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la Ludla 1 “Poca favilla gran fiamma seconda” Dante, Par. I, 34 la Ludla Periodico dell’Associazione “Istituto Friedrich Schürr” per la valorizzazione del patrimonio dialettale romagnolo Autorizzazione del Tribunale di Ravenna n. 1168 del 18.9.2001 Poste Italiane - Ravenna - Spedizione in A.P., Legge 46, art. 1, comma 2 D C B Questo numero è stato realizzato con l’apporto del Comune di Ravenna Società Editrice «Il Ponte Vecchio» Anno XIV • Gennaio - Febbraio 2010 • n. 1 SOMMARIO Massimo Bartoli - E mi inzegn trascurè Il Dizionario Romagnolo di Gianni Quondamatteo Scheda di Bas-ciân Gvarì gvarös, pôrta vì la pëla e l’ös di Loretta Olivucci Guido Lucchini - Vécia paléda di Paolo Borghi L’umejn di luven di Dino Bartolini illustrato da Giuliano Giuliani Appunti di grammatica storica del dialetto romagnolo - XXXVI Rubrica di Gilberto Casadio Parole in controluce Rubrica di Addis Sante Meleti La Borda di Anselmo Calvetti illustrazione di Giuliano Giuliani E’ régul di Luciano De Nardis Stal puiðì agli à vent Paolo Gagliardi - Due poesie di Paolo Borghi p. 2 p. 4 p. 6 p. 7 p. 8 p. 10 p. 11 p. 12 p. 14 p. 15 p. 16 Cino Pedrelli “Meriggio in Romagna” Fra dialetto, folklore e poesia Con questa raccolta di scritti di Cino Pedrelli la nostra collana «Tradi- zioni popolari e dialetti di Romagna» è giunta all’ottavo volume. Meriggio in Romagna è il titolo squisitamente poetico che Cino Pedrel- li, alla bella età di 97 anni, ha imposto – sorprendendo per primi i curatori – al libro che accoglie con diligenza notarile i saggi di critica letteraria dedicati alla poesia romagnola in dialetto (“Musa romagno- la”), a modi di dire e ad etimologie del dialetto cesenate. Si tratta di saggi apparsi nel corso di cinquant’anni e più nei volumi degli «Studi romagnoli» e sulle riviste «La Piê» e «Il lettore di provincia», e che ora, allineati uno di seguito all’altro, vengono a rappresentare la più avvincente delle escursioni attraverso la poesia in dialetto di Aldo Spallicci (cui Cino dedica la maggior parte delle attenzioni critiche), di Lino ed Enzo Guerra, di Ugo Piazza, nonché lungo i tramiti laboriosi del Pulon matt cui sono dedica- te ricerche che qui diresti labo- riosamente pedanti, e appena più in là assolutamente imma- ginifiche, piene di intuizioni e scoppiettanti di cultura storica e letteraria. In ogni caso il letto- re non dimenticherà facilmen- te le pagine su Tonino Guerra e su Walter Galli cui Cino fu legato da colleganza poetica e solidale amicizia. L’amore per la nostra storia, per la nostra cultura popolare e dotta per il dialetto colto sempre le specie cesenati, si evince anche lungo le pagine dei saggi sui modi di dire e sulle etimologie dialettali. [continua a pag. 9]

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“Poca favilla gran fiamma seconda”Dante, Par. I, 34

la LudlaPeriodico dell’Associazione “Istituto Friedrich Schürr”

per la valorizzazione del patrimonio dialettale romagnoloAutorizzazione del Tribunale di Ravenna n. 1168 del 18.9.2001

Poste Italiane - Ravenna - Spedizione in A.P., Legge 46, art. 1, comma 2 D C B

Questo numero è stato realizzato con l’apporto del Comune di Ravenna

Società Editrice «Il Ponte Vecchio» Anno XIV • Gennaio - Febbraio 2010 • n. 1

SOMMARIO

Massimo Bartoli - E mi inzegntrascurè

Il Dizionario Romagnolo diGianni QuondamatteoScheda di Bas-ciân

Gvarì gvarös, pôrta vì la pëla e l’ösdi Loretta Olivucci

Guido Lucchini - Vécia palédadi Paolo Borghi

L’umejn di luvendi Dino Bartoliniillustrato da Giuliano Giuliani

Appunti di grammatica storicadel dialetto romagnolo - XXXVIRubrica di Gilberto Casadio

Parole in controluceRubrica di Addis Sante Meleti

La Bordadi Anselmo Calvettiillustrazione di Giuliano Giuliani

E’ réguldi Luciano De Nardis

Stal puiðì agli à vent

Paolo Gagliardi - Due poesiedi Paolo Borghi

p. 2

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Cino Pedrelli

“Meriggio in Romagna”

Fra dialetto, folklore e poesia

Con questa raccolta di scritti di Cino Pedrelli la nostra collana «Tradi-zioni popolari e dialetti di Romagna» è giunta all’ottavo volume.Meriggio in Romagna è il titolo squisitamente poetico che Cino Pedrel-li, alla bella età di 97 anni, ha imposto – sorprendendo per primi icuratori – al libro che accoglie con diligenza notarile i saggi di criticaletteraria dedicati alla poesia romagnola in dialetto (“Musa romagno-la”), a modi di dire e ad etimologie del dialetto cesenate. Si tratta di saggi apparsi nel corso di cinquant’anni e più nei volumidegli «Studi romagnoli» e sulle riviste «La Piê» e «Il lettore di provincia»,e che ora, allineati uno di seguito all’altro, vengono a rappresentare lapiù avvincente delle escursioni attraverso la poesia in dialetto di AldoSpallicci (cui Cino dedica la maggior parte delle attenzioni critiche), diLino ed Enzo Guerra, di Ugo Piazza, nonché lungo i tramiti laboriosi

del Pulon matt cui sono dedica-te ricerche che qui diresti labo-riosamente pedanti, e appenapiù in là assolutamente imma-ginifiche, piene di intuizioni escoppiettanti di cultura storicae letteraria. In ogni caso il letto-re non dimenticherà facilmen-te le pagine su Tonino Guerrae su Walter Galli cui Cino fulegato da colleganza poetica esolidale amicizia. L’amore per la nostra storia,per la nostra cultura popolaree dotta per il dialetto coltosempre le specie cesenati, sievince anche lungo le paginedei saggi sui modi di dire esulle etimologie dialettali.

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Venerdì 11 dicembre 2009 a Bagnaca-vallo, nel settecentesco Refettorio delConvento di San Francesco (ora SalaOriani), sotto la gran tela dipinta daltrentino Angelo Ventenati raffiguran-te le Nozze di Cana, si sono avvicen-dati i quattro relatori che hanno illu-strato il libro di poesie di MassimoBartoli: Atos Billi, presidente dellaFondazione Cassa di Risparmio diLugo; Laura Rossi, sindaco di Bagna-cavallo; Pier Giorgio Bartoli, pronipo-te del poeta e curatore del volume, eGiuseppe Bellosi, direttore dellaBiblioteca di Fusignano, autore dellaprefazione.Il poeta Massimo Bartoli, nato a Tra-versara nel 1876 e morto nel manico-mio di Imola nel 1943, riveste uninteresse particolare, per la sua operadi mediatore tra la cultura scritta e lacultura analfabeta di gran parte deisuoi ascoltatori, e per la sua vicendadi uomo, che, pur dotato di singolaricapacità, non ebbe modo di coltivarleattraverso gli studi poiché, comemolti appartenenti al popolino, sifermò alla terza elementare. Tutta lasua vita fu disagiata e afflitta a piùriprese da una sofferenza della menteche lo accompagnò fino alla morte.I testi di questa figura eccentrica dipoeta, non unica nel panorama roma-gnolo, curati con rigore e tenacia daPier Giorgio Bartoli, pronipote dellostesso autore, documentano i modidella comunicazione nelle classi popo-lari di quegli anni tra informazione espettacolo, e ritraggono con vivacitàgli umori e i discorsi di un mondo pic-colo che fa i conti con i grandi eventidella storia come la Settimana Rossa,la Prima Guerra Mondiale, l’avventodel Fascismo e la conquista dell’Etio-pia: un mondo in cui il dialetto è lin-gua quotidiana pressoché unica, carat-terizzata da una ricchezza espressivache nel corso degli ultimi decenni èandata via via affievolendosi.Così il presidente Atos Billi nella pre-sentazione del libro riportata quasiintegralmente.Giuseppe Bellosi, nella prefazione diquesto libro, nota che qui è raccoltatutta la produzione poetica finora rin-tracciata di Massimo Bartoli, ovvero57 testi a stampa, tre dattiloscritti e tremanoscritti di cui due autografi.

Come altri autori anche Massimo,per ragioni diciamo commerciali,aveva il ‘vizio’ di pubblicare i suoilavori cambiando i titoli, modifican-do qualche verso e facendo collages;pertanto tutti questi lavori sonoriconducibili a 39 testi originali. Nelvolume, comunque, sono riportatetutte le varianti.La stragrande maggioranza di questicomponimenti è costituita da þirudël.La þirudëla, in versi ottonari per lo piùa rima baciata, è la poesia popolareper eccellenza. In ogni località, in pas-sato, c’era sempre chi sapeva compor-re su avvenimenti d’attualità, fattiinconsueti e burle. La þirudëla costitui-va dunque il “sale” di tante veglie,insieme con i racconti, i giochi e leconversazioni e i poeti di piazza a cuiappartiene Bartoli, danno a questapoesia d’occasione una dimensionepubblica, un mezzo di comunicazionedi massa, sebbene entro certi limititerritoriali. Oggi, l’edizione critica del-l’Editrice La Mandragora di Imola,permette di leggere queste zirudelle

per rinnovarne la memoria.Per chi ha qualche difficoltà col dialet-to c’è, a fronte del testo dialettale, latraduzione italiana verso per verso,ma non sempre letterale, che consen-te di apprezzare i termini arcaici e imodi di dire tipicamente romagnoli.La serata si è conclusa con la magistra-le interpretazione da parte di Giusep-pe Bellosi di tre þirudël: “E miinzegn… trascurè…” in cui l’autorenarra del male occorsogli nel 1899 edel suo superamento; “E sciopar dlaRumagna”, umoristica cronaca dellaSettimana Rossa nel 1914; “La tassa diraghezz”, dove, prendendo spuntodalla tassa imposta dal regime sugliscapoli nel 1926, si fa un approfondi-to quadro della diversità economicatra contadini e braccianti. Durante il convegno è stato chiesto alsindaco di Bagnacavallo che, sulla sciadi quanto è stato fatto a San Clemen-te di Rimini per il suo poeta dialetta-le Giustiniano Villa, anche a Bagnaca-vallo o a Traversara sia dedicata unavia a Massimo Bartoli.

E mi inzegn trascurè

Pubblicate a cura di Pier Giorgio Bartoli le rime di Massimo Bartoli,poeta di piazza romagnolo

Bagnacavallo, Sala Oriani, 11 dicembre 2009. Da sinistra: Pier Giorgio Bartoli, Atos Billi,Laura Rossi, Giuseppe Bellosi.

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E luneri d'Bartulen

Ragazzùl, me a sò cl'umàzz D'pöch inzègn e mânch talent, C'ha m'avì sintù in s'al piàzz A fê ridar tott la zent. Mo, s'a vlì fê un bôn afêri, Fasì quèst de mi lunëri. Quèst'a'què l'è un calandêri Ad zirudël e ad barzilèti, Che in t'al cà particulêriE fa ridar cal duneti Quând ch'ul lèz i su burdell, Ch'un's n'atröva on di piò bell.

Il lunario di Bartolino

Ragazzi, io sono quell'omaccioDi poco ingegno e meno talento,Che avete sentito sulle piazzeA far ridere tutta la gente.Adesso, se volete fare un buon affare,Comprate il mio lunario.Questo è un calendarioDi zirudelle e di barzellette,E nelle case distinteFarà ridere tutte le donnetteQuando lo leggeranno i loro ragazzi,Perché non se ne trova uno più bello.

L'autor

Un dè an'aveva voia d'lavurè, A mônt sla bicicletta e pu amavei,Sicom che me a só tant abitüè D'andè in campagna a ca d'zerti famei.

Quèlca zuvnotta quand la m'ved rivè La dis «Mama, l'è quel dal puisei». E su mè «S'uggn'è ven van a tirè E dài da be che possa dscorrar mei».

La burdella la vén, la'm dà da bé E pu la dis «Fasim sintì qual quèl» E avsên a me l'è bona d'mets'insdé.

Fra puc minut l'ariva su fradèl,E vô c'a turna a bé, sa n'ho migh se, E um dis «Cuntess 'na ciopa d'zirudèl».

L’autore

Un giorno non avevo voglia di lavorare, Salgo sulla bicicletta e poi mi avvioPoiché ho l'abitudine Di andare in campagna a casa di certe famiglie.

Qualche ragazza quando mi vede arrivare Dice: «Mamma, è quello delle poesie». E sua madre: «Se non c'è vino va a spillarne E dagli da bere, che possa parlare meglio».

La ragazza viene, mi dà da bereE poi dice: «Fatemi sentire qualche cosa»Ed è capace di sedersi accanto a me.

Dopo pochi minuti arriva suo fratello, Vuole che beva ancora, anche se non ho sete,E mi dice: «Raccontateci un paio di zirudelle».

Massimo Bartoli (Traversara di Bagnacavallo, 29 gennaio 1876 -Imola, 19 aprile 1943)

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Un vocabolario non si legge: si con-sulta. Capita però talvolta di aprirneuno per consultare una parola e dirimanerne affascinati al punto dapassare alla lettura delle voci e dellepagine successive, proprio come sifarebbe con un romanzo. È questo ilfelice caso del Dizionario romagnolo(ragionato) di Gianni Quondamatteo(1910-1992), che proprio in quelragionato fra parentesi mostra fin daltitolo una delle caratteristichesalienti dell’opera.Il Dizionario è frutto di una faticapiù che ventennale iniziata nel 1960e conclusa con la pubblicazione del-l’opera in due volumi: il primo fini-to di stampare nel novembre 1982, ilsecondo nell’ottobre dell’anno suc-cessivo.“Quali le motivazioni di questa lungafatica? - si chiede l’Autore nell’intro-duzione - È presto detto: l’attaccamentoalle nostre parlate e la volontà di acciuf-fare per i capelli, e porre in salvo, uncospicuo, prezioso patrimonio lessicalegià sul viale dell’oblio.”Consapevole dell’affermazione delloSchürr secondo il quale “non esisteun dialetto romagnolo ma una infinitàdi parlate romagnole digradanti di luogoin luogo, quali continue variazioni su unfondo comune” il Quondamatteodenuncia i ‘limiti’ della sua operache non ambisce ad essere un voca-bolario comprensivo di tutte le par-late romagnole: “Partiti dal riminese,nostra lingua materna, abbiamo allarga-to la ricerca e lo studio delle parlate vici-ne, digradando ed attenuando l’attenzio-ne e lo studio così come fa l’onda di unostagno per un sasso che cada in acqua.Questo tentativo di ampliare il discorsoera e resta, a dir poco, temerario, ma inostri interessi si arricchivano manmano che procedevamo nella raccolta delmateriale.”Il Dizionario è dunque sostanzial-mente imperniato sul dialetto diarea riminese, pur registrando voca-boli di altre parlate desunte dainumerosi informatori e dai diziona-ri del Morri, del Mattioli e dell’Erco-lani. Fra i suoi pregi c’è quello diessere ‘autenticamente dialettale’;non sono perciò registrati i termini,più o meno dialettizzati, entrati direcente nel romagnolo attraverso la

lingua italiana: ad esempio non c’è ilrecente treno ma solo il più anticovapòr. “Avvertiti del pericolo di essere troppolegati al vocabolario della lingua italia-na, – quasi che il dialetto avesse originedalla stessa lingua e non fosse invece, alpari di questa, una parlata romanza –noi cercammo di vivere la nostra operada dialettofoni rovesciando il metodo diricerca e di lavoro. I lemmi, l’ampiaesemplificazione sui lemmi, i modi didire e tutto il resto vennero raccolti nelleloro originarie strutture in dialetto,quale lingua parlata a se stante, traen-doli, ovviamente, dalla viva voce diattendibili dialettofoni e da fonti scrittedegne di attenzione.” Fra queste ulti-me ricorrono, più frequentementedi altre, le opere di Giustiniano

Villa e Domenico Francolini.Ma cediamo ancora la parola all’au-tore: “La scoperta, la raccolta e la regi-strazione del linguaggio vivo della nostragente erano attinte alla fonte fra i conta-dini, i borghigiani, gli operai, i pescatori,gli ultimi artigiani rincattucciati nellebottegucce dei superstiti androni, fra gliambulanti al mercato e alla fiera, nelcuore delle città, così come alla periferiae nelle campagne. Ma avvenne che inter-rogando e sollecitando esempi e spiega-zioni si fece strada in noi l’idea di nonabbandonare la voce a se stessa, fredda eimbalsamata, ma di infondere vita allemma per farne motivo di storia locale,di costume e ambiente. […] Il nostrodizionario, di conseguenza, oltre che con-tenere un patrimonio lessicale, divenivalemma dietro lemma lo specchio, ancor-ché imperfetto, di almeno centocinquan-t’anni di vita politica e sociale dellegenti di Romagna. Il folklore negli usi,credenze e superstizioni, la vecchia cuci-na della fame ma anche dei cappelletti,il sesso sbracato del vecchio casino equello castigato del contadino, la praticareligiosa motivo di assurde prescrizioni ecomportamenti, la medicina e la salutealtalenanti ancora fra la stregoneria el’efficacia di erbe curative, la marineriamondo di capitani coraggiosi, di miseriae di fortunali che cancellavano in unanotte dal novero dei vivi intere famiglie,tutto questo ed altro ancora costituisco-no, o almeno lo crediamo, gli stimolantimotivi della nostra opera di insolitastruttura.”Ecco dunque comparire – per limi-

La Rumâgna e i su vacabuléri

VII

Il Dizionario Romagnolo

di Gianni Quondamatteo

Schéd ad Bas-ciân

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tarci ad alcuni esempi – le ricette dicucina o, più semplicemente, i sug-gerimenti sul modo di prepararecerti cibi, sotto voci come brudètt‘zuppa di pesce’, caplèt ‘cappelletti’,puraza ‘poveraccia’ o grasùl ‘ciccioli’;l’accurata descrizione della lavora-zione della porchetta (sotto la vocepurcheta) o della rustida di pesce ecc.In altro àmbito si possono segnalarele otto colonne dedicate alle altera-zioni romagnole dei nomi di perso-na (sotto la voce nom); il mini tratta-to sulle peculiarità del dialetto roma-gnolo sotto la voce dialet; l’ampianota di folklore presente sotto cam-pena ‘campana’; il catalogo delleosterie riminesi sotto canteina; iltrattatello psicosociologico dell’indi-viduo romagnolo in rumagnol ecc.Non mancano brevi apologhi o sto-rielle con personaggi riminesi perprotagonisti. Citiamo a caso:Anartic – anarchico. […] Piròzz,gobbo del borgo S. Giuliano, propo-ne l’abolizione della moneta, peste etossico del mondo moderno, e chie-de che venga sostituita con pezzi dicuoio. Salta su Faféin d’Guròn: «Caz!Lò e’ fa e’ calzuler!».In sintesi, dunque, un vocabolariomolto curato nella grafia, nelle defi-nizioni e nelle citazioni sempre pre-cise, che si colloca fra i migliori delnostro dialetto, ma anche un’opera‘da leggere’, come si diceva all’inizio.Quondamatteo non è infatti unarido e distaccato lessicografo: sottoogni voce lo sentiamo presente conla sua cultura e con le sue passioni

politiche e sociali. Una presenza chea volte fa appena capolino, altrevolte sale prepotentemente (direm-mo quasi manzonianamente) allaribalta, rivelandoci anche squarcidella sua vita privata apparentemen-te insignificanti. Ecco alcuni esempi:Scarana – sedia, seggiola, scranna. […]Nu vlé mulè la scarana, tenersi stretta-mente abbarbicati al potere, che spes-so è prepotere, e ai vantaggi economi-ci che comporta, che oggi (1982-83),si misurano col metro del milione edel miliardo. Certi politici, pur dioccupare una robusta sedia, siedereb-bero anche su quella elettrica.Cuàt – smanie, storie, versi. […]Meriterebbero più profonde ricer-che, questi termini. Ma è già mezzo-giorno (dell’8 dic. ’66), e io sono altavolo da prima delle ore otto.Tréfula – trìfola, tartufo. […] I fran-cesi la chiamano truffe, e una pubbli-cazione gastronomica di quel paesela vanta come le diamant noir de lacuisine; mia moglie e i miei figli,invece «quello schifo»: una piccoladifferenza come si vede.

Come sempre concludiamo ripor-tando la voce ébi, in questo casoquanto mai esemplificativa dellastruttura dei lemmi del dizionario.

Èbie - èbi per il Morri e l’Ercolani.Abbeveratoio, truogolo, àlbio.Vasca, conca in pietra, destinata acontenere acqua o cibi per gli anima-li: bestiame grosso, maiali, galline.Ebi, scrive il Pascoli. Al tempo delle

carrozze a cavalli in ogni grande piaz-za esistevano e una fontana e uncapace àlbio per i quadrupedi. Cen’era uno in piazza Cavour, a Rimi-ni, affiancato alla fontana: per scom-messa, e per guadagnare dieci lire, visi tuffarono, in una fredda giornatad’inverno Marino e Filipon, due pove-racci che bazzicavano la pescheria.In campagna c’è l’èbie de baghin eanche l’èbie di pol: qui si versano imangimi per questi preziosi animali.Di persona sguaiata, scorretta a tavo-la: tè stè béin a magnè t l’èbie de baghin!Sempre che quest’ultimo lo accettial suo fianco. Fè baraca si pid drenta tl’èbie, alla maiala, dimenticandoogni regola di compostezza. In cam-pagna, infatti si dice: t’cè cume e’baghin che magna si pid t l’ébie! All’in-saziabile: t’an si mai sèzie! va t l’èbie!

Scheda tecnicaGianni Quondamatteo. Dizionarioromagnolo (ragionato). Con il contributodi Elda Pagliarani; disegni e silografie diLuigi Berardi. Tipolito «La Pieve»,Villa Verucchio, 1982-1983. Duevolumi. Pp. XVI - 592 (numerazionecontinua, testo su due colonne). Alle pagine VII-IX è presente Fra idialetti romagnoli un contributo diFriedrich Schürr, datato 1971, sullanatura e posizione del riminese nel-l’ambito delle parlate romagnole.L’opera è esaurita e difficilmente sene trovano copie in antiquariato.

Uno dei disegni di Luigi Berardi che illu-strano il Dizionario

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Cvând ch’a jò let “I rimédi d’unavôlta”(vedi Ludla n.9/2009), nenca ame u m’è avnù int la ment cvel ch’e’faðéva la mi nòna cvând ch’a séraznina.

• A m’arcôrd coma adës l’impiàstarbulent int e’ pët cvând che la tosa lan’avléva savé d’aviês. Int un pignatini faðéva bulì la smenta de’ len cun unpô d’acva intânt ch’la dvintéva unapapina, i la ðvarséva int ‘na pzultinach’la duvéva ësar ad stöfa biânca e unpô rêda; a m’arcôrd cvânt ch’i j mité-va a truvê la stöfa giosta! E pu i j daðéva la forma un pô s-ciazé-da, i j daðéva un’imbastidura ‘torna a‘torna e ta la duviva tnì int e’ pëtintânt che la-n s’agiazéva da par lì.Naturalment l’impiàstar u-n-s mitévaint la pëla viva, ma sóra a la maja ch’lajavéva da ësar ad lâna gucêda in ca.

• Se t’at faðiva un taj, i mitéva sóra ala frida una gosa d’aj, acsé la pëla la-ns’atachéva a la stöfa ch’i druvéva parfasê.

• Par i vìrman bðugnéva magnê unspìgul d’aj: u j azuvéva!

• Se t’at scutiva, bðugnéva ònzar lapëla cun un pô ad ôli e l’éra incôramej se t’aviva l’ôli cun l’erba ad SanÞvân (Hypericum perforatum); u-s cujé-va i fiur pröpi e’ dè ad San Þvân: i-smitéva a möl int l’ôli e e’ bðugnévalasej int e’ sól par cvarânta dè, döp u-s filtréva cun un pëz ad stöfa un pôrëda, t’a l’avita da schrichê ben, acsèe’ daðéva fura un ònt ranzon ch’l’ éracvel ch’e’ cuntéva piò ad tot. St’ôli e’faðéva pasê e’ dulór e la pëla la-n-srumpéva. Cvând ch’u-s cminzéva a lavurê int imarzul (marzatelli, colture primaverili) e’sól e’ batéva int la pëla fresca e u la scu-téva, al don al cminzéva a “cùðas” lafaza, specialment s’al n’avéva “mustrêe’ cul a Mêrz” coma che l’uðanza lavléva. A dì la veritê al don al-s scutévada mitê nêð in þo, indo’ ch’u n’ arivéval’ombra de’ capân (ch’l’éra un môd adlighê e’ fazulet inventê in Rumâgnaindo’ che al don agli a n’purtéva lacaplena). St’ònt e’ faséva verament bone l’éra l’ònich rimegi parchè al crem“solari” al n’ j éra pröpi .

• S’u t’avnéva fastidi i-t mitéva dl’aðésota a e’ nêð e l’udór fôrt u-t faðévaðvigê.

• L’ônt ad Manëla1 e’ faðéva bennench pr’e’ mêl ’d tësta: e’ bastévache t’at unþes la frônta. L’avéva ungran fiê, mo e’ cuntéva: l’éra pröpi l’ònt par tot i mél!

• Par significhê di rimigi da gnint,in itaglian u-s nömina i “pannicellicaldi”, mo in campâgna i s’uðévapröpi: la mi suocera, la pureta, lam’avéva insignê a bruðê un pô adcamumela, gulpêla int una pëza adlâna scaldêda sóra a la fiambina, epu la-s mitéva sóra a la pânza de’babin cvând ch’l’avéva mêl. Intântche la pzultina la s’agiazéva, u s’inscaldéva un’êtra. A dirì ch’l’éra unrimegi da rìdar, mo e’ babin, zircun-

dê da tot cagli atenzion, e’ ðmitévaad piânþar.

• E cvând che nó babin a pianþémaparchè a-s sema fët mêl, i-s dgéva:“Gvarì gvarös, pôrta vì la pëla e l’ös”i-s faðéva un masagin e i-s dgéva checun cvel a staðéma mej: zert che s’u-nfaðéva ben, u-n faðéva gnânca mêl!

Nota

1. Manëla e’ staðéva a Furlè, int la viaGorizia che alôra i la ciaméva la ‘strê dlafabrica dal biédal’; da ca su in avânti,insena a e’ ’60, la jéra una strê giarêda,indù ch’u i paséva i ðbaruzér cun i cavël(l’éra i camiunesta d’alóra) o i cuntadencun i bu; u j éra nench un cvich tratór eun cvich càmion fët cun i mutur ch’javéva cavê d’int al “cinguleti” o da dj étarmeþ militér.

Gvarì gvarös,

pôrta vì la pëla e l’ös

di Loretta Olivucci

Masiera di Bagnacavallo,agosto 1974. L’Ida d’Garöt sta levandoun «sinëstar» (reuma o bloc-co lombare) con il «pignat-tino», una pratica che sisvolgeva a distanza, senzacioè l’intervento diretto sulpaziente. Secondo una delle versionipiù diffuse si procedeva inquesto modo. Si mettevano a bollire in unpentolino 3 nodi di strame,3 nodi di paglia, 3 grani disale e 3 pizzichi di cenere.Quando l’acqua entrava inebollizione e l’infuso tende-va a debordare, si capovol-geva il pignattino con il suocontenuto in un recipientepiù grande e si attendevache il liquido, che prima siera sparso, venisse risuc-chiato all’interno delpignattino capovolto.(Foto di Giovanni Zaffagnini)

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Guido Lucchini è nato a Rimini nell’aprile del 1925. Regista e interpre-te di recite dialettali per la compagnia E’ teatre rimnès del dopolavoro ferroviario di Rimini, è noto in primo luogo, an-che di là dai confini re-gionali, quale autore di fortunate commedie, rappresentate da anni con crescente successo in gran parte della Roma-gna. Nel corso dell’ultra-trentennale carriera ha scritto e portato in scena più di quaranta lavori teatrali riscuotendo mol-teplici e meritati ricono-scimenti sia dalla critica che dal pubblico. Oltre che commediografo è anche scrittore e poeta: il suo primo libro “Vent’anni di teatro dia-lettale” risale al 1993, precedendo di un anno “Remin e pu piò”, e di tre il suo esordio nella poesia del ricordo con “Barafonda” (Pietroneno Capitani editore, Rimini, 1996). Bisognerà atten-dere il 2004 per “Racon-ta, Rèmin, raconta”, vedi la Ludla n. 4 dello scorso anno: http://www.argaza.it/bollettini/04Maggio2008.pdf ed il giugno del 2008 per questo suo “Vecia palèda” che reca come sottotitolo: Raccol-ta di poesie sul mare.

Guido Lucchini

Vecia palêda

di Paolo Borghi

Traduzioni 1 Trattarolo, ovvero pescatore di costa. 2 Donne del porto. 3 Palizzata. 4 Barafonda: vecchio quartiere di Rimini. 5 Vongole veraci. 6 Bora, tramontana, scirocco. 7 I massi della palizzata. 8 Si gonfia, corre, borbotta, frigge, schizza. 9 Trabaccoli da pesca e Lance: piccole im- barcazioni da pesca o turismo balneare. 10 il gabbiano che ficca il becco\ fra rifiuti e conchiglie vuote. 11 Nome dato ad una zona di mare maledetta nella quale si diceva che i marinai affogati ghermissero le reti e, a volte, tirassero sotto anche le barche.

Guido Lucchini raramente ha valutato opportuno indirizzare la sua poesia all’en-troterra ed alla campagna: le sue attenzio-ni di riminese autentico hanno piuttosto spaziato fra il litorale e la gente che lo fre-quenta e lo vive, fra il mare e coloro che lo rispettano e lo navigano. Questa mani-festa controtendenza con gran parte della lirica dialettale (e non ci si riferisce soltan-to alla romagnola) che, con le eccezioni del grande Biagio Marin (Grado, 1891-1985) e del nostro apprezzato Leo Malto-ni, poco altro, in proposito, è nelle condi-zioni di offrire, trapela irrefutabile da ogni pagina della raccolta, da ogni singolo ver-so, dalle molteplici parole, inusuali a tanti di noi ma che, intimamente legate al ma-re, ogni verso impregnano e impreziosi-scono. Ed ecco allora e’ trataròl1 con la sua faccia scavata dal vento, al purtlòti2 che in attesa sulla palèda3 dinanzi al mare in burrasca, non possono che affidare la salvezza dei loro uomini alla speranza e alla preghiera, e ancora al doni dla Barafanda4 che procac-ciavano la cena andando a ciušòti5 e tor-nando a casa abbandonavano i loro pen-sieri fra i sassi della secca. E come non accennare, inoltre, ai venti ed ai loro nomi come e’ furien, e’ tramuntanèš, e’ sciroch6, venti che alzavano viva maretta fra i tumbulun dla palèda7, contro i quali l’acqua la s’gonfa, la šbarbòtla, la frež, la squèza8, e poi i barchèt e al lènzi9, e’ cuchèl ch’l’insteca e’ su bech \ fra gulmaz e còzli svòi-ti10, la Sprea11 ricca, sì, di pesce ma dai fon-dali maledetti e ladri di reti. Un libro, questo di Lucchini, che testimo-nia la commossa partecipazione dell’auto-re per un mondo e per la sua marineria a vela, che sono andati via via scomparendo incalzati dall’odierna industria della bal-neazione e dal motore diesel che ha inflit-to il colpo di grazia alle sorprendenti vele color terracotta dei pescherecci d’allora.

E’ trataròl

E’ va žo par la marèina Ch’l’è ancora scur schelz, se’ su croc torna la vita, i calzun invrucèd sora al žnoci. La bèrba langa, grigia una cica šmorta tra j’abre e grinzi neri sparguièdi un po’ impartòt cumè che e’ fred, e’ sól, e’ veint j’aves scavè e’ monumeint ma la fadiga.

Il trattarolo. Va giù per la marina\ che è ancor buio\ scalzo, col suo crocco attorno alla vita,\ i cal-zoni arrotolati sopra le ginocchia.\ La barba lunga, grigia\ un mozzicone spento fra le labbra e grinze nere\ sparse ovunque\ come se il freddo, il sole, il vento\ avessero scavato un monumento alla fatica.

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la Ludla8

Una volta, quand i tratour i s’aldèj-va da rèd e al vachi l’era la forza clamanchèva mi cuntaden e che nounburdéll intent ch’u s’arèva a li tnimatal sparzeni, mazèndi i muscoun chis’atachèva te’ su cupèt, (da spurchèsal meni toti ad sangv), e prem e l’ou-tum mert d’agost, a Suréjgval u j’erala fijra dal bès-ci. Te’ mèz ad che’ pajstéjn, u j è uncastèl cun al mouri, ch’a li zéjra d’in-tonda, cun un campanéjl e un cur-téjl, che i dè ad fèsta u s’impéss adzenta, ma che invici in chi dè ad fijrau gn’andèva nisoun: la zenta la sta-sèjva da bas pr’aldéj, santéj, parputèj imparè quajcosa ad nov. Four-si e sarà parchè a n’avèjva maj véstgnent, ma chi dè ad fijra l’era quaj-cosa ad bèl, ch’a mi port incouraincù te’ fond de’ cor. Da cal strèdi osantijr peijn ad porbia, tra mogg,rujnladézz, béjl e scampanéz d’ogniraza, l’ariveva vachi, baghen e pigri.Par la piò l’era vachi e bua, chi parèj-va scapè dal’estetesta da e’ granspécch chi fasèjva: se’ cupét j’avèjvauna sciarpéjna ad piò culour, infiu-chitèda ch’la sdundlèva, e’ pèjl e alcorni ben puléjdi al luzléva; stj ani-meli, acumpagné da e’ biojgh, cun“daj Bij, daj Roo”, u j purtèva a lafijra par fèj aldéj e par l’ès pò van-dou...La banchèta ad Panèt, péjna adzughètal e ad luvarij, zà ad premamatena la jera a lè, sistemèda tlapiena daventi al scoli, prounta parnoun burdéll curious e gulous, che,incucaléj, a tachijma a zirandlèj d’in-tonda, cunvéjnt che, cun chi dijsfrench ch’a tnima ben lighij t’unnoud de’ fazulèt, ad putèj cumprè:cla paléjna bienca, rosa e vejrdapéjni d’arsgantena cun l’alastichspandloun, e’ cruchent, al caramèli,la carobla e che’ fis-céjn, che, impéjad acva, e cantèva da parèj un rusi-gnol…Cvil di pajstéjn a lè d’intondacurious j ariveva pr’incuntrè jaméjgh, ciacarè, zirandlè e par cum-prè qualca luvarij pri su fiul. EncaPerotto, a là tal dijs, l’ariveva cun e’su caritéjn di zlé, insen a cvèl dlagrata-checca. Par che’ caldaz o par-chè soul in chi dè cla zenta la s’putèj-va gusté un gelato o una granéjta

culurèda, gratèda da un bloch adgiaz, chi dou ben prèst i finéjva alpruvesti. Intent che tranquéll, pia-néjn pianéjn am lichiva un zlè d’unscoud, senza l’ès boun ad scapèj, umciapét e’ mi ba’ “Silméjn,” par pur-tèm te’ cantijr du ch’l’era al bès-ci. Eparèjva ch’e’ gudéss tl’aldèjm tra totcla cagnèra fata ad rogg, mugiadézz ebiastèmi, parchè sgond a lò, pardvantè un bon cuntaden l’eraun’esperienza ch’la j vlèjva. Sansel epadroun, cun di gran manocc adbajoch j era tot a lè, pr’aldèj ad vènd

o cumprè. I padroun in presenza de’sansèl, s’i cuncludèjva l’afèri i fasèj-va e’ cuntrat strinzènd e sdundlèndla men dréta, ch’la valéjva piò dlaféjrma d’una cambièla de dè d’incù. Intent che e’ mi ba’ u m’insgniva adcnoss l’età dal vachi guardèndi inboca, un uméjn cun la gavagna diluven, tot sgangarè da fè fadéjga a stèin pija, tl’aldèj e’ mi ba’, u si butétte’ col, gièndi:«Mo Silméjn, t’ci propi te? Par te e’temp e pè ch’u n pèsa: t’ci propispudé cumè aloura!»

L’umejn di luvenUn racconto di Dino Bartolini nel dialetto di Sorrivoli

illustrato da Giuliano Giuliani

premiato con medaglia d’argento al concorso di prosa dialettale “e’ Fat” 2009

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E’ mi ba’, ch’u n i tnèjva propigamba fès aldèj abrazè a un oman, ul scansét, ducièndal pò par ben:«Ch’u t’avnéss un azident, ma te t’ciTuréjn! - e’ giét - Osta però, cla sché-gia che mu me, par che’ tu spintounla m’à soul strisé, ma te la t’à propicunzé mèl!»«Ste burdèl aloura e’ saréb che’ tufiol dla licenza, cvèl ch’l’avèjva danas intent che noun a sijma a e’frount?»«L’è propi lò!»Intent che Turéjn u m’impéjva alsachi ad luven, e’ giét:«Cumplimint, l’è propi un gran bèlburdèl, mèj de’ su ba’!»«Ma cum t’è maj fat arivé sò da qua,sgangarè cum t’ci?»«A jò vou furtona ad putèj muntè sose’ baruzen d’un bon padrounch’l’avnéjva a la fijra. A jò insugnijcla muruséjna, la Bianca, ch’a jòcnou lasé par cojpa dla gvèra. La sta-sèjva so da cva e bsugnèva propich’avnéss! Ma a n so stè boun t’tru-vèla.»«La Bianca la jè arstèda zitèla e la staincoura in cla ca’; incù, a t’garantéssch’a t’la farò incuntrè! Ma déjm unbisinéjn: parchè t’ci acsè scrozz?»«‘Sa vut maj ch’a déga? A so l’omanpiò sgrazij ad ste mond! Cvil che là im’à fat dal gran prumési par cum-pansèm da cum u m’à ardot la gvèra,ma dop a dijs èn a n’ò incoura véstfrench! A so dvent un intrempal, el’è mèj par tot s’a sparéss!»«Parchè t’scorr acsè, ta m’è sajvè lavéjta! Téjrat so! Incù t’svojt la gava-

gna da impéjt la saca ad bajuchéjn.»«L’è mèj aloura ch’a vèga: a n’e’ sos’a s’aldirèm incoura...»Intent che Turéjn e’ tuléjva so la sugavagna, e’ mi ba’ u j rugiét:«A n t’arcnoss piò, t’fe di scours ch’in bat invèl! A mezdè, a ca’ nosta u smagna e a jò chèra che t’a j si éncate!»Turéjn e’ tachét a sluntanès; intente’ ba’, arcmandèndas, u m giét:«Tejnal ad oc, burdèl!»Dou cumpègn ad scola, tl’aldèjmch’a magnèva i luven, inguluséj itachét avnéjm drija; Turéjn, aldèndchi dou babéjn u s farmét par slun-ghij una bèla zèmna ad luven,giènd:«Divartéjv, burdéll; lascéjm da parme, ch’a jò d’andè t’un post du ch’un m’à d’adèj nisoun.»Noun invici, fasènd féjnta ad zughij,senza fès aldèj, da da loungh a cun-tinuesum ad andèj drija fintenta te’castèl. Turéjn, cunvéjnt ad l’ès dapar lò, senza presia l’andét drij lamoura, cun fadéjga e tarménd u jrapét soura, tirèndas drij la gavagna,arstènd pr’un bisinéjn a lè, cun jocc fess te’ svojt, drétt cumè un bal-doun, da buté pò zò la gavagna. Acla vésta, a s la dasesum a gambi,me, dop a poch, a m’artruvét tl’uste-ria par cuntè gnacvèl me mi ba’. Lò,ch’u n cardèjva una parola ad cvèlch’a j avèjva cuntè, senza grèzia u mstrabighét fintenta sota al mouri,par guardè in tot i bous: u j era lagavagna, ma ad Turéjn gnenca l’om-bra. Ch’e’ ba’ aloura, u m dasét un

scuploun, giènd:«Busèdar, a n capéss che gost ch’u jsija a cumpurtès acsè!»E me arsantéj a badèva a déj:«L’è la verità, u j è la gavagna ch’la fada prova!»No savènd ‘sa che fè, senza piò scor,arturnesum te’ paèjs ch’e’ tachèva asvujtes… D’arstè po’ incucaléj tl’al-dèj, cumè ch’l’avnéss da un entmond, arivé Turéjn!«Du ta la jé mesa la gavagna?»E’ giét e’ mi ba’, par santéjs pòarspond:«Sta boun, no mi fa pansè! A la jòpasa da e’ bous de’ gat: pr’un pèjl an m’un so buté dal mouri! Zà a seraprount par dèm la mola, cum’avèjvafat cun la gavagna; ma vultèndumpar salutè ste’ mond, a m so incortch’a sbajèva, ch’a n sera e’ piò sgra-zij! Di znoc, a lè da bas, instéj adstrèz, u j era oun ch’u s magnèva algosi di mi luven! A so arstè cumè unsalam, gièndum che s’e’ campèvacvèl cun i mi schért, a putèjvacampè énca me; acsè a so scalè zò eadès a so què, prount pr’avnéj amagnè a ca’ tua!»«Du che sarà maj andè a finéj cvèlch’u s magneva al gosi di tu luven?»e’ dmandét e’ mi bà.«Ba’, cvèl l’era un anzal» a giét me.«Sta zétt, ‘sa vut maj t’sepa tè bur-dèl? J ènzal j à agl’eli e i n va instéjcun di strèz… Corr piotost a ciamèla Bianca, gièndi ch’a la jaspitèm amagnè a ca’ nosta e che par lija u j èuna bèla surpréjsa. Va, speciat, chenoun intent a s’invièm vers ca».

[continua da pagina 1]

Meriggio in Romagna

Nei numeri a venire «la Ludla» avràcura di offrire significativi stralci diquesto libro affinché il lettorepossa rendersi conto dei tesori disensibilità e intelligenza critica chesono offerti dalla prosa di CinoPedrelli.Per ora vogliamo qui ringraziare ecompiacerci per tutte le sinergie chela Schürr è riuscita a mettere in

campo e a legare in cordata per rea-lizzare questo percorso così singola-re attraverso la cultura e la poesiaromagnola che conobbero, nellaseconda metà del Novecento, quellastraordinaria fioritura così sorpren-dente per la gamma dei colori e lacontenuta melanconia che suscita ilnome di Meriggio romagnolo.Ringraziamo dunque l’autore cui lacultura romagnola deve questodono singolare e prezioso, i curato-ri dell’opera Roberto Greggi e Giu-

seppe Bellosi (che fu pure l’ideatoredella Collana «Tradizioni popolarie dialetti di Romagna»), l’Editricela Mandragora di Imola che halimato oltre ogni dire il libro dalpunto di vista grafico e filologico ein fine, ma forse dovevamo dire ‘inprimis’, la Fondazione del Monte diBologna e Ravenna che, con lungi-miranza e generosità, ha dato uncosì significativo apporto economi-co all’impresa.

gfr.c.

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la Ludla10

[continua dal numero precedente]Il verbo essere

SUM a so sonoES t’si seiEST l’è èSUMUS a sem (sen) siamoESTIS a si sieteSUNT j è sono

Note

I persona sing. In romagnolo c’è la perdita della nasalizza-zione rispetto al latino SUM.II persona sing. Non dal latino ES, ma da una forma ana-logica *SEES, da cui anche l’italiano sei.I persona plur. Non dal classico SUMUS ma da una variante*SIMUS (› *simu › *siu › si). La grafia oscilla fra quella etimolo-gica sem e quella convenzionale con en che rende la e nasale.II persona plur. Si è l’esito normale di SITIS con la cadutaprima della -s e poi della -t.III persona plur. Per analogia, come in tutta la flessioneverbale, la forma è identica a quella della III singolare.

Il verbo avere

HABEO a jò hoHABES t’é haiHABET l’à haHABEMUS a javem (javen) abbiamoHABETIS a javì aveteHABENT j à hanno

Note

Al fine di evitare lo iato, vale a dire l’incontro di due voca-li da pronunciare in stretta successione, il dialetto inseri-sce una consonante di passaggio che in questo caso ècostituita dalla j. Questa j, non etimologica, può esseretranquillamente unita nella grafia alla voce verbale. Qual-cosa di simile, seppure in un contesto diverso, accade initaliano quando si inserisce, o meglio si inseriva in quan-to l’operazione è oggi sentita come antiquata, una i davan-ti alle parole cominciante con la cosiddetta s impura inespressioni come in istrada o per ischerzo.Da notare che la j della III persona plurale rende invece lapronuncia consonantica del pronome personale àtono i.

Quindi non si può scrivere *ló jà vest ‘loro hanno visto’ma si deve scrivere ló j à vest. Si osservi anche la differenza fra due frasi come Me a jòvest un ðbali ‘Io ho visto uno sbaglio’ e Me a j ò vest un ðbali‘Io ci ho visto uno sbaglio’, dove questa seconda j rappre-senta la pronuncia consonantica dell’avverbio i ‘ivi, inquel luogo, ci’. Oppure fra due espressioni come Me a jòfat un righêl ‘Io ho fatto un regalo’ e Me a j ò fat un righêl‘Io gli (o ‘le’ o ‘a loro’) ho fatto un regalo’, dove il secon-do j è il pronome personale atono nella forma dativa.Ciò premesso, osserviamo che la coniugazione del presen-te di avere segue in gran parte gli esiti del toscano.Nella persona II sing. la é rappresenta la forma paralleladi hai (dal latino HABES) con la caduta della -i che permetafonia chiude la -a- in é.Nella I persona plurale il romagnolo avem (o aven) presen-ta l’esito normale del latino HABEMUS, come fanno delresto tutti i dialetti italiani. La forma dell’italiano (‘abbia-mo’) è stata presa direttamente dal congiuntivo (‘che noiabbiamo’) ed è viva a livello popolare solo nella toscanasettentrionale. Altrove si dice “regolarmente” avemo.

Fare, stare, dare, andare

Il presente latino di FÀCERE ‘fare’ è ben conservato in dia-letto: FACIO › a fêz; FACIS › t’ fé; FACIT › e’ fa; FÀCIMUS › afaðen; FÀCITIS › a faðì; FACIUNT › i fa. Però nella I sing. accan-to al ‘regolare’ a fêz si trovano anche le forme a fêgh o afagh, che presentano l’infisso -g- o -gg-: *fago, *faggo.

[continua nel prossimo numero]

Appunti

di grammatica storica

del dialetto romagnolo

XXXVI

di Gilberto Casadio

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la Ludla

filìzi: deriva dall’aggettivo lat.felice[m] (felice) della stessa radice di‘femmina’, ‘feto’, ‘fecondo’. Comenome proprio vuol essere augurale1.Ma a Civitella, dove per la sua dabbe-naggine ci si ricordò a lungo de’sgnór Filizi vissuto a metà dell’800,capita ancora di usare filìzi per‘sciocco’: adés no méttet a fè enca tee’ filiziòt, oppure a no fè dal filizié-di. Parecchi luoghi del resto hannoqualche termine che circola con unanuova accezione pronta a spariredopo poche generazioni: per le vocigergali il ciclo è ancora più breve. Siconiò pure il bisticcio: Nanni Filizi:póch zarvél e mânch giudizi / FlèviMinél: póch giudizi e mânch zarvèl,sulla falsariga di una battuta dettaall’osteria, diretta ad uno dei due eduscita dalla bocca di un terzo che alcontrario aveva più buon senso e fac-cia tosta che istruzione. Ma per i più,poveri ed analfabeti, fu spesso digrande soddisfazione poter ridere,quasi sempre a denti stretti, dellesciocchezze dei ricchi, specie se istrui-ti con scarso frutto. Mio padre, cheaveva frequentato solo le elementari,mi diceva talvolta: vuìter ch’a [i av]ì

studgì, e’ bon sens a-n savì piôd’avél; ed io rispondevo, dandogli inparte ragione: s’ tu savés, ba, ch’u in’è enca di pèþ…2

Note

1. Come aggettivo in vita mia ho sentitoda giovane solo una vecchietta discesa dasòm ad l’Èip [dalla cima dell’Appenni-no] usarlo per salutare con filizi sera. IlMasotti, Voc., però registra fìliz: da qual-che parte sarà in uso.2. Il naturale concreto ‘buon senso’d’origine contadina in secoli d’analfabe-tismo diffuso celava a fatica versogl’istruiti una diffidenza consolidata. Ilprete, il dottore, il notaio, l’esattore ditasse e bollette, chiunque avesse la par-lantina sciolta mettevano in soggezione,parché s’ i t’vleva farghé, i tireva fora diparulón. Occorreva infurbirsi par nopaghé e’ dèzi e fiutare la differenza trasostanza e chiacchiere oscure e taloravuote. Infine, di fronte agli errori di unistruito talora si concludeva, come perprendersi la rivincita: l’è e’ dutór ol’avuchét di parsót, cioè con la laureacomprata. Si diceva pure: co la testach’tu t’artrôv, s’ t’ vô pasè a la scola,bðugnarà che tu porta un bel parsòt a lamaèstra. Ma la diffidenza verso gl’istrui-ti è antica: Petronio, Satyricon LXVI: Nones nostrae fasciae et ideo pauperorum verbaderides. Scimus te prae litteras fatuum esse(Non sei della nostra fascia [categoria] eperciò deridi le parole dei poveracci. Masappiamo che davanti ai libri ti sei rin-cretinito). L’autore si rendeva conto cheesisteva un lessico latino da poveracci:un serbatoio per i volgari venturi. Nè sifermava qui: nel cap. LXIII aveva scritto:Vah! Bella res, et iste qui te docet… (Vah!bela roba, e stu [costui] ch’u t’insegna…,dove vah! è un’esclamazione latina, anco-ra viva in dialetto, avvertita erroneamen-te come imperativo di ‘andare’). Antici-pava i rimbrotti di certi vecchi dellanostra infanzia: Bela roba! te e e’ to bach’u t’l’insegna!; Bela roba ch’i t’inse-gna a ca tua! Oppure: L’è la bela educa-ziòn ch’i t’insegna a la scola?

fiumêna: in ital. fiumana, la pienadel fiume. Deriva da flumen (fiume),a sua volta dal verbo flùere (fluire,scorrere)1. Locuzioni: l’è vnu þo ’nagran fiumêna; mulnèr e mulên i èandè int e’ casen co la fiumêna;

oppure, i t’ha d’avè truvè int la fiu-mêna grosa ch’la butét zò enca e’pont, giacché la piena trascinava unpo’ di tutto e molti andavano sullerive a raccogliere la legna e ogni altracosa utile lasciata dalle acque che siritiravano; la fiumêna la i ha ròt (gliargini); murì o sparì int la fiumêna;una fiumêna d’imprupéri o ad bia-stèmi; ecc. Infine, a Civitella, a chi s’impegolavain cause perse (l’avuchèt dal chéuðipersi) i più vecchi rivolgevano unadomanda retorica: a-n sarì miga encavo acsé insansè da vlé farmè la fiu-mêna con e’ cul? Talora seguiva lamalevola aggiunta campanilisticacom i fa a Cuðércol, il primo paesepiù in basso, ch’ u i è stè semper traméþ un pô ad tachètta, ossia qualcherivalità2.

Note

1. Dal verbo lat.derivano anche flóss,flóid, fiòt, ecc. La i al posto della l origi-naria suggerisce che fiòt sia voce piùantica e di tradizione orale. Tra le impre-cazioni: ch’u t’avnés e’ floss (=diarrea),oppure un fiòt o ðbòch ad sangv. Que-st’ultima imprecazione oggi dice poco;ma ai tempi della tubercolosi, era unaugurio dei peggiori.2. Il modo di dire dev’essere nato a metàdell’800 quando qualcuno spiegò il topo-nimo Cusercoli come ‘chiusa d’Ercole’.L’etimo riempì d’orgoglio gli abitanti chenon tolleravano dubbi sull’esistenza o sulpassaggio di Ercole, o sul fatto che la þòta(il conglomerato roccioso su cui poggia ilcastello) fosse il masso lanciato da luicontro chissà quale nemico. Qualcunoavrà pure supposto che Ercole fosse tede-sco, poiché la povera Santina di Civitella,la sarta analfabeta nata nel 1860 che inse-gnò il suo mestiere a mia madre, comemolti altri era solita ripetere: Tot tudéscha Cuðércul: guardì quent u i n’è con icavél ross e de’ rèmol int la faza (la cru-sca, cioè le lentiggini), parché una voltau pasèt i tudésch e i’mprignét tot calpôri dòni! Ma nessun documento con-ferma la tradizione orale. L’ultima voltaperò potrebbero essere stati non i tede-schi, ma i francesi del 1797 che, per rea-zione immediata alle fucilate con cuifurono accolti, forse non si limitarono alsolo sfascio, documentato, dell’arca delsanto locale.

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Rubrica curatada Addis Sante Meleti

da Civitella

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la Ludla12

Nelle ninne-nanne romagnole laBorda è un essere terribile, che ucci-de i bambini mediante una corda.

Ninàn, ninàn, la Bordala liga i bei babèn cun una côrda.Cun una côrda e cun una curdella, la liga i bei babèn pu la i asserra,cun una côrda e cun una ligazza,la liga i bei babèn pu la i amazza 1.

Ninan ninan baben che ven la bordal’è què di driì da l’oss che la v’ascolta:li la v’ascolta e la vi sta a asculté,sa nun si bon li la vi vo’ lighé:cun una corda e cun una curdèla,la liga i babinèn pu la j’ asèra:cun una corda e cun una curdaza,la liga i babinèn pu la j amaza 2.

Fa ninân, che vên la Bôrda,l’è d’drì’ da l’ôss, chi la v’ascôlta.La v’ascôlta, e la stà ascultë’,cun una cörda cun una curdèla,la vö’ lighë’ la mì’ babêna bèla.Cun una curdèla e cun un curdônla liga i babinén ch’a n’vo’ stë’ bón. Cun un curdôn e un aguië’ di fil,la liga i babinén ch’a n’vo’ stë’quid.Cun un curdôn e un aguië’ di lanala liga i babinèn ch’a n’fa’ la nâna.Cun un curdôn e un aguië’ di rèzzala liga i bibinèn, pu’ la i’ impéca.Cun una cörda e un aguië’ di àzzala liga i babinèn, pu’ la i’ amàzza 3.

Randi descrive la Borda come «unaspecie di fantasima bendata e orribi-le, vagante tra la notte e il crepusco-lo; personificazione della paura [..]viene invocata dagli adulti per farallibire i fanciulli indocili e disubbi-dienti»4.

Spauracchio dei bambini, il perso-naggio era conosciuto col nome diBourda anche nel Bolognese, Bùrdanel Ferrarese, Borda nel Modenese,Bordana a Reggio Emilia. Al maschi-le, assumeva il nome di Bordón aParma, Bordö o Bordoeu a Milano colsignificato di Orco, Bordò nel Bor-miese con un significato generica-mente spregiativo. Nel dialetto mila-nese borda significa “nebbia, vaporicondensati a terra specialmente inluoghi umidi”, e borderà vale per“insudiciare, macchiare con qualchemateria specialmente liquida”.Borda, nota nei dialetti cremasco ebormiese, nel bergamasco aggiungeal significato di “nebbia” quello di“maschera” di carta pesta.Nei versanti alpini francese e italia-no la radice linguistica bor- partecipaalla formazione di nomi di luoghi edi voci comuni aventi attinenza conacque sorgive e termali. Nel Savoiar-do la “fontana” è detta borne; nellaSvizzera romanza bournel; nelle areetedesche, Brunnen per “sorgente”;nel Trentino, brenz per “vasca”; infrancese brouillard e brume per “neb-bia” e bourbe e boue per “melma”. Queste voci sembrano corrisponde-re all’antico greco attico bórboros per“melma, fanghiglia”. La stessa radice era nel nome diBorvo o Bormo, dio celtico protettoredelle acque termali e sorgive ed equi-parato dalle popolazioni galloroma-ne ad Apollo guaritore. Alla suddetta divinità presumibil-mente si devono alcuni toponimiconnessi ad antiche terme: in Fran-cia, Bourbon – Lancy, Bourbon –l’Archambault, Bourbonne-les-Bains;

La Borda

di Anselmo Calvettiillustrazione di Giuliano Giuliani

Questa pagina e le seguenti sono dedi-cate a due esseri più o meno fantastici

della nostra tradizione popolare. Il primo è la Borda, illustrata nella

sua natura e nelle sue corrispondenzenelle altre culture da Anselmo Cal-

vetti, il secondo è e’ Régul di cui ciparla Luigi De Nardis, in un brevesaggio apparso su La Piê nel 1924.

Il termine borda, secondo le ricerchepiù recenti, sembra da collegarsi,

sulla base di numerosi esiti dialettaliitaliani, ad una radice *bord- con il

significato di ‘insetto ripugnante,rabbia, maschera’ che bene può spie-

gare il nostro borda, inteso comespauracchio per i bambini.

Secondo un’altra ipotesi, in veritàpiuttosto complessa ma più suggesti-

va, il punto di partenza sarebbe ilfràncone *bihordon ‘cingere con un

recinto’, poi ‘recinto, lizza’ e, conulteriore passaggio, ‘giostra di cava-

lieri’. Di qui l’italiano bigorda ‘lan-cia’ e bagordo ‘festa popolare che si

svolge in occasione dei tornei’ e poi‘festa’ in generale e ‘festa maschera-

ta di carnevale’ in particolare. Aquesto punto diventa facile il passag-gio a ‘maschera di carnevale’ e poi aquello di ‘spettro’, ‘donna malvestitache spaventa i bambini’, significato

che la voce bagorda ha in alcunidialetti alpini, dalla quale, per con-

trazione, il nostro borda.Régul invece è derivazione direttadel latino regulus ‘piccolo re (dei

serpenti)’, calco del greco basilìskoscon lo stesso significato. Il nome sideve al fatto che il regolo presenta

una cresta che richiama in qualchemodo la corona regale.

Secondo la tradizione è serpente vele-nosissimo, in grado di uccidere con il

solo sguardo o con il fiato emessodalla sua bocca. Ricordiamo che sul-l’esistenza del basilisco/regolo non si

poteva dubitare più di tanto inquanto è una creatura ricordata più

volte dalla Bibbia.

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nell’Italia settentrionale, Bormio(Aquae Bormiae) e il fiume Bormidache scorre presso Acqui (Aquae Stati-collae).Reperti, rinvenuti alle sorgenti del-l’Arno sul Falterona e nelle vallatedel Savio e del Senio, attestano lapresenza di culti idrici, che Marziale(libro IX, 58) riferì alla ninfa reginadel lago vicino a Sarsina. Nelle Gal-lie le tradizioni, confermate dall’ar-cheologia, attestano che gli oggetti,offerti agli dèi, erano sommersi inlaghi, stagni e paludi.Quanto al tema della corda - ossessi-vamente presente nelle ninne-nanne romagnole che fanno riferi-mento alla Borda - Tacito riferì chein un’isola dell’Oceano (Mar Balti-co) le tribù germaniche onoravanola dea Nerto, portata su un carrofino ad un lago sacro nelle cuiacque il carro ed i servi del suo

seguito erano sommersi (Germania,XL). Sono databili all’Età del Ferrole vittime, rinvenute in torbieredanesi e britanniche, che eranostate strangolate con un laccioprima di essere sommerse nellepaludi5. Un mito della Bitinia (Asiaminore) narrava che Bormos o Bori-mos era un fanciullo, figlio di re,rapito dalle ninfe mentre attingevaacqua da una fonte6. Tale mitomicroasiatico confermerebbe che levittime, offerte alle divinità dellefonti, erano sacrificate mediantestrangolamento e annegamento.

Note

1 - O. Guerrini, Alcuni canti popola-ri romagnoli, Zanichelli, Bologna,1880, pp.17-18, riportato da U.Foschi (a cura di), I canti popolaridella vecchia Romagna, Maggioli, San-

tarcangelo, 1974, v. I, p.22 - N. Massaroli, I canti della cullanella Romagna, «La Piê», II, 1922,pp.125-128; riportato da Foschi, Icanti cit., pp. 14-15,3 - T. Randi, Saggio di Canti popola-ri romagnoli raccolti nel territorio diCotignola, “Atti della R. Dep. di Sto-ria Patria per le provincie di Roma-gna”, Bologna, 1891, pp. 230-238;riportato da Foschi I canti cit. pp.11-12. 4 - T. Randi, citato da L. Ercolani,Vocabolario romagnolo-italiano, Montedi Ravenna, Ravenna, s. d., s. v.:borda.5 - M. J. Green, Dizionario di mitolo-gia celtica, Rusconi, Milano, [1999],voce Tollund (Uomo di), p. 272.6 - E. De Martino, Morte e piantorituale. Dal lamento funebre al piantodi Maria, Boringhieri, Torino, 1975,p. 254.

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È un mostro sopravissuto alle folemedioevali. Deve essere un bassoparente dei draghi. Ancora oggi, incerte campagne, il suo nome spa-venta. Ma, veramente, quel che diesso rimane nella fola popolare -figura e manifestazione - non hanulla di terribile.Quanto a manifestazione, è beneprecisar subito che questa non si hache per riflesso, nello spavento cheil regolo stesso suscita. Il regolo inse-gue, lanciando un alto fischio, lepersone che per av ventura passinovicino al suo covo: e non si sa chefaccia di più. Certo però, antica-mente, sul suo conto si debbonoesser narrate cose sinistre: e l’im-pressione di quelle perdura, cieca eirragiona ta, nella leggenda, nell’abi-tudine e nel sentimento del popolo.Come tante altre cose, oggi, ancheil regolo, in sostanza, è un ma -linconico addomesticato.La figura del regolo è quella di unabiscia corta e ben grossa. Grossauna coscia in polpa, e lunga cinquespanne. Ha il color neu tro dellebiscie povere; ma sul capo porta,scarlatta, una cresta a pettine, comequella dei galli da sementa: spaval-da. Il regolo dun que, non è che unapingue biscia crestata.La leggenda ci dice, sotto sotto, cheil regolo non è signore dei secoli

come gli altri mostri famosi; perchéci confida il secreto del la sua origi-ne rinnovata. Quando una zappa -se per accidente o se volutamente -tronca la coda a una qualunquebiscia, la biscia mutilata non rimet-te la coda: ma s’impingua e s’incre-sta. Ecco fatto il regolo.Se si volesse sottilizzare su questaplebea origine di un parente deidraghi, si potrebbe anche giungereal dubbio che fra l’antico regolo e lavolgare biscia mutilata si sia fatta,nel popolo, per arruf fìo di leggen-de, una cieca confusione.Nella tradizione corrente, il regolo èchiamato maschio delle bi scie; quando- e più comunemente - non è addirit-tura chiamato re. Certo, re dellebiscie, per la corporatura imponentee per la cresta rossa che l’incorona.

Il regolo presceglie a sua dimora i sitipiù disparati, ma sempre che sianosilenziosi, tra arbusti, pietrame ederbe. Sta nelle tombe dei cimiteri,fra le pile dei vecchi ponti, nel fittodelle siepi di marruco; a Forlì - perdir di Forlì - si accenna ancora,come a sua abituale dimora, il disu-sato fornacione che, di contro a e’Placàn [Via Pelacano], sta alto sul-l’acquitrino in perpetua sete.E lì, il regolo vigila in agguato, dal-l’ombra millenaria della pau ra, semai si avvicini il passo che si sente,lontano, camminare sulla tracciadel sole.

«La Piê», 5 (1924).

Ripubblicato dalla Schürr in:Luciano De Nardis, Romagna popo-lare, Imola, 2003, pag. 51.

Burdel, e’ Lion ad Reviati u v’aviða che l’è óra ad paghê’ la cvöta de’ 2010.J è sèmpar chi 12 ìvar… A putì druvêr e’ buliten dla pösta, o avnì a la Sédch’l’è mej; acsè a faðen do ciàcar… I dè j è sèmpar e’ mért döp-mëþ-dè (dal tre in avânti), la þuiba döp-mëþ-dè (döpal cvàtar), e’ vènar matena döp al nôv.

A putì andê nenca a la bânca e cvist j è i nòmar:Unicredit/ ag. S.Pietro in Campiano (RA) IT 26 Y020 0813 1760 0000 3192 658Banca Popolare/ ag.Punta Marina Terme (RA) IT 05 L056 4013 1110 0000 0005 520Cassa Risparmio/ ag. Santo Stefano (RA) IT 72 J062 7013 172C C072 0003 912

Se invéci a javì þa paghê – e j è parec cvi ch’i l’à fat! – nó a-v ringrazien bentânt...

E’ Régul

di Luciano De Nardis

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Premio letterario “Antica Pieve”Pieve Acquedotto - Forlì

Atréz inriþnì

di Speranza Ghiniprima classificata

Coma cal rastladórie chi parghìr inriþnìin mostra int i þardén,curé a prê ingléð,a scòrar de’ temp indrì,i véc i s' ardùð in piaza,étar monument ðgraplé,ðblaché ins la banchenai tira a cumbinêmeþdè cun l'óra d' zenascarabucènd cun e’ bastoncal parôl sèmpar praciði,pilèstar dla su vita,che e’ vent int un supionscanzlendli e’ spargojatra i bot de’ campanon.

Attrezzi arrugginiti

Come quelle rastrellatrici / e quegli aratri arrugginiti / inmostra nei giardini, / curati a prato inglese, / a parlare deltempo passato, / i vecchi si radunano in piazza, / altri monu-menti scrostati, / parcheggiati sulla panchina / tirano a combi-nare / mezzogiorno con l'ora di cena / scarabocchiando colbastone / quelle parole sempre uguali, / pilastri della loro vita,/ che il vento con un soffio / cancellandole disperde / tra i rin-tocchi del campanone.

Stal puisì agli jà vent...

San Martino d’Oro - ConseliceFiôr sambêdg

di Daniela Cortesiprima classificata

Èn i ròzla cóma ghët zèt in la nòta.Or al mërcia in fila ingiâna sôra l’armôr di pinsir intônd a l’ânma.Int e’ bur u s cunfónd l’ómbra d’un arcörd:fiôr sambêdg che dà furatra al carvàj de cör.

Fiore selvatico

Anni rotolono come gatti silenziosi nella notte. / Ore marcianoin fila indiana / sopra il il rumore dei pensieri intorno all’ani-ma. / Nel buio si confonde l’ombra di un ricordo: / fiore selva-tico che spunta / fra le crepe del cuore.

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«la Ludla», periodico dell’Associazione Istituto Friedrich Schürr, distribuito gratuitamente ai sociPubblicato dalla Società Editrice «Il Ponte Vecchio» • Stampa: «il Papiro», Cesena

Direttore responsabile: Pietro Barberini • Direttore editoriale: Gianfranco CameraniRedazione: Paolo Borghi, Gilberto Casadio, Giuliano Giuliani, Omero Mazzesi

Segretaria di redazione: Carla Fabbri

La responsabilità delle affermazioni contenute negli articoli firmati va ascritta ai singoli collaboratori

Indirizzi: Associazione Istituto Friedrich Schürr e Redazione de «la Ludla», Via Cella, 488 •48125 Santo Stefano (RA)Telefono e fax: 0544. 562066 •E-mail: [email protected] • Sito internet: www.argaza.it

Conto corrente postale: 11895299 intestato all’Associazione “Istituto Friedrich Schürr”Poste Italiane s.p.a. Spedizione in abbonamento postale. D. L. 353/2003 convertito in legge il 27-02-2004 Legge n. 46 art. 1, comma 2 D C B - Ravenna

S’a

S’a fos boun‘d tirê’ a fê’ séras’a putescampê’ seinza doie seinza pinsirs’a putesturnê’ indrìe fê’ count ‘d gnit.

Se io. Se fossi capace \ di tirare a far sera \ se potessi \ viveresenza dolori \ e senza pensieri \ se potessi \ tornare indietro \ efar finta di niente.

Nebia

S’a m’vult indrìa gvardê’ la nebiaa m’inucares,e cun la boca avérta,a seint che e’ côru m’dà una böta.Pr un vérs o pr un êtara fëgh una grân fadigaa distêm toti al matencun la voja ‘d ridar e ‘d scarzê’.

Nebbia. Se mi volto \ a guardare la nebbia \ m’incanto, \ eda bocca aperta \ sento che il cuore \ sobbalza.\ Per un verso oper l’altro \ faccio una gran fatica \ a destarmi tutte le matti-ne \ con la voglia di ridere e scherzare.

Se: ovvero il fascino… l’insidia… la provocazione delperiodo ipotetico, una sfida che Paolo Gagliardi, in que-sta pagina 16 coniuga in due maniere all’apparenza dis-simili ma a ben vedere connesse fra loro da un irrisolto

senso d’inquietudine nei confronti di un futuro appa-rentemente avaro di soddisfazioni, non meno che dilegittime prospettive.Ci è ignota l’età dell’autore (le sue poesie sono pervenutein redazione via email senza alcun ragguaglio in merito),ma volendo azzardare qualche congettura si fa evidenteche il gioco dei se non pare addirsi ad un giovanissimo,ricco anzitutto di certezze, e d’altronde l’arte ‘d tirê’ a fê’séra escluderebbe un vecchio che tale pratica esercitaormai d’abitudine. A prescindere dall’anagrafe resta tutta-via il consenso per un poeta che sente ancora il bisognodi esprimere sensazioni, sogni ed idee in un dialetto chemolti danno in via d’estinzione. Che possa significarequalcosa? (oppure: Ci piacerebbe significasse qualcosa…)

Paolo Borghi

Due poesie

di Paolo Gagliardi

Caspar David Friedrich - Viandante sul mare di nebbia