery di Sauro Mambelli La mitologia femminile della Romagna - IV di Silvia Togni Parole in controluce Rubrica di Addis Sante Meleti La caveja cantarena di Vanda Budini Pr’i piò znen Rubrica di Rosalba Benedetti I scriv a la Ludla Libri ricevuti Diana Sciacca - I s-ciöcapiat di Paolo Borghi p. 3 p. 6 p. 8 p. 9 p. 10 p. 11 p. 12 p. 14 p. 14 p. 15 p. 16 In occasione delle imminenti festività pasquali presentiamo due testi tratti da Romagna solatia di Paolo Toschi, il volume pubblicato nel 1925 e ristampa- to dalla Schürr nel dicembre del 2011. Si tratta di un breve saggio sulle feste della settimana santa in Romagna e del testo di una Passione del Signore rac- colto a Faenza dallo stesso Toschi. Feste della settimana santa Reliquie viventi del dramma sacro nelle tradizioni della Romagna di Paolo Toschi Nelle feste e costumanze popolari della settimana santa sono rimaste anche in Romagna varie traccie dell’antico dramma sacro: in verità, queste «reliquie viventi» come le chiama il loro più illustre studioso, il D’Ancona, non sono in Romagna così importanti come, ad esem- pio, in altre regioni (Toscana, Umbria, Sicilia) e non hanno certo lo sfarzo e la grandiosità della più conosciuta festa drammatica, la rap- presentazione della Passione che si fa ogni anno ad Oberammergau. Non sappiamo se ciò sia dovuto al fatto che la tradizione non ce le ha conservate fino ai nostri tempi moderni o se piuttosto tali feste non abbiano mai avuto da noi anche nei secoli scorsi, molta popolarità e ampiezza di svolgimento: noi propendiamo per que- sta seconda ipotesi. Inoltre è bene osserva- re come tali feste dram- matiche ispirantisi alla passione di Cristo sopravvivano soltanto nella parte di Roma- gna che confina con la Toscana, regione in cui feste di questo tipo sono più diffuse. Segue a pag. 2 Buona Pasqua ai nostri lettori Marzo 2013 Modigliana: Oratorio del Gesù Morto. Gruppo di sta- tue lignee, con i personaggi della Passione di Cristo, che venivano portate in processione la sera del Vener- dì Santo.

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la Ludla 1

“Poca favilla gran fiamma seconda”Dante, Par. I, 34

la Ludla(la Favilla)

Periodico dell’Associazione “Istituto Friedrich Schürr”per la valorizzazione del patrimonio dialettale romagnolo

Autorizzazione del Tribunale di Ravenna n. 1168 del 18.9.2001

Questo numero è stato realizzato con l’apporto del Comune di Ravenna

Società Editrice «Il Ponte Vecchio» Anno XVII • Marzo 2013 • n. 3

SOMMARIO

Il rischioso uso delle «false fonti»folklorichedi Eraldo Baldini e Giuseppe Bellosi

Modi ‘d dìdi Checco Guidi

La filosofìdi Mauro Mazzotti

E’ montgomerydi Sauro Mambelli

La mitologia femminile dellaRomagna - IVdi Silvia Togni

Parole in controluceRubrica di Addis Sante Meleti

La caveja cantarenadi Vanda Budini

Pr’i piò znenRubrica di Rosalba Benedetti

I scriv a la Ludla

Libri ricevuti

Diana Sciacca - I s-ciöcapiatdi Paolo Borghi

p. 3

p. 6

p. 8

p. 9

p. 10

p. 11

p. 12

p. 14

p. 14

p. 15

p. 16

In occasione delle imminenti festività pasquali presentiamo due testi tratti daRomagna solatia di Paolo Toschi, il volume pubblicato nel 1925 e ristampa-to dalla Schürr nel dicembre del 2011. Si tratta di un breve saggio sulle festedella settimana santa in Romagna e del testo di una Passione del Signore rac-colto a Faenza dallo stesso Toschi.

Feste della settimana santa

Reliquie viventi del dramma sacro nelle tradizioni della Romagnadi Paolo Toschi

Nelle feste e costumanze popolari della settimana santa sono rimasteanche in Romagna varie traccie dell’antico dramma sacro: in verità,queste «reliquie viventi» come le chiama il loro più illustre studioso,il D’Ancona, non sono in Romagna così importanti come, ad esem-pio, in altre regioni (Toscana, Umbria, Sicilia) e non hanno certo losfarzo e la grandiosità della più conosciuta festa drammatica, la rap-presentazione della Passione che si fa ogni anno ad Oberammergau.Non sappiamo se ciò sia dovuto al fatto che la tradizione non ce leha conservate fino ai nostri tempi moderni o se piuttosto tali feste

non abbiano maiavuto da noi anche neisecoli scorsi, moltapopolarità e ampiezzadi svolgimento: noipropendiamo per que-sta seconda ipotesi.Inoltre è bene osserva-re come tali feste dram-matiche ispirantisi allapassione di Cristosopravvivano soltantonella parte di Roma-gna che confina con laToscana, regione incui feste di questo tiposono più diffuse.

Segue a pag. 2

Buona Pasqua ai nostri lettori

Marzo 2013

Modigliana: Oratorio del Gesù Morto. Gruppo di sta-tue lignee, con i personaggi della Passione di Cristo,che venivano portate in processione la sera del Vener-dì Santo.

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la Ludla2 Marzo 2013

Esiste sì, qualche elemento popolarecon carattere drammatico in alcunecerimonie della chiesa così come sisvolgono in Romagna: ad esempio,nella lavanda dei piedi e nella cenavengono chiamati ogni anno, a rap-presentare gli Apostoli, dei vecchidel popolo che tradizionalmente ese-guiscono la loro «parte» e ricevonoper questa loro prestazione una pic-cola ricompensa, anch’essa datasecondo modi tradizionali: ma tratta-si di cerimonie in cui l’elementodrammatico non è molto importan-te, né affidato completamente alpopolo. Più notevole è la processionedel Gesù Morto fatta la sera del giove-dì santo in Fognano, paese a 16 Km.da Faenza sulla strada faentina.Ma la reliquia più importante didramma sacro in Romagna è senzadubbio la festa del Signor Morto che sicompie la sera del Venerdì Santo aModigliana. Tale festa è fatta conmaggiore magnificenza ogni tre annie allora dicesi festa grossa, con mino-re apparato gli altri anni ma semprecon enorme concorso di pubblicovenuto dalle campagne e dai paesicircostanti. E tutto il popolo indi-stintamente è tanto attratto da talespettacolo, che questa, mi si assicura,è l’unica processione in cui nonsiano mai avvenuti disordini perl’opposizione dei partiti sovversivi: eciò, per la Romagna, mi pare abba-stanza.La festa incomincia sulle otto emezzo di sera e dura fin verso ledieci: la preparazione ne è affidataall’antica compagnia dei Bianchi, checonservano nella loro chiesa diversestatue in legno molto antiche (ilpopolo dice: del cinquecento) rap-presentanti il Gesù Morto, depostodalla croce, la Maria Addolorata, Nico-demo con in mano le tenaglie e i chio-di e il gruppo delle Marie piangenti.Queste due ultime statue (Nicodemoe le Marie) essendo troppo vecchie erovinate non si adoperano più per laprocessione. Le prime due, invece,alcuni giorni prima della festa vengo-no trasportate nel duomo e il Cristoè deposto sopra una bara. Dalduomo parte la lunga processione:precede la compagnia dei Bianchi, intonaca bianca, con sopra una piccola

cappa scarlatta, segue una schiera difanciulli vestiti da angioli, ognunodei quali tiene in mano i vari segnidella crocifissione: il martello, i chio-di, una piccola scala a piuoli ecc.Viene quindi il Gesù Morto steso sulferetro portato da quattro uominidella compagnia della Misericordia, incappa nera; tien dietro la statua dellaMadonna in atteggiamento doloro-so, anch’essa portata a mano dauomini della Misericordia, attorniatie seguiti da molti altri portanti fiac-cole accese. Tutto questo gruppo ècircondato dai ladroni, alcuni a piedi,altri a cavallo, vestiti alla romana conscudi, elmi, corazze, spade, ecc.Segue infine la immensa turba deifedeli, che cantano inni della chiesa(il miserere ed altri). La processionegira per le vie principali del paese,lungo le quali, su la facciata di alcu-ne case sono spiegate delle granditele dipinte, rappresentanti i diversimomenti della via crucis. La proces-sione giunge fino a un luogo già pre-cedentemente accomodato in modoche raffiguri il calvario (un rialzo diterreno con tre croci) e con un largogiro ritorna in chiesa. Quivi, dopouna breve predica su la passione delSignore, la festa ha termine.

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La passione

Chi i vo ster a sintì e ad ascultéI pianti della Vergine Mareja Quand che l’aveva pers e su cher fiolPiò che lo cerca e mai non l’aritrov. Ciapè una viulena cusì stret La vens a riscuntré li tre Marei; Li dis: Che dona sivi vò?– A so' una povra rosa pumpinèlaVego cercand e mi chero fiolPiò che lo cerch e mai no l’aritrov.– S'a si s'avessi dì al su fatez.– E mi fiol Vè ben bïond e rez.– – Si Madunena, ch’a l’aven ben vest. A l’en ben vest trameza a di ladron Chi lo mineva al legno de la crós. – Quando la sintè questa nuvèlaLa dè una bota e la caschè par tèra.Al tre Marei al si butè lè drìOna da chep e cl’etra da i pì E ona la i bagnè la su buchinaCun di l’aqua santa inviuleda.

Èco la Madunena riturneda.– Chi vo' venì cun me al legno de la crósAvder e mi fiol aduluréAvder e mi fiol martirizé.– A viniresum ben avulintira Aven paura di chi gran Giudei E ch'i si dega vilaneia drì.–La si n'invà al legno de la crós Quando la fo al legno de la crós. La lo ciamè tre volt in elta vós.E su chero fïol u i arispós:– Adesi, adesi vò medra MarejaAn o gnanch putù dì: madrena meia; A so ben a qua mo an i so avanzé, An so nè zigh, nè zop e nè strupié; Di gran martiri chi mi n'à ben dé;A j ò dumandé da bé par carité J m’à dé dla calezna arimurté; Mo l’era ben amér, mo l’era fórt, Mo l’era pez e che nun è la mórt. – Chi la dirà sta santa urazion, Chi la dirà sta santa pasion Trenta maten in giost e non falìDi mela mort lo nun pò ma murì. Si chesca in acqua nun si pò neghé Si chesca in fugo nun si pò brusé La Madunena l’al vo sempr’ aiuté.

Varianti

Al verso 12:E mi fiol chi l’era biond e rez Inti la faza e’ per e Gesù Crest; E mi fiol chi l’era rez e biond, Inti la faza e’ per e re de mond.

Una variante dal v. 28 seguita a questomodo:Quando la fo luntan da quele porte Tulè una pietra e la menava forte. Un anzulen del zì ui’ abadè:- Arvì, arvì, arvì chi l’è Mareja Arvì, arvì, arvì chi l’è MarejaLa pio dolenta don che al mond

[ui seia.Mo quand che la fo là in quel gran

[consiglio La vest a fare i chiodi al suo bèl figlio:- Mo Zuda, Zuda fai un po’ sutilChe j’ à d’intrer int’ un sanguo gentil.- E me par tu dispet an e’ voi fé Tre livar [libbre] piò di fèr ai voi zunté, E, me par tu dispet an e’ farò Tre livar d’ fer par giod ai zuntarò. -Piangeva la lona e pòi piangeva il sole,Gente crudele, non piangiò l’amore; Piangeva la lona e se piangeva i santi Gente crudele e non piangeva gnanca.

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la Ludla 3Marzo 2013

Capita spesso, consultando i nuoviluoghi della divulgazione, cioè i varisiti Internet o le pagine dei blog, diimbattersi in notizie, offerte comecerte e fondate, che da sole sarebberoin grado di rivoluzionare, relativa-mente alla cultura della Romagna epiù precisamente della zona cono-sciuta come Romagna-Toscana (cioèle aree collinari-montane a cavallo frale due regioni), ogni conoscenza stori-ca, linguistica, etnologica. Unabomba dirompente, insomma, cheriguarda la presunta sopravvivenza,in quelle aree, addirittura di forme dicultura e religiosità di origine etrusca,costituenti la base di un folkloredenso di implicazioni riconducibili auna «vecchia religione», in senso mur-rayano1, che in epoca medievale emoderna sarebbe stata travisata ecombattuta come stregoneria. Un fol-klore pieno di folletti, esseri fantasti-ci, entità soprannaturali, confluentiin un pantheon multiforme che,appunto, tramanderebbe nomi e fun-zioni di divinità etrusche. Quali sonole fonti di tali «rivoluzionarie» affer-mazioni? Nuove ricerche capaci discavare e scoprire tesori là dove nes-sun altro li aveva trovati? No: sempli-cemente le pagine di vecchi libri diCharles Godfrey Leland (Filadelfia1824 - Firenze 1903)2, uno «studioso»americano che fu in zona a condurviuna alquanto strana «ricerca sulcampo» negli ultimi anni dell’Otto-cento. Leggiamo da uno dei blog,uno a caso fra i numerosi:

È evidente, come appare attraverso ilrigoroso ed ineccepibile lavoro delLeland, che nella Romagna Toscana enelle aree limitrofe [...] la «vecchia religio-ne» era sopravvissuta intatta sino ainostri giorni [...]. Queste credenze e pra-tiche segrete registrate quando eranoancora vive e diffuse, seppur taciute [...],testimoniano la sopravvivenza, nel centropiù civile dell’Italia cristiana, non solo diuna forte fede in antiche divinità, spiriti,elfi, streghe, incantesimi, sortilegi, profe-zie, pratiche mediche alternative, amule-ti, ma addirittura del paganesimo classi-co3.

Ora, che nelle culture rurali e popola-ri italiane ed europee, ancora in anni

recenti e fino all’oggi, seppure inmaniera sempre minore, fosse – e sia– sopravvissuto un «sapere» che siaffiancava alla religiosità cristiana, cre-ando con essa un’affascinante commi-stione, è noto e scontato. Sconosciutifino al lavoro del Leland, e tornati adesserlo dopo, sono invece i nomi dellepresunte entità fatate e divinità chel’americano registrò: il folletto Faflòn,e poi Palò, Bergola, Infrusa, Ràmle,Lasii, Tinea o Tigna, Teramo, Turanna,Pane, ecc. (nomi, attribuzioni e relati-ve implicazioni che presto venneroanalizzati e smentiti da Luciano DeNardis, uno dei più attenti conoscito-ri e raccoglitori di tradizioni romagno-le del Novecento)4.

Da dove sbucavano e come finivanonegli appunti del Leland, quei nomi,visto che in Romagna, area di ricercafolklorica battutissima da studiosi ericercatori almeno dal 1811 con l’In-chiesta napoleonica confluita poinella prima opera organica su unacultura popolare italiana, cioè il cele-bre Usi, e pregiudizj de’ contadini dellaRomagna di Michele Placucci del18185, nessuno li aveva mai sentiti eregistrati, né mai li sentì o registrò inseguito? Come mai non compaionoin nessuno dei tanti libri e articolidedicati al folklore nostrano e in nes-suna fonte documentaria (dai mate-riali sinodali a quelli d’archivio) epersino narrativa (favolistica, ecc.)?Possibile che solo gli informatori diLeland conoscessero tali «vaste e pro-fonde» sopravvivenze, e solo lui abbiapotuto documentarle? Torniamo acitare dal blog di prima:

È, quello miracolosamente tramandatocidal Leland, un mondo spirituale paralle-lo [...]. L’autore descrive puntualmente,documentandola con metodo rigorosa-mente scientifico, questa civiltà territo-riale che sarebbe altrimenti rimasta igno-ta [...]. Dall’opera stessa del Leland tra-spare, a vari livelli d’interpretazione, l’au-tenticità assoluta del suo lavoro.

Ecco, il problema e l’errore più grossistanno proprio qui: nel credere cheLeland usasse un «metodo rigorosa-mente scientifico» e nel sottoscrivere«l’autenticità assoluta del suo lavoro».Nel farlo oggi, soprattutto, quandoneppure in passato è mai stato fatto,

Il rischioso uso

delle «false fonti» folkloriche

di Eraldo Baldini e Giuseppe Bellosi

Charles Godfrey Leland (1824-1903)

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la Ludla4 Marzo 2013

perché fin da subito gli studiosi «veri»capirono ed affermarono che le suepagine erano piene solo di invenzio-ni, forzature, inganni. Una colossale«bufala», insomma, tanto che non sitrovano mai, in una bibliografiascientifica nel campo dell’etnografia,citati i lavori dell’autore americano,che già all’uscire delle sue operevenne smascherato e screditato, comeoggettivamente meritava. Solo alcuniesempi (ma potrebbero essere innu-merevoli): fra gli etruscologi, nel1934 J.W. Spargo definì «disarmante»e privo di ogni rigore il metodo diLeland6. Albizzati considerò le sueopere «piacevoli frottole che l’autoresi fece appioppare da qualche burlo-ne»7. Più recentemente, M. Harariliquida con un sorriso di compati-mento i brani «documentari» diLeland, «che qualche arguto toscanoo romagnolo [...] s’inventò per farcontento l’infervorato studioso ame-ricano»8. Come ha scritto recente-mente Massimiliano Di Fazio, insom-ma, «se potessimo accettare come affi-dabile il materiale raccolto daLeland, ciò aprirebbe un imprevistosquarcio su aspetti della cultura etru-sca»; peccato però, come concludel’autore, che quel materiale «affidabi-le» non lo sia affatto9.E in campo etnografico? Be’, qui legiuste stroncature della sua operafurono, se possibile, ancora più docu-mentate e più nette. Se Raffaele Pet-tazzoni, Comparetti e Milani parveronon disdegnare il lavoro di Leland; seNino Massaroli, non nuovo ad infio-rare di suggestioni ed «invenzioni» ipropri scritti anche di preteso caratte-re documentario ne accettò parti,riproponendole in modo acritico10; seDe Gubernatis gli riservò dubbiindulgenti11, tutti gli altri, da subito,ne colsero invece l’infondatezza e il«pericolo». Giuseppe Pitrè, ad esem-pio, definì sarcasticamente «curio-so»12 il lavoro di Leland; RaffaeleCorso ritenne necessario interveniresull’argomento non solo con studispecialistici, ma anche inviando efacendo pubblicare propri scritti allarivista di cultura romagnola «La Piê».Qui scrisse:

Giova, dunque, sapere che l’americano

Leland, durante la sua permanenza [...]nella così detta Romagna-Toscana, dovet-te essere vittima di qualche tiro, moltopiù grave e dannoso di quello fatto alVigo dal giovane Capuana; ond’egli,privo di oculatezza [...], fu portato a rite-nere autentici i molti scongiuri di cui eravenuto in possesso, e che invece eranofalsi, coniati a bella posta per lui da qual-che spirito bizzarro o forse dal suo infor-matore principale, un tal Peppino. Tan-t’è che come egli stesso afferma, nellamaggior parte dei casi la risposta ai que-siti non seguiva subito, ma dopo uncerto tempo, sotto pretesto che, per aver-la esatta, occorreva interrogare streghe estregoni o chiedere notizie in paesidistanti. Di tali filastrocche senza signifi-cato [...] ignoriamo la lezione vernacola,senza dire che quella italiana, quale silegge nell’opera, è piena di errori di ognigenere e specie13.

In appendice all’articolo di Corso,Luciano De Nardis annotava, riferen-dosi alle strofe e formule raccolte daLeland:

Accettandole, avremmo pur diritto diconcludere che la vita etrusca è ancoratutto un palpito palese nella vita dellanostra gente. E così essendo, perché nondovrebbe essere facile allora a qualchealtro ricercatore riudire dalla bocca diun vecchio montanaro lo scongiuro diTuranna o di Pane? O cantare in quelladel fanciullino il ribobolo che l’eco di

questi nomi ripropaga? Ma niente inveceè stato possibile raccogliere [...]. Ella dicebene, Professore, i carmi citati non pre-sentano nessuno dei caratteri di quelliche chiamiamo scongiuri magici o magi-co-religiosi. L’argomentazione minuta èormai qui superflua. Una crassa igno-ranza li ha creati e una sciocca furberia liha moltiplicati; e una dottrina supina-mente colpevole li ha accettati. Orabasta. Il nostro popolo, interroghiamolonoi. Noi, che ne abbiamo il diritto; e ildovere14.

E il popolo, sia De Nardis che moltialtri, lo hanno «interrogato» innume-revoli volte, senza trovarvi mai nep-pure il più piccolo elemento ricondu-cibile a quelli che avevano riempitointeri volumi di Leland. Come fupossibile ciò? Come mai lo studiosoamericano riuscì a collezionare uncosì grande corpus di falsi? Le rispostele dà Leland stesso nelle note riguar-danti il proprio lavoro, nelle propriememorie15, nei materiali lasciati econfluiti nella sua biografia, scrittadalla parente Elizabeth Robins Pen-nell16. E sono risposte semplici quan-to avvilenti. La prima è che Leland, come meto-do, non lasciava libertà ai testimonidi raccontare, ma chiedeva loro, sola-mente, conferma a teorie e costruzio-ni bizzarre che già si era fatto in testa.La seconda è che, ad ogni risposta, ein proporzione alla sua entità quanti-tativa, ricompensava il testimone condanaro, rhum, tabacco, ecc. Più volte l’americano si chiede se nonsia proprio questo a sciogliere la lin-gua ai popolani tosco-romagnoli,spingendoli a portargli in abbondan-za strofette, nomi e notizie di ognispecie, ma, anche nel dubbio, vaavanti, abbagliato da un’insaziabilefame di visibilità e notorietà, la stessache lo spingeva, da dilettante qualein fondo era, a presentarsi con copio-se relazioni ad ogni convegno specia-lizzato, salvo poi lamentarsi di nonessere tenuto nella dovuta considera-zione. Leland non ebbe mai un postonel consesso degli studiosi di folklo-re, perché da tutte le sue opere, a par-tire da quelle sugli indiani Algonchi-ni del Nordamerica, risultava e risul-ta evidente, come annota Di Fazio,

Ch. G. Leland, Sopravvivenze etrusche eromane nelle tradizioni popolari, Londra,1892. Copertina della prima edizione.

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la Ludla 5Marzo 2013

come egli «introducesse nel materialeraccolto elementi personali, intesi adarricchire storie e racconti e a darloro il taglio desiderato; a tale scoponon esitava ad esercitare pressionisugli informatori, perché le lororisposte finissero per confermare lesue idee»17. Le idee di uno «studioso»affascinato sì dalla materia, ma privodi una sua conoscenza. Nel caso delle ricerche condotte nellaRomagna-Toscana, complici anchel’assoluta estraneità culturale e lingui-stica con il contesto (il dialetto roma-gnolo ovviamente non lo conosceva,e lo definiva una variante del bolo-gnese) e l’abitudine a ricompensareogni apporto, accolto acriticamente einfiorato di aggiunte personali, i limi-ti delle sue metodologie raggiunserolivelli assoluti, tali da rendere le sueopere «da dimenticare» (come è larga-mente successo). Per confezionareEtruscan Roman Remains e Aradia,insomma, Leland ascoltò vari abitan-ti dei luoghi, i quali, passandosi lavoce, approfittarono della credulitàdell’americano e della sua generosità.A fornirgli molto materiale soprattut-to per Aradia fu una certa Maddale-na, il cui vero nome era forse Mar-gherita Talenti (o Taleni, o Zaleni),sedicente «strega», che di certo fu aiu-tata da altri nell’operazione. Il «Vange-lo delle streghe» che scaturì da taleapporto è stato (e in misura minoreè ancora) una delle basi del movi-mento neopagano Wicca, diffusosoprattutto negli Stati Uniti. Insomma, quella di Leland e dellesue opere sul folklore tosco-romagno-lo è notoriamente la storia di ungrande «falso», frutto di ingenuità edi malafede. Ma qualcuno, anche intempi recenti, sia con libri pubblicatida editori locali che con articoliapparsi su riviste, forse con lo stessospirito acritico che contraddistingue-va l’autore americano, ne ha rispolve-rato (o forse solo ora scoperto) leopere, usandole come principale basee fonte per cercare di dare un appor-to alla conoscenza e allo studio delnostro folklore. Ottenendo solo, inmaniera imperdonabile, l’effetto con-trario.Abbiamo dedicato una buona partedella nostra vita alla ricerca e allo stu-

dio del nostro folklore, e se, di certo,questo non ci dà alcuna «autorità», cifa però sentire l’esigenza e la «respon-sabilità» di mettere in guardia dal pec-cato di leggerezza con cui si utilizzanofonti screditate e false. Un uso cherischia di creare distorsioni gravi edifficilmente rimediabili, e le paginedei blog che citavamo all’inizio diquesto nostro intervento ne sonouna prova palese.

Note

1. Intendiamo le teorie di Margaret A.Murray, esprese nei suoi volumi TheWitch-Cult in Western Europe del 1921(trad. it.: Le streghe nell’Europa occidenta-le, Tattilo, Roma, 1974 e Garzanti, Mila-no, 1978) e The God of the Witches del1933 (trad. it.: Il Dio delle streghe, Ubal-dini, Roma, 1972).2. Ci riferiamo a Etruscan RomanRemains in Popular Tradition, T. FischerUnwin, London, 1892 (edizioni italianedel testo: Il tesoro delle streghe, Rebis, Via-reggio, 1997 e 2002, e un’altra, parziale:Streghe, esseri fatati e incantesimi nell’Italiadel Nord, Elfi Edizioni, Bologna, 2004) ead Aradia, or the Gospel of the Witches,David Nutt, London, 1899, di cui esisto-no sei edizioni italiane col titolo (chepresenta qualche piccola variazione) diAradia, il Vangelo delle streghe; la primadelle edizioni Rebis, Viareggio, 1994; laseconda della casa editrice All’Insegnadi Ishtar, Torino, 1994; la terza delleEdizioni Lunaris, Viareggio, 1995; la

quarta di Olschki, Firenze, 1999; laquinta di Stampa Alternativa, Viterbo,2001; la sesta delle edizioni Aradia, Bre-scia, 2005.3. http://mazzapegolo.blogspot.it/2007/12/romagna-toscana-paganesimo.4. Cfr. L. De Nardis, nota all’articolo diR. Corso, Presunti miti etruschi nel folkloredella Romagna-Toscana, in «La Piê», X(1929), pp. 163-168: 167-168.5. M. Placucci, Usi, e pregiudizj de’ conta-dini della Romagna, Barbiani, Forlì, 1818.6. J.W. Spargo, Virgil the Necromancer.Studies in Virgilian Legends, Harvard Uni-versity Press, Cambridge, 1934, p. 301.7. C. Albizzati, Qualche nota sui demonietruschi, in «Dissertazioni della Pontifi-cia Accademia Romana d’Archeologia»,1922, s. II, 15, pp. 233-268: 234, nota 3.8. M. Harari, «Non si va senza duca in que-sto Inferno». D’Annunzio e il mito etrusco,in Atti del secondo Convegno InternazionaleEtrusco (Firenze 1985), G. BretschneiderEditore, Roma, 1989, pp. 239-251: 244.9. M. Di Fazio, Un «esploratore di sub-cul-ture»: Charles Godfrey Leland, in «Archa-eologiae. Research by Foreign Missionsin Italy», I (2003), n. 2, pp. 37-56: 40.10. Cfr. N. Massaroli, La storia dei popolinei canti infantili, in «Folklore», X (1924),n. 4.11. Angelo De Gubernatis, sulla rivistache dirigeva, cioè la «Rivista delle Tradi-zioni Popolari Italiane», I (1893-1894),p. 86, nel recensire il citato libro diLeland Etruscan Roman Remains in Popu-lar Tradition, pur accettando con uncerto entusiasmo la comparsa di queltesto, affermava che esso andava «inalcune parti discusso» e che le preghiereed invocazioni in esso documentatedovevano «essere nuovamente raccolte,vagliate e trascritte con maggiore esattez-za».12. G. Pitrè, Bibliografia delle tradizionipopolari d’Italia, Clausen, Torino-Paler-mo, 1894, p. 494.13. R. Corso, Presunti miti etruschi ecc.,cit., p. 164.14. L. De Nardis, nota al citato articolodi R. Corso (vedi nota 3).15. C.G. Leland, Memoirs, D. Appletonand Company, New York, 1893.16. E. Robins Pennell, Charles GodfreyLeland. A Biography, Houghton, Mifflinand Company, Boston-New York, 1906.17. M. Di Fazio, Un «esploratore di sub-cul-ture», cit., p. 51.

Ch. G. Leland, Aradia o il vangelo delle stre-ghe, Londra, 1899. Frontespizio della primaedizione.

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la Ludla6 Marzo 2013

A mi ciap pri’ l’èbji dl’aqua senta?!(Letteralmente: “Mi avete scambiatoper l’acquasantiera?!”)

L’acquasantiera, per i cristiani che ladomenica affollano le chiese per par-tecipare alla Santa Messa, è un ogget-to molto familiare. Quando si entrain chiesa o quando si esce al terminedella funzione ci si immerge veloce-mente la punta delle dita per poi“segnarsi” con l’acqua benedetta.Il modo di dire è pronunciato da chivuole lamentarsi perché ad esempiotutti gli amici o i membri della fami-glia si rivolgono a lui (o lei) per chie-dere soldi: “Ba, dam i sold prì andè elcinema!”, “Ba, dam i sold prì fè laspoisa!”, “Ba, dam i sold prì cumprèla biciclèta!” e così via.Un altro ricordo è legato alla miaadolescenza: c’era sempre, nel gruppodelle ragazzine alle quali noi faceva-mo “il filo”, quella più “gettonata”,più simpatica, più attraente, quellainsomma che cercavamo di accarezza-re o pizzicare o toccare più delle altre.A volte tutto questo interessamentoveniva considerato esagerato e anchela più paziente sbottava in un: “A miciap prì l’èbji dl’aqua senta?!”.

� � �La chésa la mesa, mo lan ròba(Letteralmente: “La casa nasconde,ma non ruba”)

Ho ancora nelle orecchie, a distanzadi quasi cinquant’anni, questa fraseche i miei genitori (la mamma soprat-tutto) ripetevano a me e più spessoalle mie sorelle quando non trovava-no, nella fretta di vestirsi e di uscire,una sottana o un paio di guanti, ouna spazzola, o un orecchino, ecc.“Dai ch’un’è gnint.. .tvidrè che quelche t’circh u scaparà fura...e arcortiche la chésa la mésa, mo lan roba!”(Suvvia che non è un guaio.. .vedraiche quello che cerchi prima o poi loritroverai.. .e ricordati che la casanasconde, ma non ruba).

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Um taca fe’ da flép(Letteralmente: “Sono obbligato afare da... accompagnatore”)

Anche in questo detto entra prepo-tente il mio ricordo d’infanzia. Essen-do l’ultimo arrivato (e’ covanid) disette fratelli di cui cinque femmine,mi capitava spesso di dover andare apasseggiare controvoglia con unadelle mie sorelle e il fidanzato (e’murous) di turno. E il fatto avevaanche lati positivi perché per timoreche raccontassi ai genitori alcuni par-ticolari della passeggiata, venivo“comprato” con cioccolatini, cara-melle e leccornie varie. Anche le mieprime apparizioni sulla spiaggia diRimini e i miei primi timidi bagni

furono una conseguenza di quel pia-cevole lavoro che poteva essere anchecatalogato come “sfruttamento mino-rile”.Il termine “flép” significava - anche senon si è certi della sua etimologia -accompagnatore...controllore...unaspecie insomma di certificato digaranzia.

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L’è cmè mèta e’ péz me’ baghin(Letteralmente: “E’ come mettere ilpizzo al maiale”)

La presente similitudine, legata anco-ra una volta al noto animale tantovezzeggiato da vivo per quanto amatoe osannato una volta morto, vuoleevidenziare un forte contrasto nel-l’abbigliamento di una persona, nel-l’arredamento di una casa, ecc. tantostridente da paragonarlo ad un maia-le a cui venga appiccicato un belpizzo. Il pizzo sinonimo di finezza,perfezione e classe accostato al maia-le rozzo e sporco.Quando capita di vedere una personasolitamente grossolana e rude, sia neimodi che nel vestire, tirata a lucidoper una festa o un’occasione partico-lare che indossa un frac o un abitoelegante e si nota il suo disagio, vieneda sussurrare: “Te vést ma quél...l’ècmè mèta e’ péz me’ baghin!”.

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Al cnass e’ vizji dla bes-cia(Letteralmente: “Lo conosco il viziodella bestia”)

Modi ‘d dì

di Checco Guidi

Francesco “Checco” Guidi,sammarinese del castello di

Serravalle, da circa trent’anni sidedica alla valorizzazione ed

alla salvaguardia del dialetto.Dal 1986 ad oggi ha

pubblicato sei raccolte di poesiedialettali, accompagnate da

cassetta o CD audio.Recentemente ha dato vita ad

un laboratorio dialettaledestinato agli alunni di scuola

elementare e agli studenti discuola media per riproporre ai

ragazzi attraverso i modi di diree i detti popolari la conoscenza

delle proprie radici.Ai modi di dire Guidi ha

dedicato due volumi, pubblicatidel 2004 e nel 2010, dai quali

abbiamo estratto una piccolaantologia, scegliendo alcuni fra

i detti che ci sono parsi piùsignificativi.

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la Ludla 7Marzo 2013

Il buon padrone di casa conosceva eamava non solo le persone, ma anchegli animali domestici, le bestie; e neconosceva - di conseguenza - pregi edifetti. Conoscere “E’ vizji dla bès-cia” voleva significare ad esempiosapere che un bue tirava meno dell’al-tro l’aratro, o che un mulo era piùcocciuto e ostinato di un suo simile.Ma tale affermazione poteva esseretrasferita anche agli esseri umani. Nelqual caso entrava in gioco l’ironia nelmettere in risalto le “cattive” abitudi-ni, le debolezze del figlio, dellamoglie, o del nonno, per poi farsifurbi e agire di conseguenza.“Al cnass e’ vizji dla bès-cia!” diceva ilmarito alla moglie che non teneva unsegreto, e quindi dovendo parlarecon un parente di un affare impor-tante o di un fatto privato o grave cer-cava di isolarsi e di cambiare luogo omomento.

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A vlema ‘nde’ a durmi’ che sta gentala vo’ ‘nde’ chesa?! (Letteralmente: “Vogliamo andare adormire che questa gente vuole anda-re a casa?”)

In questo bellissimo detto popolare sipossono gustare tutta la saggezza el’astuzia dell’uomo della campagna,abituato ad arrangiarsi - nel sensobuono - per superare le avversità e leristrettezze della vita povera e sempli-ce di tanti anni fa.Sarà capitato anche a voi qualchevolta di avere degli ospiti in casa chetra una chiacchiera e l’altra non sidecidono mai di andare a dormire; esalutano, fanno l’atto di alzarsi,danno la buona notte poi... riattacca-no con altri discorsi e intanto iltempo passa, voi siete sempre piùstanchi e non c’è verso di farli anda-re a casa. Tentate con uno sbadiglio,poi cercate di dire che l’indomanidovete alzarvi prestissimo e loro risa-lutano, si rialzano e... trovano nuoviargomenti di conversazione!Ebbene, sembra che un “arzdour” diuna volta, che proprio non riuscivapiù a reggere quelle chiacchiere, sialzò, si girò verso la moglie e le disse:“Ciò, a vléma ‘ndè a durmì che sta

génta la vò ‘ndè chésa?!” e gli ospiti aquel punto non poterono fare altroche accomiatarsi e partire.

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Da e’ chent de varnéi (Letteralmente: “Dalla parte del fred-do”)

“Varnéi” deriva certamente dalla paro-la inverno; conseguentemente venivautilizzato soprattutto nelle campagneper indicare l’angolo della casa espo-sto al freddo, alla tramontana, l’ango-lo cioè dove non batteva mai il sole.Poteva essere comodo in estate avereun “rifugio” fresco e riparato dal soleper poter trovare un po’ di refrigeriodalla calura ma, diversamente, neglialtri periodi dell’anno si cercava digirare alla larga da “e’ varnéi” che siriteneva poco salutare per chi tornavastanco e accaldato dalla campagna eper chi lavorava intorno a casa, nel-l’aia ad accudire gli animali domesti-ci o al pagliaio.Spesso quella parte della casa venivadestinata a deposito di aratri o biroc-ci fuori uso o altro materiale non piùutilizzabile. A volte l’espressione veni-va ironicamente indirizzata dal geni-tore al figliolo vagabondo per convin-cerlo a fare i compiti o a dare unamano nei lavori della campagna:“Ardusti a chésa a pulì la stala e a dèuna ména ma la tu ma, sinà at daghun chèlc da e’ chént de varnéi...”

(“Sbrigati ad andare a casa a pulire lastalla e a dare una mano a tua madre,altrimenti ti allungo un calcio dovenon batte mai il sole”), intendendochiaramente il sedere!

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Pes cot e cherna cruda, om vistid edona nuda (Letteralmente: “Pesce cotto e carnecruda, uomo vestito e donna nuda”)

Nel presente detto è contenuta tantasaggezza popolare tramandataci dainostri carissimi nonni. Più che undetto è proprio una massima di vita,un condensato di esperienza di diver-se generazioni. Grazie a questa saggez-za appunto sappiamo che in cucina ilpesce, per poterlo gustare in tutta lasua bontà e genuinità, è bene che siafreschissimo e ben cotto; al contrariola carne - intesa principalmente .come bistecca — va cotta “al sangue”per salvaguardarne i principi beneficiad essa intrinseci e, soprattutto, pergustarne al meglio l’aroma e il sapore.Così come trattando di uomini edonne l’esperienza popolare ci dice -e lo possiamo verificare sinceramenteanche da noi stessi - che l’uomo, ana-tomicamente, è sicuramente più gra-devole e “interessante” da vestito con-trariamente alla donna che allo sguar-do maschile risulta, sempre dal latoanatomico, ben più “intrigante” edesiderabile... da nuda!

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L’e’ “lèrgh” cme’ e’ gal soura lafrounta(Letteralmente: “E’ largo come ilgallo sulla fronte”)

Questo colorito modo di dire va adallungare la schiera dei tanti dettiindirizzati alle persone avare, tirchie,sparagnine. Quando di una persona(uomo soprattutto) si mormora che“l’è lèrgh cmè e’ gal soura la frounta”,metaforicamente si vuol far capireche quell'individuo è “largo” (nelsenso della generosità) come il gallosulla fronte, e visto che il gallo prati-camente non ha fronte si comprendetutta l’ironia dell'affermazione.

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la Ludla8 Marzo 2013

La fisosofì l’è un quël bèn cumplichê.Parò, zira e piròla, a la fen la bat sèm-par d’ilè: se quând ch’anden a fni daBatitàch1 e’ fnes tot iqnaquël ilè o seinvézi u n’i sia nench e’ ziron d’ritó-ran. Sól che int e’ càlcio e’ gventa unapusibilitê in piò, o coma ch’ u s’ disadës - ch’ e’ bsogna scòrar furëst -un’êtra chance: quel ch’l’éra armastindrì int la clasèfica l’à incóra môdad garavlês un quêich pont in piò oadiritura, s’l’à de’ cul ben aséi, d’ ven-zar e’ campiunêt.

Invézi, par e’ s-cianaz, sgond a zértfilòsof, se la vita la s’ slonga nencad’là da la Pinarëla1, e’ putreb ësarprinsena una farghêda. Ânzi parquési tot i teòlogh (ch’i sareb pu i filò-sof ch’ fa d’ religion, parò i n’è totd’acôrd) e’ campiunêt a s’e’ zugharè-som tot int e’ ziron d’andêda - quandch’a sen i qua da ste cânt - e int lasgonda turnêda, quela da d’là, u isareb sól la promozion o la retroce-sion. Parò ilà d’là, quând ch’ u s’ va afinì in retrocesion, i dis ch’ u s’ che-sca bèn zo int la graduatôria, mo bènin bas dimondi. Che adiritura, par ipiò sumër, e’ pê ch’ u n’ i sia piòmanira d’andêr in A. E qui ch’ilè j èpirs par sèmpar e u j toca d’zughê sólint una categorì indò ch’ i s’ ciapa digrènd chilz int i stench; e se l’arbitrou’ s’ n’adà u i slonga un chélz nencalo, quând ch’la n’ sia una sgundê inti dent. E i su guardalinee j è nenca pez:invézi dal bangiarin i segna i fël cundi furchél a tri rëbi e i t’ dà di grèndsfruciot int e’ cul.

Parò par i piò tent e’ sareb sól quis-cion d’andêr a fnir in B, o nenca inC1 - e’ purgatôri - sgond a quel ch’javéva fat quând ch’ i zughéva int e’ziron d’andêda. Ilè u si sta par mela emela èn, parò t’ pu incóra pinsê a lapromozion. I prutestânt - e par questj è dri ch’ i prutësta sèmpar - i dis ch’la n’è icè parchè u j è int e’ mëz la pre-destinazione, ch’e’ vreb pu dì ësar zasgné. Insoma: j areb decis se nó anda-ren pr’in so o pr’in zo, prema incórad’ zughê la partida. Bëla nuvitê: l’èquel ch’ i fa nenca adës int e’ calcioscommesse; te t’é vòia ad fê di göl: u jè sèmpar l’àrbitro ch’ u t’ fes-cia e’rigór, s’u n’ t’à za cazê fura de’ câmp

cun e’ cartlen ros: inféran e u n’ s’indiscut. O quândinö Paradis, nenca set’ci stê in panchena a gratêt la marie-ta par tota la vita. Alóra, a degh me,csa s’ai fat zughê la partida a fê che, see’ Mìster e’ cnunséva za e’ risultêt?!

Parò i catolich i dis che cun e’ liberoarbitrio (ch’ l’è un àrbitro piò unëst,ch’u n’è cumprumes cun incion) tet’ai pu mètar nenca de’ tu. Mo e’ bso-gna filê dret a e’ temp, e nö brìsolzarchê d’fê göl cun al mân!!! U ngn’èpu d’qui invézi che al mân i t’l’i taiaadiritura, mo l’è mei non scòran, par-chè qui ch’ilè j è bèn parmalus. Ibudèstar invézi ló i dis ch’l’ è sèmparuna rôda ch’la zira, e u n’ s’ariva maiin chêv, se non ilà bèn a la longa, döpche prema t’ci stê nenca un gat, unafurmiga, un lion, una zèmza de’ fiê e,a l’ùtom zir, un s-ciân. E dal vôlt, set’an t’ cumpurt ben t’pu dê nencad’indrì bèn in prìsia e cminzê dacapo; che alóra ben ch’e’ gventa unquël longh: un so e zo ch’u n’ fnes

piò. Che lo i j dis e’ samsara, un quëlch’ u t’ toca d’pirulê sèmpar in tond,nenca se t’ci strach.

Insoma: l’è un ciapêi. U i fot nencaun filösof - Pascal - ch’è dgéva: fasencont burdel ch’la sia una scumesa. Tet’ fé la brêva parsona par tota la vita ese pu d’ là u ngn’è gnint, t’a n’é pérsignint, a e’ màsom un quêich divarti-ment, csa vut ch’e’ sia. Mo s’u i coi aësar caiquël, t’é vent un téran a e’ löte t’at sistém par sèmpar, par total’eternitê. Icè, a öc e cros, e’ pê unrasunament giost… Parò, a pinsêiben: e se parchêsi te t’é puntê sóra ae’ caval sbagliê!? Fasegna cont – cheincion u s’ufenda – che te t’avivtadlet Giöve, e invézi ad là u j éra Mani-tù… u n’ s’ sa miga coma ch’u la pötu! Se te t’an avivta dlet incion, maga-ri t’ries ad amasêla cun un suris, domösi, una quêica piruleta; in fondt’ci ste un bon giavlaz, t’a n’é mai dêdân a incion… Mo se parchêsi t’atsivta butê cun la cuncurenza, t’é vòiad’cantê Rusina: u n’ t’ la pardona brì-sal. L’è coma pr’ agli elezion: se t’cistê zet, döp j è tot amigh, ch’ e’ végaso chi ch’ u i pê. Mo se te t’é fat laprupagânda par i republichen, e d’là -mitegna- e’ coi a cmandê i cumunè-star? L’éra mólt mei ësar stê un ignavo,che nenca Dânt qui ch’ ilè - nè chêr-na nè pes - u i met prema dl’inféran,in che sid indò ch’ui bëca sól al tafa-nël. Ch’ u n’ sarà un grând gudivai.Mo nuiétar, abitué cun al nöstar zan-zêl, a n’s’n’adarèsom gnânca!

Nota

1. Il cimitero di Ravenna, per eufemi-smo, detto Pinarëla perchè edificatoin mezzo alla pineta, mentre Batitachera il soprannome di un custode.

La filosofì

di Mauro Mazzotti

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la Ludla 9Marzo 2013

A sema vérs a la fẽ dj en zincvanta e istudẽt i scapéva alìgar e faðend un pôad gâtera da la scôla chl’éra cvelamagistrêla in Via Tombesi dell’Ova aRavena. Parec ad ló j avnéva da i paiðd’intórna a la zitê e alóra a grupet iraþunþéva in prisia e’ vjêl dla staziõ indóv che u i tnéva da stê al curir parpurtêj a ca. E’ trat par arivê a la Sital’éra scvéði ublighê: u-s travarséva laPjaza di Cadù, u s’imbuchéva i Pùr-tigh dl’Ina e pu, pr’e’ Pêl-Ciavê, laPjaza de’ Pöpul e la Via Diaz cla cun-tinvéva cun e’ vialõ ch’e’ purtéva a lastazion.Dal vôlt, se u s’ éra schêp un pôprema, u j éra e’ tẽp par farmês unbiðinĩ int un pècul bar ch’l’éra d’davã-ti a e’ scalõ de cumõ in dóv che int iprem juke box u-s putéva sintì al can-têdi ad Tony Dallara - õ ad cvi ch’ru-géva - o di famuð cantẽt americhẽ,coma Paul Anka e i Platters... Che barl’éra sèmpar pĩ ad þùvan e nó a i staðe-ma un pô ad piò a la þùiba, parchè inte’ döp-mëz-dè a duvema turnê a scôlapar fêr e’ tirocinio, prema d’andê azarchê una mẽsa in dov che par ducvatrẽ i-s daðéva un pjat d’amnëstrachêlda, o a i zardẽ pôblich par magnése’ panĩ ch’avema purtê da ca. Unacvêlca vôlta - mo da rêd!- ch’a ‘vemacvejch bajöch ad piô, andema in ViaMentana int una “tavola calda” paruna bëla purziõ ad laðãgn a e’ fóranch’la ‘ndéva þo coma gnit. E nöstar

þuvnöt e’ faðéva l’ùtm’ãn, cvel ch’u iavreb parmes ad ciapê pr’i cavel chetãnt suspirê diplöma; sé, parchè int jùtum du en l’avéva calê ad parec e suimpegni int i studi: u i pjaðéva ad stêpiò tãt int e’ bar de’ paéð a þughêr apiroch o a e’ calcio-balilla; e pu, e’sàbat séra, ad andêr int al baléri cunla su creca ad amigh.L’utóbar avanzê e’ purtéva i prem frede nẽca par lo u j éra e’ bðogn d’uncapöt nóv, o ad chicôsa de’ gènar.L’éra ad môda in chi de e’ montgome-ry: un tri-cvért fat ad stöfa pesãta, srêd’davãti cun di btõ longh e stret ch’is’infiléva int di lazet, e cun ad dridaun capoc che, a l’ucurẽza u-s putévatirê so par ciotê tota la tësta. U n’avé-va scórs a ca, mo cnunsend al cundi-ziõ finanziêri piotöst schêrsi dla sufamì, u-n gni avéva pinsê piò. Mo che’sàbat, a la sölita usida da scôla, imbu-chend i Pùrtigh dl’INA insẽ a du-triamigh, sòbit drida ad un grupet ad

studentesi tr’al piò blini, e’ véd stajêsa la luntãna la sêgma d’una donaznina curva sota al spal che agli avévasupurtê par en fadighi e spjaðé, dulurch’i-n-s pö gnãca immazinê par lamôrta de’ marid saltê in êria par unamena tedesca int l’avril de’ cvaran-tazẽcv: e pu, döp a pôch tẽp, par cvelad’un fjôl che dj’en u n’avéva sol vin-cvàtar par una sgrézia int e’ lavór cheincóra la þẽta de’ pöst j arcôrda. Mo e’piò znĩ di tri fjul che u j’éra armast parli l’éra coma un riscat vérs’un distẽacsè cativ: sóra lo la javéva puntê totial su sperãzi. E’ duvéva andê a scôla,stugê par un tètul ad studi ch’u i putesgarantì un avnì piô bõ. Adës la jéra alà cun un scatlõ tr’al mã; la tnéva dastê e’ su burdël par mustrêj l’ùtumsacrifizi che la javéva fat par lo: la javéva cumprê e’ montgomery!Mo la reaziõ de’ nöst zuvnöt la-n fodal piò felizi: prema ad tot l’avè da di’sóra e’ mudël, parchè l’avéva e’ capocch’l’éra intunê e nö atachê coma chjé-tar, e acsè u n’i pjaséva! (e invezi, cune’ tẽp, e’ fot un cvël ùtil, parchè,cavend e’ capoc, e’ montgomery u-strasfurméva int un caputĩ abastãza ele-gãt); e pu e’ ðbruntlè par e’ pöst dóvch’i s’éra incuntré, e pr’e’ mumẽt:cvãt ch’e’ staðéva ridend e scarzendcun i su amigh.La mãma l’armastet un pô delusa pare’ cumpurtamẽt de’ su fjôl, mo la idaðet pôca impurtãza, cuntẽta cumch’la jéra, parchè tra puch mið, cun lafẽ dla scôla, u-s sareb realiþê e’ su sogn.E nöst zuvnöt invézi, cun e’ pasê de’tẽp, pinsend a i tent sacrifizi fët da lasu mãma par fêl stugêr par una carirada mèstar che pu la j avreb dê tantisudisfaziõ, l’avet môd ad pintis e nonpôch, cvãt ch’u i turnéva int la mẽtche fat che u j avéva avért una frida inte’ côr che la-n s’i sareb piô risanêda.

E’ montgomery

di Sauro Mambelli

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la Ludla10 Marzo 2013

Dall’emancipazione femminile allastregoneria il passo è breve, tanto cheper molti secoli le donne che mostra-vano atteggiamenti ribelli o emanci-pati venivano bollate di stregoneria e,in svariati casi, addirittura giustiziate.La zona del santalbertese, e quindiattorno a Mezzano, è sempre statacelebrata per le fattucchiere chepopolano le zone più isolate e storica-mente depresse. La Strölga de’ Mzân(l’astrologa di Mezzano) che le rappre-senta un po’ tutte era però presa dimira dal credo popolare con la frases’la n i ciapa incù la j ciapa dmân ‘senon ci prende oggi, ci prenderàdomani’.A questa lunga schiera di maghe piùo meno cattive che abitano le campa-gne della Romagna da nord a sud(tutt’ora molta gente si reca qui davarie regioni d’Italia per consultarle)si aggiunge un personaggio assoluta-mente unico e molto ben localizzato:nel piccolo borgo di Boncellino, fra-zione di Bagnacavallo, nel dopoguer-ra viveva la Sorcara, donna brutta(come un sorcio, da cui viene proba-bilmente l’appellativo) e invidiosadella bellezza altrui e che faceva male-fici alle belle ragazze; come in tutte lefavole che si rispettino all’eroe negati-vo si contrappone sempre un eroepositivo: chi era sopraffatto dai male-fici della strega cattiva si rivolgeva aPiron di Faenza, non a caso un magouomo, che con la sua magia biancatoglieva i malefizi della Sorcara.A metà strada tra una strega cattiva eun mostro, evocata nelle ninnenanne della bassa Romagna, comeun essere terribile che uccide i bambi-ni strangolandoli con una corda,vagante tra la notte e il crepuscolo, laBórda personifica in genere lapaura1. Come una sorta di lupo man-naro è spesso invocata dagli adultiper ammonire i bambini disobbe-dienti, molto probabilmente con l’in-tento di tenerli lontani da luoghimalsani e nebbiosi come le paludi. Lasua etimologia pare venga dal gr. bór-boros, ‘pantano’, in quanto la Bórdaappare come un fantasma bendato evagante nelle paludi e nei canali dellaBassa Romagna, che sbarra la stradaai viandanti e rapisce i bambini.Nella pianura padana, essa è la neb-

bia: la Bórda la liga i bei babì cun unacôrda ‘la Borda lega i bei bambini conuna corda’. Ma esiste anche il dio cel-tico Borvo o Bormo, legato alle acquesorgive, a cui spesso erano offerte vit-time umane, attestato già pressoLucano, Strabone e Tacito a proposi-to delle tribù barbariche dei Lingoni,dei Cimbri e di altre popolazioni ger-maniche. È certo che la nebbia, lafoschia, la palude, l’oscurità da sem-pre incutano paura nell’uomo, quin-di il buio in primis esaltava le fanta-sie popolari. Sempre restando in tema di fenome-ni naturali violenti, incomprensibili enegativi, la furia delle acque e delvento può assumere spesso le sem-bianze di un drago o di un serpentee, nel detto diffuso in Romagna t’ampêr magnê da la Besaboa ‘mi sembrimangiato dalla Bisciabova’ (detto dipersona gracile, pallida, malata), laBesaboa o Bèsa boa appunto assumeuna connotazione fortemente negati-va e spaventosa. Analizzando l’etimo-logia, il nome di bisciabòva fa pensaread un ‘serpente boa’, che stritola eprocura male (la bua, per i bambiniromagnoli). Plinio fa riferimento adun serpente acquatico (Hydrus) i cuimorsi produrrebbero tumefazioni e ilcui morbo, detto boa, si cura conrami di sambuco. In una fiaba regi-strata nel lughese2 si parla di un’or-chessa che abita nel sottosuolo, dettaBèsa bura, laddove bura fa pensarealla bora, vento di tempesta, il chegiustificherebbe le attestazione di ter-mini simili in tutto il Nord Italia,Friuli compreso, dove bissabòve signi-fica ‘turbine, uragano’. A questa figu-ra si può assimilare la Béssa latona3,biscia selvatica grossa con squamenerastre e lunga circa due metri, che

come un parassita vive negli antichiborghi e che, insinuandosi lestamen-te tra le coperte delle puerpere, suc-chia il latte dai loro capezzoli, facen-do morire di fame i loro neonati.Visto che la malattia viene general-mente legata alla stagione invernale,la figura della Segavëcia non può cheseguire a ruota. Si tratta di unadonna brutta e vecchia, che rappre-senta il rigore e la sterilità dell’inver-no, il cui fantoccio vien messo simbo-licamente al rogo al tempo dell’equi-nozio di primavera, affinché lasci spa-zio al rigoglio primaverile. Di solito,infatti, la Segavecchia4 si porta in pro-cessione, poi viene segata a metà (dacui spesso fuoriescono fichi secchi,datteri, caramelle ed altro). La suacelebrazione è attestata già nel bolo-gnese nel ‘700 e oggi permane viva latradizione in Romagna, specie a Coti-gnola e Forlimpopoli. La sua diffusio-ne nell’immaginario collettivo, siritrova nel detto popolare l’è acsèbròta che la pê la segavëcia, riferito adonna non solo brutta, ma spessovecchia e inacidita, quindi non piùfertile né ‘utile’ alla società.

(Continua)Note

1. E. BALDINI, Mal’aria, Milano, Frassi-nelli, 1998, p. 55; E. BALDINI, Gotico rura-le, Milano, Frassinelli, 2000, pp. 86-88;M.V. MINIATI, Italiano di Romagna: storiadi usi e di parole, Bologna, Clueb, 2010, p.82.2. MINIATI, ivi, p. 77.3. L. DE NARDIS, Romagna popolare, scrittifolkloristici 1923-1960, Imola, La Mandra-gora, 2003, p. 161.4. E. BALDINI E G. BELLOSI, Calendario efolklore in Romagna: il prodigioso, il sopran-naturale, il magico tra cultura dotta e culturapopolare, Ravenna, Il Porto, 1989, p. 129.

La mitologia femminile

della Romagna - IV

di Silvia Togni

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la Ludla 11Marzo 2013

baràt, ðbaratè: in ital. baratto, barattare.Il Devoto, Avviam., riporta ‘baratta’ per‘contesa’ e il verbo provenzale baratarper ‘contendere’, senza dir di più;‘baratto’ però viene ricondotto a ‘barat-ta’ nel dizion. ital. Devoto-Oli. Mal’ipotesi non è condivisa: il baratto inte-so come ‘scambio’ di beni potrebbeaver avuto un’altra origine o aver assun-to più tardi il significato di ‘inganno’ e‘contesa’, per colpa di mercanti fraudo-lenti. Qualcuno invitava ad essereguardinghi: bèda ch’i t’ céva! Dire ch’ it’ frega sembra un’alternativa più casti-gata; ma lo era di più il detto dellanonna: i è cumpagn e’ cul de paról: s’i ’n tenþ, i scòta.Si parta pure dal racconto di Erodoto:sulle spiagge sconosciute i Fenicidepositavano le merci attendendo alsicuro sulla nave ancorata poco di-stante; a loro volta, gl’indigeni accantoalle merci sbarcate ponevano le pro-prie; da ogni parte se ne aggiungevano,attendendo un segno di soddisfazione.Altrimenti, ognuno ripartiva con quelche s’era portato. Era un baratto senzaparole e fors’ancora senza nome. Marisulta problematico anche condurre‘baratto’ al longobardo bara ‘lettiga’,poi ‘bara’, o al lat. baro, ‘baro’ e

‘barone’, come fanno altri.1 A compli-care le cose, ai tempi di Dante venne dimoda l’accusa reciproca di ‘baratterìa’;scambio di cariche pubbliche e favoripolitici: vizio antico, collaudato, maipassato di moda.2

Per ultimo, il diz. Cortelazzo-Zolli tra glialtri elencati preferisce come etimo ilgreco prattein, ‘fare’, ‘operare’, equiva-lente a un presunto latino *peractitare.Ma, se questa è la strada giusta, tantovarrebbe partire dal verbo lat. registratoperàgere, ‘condurre a termine’, di cui s’èricavato *peractitare.3 Si passerebbedirettamente da res peracta o negotiumperactum (affare ‘portato a termine’) abaràt e, infine, a ðbaratè compreso ilprimitivo vènd a mòsi, o a ségn.4 Gestie segni sono il primo approccio tramuti, o tra due che parlino lingue deltutto diverse; né andava molto più in làil dialetto della mia infanzia, quandobarattando cianfrusaglie si ricorrevaquasi sempre a fè [a] ciàp-ciàp.5

Note

1. L’equivalente dial. oggi desueto di ‘baro’era baròn: talora baròn futù, scritto persi-no ‘B. F.’ in alcune denunce civitellesi del-l’epoca napoleonica, oltre che… su qualcheuscio. Anche l’uso di scarabocchiare sumuri ed infissi è antico. Plauto, Mercator409: quando [...] impleantur elegeorum meaefores carbonibus (qualora … i battenti del miouscio si riempiano di ‘elegìe’ scritte coi car-boni). ‘Elegia’ era voce dotta, usata voluta-mente a sproposito.Baro e ‘barone’ hanno cambiato significatopiù volte. Il lat. baro o barone[m] era in ori-gine il ‘ceppo di legno’ e, poi, per metafora,‘zotico’, ‘goffo’, ‘stupido’: diciamo ancorapió ignurent d’un zòch. Petronio, Satyr.LIII, usa baro insulsissimus (da in+salsus, s-ciavì ‘sciapìto’). Per Isidoro di Siviglia (sec.VII d.C.) è baro lo scherano che vigila sui la-tifondi e li amministra, come facevano iservi regi (gastaldi, gasindi) dei regni barbari-ci, che passarono dopo due o tre secoli altitolo feudale nobilitante di barone. Ma –come già negli antichi liberti amministra-tori di latifondi del tardo Impero – in cos-toro convivevano avidità e strapotere:rapaci coi sottoposti e fraudolenti con chistava sopra, spesso lontano o distratto:erano insieme ‘baroni’ e ‘bari’, cioè ladri.Però il contadino o il cacciatore di frodo nefacevano dei ‘baroni fottuti’, barón futù,quando riuscivano a sottrarre qualcosa: ii

faseva al piataréli, dove piataréla (da piatè,‘appiattire’, ‘nascondere’), almeno nelmedio Bidente, è un termine edulcoratoper il piccolo ‘furto’, declassato da chi locompie a peccato veniale. ‘Baro’ alla fineindicò chi ‘inganna nel gioco d’azzardo’. 2. ‘Baratteria’ è voce dell’Italia comunale,quella di Dante. Il Du Cange segnala: a)BARATUM: permutatio, exchange (1247), ancheal plur. neutro BARATA… (1254); b) poi, piùvolte BARATARIA. Sono voci diffuse dal com-mercio marittimo a partire da chissà dove.3. Il lat. per+àgere significa ‘portare a compi-mento’; ma ogni transazione conclusa –con o senza mediazione di moneta – si puòdefinire res peracta o negotium peractum.Marziale, Epigr. III 79, scrive: rem peragit nul-lam Sertorius, ìncohat omnes… (nessuna cosaSertorio porta a compimento, ma le comin-cia tutte…). Il poeta intendeva solo dileggia-re un impotente; ma rem peragere va beneper qualsiasi affare. Inoltre, Plauto, Captivi345, relativamente al ‘baratto’ di prigio-nieri di due città in guerra, scrive: …transac-tum reddet omne… (comunichi per intero laproposta d’accordo). Anche ‘transazione’per accordo commerciale – un recenteanglicismo ricavato dal latino ed importatoin Italia dall’inglese! – ha sempre a che farecon àgere: trans+agere (purtè ólta...) anzichéper+agere (purtè a la fen...): cambia solo ilprefisso. 4. Fè dal mosi, di segn, o di ètt (‘atti’) è lacomunicazione elementare; se poi sono‘gestacci osceni’ sono pure un modo spic-cio d’irritare e di provocare. U fa di brot èttè ‘alludere al sesso’, che talora si concludecon un ‘baratto’, tanto da esser chiamatonei vecchi codici ‘commercio carnale’.5. Fè [a] ciàp-ciàp si usa anche tra adulti. Inlat. era accìpere dareque, ciapè e dè, almenosecondo l’oculato Catone il Vecchio, De ReRust. LIX: …cuique sagum dabis, prius veteremaccìpito (a chi darai il mantello, prima riti-rerai quello vecchio). Ciapè (o ciàp) nonderiva però da accìpere, ma da ad+capulare(prendere col ‘cappio’, da cui, invertendo lai viene ciapè ‘[ac]chiappare’): si fa stradal’idea della trappola. Per prevenire i ripen-samenti, tra bambini si ripeteva: A faðenciàp-ciàp e vigliàc a chi u ’rmutés (‘ne famotto’). Int e’ barat u ’n s’ha d’arturnèi adciovra. No mutì e no armutì, propri deldial. collinare, derivano dal verbo plautinomuttire, ‘fare motto’. O, come precisòApuleio tre secoli dopo, mut mut non facere,che è poi il verso strozzato del muto chetenti invano di parlare.

Rubrica curatada Addis Sante Meleti

da Civitella

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la Ludla12 Marzo 2013

La caveja fu in origine quello che ilsuo nome enuncia: un cavicchio, for-nito solitamente di una estremitàappuntita e dell’opposta a forma dicapocchia, prodotto in materialidiversi fin dall’antichità per gli usipiù disparati cui la forma lo destina-va: da quello (per lo più in legno) chepoteva essere infisso ad una pareteallo scopo di appendervi oggetti, aquello necessariamente in metalloper aggiogare gli animali da trainoagli attrezzi agricoli. Conosciamoquest’ultimo tipo di caviglia in dueesemplari: la caviglia chiamata tiradó-ra che andava infissa fra il timone e laparte del telaio del giogo chiamatatappo o “sparadello”, destinata a tra-smettere al timone e quindi al carrola forza del tiro; un’altra caviglia, piùlunga, veniva collocata anch’essa neltimone, ma a poca distanza dal giogoimposto alla coppia dei bovini. Assu-meva così la funzione di blocco ofreno, andando a toccare il giogo,ogni volta che si imponesse un rallen-tamento o una fermata del traino.Questa era tradizionalmente fornitadi un’anella, collocata in un “occhio”dell’estremità superiore, pertantonell’andare delle bestie aggiogateemetteva un ritmico tintinnio. Ilsuono diventava più squillante se le“anelle” erano due, così possiamoconsiderare una prima evoluzione latipologia di caveja a civetta, fornita didue cerchi inseriti in due fori pratica-ti sull’estremità superiore. Questaparte venne sempre più appiattita eallargata e prese il nome di “pagella”.

I mutamenti di quello che era natocome attrezzo, ispirati dalla fantasiadegli artefici e dal desiderio di darvoce ai tiri dei loro committenti, por-tarono alla creazione di caveje forniteanche di quattro o di sei anelli. Perottenere un suono più limpido siconsolidò l’uso di “anelle” aperte alledue estremità e furono sperimentateleghe di metalli, fra cui l’argento, chepotessero garantire tonalità piùacute. Un tal numero di sonantiappendici non poteva trovare giustifi-cazione nella ricerca di una migliorfunzionalità dello strumento, si puòpertanto affermare che costituisse,per coloro che lo esibivano, una fieraproclamazione di status. [...] I cambia-menti apportati all’attrezzo originariogli guadagnarono in Romagna nonsolo il nome di caveja daglj anël ma,più particolarmente nel ravennate enel forlivese fu chiamata caveja canta-rena e nel faentino caveja campanêra,entrambi nomi con specifico riferi-mento alle sue prestazioni sonore.L’anello, espresso nel genere femmi-nile anella, trova fin dai primi dizio-nari elaborati per i termini del nostrovernacolo, la traduzione in lingua ita-liana di ‘campanella’, ‘piccola campa-na’. Ciò ci induce necessariamente aricordare che un tempo le abitazionidi qualche prestigio venivano fornite,alle due ante delle porte di accesso, diteste zoomorfe metalliche (solitamen-te leoni) recanti fra le fauci un’anellache aveva la funzione di picchiotto, ilcui suono fungeva da campanello del-l’abitazione. Ci occorre anche ricor-dare che tale uso delle anella era pre-sente nei portoni d’accesso fin dal-l’antichità e che inoltre alcuni reperti

archeologici di teste animali in bron-zo con foro alle fauci per l’inserimen-to dell’anella sembrano, per la formadell’attacco, da ascriversi non aporte, ma a probabili coprimozzi deltimone di carri romani. Se ci limitia-mo all’interpretazione del termine‘campana’ o ‘campanello’ come corri-spondente al noto strumento acusti-co, sappiamo che sua funzione piùcomune può essere di segnalazione: lorintracciamo ancora, in fatture diver-se, nei veicoli a due ruote e qualchevolta al collo di animali in allevamen-to brado allo scopo di segnalarne laposizione nei pascoli. Anche la cavejacantarena doveva aver assunto questocompito: di segnalare per le strette viedi campagna l’arrivo del carro. Benaltro significava il suo suono in occa-sione dell’arrivo del veicolo ad unafiera o quando giungeva per conferi-re prodotti della campagna al palazzodi città di qualcuno dei nobili pro-prietari di terre del contado. Loscampanio non costituiva solo unannuncio: doveva attirare l’attenzio-ne, doveva essere ammirato il plau-stro dipinto, l’incedere ritmato deibuoi protetti dalla coperta stampata,doveva rappresentare il prestigio delpadrone insieme a quello del suocolono. […]Solo nei campanili, che affiancano datempo immemorabile ogni chiesa eogni santuario del nostro paese (dalIX-X sec. dell’era cristiana), possiamoperò rintracciare contemporanea-mente le funzioni di segnalazione, dirappresentanza, di sacralità, di identi-ficazione del suono con una comuni-tà, che i nostri avi, portatori di seg-menti di miti millenari, conservati e

La caveja cantarena

di Vanda Budini

Nei giorni 2 e 3 marzo,nell’ambito della

manifestazione del Lom aMêrz, si è svolta presso il

museo della Civiltà contadinadi Romano Segurini a

Savarna (Ra) una mostradedicata alla caveja

cantarena. Nell’occasione è stato

pubblicato, ad opera diVanda Budini, il catalogo

degli esemplari esposti,introdotto da un approfonditosaggio del quale pubblichiamo

un estratto.

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la Ludla 13Marzo 2013

modificati dalla trasmissione orale,attribuivano anche alla caveja conta-dina. Molti secoli prima che tali edi-fici giungessero con la loro mole aconnotare una località, la colonnasonora di strumenti metallici tintin-nanti era abituale nei nostri territoricolonizzati dai Romani (dal III-II seca.C.) ed accompagnava i riti dedicatia divinità ormai dimenticate. […]Ritroviamo inoltre connessioni conl’uso dello scampanio presente neiriti della cristianità: come richiamoalle funzioni religiose, come sottoli-neatura alla consacrazione, ad accom-pagnare il Santo Viatico. La campanaassume un ritmo diverso per scandireil trapasso o l’accompagno alla sepol-tura, la campana a martello è segnala-zione di pericolo per la comunità, èritenuta anche indispensabile perallontanare il maltempo che minac-cia i raccolti… Infine le campane“legate” in segno di lutto nel venerdìsanto, influenzarono i costumi conta-dini al punto di indurli a legare nellostesso periodo le anelle delle lorocaveje, assunte ad elementi di sincreti-smo religioso.Presso le famiglie contadine venivanocompiuti e tramandati innumerevolirituali con l’uso della caveja cantarènache la Chiesa, ancor impegnata nelXVII secolo nella lotta alle devianzedal Cattolicesimo e nella persecuzio-ne delle stregonerie, chiamò supersti-zioni. Gli abitanti delle nostre campa-gne conservarono fino al secolo scor-so tradizioni connesse al fuoco e alle“focarine” e riti divinatori pressol’arola, il focolare, piccolo altaredomestico. Si credeva che i ferri delfocolare fossero dotati della “virtù” discongiurare la grandine, perciò siesponevano all’aperto durante i tem-porali, mentre in casa si bruciavanodevotamente rametti di olivo bene-detti nella domenica delle palme. Sicredeva che la caveja partecipassedello stesso potere, pertanto anche ilsuo suono venne utilizzato a talescopo. […] Non è certa la scansione temporaleche trasformò la semplice “caveja” dastrumento di lavoro ad oggetto dota-to delle “virtù”, destinato a protezio-ni famigliari e a divinazioni. Certo èche l’attrezzo nel tempo si era arric-

chito non solo nel numero dellesonore anelle. Anche la sua partesommitale allargata era giunta adospitare molteplici incisioni, trafori edecorazioni. I numerosi esemplari,conservati nei musei etnografici del-l’Emilia e della Romagna o gelosa-mente custoditi da appassionati colle-zionisti, a volte portano incisa sul-l’asta metallica, che chiamiamo stelo,la data indicante l’anno di realizzazio-ne del manufatto. Alcuni autori rife-riscono di caveje datate al 1560. Talecronologia si accorderebbe con pro-cessi di mutamento in atto nellenostre campagne che potrebbero rias-sumersi nel termine di rifeudalizza-zione, intendendo una più strettapresa di potere da parte dei proprieta-ri delle terre e la trasformazione deilavoratori da coloni in mezzadri.Questi ultimi dovevano possedere gliattrezzi da lavoro, tra questi, “admedietatem”, venivano considerati i

bovini occorrenti ai traini di aratri ecarri. La maggior parte delle date checi sono note abbraccia però un perio-do che va dalla seconda metà del Set-tecento ai primi decenni del Nove-cento, secoli che possiamo ritenerequelli della massima diffusione dellacaveja cantarèna. Una stima accettata,dopo aver calcolato il prezzo medio diuna caveja, afferma che solo il 40%delle famiglie contadine ne potessepossedere una del tipo che potrem-mo definire cerimoniale. Sappiamoche non appare sempre probante giu-dicare l’età di un manufatto su basestilistica, in quanto la forma, le deco-razioni incise o a ritaglio delle varieparti di una “caveja” s’ispirano a sva-riati decori, motivi e simbologieappartenenti a diverse epoche stori-che. Fra i più antichi compaiono inci-sioni che ritroviamo anche sullepalette in bronzo, rinvenute in Emi-lia Romagna ed in molte altre locali-tà dell’Italia centro settentrionale,riferibili a contesti rituali degli anti-chi popoli italici (VIII-VII sec. a.C.)Vi si individuano tondelli concentri-ci, fitte puntinature che traccianogeometrie, cerchi raggiati. Gli archeo-logi solitamente li interpretano comesimboli solari. Sono gli stessi motivitracciati a bulino che ritroviamo sullostelo e sulla parte terminale espansa(la pagella) di numerose caveje, senzapoter pretendere che i nostri manu-fatti siano stati prodotti in epochecosì lontane, potendo ipotizzare tut-t’al più una continuità culturale. Pen-siamo che lo stesso si potrebbe affer-mare per quanto attiene l’individua-zione sui margini della pagella di pro-fili di cariatidi femminili, che posso-no essere lette in questo contestocome simboli antichissimi di fertilità,della terra madre, ma che sono osser-vabili fin dal XV sec. in innumerevo-li ancone con cornice architettonicatuttora presenti in molte delle nostrechiese. Queste decorazioni, comenumerose altre appartenenti al reper-torio decorativo delle pareti, deglialtari, degli arredi liturgici avrebberopotuto costituire veicolo di ispirazio-ni che portarono gli artigiani delferro a realizzazioni di pagelle cheattingono a stili di diversa collocazio-ne storica.

Caveja a sei anelle datata 1857, realizzatada Giovanni Orselli di San Pancrazio diRussi (Ra)

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la Ludla14 Marzo 2013

I proverbi costituiscono la sapienzadel popolo; ce ne sono tanti nella tra-dizione romagnola e riguardano tuttii mesi dell’anno, non solo gennaio.Siccome febbraio è il mese più corto,(solo 28 giorni) ma è spesso freddissi-mo, si dice: “Febraról da la curtavôlta, che faðè bruðê e’ pêl dla pôrta”.Il mese di marzo, si sa, è pazzerello epuò succedere che ci regali una nevi-cata che però si scioglie al primo sole,quindi: “La néva marzulena la durada la séra a la matena”; tanto più chein marzo ritorna la primavera e “ParSan Bandet, la rundanena ins e’ tet”.Se adesso si scrutano le previsioniatmosferiche in vista del week-end,una volta, quando ci si accontentavadi una scampagnata, si temevacomunque una pioggia inopportuna

e il proverbio avvertiva: “Se u n sbâgna la Palma, u s bagna agli ôv” (Senon piove per la Palma piove perPasqua).Anche aprile è ricco di perturbazioni,tanto da far dire “Abril, tot i dè unbaril” (cioè può cadere tanta acqua dariempire un barile in un solo giorno!)L’economia di un tempo si basavaprincipalmente sull’agricoltura e ilgrano, che era simbolo di ricchezza, dibenessere per tutti, non doveva subireacquazzoni nelle vicinanze della mieti-tura: “Maþ sot, grân par tot”.Al contrario, se piove molto, gli ortag-gi prosperano e allora: “Maþ urtlân,purasè paja e pôch grân” (Maggioortolano, molta paglia e poco grano).E ancora il grano compare anche inun proverbio del mese di giugno,quando le lucciole brulicano “par fèlom a e’ gran”.Ma c’è un flagello che ancora oggi fapaura a tutti: la grandine! “La timpe-sta la fa di puret”.E nel mese di luglio, anche se il sole èdardeggiante, guai a riposare: “Loj u-smed e u s’aracoj”.Andare al mare non faceva ancoraparte della consuetudine: ci si andavacomunque il giorno di S. Apollinare,in bicicletta o in biroccio e quello diS. Lorenzo, 10 agosto. “La tradizioneromagnola assegna, ai bagni fatti il 10agosto, la virtù di valere sette bagniciascuno, … il mare brulica più delsolito di liete schiere di bagnanti.Qualcuno compie in quel giorno i

bagni per l’intera stagione e pensa dipoter così affermare di aver anch’eglifatto le cure d’acqua salsa”.1

Un altro proverbio avvertiva che ilcaldo sarebbe presto declinato: “ParSânt Antôni gran fardura, par SânLurenz gran caldura; l’on e l’êtar pôchi dura”. Attualmente grandi festeggiamenti almare si fanno in varie occasioni: bal-dorie giovanili ne “la notte rosa”, fuo-chi d’artificio per S. Lorenzo, abbuffa-te e balli per ferragosto: non si aderi-sce a nessun proverbio, è la fiera delconsumismo.Settembre ci regala un proverbio pocofamoso, ma interessante: “Par SânMichil (20 sett.) tot al brend al va inzil”, cioè, siccome i giorni comincianoad accorciarsi, si smette di fare lemerende, perché si cena prima; cosìpure ottobre “Par Sân Simon (28 ott.)e’ vintaj u-s arpon”; sicuramente nonci sarà più bisogno del ventaglio. Vice-versa novembre, fra tanti altri, ci pro-pone un famoso proverbio: “ParSânta Catarena, o che neva, o chebrena, o che fa la paciarena”; il 25novembre quasi sicuramente il climanon sarà dei migliori.Dicembre pullula di proverbi: a voibambini, aiutati da qualche nonna ocompiacente, il compito di trovarnealmeno uno.

1. Icilio Missiroli, Romagna, Firenze,1924. Dallo stesso volume sono tratti tuttii proverbi che ho citato.

Rubrica a cura di Rosalba Benedetti

Pr’i piòznen

Spett.le Associazione,in merito al “Ragionamento parene-tico” apparso nel Vs. numero dellaLudla del mese gennaio 2013, desi-dero inviarvi quanto segue:“Ora io non dirò che i romagnoli sono

migliori o peggiori dei vicini abitatoridell’Emilia o degli altri italiani in gene-re; però sono certamente diversi. E ilromagnolo ostenta questa diversità conuna sorta di orgoglio e con quella puntadi settarismo che si ritrova in ogni suaazione. Anzi, non pensa nepppure chenon ci si accorga al primo istante dellasua provenienza e la si possa confonderecon gente d’altre parti. [ ... ] Ma, oltreche dalla pronuncia ... è abbastanzafacile riconoscerli dai tratti più comunidel loro carattere e del loro comporta-

mento: la loquacità, l’intransigenza, laspavalderia, l’aggressività polemica,l’amore per il paradossale e lo spettacola-re ... il gusto delle burle, una finta disin-voltura che maschera la ruvidezza deimodi e l’impaccio del paesano, queldisordine un po’ estroso e un po’ velleita-rio del pensiero.” (Guido Nozzoli, IlPianeta Romagna, 1963).A sègna incora acsè o a s sègna imba-stardì? Cordialità

Speranza Ghini

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la Ludla 15Marzo 2013

Libri ricevuti

Annalisa TeodoraniPar sénza gnént. Poesie in dialet-to santarcangiolesePresentazione di GianniFucci.Seconda edizione.Il Ponte Vecchio, Cesena,2013.Pp. 56

Laura TurciAl carvaj.Presentazione e nota diAndrea Brigliadori.Seconda edizione, ampliata.Il Ponte Vecchio, Cesena,2012.Pp. 68

Marcella GasperoniBujàm. Poesie del Mare.S.e., 2012Pp. 106 con illustrazioni del-l’autrice.

Premio letterario “SauroSpada”. Per racconti in linguaromagnola. Concorso 2012.Stilgraf, Cesena, 2013.Pp. 188.

Antoine de Saint-ExupéryE’ prinzipì. In dialet rumagnôl -Cun dj aquarèl fët da l’autor.Traduzione di Renzo Bertac-cini e Gilberto Casadio.Massimiliano Piretti Edito-re, Bologna, 2012.Pp. 72

Maurizio BalestraPignol. Liberamente tratto dalPinocchio di Collodi.Tosca, Cesena, s.d.Pp. (48)

Maurizio BalestraPauri (Paure).Illustrazioni di GianlucaUmiliacchi.Brighi e Venturi, Cesena,2009.Pp. 96

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la Ludla16 Marzo 2013

«la Ludla», periodico dell’Associazione Istituto Friedrich Schürr, distribuito gratuitamente ai sociPubblicato dalla Società Editrice «Il Ponte Vecchio» • Stampa: «il Papiro», Cesena

Direttore responsabile: Pietro Barberini • Direttore editoriale: Gilberto CasadioRedazione: Paolo Borghi, Gianfranco Camerani, Veronica Focaccia Errani, Giuliano Giuliani, Omero Mazzesi, Addis Sante Meleti

Segretaria di redazione: Carla Fabbri

La responsabilità delle affermazioni contenute negli articoli firmati va ascritta ai singoli collaboratori

Indirizzi: Associazione Istituto Friedrich Schürr e Redazione de «la Ludla», Via Cella, 488 •48125 Santo Stefano (RA)Telefono e fax: 0544. 562066 •E-mail: [email protected] • Sito internet: www.argaza.it

Conto corrente postale: 11895299 intestato all’Associazione “Istituto Friedrich Schürr”Poste Italiane s.p.a. Spedizione in abbonamento postale. D. L. 353/2003 convertito in legge il 27-02-2004 Legge n. 46 art. 1, comma 2 D C B - Ravenna

Non è inconsueto che l’incontro con una poesia ricondu-ca alla memoria parole di altri poeti affrontati in prece-denza, ed altrettanto plausibile che questa concomitanzadi percorsi e di contenuti muova la mente a sconfinare aldi là di quello che i singoli versi stanno tratteggiando.Nell’ultimo libro pubblicato da Diana Sciacca prima dellasua scomparsa, ho avuto occasione di imbattermi in untesto che ha suscitato in me qualcosa del genere, qualcosache si è poi esplicitata pienamente alcuni giorni dopoosservando sulla spiaggia le figure chine sulla sabbia deicercatori o cercatrici di arselle (pavarazze o poveracce)intenti al loro impegno. Non so se questa mansione possa avere attinenza con l’at-tuale tempo di crisi, in effetto del quale tirare a fine mesesi fa in molte famiglie problematico, fatto sta che conser-vando memoria di periodi nei quali risolvere l’incognitadi un pasto a buon mercato era un problema usualmentesentito, oltre a Diana Sciacca più di un poeta delle nostre

parti ha tratto ispirazione per i propri versi da attività delgenere, così come Leo Maltoni, ad esempio, nel momen-to in cui celebra queste figure il più delle volte femminilimentre, chinate sulla spiaggia della sua Cesenatico, fruga-vano cun al mèni tra e sabion par guadagnê’ la zàina di puret.Oppure alla stregua di Guido Lucchini, allorché ci descri-ve le donne della riminese Barafonda che, laggiù nellasecca vicino al porto a cul d’insò al sfurgatéva tramez i sass,sla paranènza ancora squizèda ad saquadura ad piat.È incontrovertibile che le poesie dei tre autori in questio-ne siano condizionate dal medesimo tema, e tuttavia iversi di questa pagina sedici in qualche modo si discosta-no dalle precedenti rievocazioni, ma non tanto per il pal-coscenico, che rimane quello sabbioso del litorale roma-gnolo, e neanche per le interpreti, e cioè quelle figurevolte in basso alla caccia di un mezzo poco costoso pergarantire alla famiglia qualcosa da mettere in tavola. Ladifferenza è tutta nell’oggetto di questa ricerca che nonconsiste nelle poveracce, bensì in una sorta di radicchioselvatico ma buono da mangiare che i zariòt, con unaparola dialettale dal suono evocativo e scricchiolante,chiamavano s-ciöcapiat, un vocabolo oggigiorno pratica-mente disimparato ma che potrebbe anche tornare inauge, nell’incaponirsi di una congiuntura che sembra nonnutrire solleciti intenti di resa.

Paolo Borghi

Diana Sciacca

I s-ciöcapiat

I s-ciöcapiat

Al zarchéva sóra al mötial dòn pradghitra gramegna e érba secai s-ciöcapiat ch’i spuntévatra e’ sabion:sól cvi culghéj’éra lòngh, grend e bon.Instichènd la curtlózaal cujéva i radec spli da la sabiaagvacêdi e ingubidisota i spintec di tamariðch’i tarmévaint i prèm sbof dla premavira.

Gli s-ciöcapiat Cercavano sulle dune \ le donne esperte \ tra gramigna e erba secca \ gli s-ciöcapiat che spuntavano \ tra la sabbia:\ soloquelli celati \ erano lunghi, grandi e buoni. \ Infilando il coltello da tavola \ raccoglievano i radicchi sepolti dalla sabbia \ accovacciate e ingob-bite \ sotto la chioma scarmigliata delle tamerici \ che tremolavano \ nei primi sbuffi della primavera.