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la Ludla 1 “Poca favilla gran fiamma seconda” Dante, Par. I, 34 la Ludla (la Favilla) Periodico dell’Associazione “Istituto Friedrich Schürr” per la valorizzazione del patrimonio dialettale romagnolo Autorizzazione del Tribunale di Ravenna n. 1168 del 18.9.2001 Questo numero è stato realizzato con l’apporto del Comune di Ravenna Società Editrice «Il Ponte Vecchio» Anno XIX • Giugno 2015 • n. 5 (160°) SOMMARIO “Verificato per censura” di Giuseppe Bellosi La vicenda poetica di Pietro Rossi - I di Grazia Bravetti Magnoni Daðiv a l’ìpica! di Arrigo Casamurata I musei etnografici della Romagna II - Museo degli Usi e Costumi della Gente di Romagna - Santarcangelo di Vanda Budini Parole ebraiche nel lessico romagnolo? di Lucio Donati e Patrizia Proto Pasquali E’ ruset Testo e xilografia di Sergio Celetti Ðbadzé di Paolo Gagliardi Illustrazione di Giuliano Giuliani Tracce di un passato remoto III Il capodanno di Gian Maria Vannoni Parole in controluce: testimòni Rubrica di Addis Sante Meleti Stal puiðì agli à vent... I scriv a la Ludla Libri ricevuti Carlo Falconi - Nisõ’ di Paolo Borghi p. 2 p. 4 p. 5 p. 6 p. 8 p. 8 p. 9 p. 10 p. 11 p. 12 p. 14 p. 15 p. 16 La Ludla intende ricordare i cento anni dall’entrata dell’Italia nella Prima Guerra Mondiale attraverso la recente ristampa (2014) da parte della Società Editrice «Il Ponte Vecchio» di Verificato per censura. Lettere e cartoline di soldati romagnoli nella prima guerra mondiale. Il volume, a cura di Giuseppe Bellosi e Marcello Savini con prefazione di Tullio De Mauro, propone una scelta di oltre trecentosettanta testi tra i più significativi provenienti dalla raccolta di autografi di soldati della prima guerra mondiale, conservata presso la Biblioteca Malate- stiana di Cesena: sono in totale circa duemila lettere e cartoline di mili- tari cesenati, di ambito popolare, soprattutto contadino. Ha scritto Marcello Savini: “Il volume vuole essere un omaggio a quella disgraziata generazione e un contributo nuovo alla storiografia della Grande Guerra: nuovo perché, in questo libro, gli umili, diversamente da quanto acca- de in molti saggi sulla prima guerra mondiale non stanno sullo sfondo ma occu- pano la scena. Per oltre tre durissimi anni di guerra centinaia di migliaia di ita- liani, in massima parte lavoratori della terra, contadini, mezzadri, braccianti, letteralmente umili, fisicamente attaccati alla terra, furono strappati dai campi, dove svolgevano faticose opere e vivevano sudatissimi giorni, e scaraven- tati in una terribile fornace di violenza e di morte. Questi contadini-soldati della Romagna, strappati alla loro cul- tura, lentissima ad evolversi e funzio- nale all’ordine sociale esistente, immer- si di colpo nell’universo concentrazio- nario della trincea, traumaticamente si ‘culturalizzano’ e formano un ‘par- lante collettivo’ che lo storico, e non solo lo storico, deve sapere ascoltare.” Nelle pagine seguenti riproducia- mo l’intervento di Giuseppe Bello- si alla presentazione del volume a Cesena lo scorso 25 maggio: un contributo incentrato sull’aspetto linguistico di una raccolta di testi che costituisce un importante documento di italiano popolare. Per il centenario della Grande Guerra Giugno 2015 Gino Barbieri (1885 - 1917). “Soldati in sosta durante una marcia”.

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la Ludla 1

“Poca favilla gran fiamma seconda”Dante, Par. I, 34

la Ludla(la Favilla)

Periodico dell’Associazione “Istituto Friedrich Schürr”per la valorizzazione del patrimonio dialettale romagnolo

Autorizzazione del Tribunale di Ravenna n. 1168 del 18.9.2001

Questo numero è stato realizzato con l’apporto del Comune di Ravenna

Società Editrice «Il Ponte Vecchio» Anno XIX • Giugno 2015 • n. 5 (160°)

SOMMARIO

“Verificato per censura”di Giuseppe Bellosi

La vicenda poetica di Pietro Rossi - Idi Grazia Bravetti Magnoni

Daðiv a l’ìpica!di Arrigo Casamurata

I musei etnografici della RomagnaII - Museo degli Usi e Costumi dellaGente di Romagna - Santarcangelodi Vanda Budini

Parole ebraiche nel lessico romagnolo?di Lucio Donati e Patrizia ProtoPasquali

E’ rusetTesto e xilografia di Sergio Celetti

Ðbadzé di Paolo GagliardiIllustrazione di Giuliano Giuliani

Tracce di un passato remoto III Il capodannodi Gian Maria Vannoni

Parole in controluce: testimòniRubrica di Addis Sante Meleti

Stal puiðì agli à vent...

I scriv a la Ludla

Libri ricevuti

Carlo Falconi - Nisõ’di Paolo Borghi

p. 2

p. 4

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p. 8

p. 8

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p. 16

La Ludla intende ricordare i cento anni dall’entrata dell’Italia nellaPrima Guerra Mondiale attraverso la recente ristampa (2014) da partedella Società Editrice «Il Ponte Vecchio» di Verificato per censura. Letteree cartoline di soldati romagnoli nella prima guerra mondiale. Il volume, a cura di Giuseppe Bellosi e Marcello Savini con prefazionedi Tullio De Mauro, propone una scelta di oltre trecentosettanta testitra i più significativi provenienti dalla raccolta di autografi di soldatidella prima guerra mondiale, conservata presso la Biblioteca Malate-stiana di Cesena: sono in totale circa duemila lettere e cartoline di mili-tari cesenati, di ambito popolare, soprattutto contadino.Ha scritto Marcello Savini: “Il volume vuole essere un omaggio a quelladisgraziata generazione e un contributo nuovo alla storiografia della GrandeGuerra: nuovo perché, in questo libro, gli umili, diversamente da quanto acca-de in molti saggi sulla prima guerra mondiale non stanno sullo sfondo ma occu-pano la scena. Per oltre tre durissimi anni di guerra centinaia di migliaia di ita-liani, in massima parte lavoratori della terra, contadini, mezzadri, braccianti,letteralmente umili, fisicamente attaccati alla terra, furono strappati dai

campi, dove svolgevano faticose opere evivevano sudatissimi giorni, e scaraven-tati in una terribile fornace di violenzae di morte. Questi contadini-soldatidella Romagna, strappati alla loro cul-tura, lentissima ad evolversi e funzio-nale all’ordine sociale esistente, immer-si di colpo nell’universo concentrazio-nario della trincea, traumaticamentesi ‘culturalizzano’ e formano un ‘par-lante collettivo’ che lo storico, e nonsolo lo storico, deve sapere ascoltare.”Nelle pagine seguenti riproducia-mo l’intervento di Giuseppe Bello-si alla presentazione del volume aCesena lo scorso 25 maggio: uncontributo incentrato sull’aspettolinguistico di una raccolta di testiche costituisce un importantedocumento di italiano popolare.

Per il centenario della Grande Guerra

Giugno 2015

Gino Barbieri (1885 - 1917). “Soldati in sosta durante una marcia”.

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la Ludla2 Giugno 2015

Sotto l’aspetto linguistico e comuni-cativo, questi testi [le lettere dei soldaticesenati pubblicate in Verificato percensura, Cesena, 2014 n.d.r.] dimo-strano un’uniformità (in parte a livel-lo locale, in parte a livello nazionale)che li rende un campione sufficiente-mente attendibile di comunicazione,cioè di lingua e di scrittura popolare.Il processo di eliminazione dell’anal-fabetismo che si è realizzato in Italianegli ultimi decenni dell’Ottocentoe, con maggiore intensità, nei primidel Novecento, comporta in Roma-gna, come nella maggior parte delleregioni italiane, il passaggio nondalla forma parlata a quella scrittadella stessa lingua, ma il passaggio dauna lingua parlata (il dialetto) a unalingua scritta diversa (l’italiano), unalingua scritta a volte molto distantedal dialetto d’origine, come succedeappunto in Romagna.Il repertorio linguistico di unaappartenente alle classi popolariromagnole negli anni della primaguerra mondiale è costituito dal dia-letto e da una varietà regionale diitaliano, che potremmo chiamareitaliano popolare.Ma le classi popolari romagnole deltempo non hanno molte possibilitàdi parlare questa varietà di italiano:le uniche occasioni di usare oralmen-te l’italiano possono aver luogo nelcaso si debba parlare con alcuniappartenenti alle classi alte in unambiente urbano (ma nelle piccolecittà e nei paesi le classi alte conti-nuano a usare il dialetto) e con i rap-presentanti dello Stato provenientida altre regioni; oppure durante ilservizio militare, quando i soldati ditradizioni linguistiche diverse vengo-no a trovarsi in contatto.Per quanto riguarda poi gli alfabetiz-zati delle stesse classi popolari l’usoeffettivo della scrittura è rarissimo inuna situazione normale, mentrediventa necessario nel caso in cuil’individuo si allontani dalla famigliae dalla comunità.Generalmente la cultura grafica dichi scrive, cioè il suo livello di confi-denza con la scrittura è riconoscibilein ogni scrittura manuale: esistonoscritture “intellettuali” che attestanocon la facilità della corsiva, l’abitudi-

ne a scrivere molto e rapidamente;esistono scritture “elementari” chedimostrano che il soggetto non èandato oltre la scuola dell’obbligo;esistono scritture “faticose” chedenunciano la mancanza quasi totaledi dimestichezza con la scrittura.In questi testi per lo più le letteresono tracciate con fatica, l’allinea-mento è incerto, la disposizionedello scritto non corrisponde allostandard, l’uso non convenzionale dimaiuscole e minuscole non è con-venzionale, così come non è conven-zionale l’uso degli accenti e dellapunteggiatura (talvolta assente), ladivisione delle parole è di frequenteerrata. Esistono poi realizzazioni grafiche chetestimoniano l’influsso del dialetto.Uno dei casi più frequenti è la dege-minazione delle consonanti doppie(Carisimo Fratelo, scrito, grosi, pasare). Come ho detto, oltre all’emigrazionedi fine Ottocento, è soprattutto laGrande Guerra l’occasione che spin-

ge alla scrittura le classi popolari ediventa una forza omologatriceanche nell’ambito della lingua. Lascrittura e la lettura, che nella vitanormale delle classi popolari, eranoattività del tutto marginali, diventa-no ora una necessità quotidiana.Scrivere a casa e ricevere posta sonoanzitutto modi per alleviare il doloredella lontananza e l’orrore della guer-ra. Solo pensando a questo si spiegail bisogno quasi ossessivo di ricevereposta ribadito dai soldati nelle lorolettere. E, altrettanto, il bisogno discrivere con un’intensità decisamen-te sproporzionata alle abitudini diquesti uomini.Ricorrono frequentemente le richie-ste di lettere ai propri familiari e glielenchi di lettere spedite che nonhanno ancora ricevuto risposta.Esemplare è l’inizio di una lettera diun soldato cesenate: «Cara Molie scri-vi pur spesso: anca duevolte al giorno edio cu‹an›do mitrovo con unminuto ditempo nonfaccio altro che scrivere».E un altro soldato scrive: «CarissimoPadre dimmi che cose Cuesto Silenziocheio non sono piu Capacio di Avere LaVostra Notizia [...] io Vischrivo tuttiigiorni e Voialtri Vi Siete dimenticati delVostro figlio», perché, dice, «Noialtrimilitare non Abiamo Soltanto CuelaConsolazione Soltanto. Cuando cheAbiamo la Notizia dacasa».Dunque la scrittura e le letturadiventano necessità quotidiane. Echi non sa scrivere e leggere è eviden-temente svantaggiato e costretto aricorrere a intermediari che sappianofarlo.L’analfabeta si rende così conto del-l’importanza della scrittura e dellanecessità dell’alfabetizzazione. Fascrivere un soldato analfabeta:

“Verificato per censura”

di Giuseppe Bellosi

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la Ludla 3Giugno 2015

«Cara Molie mi raccomando che quandosarà ora di mandare alla scuola il nostrofiglio Giovanni che è molto necesario disapere a scrivere, che io provo moltodisturbo a non sapere scrivere, che non sipuol mai scrivere di sua idea».Ma, spesso, anche chi sa scrivere hauna dimestichezza limitata con lascrittura, perciò la stesura di una let-tera comporta uno sforzo non indif-ferente, a volte è un’impresa, comeper il soldato Francesco Perugini,che fa sapere alla moglie: «per scrivertiqveta letera mi sono meso in cinque volte,perchè non ò tempo».L’uomo colto considera la letturaun’attività visiva (noi leggiamo nonlettera per lettera e nemmeno parolaper parola, ma cogliendo con la vistagruppi di parole). Invece i semialfa-beti, come i nostri soldati, sentono lalettura come un processo d’ascoltomesso in moto dalla vista: se osserva-te un semialfabeta che tenta di legge-re in silenzio, potete vedere come inrealtà muova la bocca e legga a bassavoce, proprio perché ha bisogno direndere sonora la scrittura.La fruizione di una lettera nel mondopopolare dunque non è fondata sullavista, ma sull’ascolto di una voce (lapropria o di un altro) che legge.Il testo scritto acquista dunque unasonorità. Scrive Aurelio Tazzari allamadre: «non potrete chredere ilpiacereche ovuto nelsentire unvostro scrito». EGiacomo Alessandri propone l’im-magine della lettera come supportodi carta che gli restituisce non parolescritte, ma proprio la voce dellamoglie: «Carisima Moglie [...] Ora nonpoi gredere quanto ligreza [...] di sentirela tua voce in un pezo di carta»:un’espressione di grande forza evoca-tiva in cui sono uniti i due ambitientro i quali si svolge la vicenda dellascrittura popolare nella GrandeGuerra: la scrittura e l’oralità.È forte in questi soldati il desideriodi tornare alla forma più familiare dicomunicazione, l’oralità, ritenutapiù ‘potente’ rispetto alla scrittura, lacui inadeguata competenza ostacolala possibilità di espressione.Vincenzo Benedetti scrive al fratelloin riferimento alla moglie: «io bisogne-rebe che io potesi parlare cholei e io nonso come farmi capire sule letere».

Leopoldo Dall’Ara scrive alla moglie:«Oh mia Maria come mi sembrano lun-ghi questi giorni senza poterti vederesenza poterti dire una sola parola abocca che tante belle cose avrei da dirti etante cose dovrei raccontarti».Amedeo Valzania, scrivendo ai geni-tori, si augura di tornare a racconta-re e conversare, a veglia, davanti alcamino: «frà breve speriamo di rivedercidinuovo, che mi pare 100 anni che mitrovo in cella, che cosi quando sarò acasa ò tante cose da raccontarvi Si mette-remo vicino al nostro sacro foco con unfiasco di vino, e faremo un poche dichiacchere in sieme tutti in famiglia».Ma al tempo stesso Valzania ricono-

sce alla scrittura la capacità di custo-dire i ricordi più a lungo e con mag-gior precisione di quanto possa farela sola memoria, alla quale la culturaorale affida la propria conservazione:«Dunque mi raccomando di tenermiacconto questa lettera, che la voglio tener-la per mia Memoria».Testi nei quali l’incertezza grafica,fonetica, grammaticale e lessicalenon oscura la funzione comunicati-va; così come la ripetitività delle for-mule e la schematicità della composi-zione non annullano la vivacitàespressiva, anzi questa sembra guada-gnare forza proprio dalla difficoltàlinguistica di chi scrive.

LIVIO PASSERININato il 31 dicembre 1889 da Leopoldo e Filomena Monti, sposato con LuigiaEster Gualtieri, abitante a Montevecchio, colono.11° Reggimento Fanteria.Morto il 22 luglio 1915 sul Monte Podgora, presso Gorizia, per ferite riportate incombattimento.

Li 12 Lulio 1915Carissimo Padreoggi stesso o ricivuto la tua cara lettera con la data del 5 Lulio e mi piacetanto che mi avete detto tante cose che non ne aveva ancora avuto cosiapiacimento. Cari genitori vuoialtri vi la mentate che non avete mie noti-zie, ma io scrivo due volte la settimana, e di più rispondo alle vostre lette-re, cari genitore bisognarà portare pazienza da una parte all’altra, perchèsiamo nei momenti un po travaliati. Dunque io vi dirò che sto benone, esto alegro e così fate altretanto voialtri, vogliamo sperare che tutto vadabene, e se dovesse tardare ascrivere non vi impressionate, che qua abbia-mo poca comodità e poco tempo, io sono aqua per fare il mio dovere perla grandezza della nostra Patria, e per dar contro a quei birbanti di tede-schi, fino all’ultimo sangue.Dunque Ottavio si trova commè da parecchi giorni e stabene e vi saluta atutti, la carta che mi avete spedito 1 oricevuta, ho inteso che mi mandateil ritratto della mia Olga omolto piacere che non vede ora di vederla.O in teso che avete finito lamietitura e che avete fatto molti covoni, volia-mo sperare che sia un buon racolto, altro miresta che augurandovi buonasalute e felicita atutti e un rivederci presto sono vostro figlioPasserini Liviocontracambio i saluti della mia sorella Delcisa e Quinto, Zuzzi Cleto salu-terete anche Giugliani tanti saluti al mio zio Gaetano, Monti e familia dinuovo vi salutoCara moglie Anche tu devi stare allegra e tranquilla come faccio io checosi passa melio il tempo, dove tu ai la consolazione della bambina chedite che si è fatta molto, Cara Sterina darai un bacio alla piccina per mee tu riceverai un saluto cordiale dal tuo marito Livio e un bacio allamamma, non badate alla calligrafia perche non ho il tavolo

Da Verificato per censura. Lettere e cartoline di soldati romagnoli nella primaguerra mondiale, p. 339

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la Ludla4 Giugno 2015

È l’Ottocento, voglio dire il 1800, chefin dal suo nascere si apre al mondodel folclore ed alla letteratura popola-re, ovvero in dialetto. E con ciò nons’intendono solo i grandi poeti inseri-ti nei libri di Letteratura Italianacome il Porta e il Belli, ma anchepoeti minori di altre e varie regionid’Italia, come ad esempio la Roma-gna, ricca di poeti che volevano espri-mersi esaltando il dialetto. Questipoeti venivano da un mondo colto,ricco di studi oltre che di greco e dilatino. Solo pochissimi e modestierano gente del popolo, del paese.Dal vero mondo contadino uno solo,il sammarinese Pietro Rossi.Per saper tutto sulla biografia di Pie-tro Rossi basta leggere la lunga poesiain cui lui racconta quel che vuole sisappia della sua vita. Si sa, così, che lasua nascita è avvenuta in un boschet-to sotto l’unico albero del campo ovesua madre, che lì quel giorno vi stavaa lavorare, d’improvviso sentì ledoglie. Pietro ci tiene a sottolinearein modi diversi la povertà e miseriadella sua famiglia, che lui ritiene sfor-tunata, senza però minimamente pre-cisare se era - o no - anche un po’vagabonda, dal momento che suopadre cambiava troppo spesso diPodere, fino a dover smettere per unpoco di fare il contadino e diventarebracciante, ovvero, come si diceva,un “casanol”, cioè senza casa propria,ma a nolito, in affitto. Come brac-ciante, è sempre Pietro che raccontacome il padre, dopo i pesanti lavoriestivi qui nella zona, andava, a piedicome un pellegrino, nel Lazio oveessendo più calda la stagione, si pote-vano trovare ancora lavori nei campi.E, tuttavia, pur in questa grandemiseria, all’età di nove anni Pietroracconta che imparò a leggere e scri-vere. Lui ci tiene a sottolineare cheglielo insegnò suo padre. Ma come -pensiamo - se, incapace di fare bene ilcontadino in Romagna, questo padreera dovuto andare a fare il bracciantenel Lazio? Inoltre l’abbecedario perPietro, come lui racconta, non erauno qualsiasi! I libri su cui studia Pie-tro Rossi sono nientemeno che una“Storia di Giosafat”, che era statoquarto Re di Giuda, come si sa dalVecchio Testamento. Oltre a questo

Rossi cita, come altre sue letture, il“Vangelo” (o la “Vita di Cristo”) delBellarmino, e si tratta nientemenoche di Roberto Bellarmino (1542-1621), gesuita, cardinale, arcivescovodi Capua, e Dottore della Chiesa, ilche vuol dire grande Teologo, e pro-prio in epoca di Controriforma, ed inpiù - cosa però che Rossi non potevaancora sapere - fatto Santo nel 1930.Bellarmino aveva avuto l’incarico, daparte del papa Clemente VIII, di scri-vere quella che Lui chiamò “DoctrinaCristiana”, un catechismo compilatoper i giovani seminaristi di allora.Ora, che tutto questo non semplicemateriale di lettura e studio fossestato comprato per Pietro dal padre,che troppo povero da contadinodovette andare nel Lazio come brac-ciante, fa molto dubitare, anche secome Rossi lo racconta fa commuove-re. Più facile, invece, che quando iRossi ebbero l’occasione di lavorarein un podere vicino ad una Chiesa,quelle tipiche, un tempo, nelle cam-pagne, con tanto di Canonica ed un

sagrato ove i bambini potevano gioca-re purché seguissero con ubbidienzagli insegnamenti del Parroco, forse lì,ai ragazzini più curiosi ed interessati aleggere venivano prestati dei libri diteologia, quelli che erano nella casadel Parroco, Bibbia, Vangeli, Storie diSanti. Di quelle letture dovette benservirsene Pietro che evidentementeaveva già nel suo DNA la capacitàdello scrittore. Dei suoi libri, avvin-cente il “Racconto della mia vita”,capace di farsi leggere con piacevolirisate, oppure con una lacrima, comequando, essendo già lui padre difamiglia, in un inverno troppo freddoed in un momento di grande miseria,dimentico della legge, commise l’er-rore di raccogliere un tronco vecchioe secco trovato in un fosso, utile perriscaldarsi un poco in casa. Ma, men-tre se lo portava via, visto chi sa dachi, fu denunciato, e così il poveroPietro si meritò subito la pena, e chequesta volta il suo racconto sia veri-tiero lo si capisce negli “Atti del Con-siglio”, seduta del 22 Novembre1844, ove è anche precisata sia la con-danna che, poi, la “Commutazionedi pena a Pietro Rossi”, messo allaberlina per “il furto campestre”, ecioè al “…taglio dei capelli”, il che fapensare lui fosse un “capellone”!!! Che Pietro fosse o no un bravo con-tadino, un grande lavoratore deicampi, questo non riusciamo a dirlocon chiarezza. Che fosse capace discrivere e raccontare, che fosse ungran “favolista”, questo lo dimostra-no i suoi scritti, quelli di lui che sonstati ritrovati. Alcuni sono in italia-no, un italiano scolastico, formale,adatto a celebrazioni in onore o in

La vicenda poetica

di Pietro Rossi - I

di Grazia Bravetti Magnoni

Stato di anime del 1860 dal quale risulta chePietro Rossi, di anni 56, colono di Filippo Bel-luzzi, viveva, nel podere Paradiso in localitàPaderna a San Marino, con la moglie Marian-na, i tre figli Michele, Giuseppe e Filomena, ledue nuore e un nipotino di un anno.

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la Ludla 5Giugno 2015

morte di personaggi importanti diSan Marino, per feste religiose, peravvenimenti prodigiosi come la Can-zone “In memoria del prodigio opera-to da Maria SS. del movimento degliocchi nella Chiesa di S. Chiara inRimini, l’anno 1850”. Altre sonoCanzoni di carattere storico-politicoche riguardano la nostra storia nazio-nale, come “Per il Perdono dato dalGrande Pio IX nell’anno 1846”, o lelotte garibaldine per la RepubblicaRomana come la Canzone “Per lafuga del suddetto Pontefice, li 26Nov. 1848” e poi, sconfitti i Garibal-dini, “Pel ritorno del medesimo Pon-tefice a Roma”, ove Pietro esprimecon gioia tutte le sue tendenze papa-line ed antiunitarie. Diverse da queste Canzoni c’è unaltro insieme di poesie, in dialettoquesta volta, poesie brillanti, vivaci,burlesche, racconti fantasiosi , alcunisolo in italiano, altri solo in dialetto,altri parte in italiano e parte in dialet-to. In italiano le due Canzonette,l’una in biasimo, l’altra in lode di unPodere ove Pietro in quel tempo lavo-rava e che si chiamava la “Cerulla”.Quando Pietro parla bene del luogodice, tra l’altro… “Qui mi par granbella cosa / Che mai sento la mia

sposa / Litigar colle vicine / Perragion delle galline…”. Infatti questopodere è lontano ed isolato da tutti,quindi Pietro ben può dire… “Maipassar ved’i viandanti…”, mentresente solo “Cinguettar le passerette /Odo il strillo di civette / Che gridan-do tutto mio / Qui sto allegro e godoanch’io...”. In altra poesia vuole loda-re cose povere, umili, come “La stop-pa val più della seta”, mentre inun’altra parla de “La Mula” chesarebbe poi quella dei Frati di VillaVerucchio. Sempre in dialetto è la“Risposta a due persone che diconomale di me, il giorno 28 Nov. 1846”:“Ah! Con toti stal poesì / Tot la gentad’mi i vò dii…”. C’è poi una canzo-netta del 1848 per il matrimonio didue anziani con tanto di Serenata,ove volutamente l’argomento piùinteressante sono i nomi degli oggettiper la serenata …” Jè cinquenta e piùpersoun / L’istrument i là ognoun, /Chi ha i tripì, chi la padela / Chi ecadnaz, chi la gradela / Chi la gnacra,chi di cocc / Chi la cavija de subrocc…”, mentre un’altra Canzone“Un Vecchio innamorato di una gio-vine” riesce meno interessante per-ché scritta in italiano. Tuttavia la grande capacità artistica,

oltre che anche politico-sociale, diPietro Rossi emerge nei due librettiintitolati entrambi “Il Ceccone”.Troppo complesso e ricco l’argomen-to, ove i tanti personaggi parlanoalcuni in italiano ed altri in dialetto.Racconti, i cui contenuti sono cosìvariati, interessanti, storicamentevalidi anche nella loro modernità,che lo scritto non si risolve in pocherighe. Per questo se ne parlerà contanto di documentazione in un pros-simo numero de “La Ludla”.

Copertina della “Raccolta di poesie serie egiocose ed altre sacre” di Pietro Rossi. Rimi-ni, 1854

Basta fêj chêð: adëss tot al ragaz,stofi dal schêrp in punta, t’vi ch’al s’met,(cumpâgna ch’al dumess un cavalaz),stivel e stivalun e stivalet.

E via ch’al va pr’e’ borgh, senz’ imbaraz,simbe’ ch’al mostra in pina i su difet:vut una gâmba stôrta o un gross pulpaz;e e’ pê’ ch’al stëga sor’ un cavalet.

Int e’ prem a n capèp ben la raðonda purtêr int i pi di quel ‘d cla raza,ch’a m sera vest da fê’ dla cunfuðion.

- A vut scumet’r, a m dgep, - ch’ogni ragaza

la jè in diviða da cumpetizione u l’aspeta e’ caval da corsa in piaza!?

Datevi all’ ippica! Basta farci caso: adesso tutte le ragazze,/ stanche di portare scarpe in punta, si vedono calzare, / (comeper domare un focoso cavallo), /stivali e stivaloni e stivaletti. // Evia che vanno per il borgo, senzaimbarazzo, / sebbene mostrinocompletamente i loro difetti: / vuoiuna gamba storta o un grosso pol-paccio; / e stanno come sopra uncavalletto (in equilibrio). // Inprincipio non compresi il motivo /per calzare certi affari, / ed hocorso il rischio di far confusione.// - Vuoi scommettere, - mi dissi -che ogni ragazza / è in divisa dacompetizione / e l’aspetta il caval-lo da corsa in piazza!?

DaÝiv a l’ìpica!Un sonetto di Arrigo Casamurata

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la Ludla6 Giugno 2015

Santarcangelo, comune di oltre20.000 abitanti in provincia di Rimi-ni, sorge su un’altura coronata da uncastello malatestiano, a poca distanzadalla via Emilia. La località, postaallo sbocco della Val Marecchia edella vallata del fiume Uso, ha costi-tuito nei secoli un punto d’incontrofra le genti e le culture della pianurae della riviera e quelle della collinadella Romagna sud orientale. La cit-tadina, come oggi si presenta, puòessere definita un museo diffuso, acielo aperto, per la conservazione dimonumenti e siti d’interesse storico.Noi, con l’intenzione di costituireuna piccola guida per coloro chesono curiosi di “cose romagnole”,accenneremo unicamente ai luoghi,alle manifestazioni, alle presenze chesi connettono alle tradizioni dellanostra gente.

I Santi Patroni

Innanzi tutto è d’obbligo rifletteresul nome della località, che trae origi-ne dalla vicina pieve dedicata all’Ar-cangelo Michele. Un’antica orazioneromagnola recita così: E’ mi Signor mivegh a let, l’anma mi ve la less: a la lessa San Michil ch’u la pisa e ch’u la guer-da…1 perpetuando il ricordo delledevozioni che identificavano nell’Ar-cangelo il giudice finale delle anime.San Michele scelse come sua sede,nell’Italia ormai cristianizzata, grotteed ipogei (dal V sec.) ed un’altracaratteristica della città sono le grottetufacee, estese sotto gran parte delcentro abitato, collegate oggi in unlungo percorso. Si tratta di grotte perlo più artificiali. Esse ospitarono, aseconda dei momenti storici, monacie luoghi di culto sotterranei; successi-vamente furono stalle o, più di fre-quente, cantine e granai, cui si acce-deva da botole poste in superficie;infine ebbero funzione di rifugiantiaerei per la popolazione aggreditadagli eventi dell’ultima guerra mon-diale. San Michele Arcangelo vieneposto nell’Apocalisse a capo delleschiere alate che sconfiggono i demo-ni, perciò è annoverato fra i numero-si Santi2, tanto cari alla devozionepopolare romagnola, raffigurati nel-l’atto di abbattere il drago (e’ regan,interpretato come demonio). Come

ogni Santo Patrono che si rispettianche San Michele ebbe intitolatauna Fiera (29 settembre), famosa inpassato perché dedicata all’esposizio-ne e alle gare di uccelli da richiamo.Non è difficile cogliere il collegamen-to fra i canterini alati e gli angeli delcielo, così come è evidente, nel suc-cesso che riscuoteva tale esposizione,la virile passione dei Romagnoli perla caccia e specificatamente per l’uc-cellagione. Su tale manifestazione haprevalso nel tempo la fiera del com-patrono San Martino (11 novembre),dedicata in particolare al vino novel-lo. Infatti questi colli costituisconoda secoli i terreni d’elezione per laproduzione del sangiovese, “sanguedi Giove”: Par San Marten u s’imbarie-ga i grend e i pznen! Ricordiamo inol-tre che in tale occasione si organizza-va la tradizionale corsa di bech, inter-pretabile come un antichissimo ritod’espulsione d’origine celtica. L’arcoeretto dai concittadini a papa Cle-mente XIV (Lorenzo Ganganelli) èaltresì denominato “arco dei becchi”!Santarcangelo ha conservato alcuneantiche botteghe artigiane che produ-cono tuttora tessuti stampati a mano,fra i quali primeggiano gli stampati aruggine. All’interno della stamperiaMarchi viene utilizzato tuttora unantico mangano, con il quale dal1663 si effettua la stiratura dei tessu-ti in canapa, prima dell’impressione astampa. Nacquero ed operarono intale località i poeti vernacolari checostituirono fin dal dopoguerra quel-la che da alcuni è denominata laScuola Santarcangiolese. Il più noto èTonino Guerra, recentemente scom-parso, collaboratore per anni del regi-sta Federico Fellini. Si può dire che ilgruppo3 abbia riformato la poesia dia-lettale, strappandola definitivamente

ai temi pascoliani imperanti, fino afarle conseguire apprezzamenti inter-nazionali.

Il Museo degli Usi e Costumi della

Gente di Romagna

Denominato con l’acronimo MET,venne inaugurato nel 1981. Fu prece-duto da un decennio di ricerca sulcampo, svolta da gruppi di volontari,che consentì di raccogliere in diverseparti del territorio santarcangiolesenon solo elementi della cultura mate-riale, ma anche iconografie e raccon-ti di anziani testimoni. Ciò contribuìa delineare le caratteristiche della rac-colta museale come ricostruzione diquadri di vita. Il museo venne ulte-riormente ampliato nel 1989. Nel2005 si giunse all’allestimento attua-le. I successivi ampliamenti e riallesti-menti testimoniano la continuitàdella ricerca, delle nuove acquisizio-ni, dell’approfondimento di studidemologici, oltre che la sensibilitàdelle istituzioni locali nella valorizza-zione della cultura popolare. Le sezio-ni nelle quali sono ordinate le esposi-zioni occupano spazi protetti anchenel giardino circostante, nel qualevengono conservati strumenti dellameccanizzazione agricola. All’inter-no, la prima sezione è dedicata allefamiglie, all’organizzazione domesti-ca, alla comunità: luoghi, attività,presenze attraverso i quali si trasmet-tevano i saperi. Fra le produzionidomestiche si pone particolare atten-zione al rito della panificazione, checonsente il collegamento con il ciclodi vita del grano, oltre che con inumerosi mulini (160) documentatinella Valmarecchia. Le coltivazioni dicereali e la produzione vitivinicolacostituivano infatti le eccellenze pro-duttive di queste terre.

I musei etnografici della Romagna

II - Museo degli Usi e Costumi della Gente

di Romagna - Santarcangelo

di Vanda Budini

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la Ludla 7Giugno 2015

In altra sezione è stata ricostruita lastanza del telaio, presente un tempoin ogni casa delle nostre campagne,che comprende anche strumentiminuti per la filatura di lana, canapa,lino. A ciò erano vocate le donne delnucleo famigliare, avviate a tale pro-duzione fin dall’infanzia. I “torselli”di tela venivano successivamente tra-sformati in corredi domestici, se dilavorazione fine, in coperte se veniva-no realizzati con filati più grossi. San-tarcangelo, con i suoi artigiani dellastampa, costituì a lungo uno dei cen-tri nei quali venivano prodotte lecoperte da buoi ed il MET ne esponediversi esemplari. Le decorazioniimpresse erano destinate a valorizzareil traino dei bovini, ma la presenzadelle iconografie di Sant’Antonio lerendevano atte al compito di prote-zione degli animali. Un’intera paretedel museo ospita una notevole colle-zione di caveje. La sezione è infattidedicata ad un’altra delle attività arti-gianali presenti dei nostri paesi, quel-la dei fabbri, strettamente connessaalle attività agricole prevalenti. Lacaveja cantarena, divenuta nel tempouno dei simboli della Romagna, noncostituiva unicamente uno strumen-to utilizzato per l’attacco del carro,ma dalla lettura degli intagli dellepagelle, dal suono argentino delleanelle, si intuisce la funzione apotro-paica ad essa connessa.Da queste brevi e non esaustivedescrizioni si evidenzia che il museo sidiscosta dalle più comuni esposizionidi raccolte di oggetti appartenenti alpassato della nostra gente, risolte spes-so in un’ordinata elencazione. Nel

MET si tende ad accompagnare il visi-tatore alla comprensione della cultu-ra: dei miti, delle tradizioni che, finoa non molti decenni fa, permeavanoquella che viene comunemente deno-minata “civiltà contadina”. I compitidell’ istituzione non si esauriscononelle esposizioni. In essa si organizza-no visite guidate ed attività didattichedi rilievo, sia per ragazzi della scuoladell’obbligo, sia destinate alla specia-lizzazione di studenti universitari. Perquanto attiene questi ultimi si trattadi stage e tirocini in museografia egestione di musei. Per iniziativa delmuseo si svolge (dal 6 giugno al 27agosto) la manifestazione intitolata“Favole d’agosto”, con racconti,mostre, laboratori, spettacoli di teatroe di burattini, che vanta una continui-tà ultraventennale. Una tale mole dilavoro è stata documentata in una col-lana intitolata “Delluomo”, che innumerosi volumi ripercorre l’espe-rienza di conservazione e di decodifi-cazione della cultura materiale, dellanovellistica, delle tradizioni, fino avolumi che attingono agli archivi deiquali l’Istituzione si è dotata. Ricor-diamo in particolare il fondo fotogra-fico “Paul Scheuermeier”, acquisitodall’Università di Zurigo. Lo studiosoche raccolse tale documentazione fupresente in Romagna fra il 1923 e il1931. Impegnato per l’università sviz-zera in una ricerca linguistico-etnogra-fica, produsse oltre duecento fotogra-fie, in varie località della Romagna,che solo in parte furono pubblicate.Le immagini sono state sottoposte adanalisi ed ordinamento a cura delMET, affinchè divenissero consultabi-

li. Si potrebbero aggiungere altrenumerose notizie sulle attività diricerca e di studio del gruppo cheopera nel museo, guidato dal diretto-re Prof. Mario Turci, ma dobbiamonecessariamente limitarci a forniresolo alcuni riferimenti, utili a coloroche volessero compiere una visita aquesto che non si prefigura unica-mente come un luogo di conservazio-ne e di memoria.

Scheda

Museo degli Usi e Costumi della Gente diRomagna. Via Montevecchi 41, 47822Santarcangelo di Romagna, RNTel.: 0541 624703Fax: 0541 622074Email: [email protected]: da lunedì a venerdì: ore 8 - 12Orari di apertura:Invernale (Novembre - Aprile, suappuntamento) - Ore 9 - 12 da lunedìa venerdì; sabato e domenica 15,30 -18,30Estivo (Maggio-Ottobre) - Sabato:10,30 - 12,30; da martedì a domenica16,30 - 19,30

Note

1. Preghiera della sera raccolta daMaria Cavallini, nel dialetto diBagnacavallo.2. Fra le devozioni più radicate ricor-diamo quella a San Giorgio, la cuiiconografia veniva tradizionalmentedipinta nel carro romagnolo. AncheSan Rufillo e San Mercuriale, vescovirispettivamente di Forlimpopoli e diForli, vengono raffigurati nell’atto divincere il drago, che secondo una leg-genda antica viveva fra le due città.3. Fra i più noti poeti dialettali san-tarcangiolesi (escludendo i viventi),oltre a Tonino Guerra, dobbiamocitare: Raffaello Baldini, GiulianaRocchi, Nino Pedretti.

Bibliografia

AA.VV. I Musei del mondo rurale in Emi-lia Romagna. Regione Emilia Roma-gna, 2011.Budini Vanda. Devozione popolare: iSanti Protettori, Cartabianca Faenza,2014.Budini Vanda. Le coperte da buoi, mitie figurazioni nella civiltà contadina.Associazione Amici della Pieve, 2011.

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la Ludla8 Giugno 2015

I dizionari etimologici sottintendonogeneralmente un lodevole lavoro diricerca, ma non di rado peccano dipresunzione nel voler risolvere tuttele problematiche, tenendo in pococonto facili omofonie riscontrabilinei diversi idiomi ed il fatto chemolte parole possono avere origininon radicate nel latino o in altre lin-gue sufficientemente documentate.Nel nostro caso si può considerareinoltre che la presenza ebraica inRomagna, seppur diffusa e di lungadurata, non fu certo sinonimo diintegrazione con la popolazionelocale, per cui è difficile sostenere ilpassaggio di certi vocaboli al nostrodialetto.Iniziamo da bacajê, che non può deri-vare dall’ebraico bakhah ‘piangere’,considerando oltretutto che il verboromagnolo, più che rimandare a ‘stre-pito’ o ‘rumore’, ha il significato di‘blaterare’ o ‘parlare a vanvera’, comeil veneziano bacagliar.Badanaj (e forse anche tananaj), nelsenso di ‘grande confusione’, vienerimandato all’invocazione be Adonaj,

ma nella pratica liturgica ebraica nonc’è nulla che possa far pensare a ‘stre-pito’ o ‘baccano’ e d’altra parte le pre-ghiere recitate nelle sinagoghe dove-vano essere a conoscenza di benpoche persone non di fede ebraica.Veniamo infine a sagatê, a cui potreb-be essere associato l’omofono bagatê,ambedue col significato generico di‘rovinare’ o ‘sciupare’, ma nel ferrare-se e nel Veneto vale anche ‘sgozzare’ed in questo caso lo si potrebbe avvi-cinare all’ebraico sheijtah che equivalea ‘macellare animali’ (facendo atten-zione alla totale eliminazione del san-gue): pratica che non comporta nésciupio né spreco in alcun modo.

La nota testimonianza del 1501 perReggio Emilia (carnes occisas et seusagatatas pro ebreis) si riferisce senz’al-tro ad animali uccisi e macellati, cioèfatti a pezzi, per cui si comprende ilpassaggio semantico a sagattare e laformazione del vocabolo sagattino,cioè ‘chirurgo scarso’. Risulta quindiplausibile una derivazione da secatare,iterativo del latino secare che, in par-ticolare nei riguardi di animali dacortile, ha proprio il significato di‘trinciare’. Problematico è invecespiegare il romagnolo sagàt, nel sensodi ‘grande quantità’, anche se parreb-be avere relazione con l’espressioneitaliana “ce n’è un macello”.

Parole ebraiche nel lessico

romagnolo?

di Lucio Donati e Patrizia Proto Pasquali

La colpa la jè dla Tamara, sè propi li,la Tamara. Par Nadêl la m’ha rigalêun ruset: quânt ch’a jò scartê e’pachet e a jò cavê e’ capoc u m’è saltêsòbit a j’oc ch’l’era tröp ros, tröp pru-vucânt, tröp sfazê. A j ò det:– Dai, cma fëz a mètum un ruset acsè?A jò piò ad sant’enn, a so nona, a num la sent d’andê in þir cun ‘na bocaad ruset ad cla posta!E li: –T’an é miga bðogn ad rugêl par lastrê che t’é sant’enn e tci nona, e pus’a t’ in frègal dla þenta, viv la tu vita…dai, dì la varitê che a la fen u t pjis… e

alora! T’avdirè che ‘na bëla matena ut ven la voja ad mètal, a vut avdé?E cla matena la jè arivêda, incù a jòdicið d’andê a Bulogna a fê dal comprie pôch prema che e’ treno l’intres instazion a so andêda a la tuletta e a mso mesa e’ ruset.

Adës a so int l’autobus che va verspiaza Maggiore, l’è pin zep, a m tegn aun sedil cun ‘na mân mo a n um sentsicura, a jò paura che ‘na frenêda secala m fëza andê adös a qualcadun.

E coma difati, l’autesta e’ caza ‘nagrân frenêda e me a vol ados a unòman ch’l’è davânti a me, a dmândscusa, lò cun gentileza e’ dið che u n ègnint, ch’agli è robi ch’al suzed. E’ pêch’la sia fnida a lè e invezi... apenach’u s þira a vegh int e’ col dla su cami-ða cêra stampêdi al mi làbar, do làbarrosi, ch’al spèca sfazêdi. Me a dmândpermeso, a pas avânti, a son e’ campa-nël par scalê zò, prema ch’a m chêv daque e mej l’è! A scal zò, sota la löþa am’afìrum un àtum par urientêm unpô. Ecco che u m pasa davânti l’òmanch’a jò… baðê int e’ gulet e par unàtum a so cumbatuda se dijal o no… an’ò e’ curag… nenca parchè mèntarch’u s’aluntâna cun al mi làbar stam-pêdi a vegh ch’u j brela int la sinëstra‘na vargheta. A n voj pinsê gnânca parun àtum coma ch’e’ farà a cunvènzarsu moj che lò ad che beð u n sa gnint,mo pröpi gnint.

E’ ruset(Il rossetto)

Testo e xilografia di Sergio Celetti

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la Ludla 9Giugno 2015

La stória la cmeinza de’ vincioun,cun cla scumesa fata int un cafè.E’ faðè d’avdé che al su gamb sóra alpidavël agli andéva piò fórt d’quelid’un caval da córsa. E pu la séra, dopa cla gran bandega, s’u n’fos sté parMario d’Pirazeina e’ bruzér, e pr iveint scud ch’e’ tirè fura d’su bisaca,u s’sreb sugné d’fér e’ su prem Þird’Itaglia.Pr i puret ch’i curéva par pasioun stéra e’ mònd l’éra pracið a un cupartounlið, ch’u t’lasa a pè e dop u t’tocad’partì neinca. I durméva int al stal ei magnéva s’u ngn’éra, i baioch in’éra mai a basta da ’rivé a fé séra.I dis che a Orbetello d’int la tévla d’laGaþeta e’ tus so sët cutulet e a qui ch’ivnè dop, ch’i s’éra incazé, u j arspun-dè ch’i s’aranges. Da pu d’che dè, sea l’ariv u n’s’éra stra i prem, i suamigh i dgéva ch’u s’séra farmé a fébrènda.Fnida cla córsa, quand ch’l’arturnè aCugnóla, e’ fiól ch’l’éra ’pèna néd ul’ciamè Isolato, ch’u s’tnes int lameint fèna ch’e’ campéva ach razad’vita ch’e’ faséva su pé par còrar.Dop a lò, ch’l’éra quel di quàtar, un’à avu étar du da la prema e òng dala ðgònda, mo i duðènt scud da Beni-to u n’i à briða ’vlù, che e’ négar l’éra

un culór ch’u n’i piaséva.De’ Vintrè, quand ch’u l’ciapè laBianchi, s’u n’aves avù da fé la bégliaa Girardengo, ch’u m’vegna un cólp,e’ Þir u l’areb veint lò.In Rumagna parò u s’fasé a péra.L’éra dneinz e u n’aglia faséva a tnila,seinza farmés u s’tirè ðo i bragoun e ula mulè sóra al ród d’qui ch’éra d’drìrugènd a cal faz inlurdédi: “Ciapì sò,campioun d’mérda!”Cupartoun s-ciupé e stömach vut. Inte’ Þir de’ Vinquàtar, prema d’arivé aTaranto la ðgònda vólta ch’l’armastè apè e’ mulè ’na gran biastema e pu e’pinsè “cun tot qui ch’i tira i zampet

int e’ su lët, me a n’pos murì par lastré, da la fem e da la fadiga”. E’ foacsè che par cólpa d’cl’aröst e d’chevein, boun ch’u l’sa l’ös-cia, l’arturnèa e’ mònd mo u s’þughè la córsa.E pu l’arivè che Tour de’ Vinsët. J èpartì da Bayonne ch’l’éra mëðanöt,che i s-cein nurmél i durméva dlagrösa. Una caréra tota pina d’buð piòche una stré d’muntagna. A Camboe’ cminzè a ’viés da par lò e a Eaux-Bonnes l’avéva un’óra d’vantaþ. Intot i paið, nench i piò znein, i zighéva:“Regardez, regardez, c’est l’italien!Quel ch’u s’magna la porbia, la stré epu cla gran masa d’bistech”.“Adës l’è fata” e’ pinsè, e invézi.Prèma dl’Aubisque, u s’amulè lacadeina e u i tuchè d’arivé a pè fènains la veta. E pu þo d’vuléda. A truvèun mecànich, oun d’qui da póch, mol’éra basta.Sóra e’ Tourmalet u j arivè dri Frantz,mo l’è sté dop a cla diséða ch’u la faðèda quaioun. Cardènd d’ësr arivéd’có, u s’stuglè a l’óra e tot tranquel us’apiè neinch ’na zigareta. “Cs’a fét? –i i rugè drì – u ngn’amenca un pëz!”.E’ fo acsè che a Luchon l’arivè quel dizeinq.A la fein, a Paris, u n’fo stra i premdið, mo i s’l’arcólda tot quènt cl’uma-raz d’Bùdar d’Cugnóla ch’e’ daðèun’óra a tot chi grènd campioun, cheðgrazié seinza un padroun ch’i n’é maisté boun d’srél deintr una ghéba.Dal braz ch’al n’éra mai strachi d’sapéla tëra, dal braz ch’agli à salvé dla þeintin teimp d’guëra, dal braz ch’agli àdumé che caval d’fër cun al ród.Michil d’Gurdein, par j amigh Buca-za, l’éra néd par ðbadzé.

Ðbadzé

di Paolo GagliardiIllustrazione di Giuliano Giuliani

Racconto segnalato al premio letterario “Sauro Spada” 2014

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la Ludla10 Giugno 2015

L'analisi della stratificata sovrapposi-zione delle festività arcaiche pagane,ibridatesi progressivamente con lericorrenze cattoliche, può aiutarci acapire come le forme di culto piùantiche sopravvivano nelle forme enelle ricorrenze di oggi. In modosimile al culto dei santi, i quali sisono sovrapposti a precedenti divini-tà animiste, così anche la maggiorparte delle ricorrenze religiosemoderne si sono sovrapposte alleprecedenti pagane. Nonostante que-sto è possibile rintracciare ancoraoggi chiari indizi stratigrafici ingrado di mostrarci alcuni aspetticaratteristici delle forme primitive ditali periodi così spesso, oggi comeallora, legati ai tempi ed alle necessi-tà di una società agricola. Di grande interesse per la nostraricerca sono quelle date che designa-vano anticamente l'avvento dell'an-no nuovo. La concezione del capo-danno e la data della sua celebrazio-ne mutarono infatti nel corso deiperiodi storici con il mutare delletecnologie e con l'avvento dellenuove forme di insediamento. Inparticolar modo tre diversi periodidi celebrazione del capodanno sonoancora riscontrabili all'interno disvariati contesti sociali tribali e dinumerose tradizioni folkloriche diciviltà e popolazioni differenti: 1) ilsolstizio invernale; 2) il periodo difine febbraio inizio marzo e 3) l'ini-zio di novembre. Questi tre differenti periodi si posso-no facilmente ricollegare a tre cano-ni di scansione temporale arcaici:legati rispettivamente al 1) ciclo sola-

re, al 2) ciclo vegetativo delle piantee ad un 3) ciclo pastorizio. Il computo del sole, più antico deglialtri due, è il riflesso di una culturaprimitiva ancora legata alla caccia edalla raccolta, dedita all'osservazionedei fenomeni naturali più evidenticome lo spostamento degli astri nelcielo. Il secondo, relativo ad una concezio-ne agricola del mondo, rispecchiainvece una fase successiva dove l'os-servazione dello spostamento solareè già inserita in un’ottica di appren-dimento di tecniche avanzate disopravvivenza. La terza, del tutto sovrapponibileall'odierna festa dei morti (31 otto-bre), ci riporta invece ad una dimen-sione di possibile derivazione pasto-rizia. Ci interessa specificare che questetre concezioni sono tutte reperibiliall'interno del folklore romagnolo eche molto spesso intercorre tra loro

un rapporto sincretico. Nonostantela loro natura sostanzialmente diffe-rente, e la paternità attribuibile aperiodi storici spesso molto distantitra loro, questi tre capodanni idealisembrano aver preso ognuno il suoposto naturale all'interno dellamoderna concezione di calendario. Anche se le forme soggiacenti sonodiverse, tra loro non mancano fortielementi di continuità. Sembra cheogni capodanno, infatti, fosse legato,in un modo o in un altro, all'idea diritorno dei morti e che venisse iden-tificato come un periodo di passag-gio, un lasso di tempo all'interno delquale una "lacerazione" nel tessutodella realtà permetteva agli spiriti ditornare dall'adilà nel mondo dei vivi.Questa particolare caratteristica,riscontrabile in tutte e tre le tipolo-gie analizzate, ci riporta a concezionipreistoriche di tipo totemico, in cuil'animale/totem è una figura all'in-terno della quale confluiscono l'ideadi genitore e di parente defunto eche riesce a trattenere in sé la valen-za fortemente ambigua che da sem-pre caratterizza le figure alle qualivengono dedicati culti religiosi.Le concezioni del mondo legate aitre capodanni sopra citati sonoreperti folklorici molto importantiperché rappresentano i cardini attor-no ai quali sono imperniate moltedelle leggende tradizionali romagno-le e perché sono, inoltre, un ipoteti-co punto d'origine dal quale si sonopropagate antichissime credenze lecui forme si possono intravedereancora oggi.

Tracce di un passato remoto

III - Il capodanno

di Gian Maria Vannoni

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la Ludla 11Giugno 2015

testimòni, testament, atestè, ecc.; epoi tribù, ecc. Il numerale lat. ‘tre’nelle sue varie forme – tres, ter, tertius,ecc. – è all’origine di diverse voci daripartire in gran parte in due gruppi, ilprimo dei quali fa capo a testis / te-stimòni / ‘testimone’ – che ‘sta terzo’,che s’interpone fra due –; il secondogruppo a tribus ‘tribù’.Testis, adeguandosi al lento mutaredella società romana s’accostò, senzamai sovrapporvisi, al più antico àrbiter‘arbitro’ d’origine sabina. Dapprimafu il curiosus malèvolo sempre in giro avedere quel che non avrebbe dovuto1;ma una volta formalizzatosi il processoin una società giuridicamente più evo-luta, coinvolgendo gli dei su cui giura-va, il ‘teste’ fu chiamato ad ‘attestare’l’andamento dei fatti ‘contestati’ e darmodo al giudice ‘arbitro’, ormai‘terzo’, di formulare la sentenza.2

Ma erano testes per metafora anche i‘testimoni della virilità’ che metà delgenere umano possiede, tanto chePlauto, Curc. 32, giocò sull’equivoco:testibus praesentibus, formula di rito chein tribunale significava ‘presenti i testi-moni’, in teatro era intesa come ‘con-servati i testicoli’.3 Tutti sapevano chel’adultero rischiava l’evirazione (o la

morte), finché la tradizione consentìal marito di farsi giustizia.4

Ma da tres deriva un secondo gruppodi voci che passano per il lat. tribus.Roma, costituita da abitatori di trestirpi, anche a fini amministrativi finìtripartita in tribus, tribù, che conser-varono il nome pur crescendo dinumero e mutando funzioni.Acquisite perciò in tempi diversi, vocicome ‘tribuno’, ‘tribunizio’, ‘tri-bunale’, o i verbi ‘attribuire’, ‘con-tribuire’, ‘distribuire’, ‘retribuire’ coiloro derivati, sono in uso anche neldialetto benché non sempre fonetica-mente adattati: come, ad es., hé t’[hai] varsè i to contributi? Cui si puòrispondere: Parchè, tu vleva varsèmite par me?5

Note

1. Plauto: Càs. 89-90: Non mihi licére meamrem me solum ut volo / loqui atque cogitare,sine ted arbitro? (Che non mi sia lecito par-lare e pensare agli affari miei da solo comevoglio, senza te come ‘arbitro’?) Ancora,Miles 1137: Circumspìcite ne quis adsit àrbiter(Guardatevi intorno, che non s’appressiqualche ‘arbitro’). Qui àrbiter l’è e’ fecanèðch’u va a ðnaðè int i aféri d’un enter, comein Stichus 207: Nam curiosus nemo est quin sitmalivolus (non esiste un ‘curioso’ che nonsia malevolo). Per un’altra accezione diarbiter, sempre lui, Rud. 1004: àmbigunt defìnibus: me cepére àrbitrum (discutono diconfini: mi presero come arbitro).Il vecchio diz. lat. Forcellini ricava arbiterda ad+bìtere (o baetere, bètere), raro sinoni-mo di ‘andare’ a cui il prefisso ad-aggiunge l’idea dello scopo. Arbitrari fudapprima ‘andare a vedere; poi ‘farsiun’idea’ e, infine, ‘pensare liberamente’,giudicare’, ecc. Arbìtri ‘arbìtrio’ è unadecisione di cui non si è tenuti o non s’in-tende dar conto. Sono d’uso recente indial. anche àrbitro, arbitrè, arbitrag’,arbitrèri, ecc.2. Da testis, deriva dell’altro: il ‘testamen-to’ attesta le ultime volontà del ‘testatore’e permette all’erede d’intestarsi l’eredità; il‘testo’ di studio attesta lo stato d’unascienza al momento della stesura; ancheun diploma (= piegato in due) attesta qual-cosa. Infine si può ‘contestare’, ‘detestare’,‘protestare’: in modo più colorito, se fattoin dialetto. Inoltre, qualora serva, è meglio trovarsipiù d’un testimone, perché non si conclu-

da: unus testis, nullus testis (un solo testi-mone, nessun testimone): la mi parólacontra la tua. E chi più degli dei invocatigiurando, potrebbe attestare la verità? Leg-giamo in Terenzio, Heauton. 476: id testordeos (di ciò chiamo come testi gli dei). MaPlauto, Merc. 627, aveva già obiettato: Deosapsentis testis mèmoras, qui ego istìc credamtibi? (ricordati che gli dei sono testi assen-ti: a questo punto come posso crederti?)3. Ancora Plauto, Poen. 222: refero vasasalva (riporto i cocci salvi). ‘Senza testi’ sidiventa… intestabilis: il comico gioca suilimiti giuridici del ‘menomato’, non piùvir (maschio). Testes era una metafora; inlat. erano còlei da cui quaión. Tra i modidi dire: a m þog i quaión! Sesto Tarquiniose li salvò, ma si giocò il regno.4. Il giudice ‘terzo’ è un principio del dirit-to romano: non si può essere insieme giu-dice e parte in causa. Adulter viene daad+alter: ‘altro’ che si pone ‘terzo tra due’;-ter è un infisso – forse riconducibile a tres– presente in parecchie voci lat. che pre-suppongono in partenza una ‘coppia’ vistadal di fuori: inter, uter, neuter, alter, noster,vester). È anche il giovane ormai in grado digenerare, ch’ u t’ guasta la raza s’u t’entraint e’ pulèr. Inoltre si ‘adulterano’ merci ecibi.5. Vi è un terzo gruppo di voci, che nonderiva da tres, ma da tèxere ‘tèssere’: traquesti testum, la ‘teglia di terracotta’ su cuii pastori sabini venti secoli fa cuocevano le‘piade’ – acqua e farina – come attestaVarrone. Era testum la ‘terracotta ingenere’, compresi certi ‘busti’ col capovuoto che hanno dato origine a tésta‘tèsta’ – talora anch’essa ‘vuota’ – e a téstada mort o ‘teschio’. Infatti il lat. tèxere,oltre che ‘tèssere’ al telaio – presente permillenni in ogni casa – significava purepiù genericamente ‘mettere insieme’,‘intrecciare’, ecc., come facevano il vasaioo chi intrecciava cesti di vimini. Tra iderivati da tèxere: pretést ‘pretèsto’ – ch’l’èla scusa intisuda a bòta chélda – disést‘dissesto’ e, perfino, il sostantivo cuntést‘contesto’, mentre cuntistè ‘contestare’viene da testis. Gli anglòfili usano pure tex-ture, ma dovrebbe bastare ‘tessitura’Infine, resta d’etimo incerto test ‘prova’,che la psicologia ha attinto dalla linguad’Albione; era forse in origine il coccio(testum) – da texere – dove si conservavanole sostanze ‘testate’, o forse il crogiolo,messo sul fuoco per ‘testarle’. O qual-cos’altro ancora: fate voi.

Rubrica curatada Addis Sante Meleti

da Civitella

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la Ludla12 Giugno 2015

XXIII premio di Poesia dialettale e Zirudela Romagnola

intitolato a Giustiniano VillaSan Clemente (RN)

Doni ooh!!!

di Gianfranco Rossi - CesenaPrimo classificato nella sezione Poesia

Che rógg dla Pina u m’tniva cumpagniaj’ann pasé da burdèl t’e’ mi San Chèral,e ènca sl’è un gran temp ch’a sò tolt via,u m’ronza int’agl’uréci cmè un tèral.

Una sciala s’un spilòn sora la tèstae Li pièn pièn a caichè e’ su caret,senza mai tradì un dè, spézi qui d’fèsta,par al strèdi de’ Paes e de’ Burghet.Frota-verdura e primìzi dla stasòn,catèdi in zir da i cuntadén d’intònd,e po giustédi cun la cura dla pasiònpar sarvì i su avantùr da chèv a fònd.“Doni, s’u v’aménca un cuntóran par mezdè,buté l’òc: ...pumidòri da insalèda!Mora, a nu m’so scorda, e a v’ò purtècagl’j ovi freschi ad nid par la fartèda”.

I dopmezdè dla dmènga la s’farmèvat’e’ spiazèl dla cisa, d’schènt a la funtèna,cun amni, zìs, luvèn, e quel ch’u s’rusghèvaint e’ cinema de prìt dop la dutrèna.E’ temp dal pésghi, di mlùn e dal mugliéghi,

l’era tot ch’j’udùr a indùs la tentaziòn,e propri cmè si fos puziòn ad streghit’s’ìri quasi pantì d’avé za fat claziòn.S’la èva sbajuchè, pighìda la stadirae sgné sora e librèt e’ cont dla spesa,d’ogni tènt da ‘na gran bisàza nìra...par nun burdèl u j’era ‘na surpresa.

E a m’inchènt a guardèla int e’ campsènt,‘t un ritràt che u m’arporta e’ su surìs:“Ehi Putìn, j’an i va da svelt, mo sta cuntènt,che al mi zrìsi ta li artruv in Paradis”.

Donne ooh!!! Quel richiamo della Pina mi teneva compa-gnia / durante gli anni passati da bambino a San Carlo, /e anche se è molto che sono andato via, / mi risuona nelleorecchie come un tarlo. // Uno scialle con uno spillone sullatesta / e Lei piano piano spingeva il suo carretto, / senzamai perdere un giorno, specie quelli di festa, / per le stradedel Paese e del Borghetto. / Frutta, verdura e primizie di sta-gione, / scelte dai contadini lì vicino, / e poi sistemate conla cura della passione / per servire in pieno i suoi clienti: /“Donne, se vi manca un contorno per mezzogiorno, / butta-te l’occhio: ... pomodori da insalata! / Mora, non mi sonoscordata, e vi ho portato / quelle uova fresche di nido per lafrittata”. // I pomeriggi della domenica si fermava / nelpiazzale della chiesa, di fianco alla fontana, / con semi, ceci,lupini e quello che si rosicchiava / nel cinema del prete dopola dottrina. / Il tempo delle pesche, dei meloni, delle albicoc-che, / erano tutti quegli odori a indurre la tentazione, / eproprio come pozioni di streghe / eri quasi pentito di averegià fatto colazione. / Se aveva incassato abbastanza, piega-ta la stadera / e segnati sul libretto i conti della spesa, / ognitanto da una grande bisaccia nera... / per noi bambini c’erauna sorpresa. // E mi incanto a guardarla al camposanto, /in un ritratto che mi riporta il suo sorriso; / “Ehi Putìn, glianni vanno svelti, ma sta contento, / che le mie ciliege leritrovi in Paradiso”.

Stal puiðì agli à vent...

Mauro Dall’Onda, Venditrice ambulante di frutta, Murale nelBorgo di San Giuliano, Rimini.

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13Giugno 2015la Ludla

Am sò insugnè l‘Inférne

di Ivano Aurelio Muratori - RiminiPrimo classificato nella sezione Zirudela

Dialogo svoltosi all’Inferno fra Giam-batesta Paternò (G.P.), Pèdre Etérne(P.E.), San Maréin (S.M.), Mój adPaternò (M.P.)

G.P.T na nota ad mità invérneam sò insugnè l’inférne,cun ilé l’Uniputént,Gisù Crést e un scròl ad Sént.J’éra vstìd tótt quant uguèl,vésta biènca sè capèl,sla mantèla vérd-marón,ch’i miteva in sudizión.J stèva t na spianéda,te fänd d’una valéda,a l’ämbra d’un’arvura,tótt tiràt da fè paura.Mè ai vleva fè l’avdùda,s’un abraz, na batùda,mo sicóm j’éra a cul drétam sò ferme e a so stè zétA zcär dòp per dì ch’a sòGiambatesta Paternò,béin spusèd, sa quatre fiól,residént a Spadaról. Pu am mèt ilè davènti,in pusizión d’atènti,impaléd in cla pósa,am faz e’sègn dla crósa.Dòp am dég, per andè lés,a bès enc’e’crucifés,perché isé a dag da védala msura dla mi féda.P.E.Mo e’dà só e’ Pèdre Etérnee um dis: iqué t l’inférne,t’an te tròv in cundiziónda fè i gést ad divuzión.Vòt che mè ch’a sò e’ Signora n’arcnása un pecator?Um basta véd la fazach’a sò i pchè, nòm e raza.Te pr’esémpi t’a n’é tènt,j’è dumelaquatrezènt,at pòss dì ch’j’è pió che sàperché te t’at tròva iquàa espiè la pena gióstache tròv drenta sta bósta.G.P.Na bèla mèsa in scéna,la bósta cun la pénach’l’è pròpie architetèdaper dèm una frighèda.

Difàti sa sta mòsaa fnés drénta na fòsa,lèrga e länga un métre schèrsche da mòvme un gn’éra vèrs.Isé dòp dó tre minùtam sò mès a ciamè ajùt.A ciàmeva Gisù Créstch’um pareva d’avél vést.Ló l’ariva ad scaranèda,mo un me suga la bughèda,e um dìs ch’ui vò pacenzach’l’è quèla la sentenza.A ste punt a ciap capèla urle fort: a vèj l’apèl,s’an me fè cum ch’e’va fata spac tótt e a faz e’mat.E’ Signor l’à fat t un sbréssum l’à dè perché a smitéss.E mè alòra a cminz a dìche i su cunt a’ngn’ò capìe sicóm che per mis-céra faseva e’ ragiuniér,a pòss dì cum che e’va fate’ cuntègg di mi misfat.Prima ancora da cminzèbsägna fè l’elènc di pchè,i va in culòna d’qua o d’làsgänd e’ pés e qualità.Quand j’è in fila, l’è nurmélfè la sóma pr’ e’ tutél.P.E.Te t’pretènd adèss che nun,i pchè ai cuntema un per un.Paternò, cumè ch’us fa?Ui vurìa un’eternità!E’ tu cónt um per esatint e’modi ch’l’è stè fat,perché avèm iqué t l’infèrnee’ sistema pió mudèrne,sa duméla terminèlculeghéd me Viminèlmal paròci, mi cumunch’i fatura lór per nun,tótt cumpres, iva inclusae i t’asegna m’una busacun l’elènc ad tótt i pchèche mè at lèz per e’ bòn fè.Te t’risult un lusurió?,pu un buserd e un invigió?e finenta un evasór,u te dis e’ tu Signor!G.P.L’è la senta verità,i mi pchè j’è quist iquà!Castighém che mè a sò prónt,fèm però un cincìn ad scónt.P.E.T’an vurè te Paternò

paghè un pchè te post ad dò?Sèt l’inférne u n’è purtròpnè la Conad né la Coop.U n’esést iqué e’pardón,mènc che mènc u j’è e’cundón,te t’ai si per paghè i sbaj,mè an pòss miga fè tènt taj.G.P.An capéss e’ mi Signortot’sta tégna e ste rigórcun mè pòri cris-cènfiòl de pòri sugamèn.La batùda, la m’è pèrs,ch’l’a j’andèss per e’travèrs,per e’tón e per e’ pés,l’è andè via piotòst ufés.Am sò dèt ò fat l’erorda dè cóntra me Signor!E alòra bèin l’am stà,se a la féin a rèst iquà.Avilìd e mólt scuntént,tótt t un tratt a vèg un Séntche a vedle in luntanènzaum deva un fil d’sperènza.E difàti da pió vséin,a capès ch’l’è San Maréin.S.M.Ló um dis a sò t l’inférnecum ajùt de Pèdre Etérne,mo e’ Signor t’al se cum ch’l’èum fa fè tótt quant mu mè.L’è méll an ch’a stag iqué,a faz l’apèl du volti e’ dé,a cuntròl tótt i danèdperché i staga radanèd.G.P.Mè ai dég, bòn San Maréin,av cnusceva za da znéinquand ch’ avnìva se Titèna prighèv sa Don Ghitèn.Ilé vó, per èss sincéra m’i fat pió d’un piasér,fèmne un ènt, per carità,mandèm via me da d’iquà.Iqué ló l’è stè un gran sént,u m’a tòlt da che turmént,an m’arcòrd cumè che sia,am sò artròv ma chèsa mia.Am sò svég t un lèt d’sudórsla mi mój senza e’ Signor.M.P.Lèa l’am dis: mo cs’ het mai fat?t’è du äcc spartèd da mat!G.P.Mè a séra só t l’inférnea ragnè se Pèdre Etérne,per un fat ad curtesiaò ciapè só e a sò vnù via.

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la Ludla14 Giugno 2015

Nello scorso numero di maggio ave-vamo pubblicato la richiesta di un let-tore che chiedeva il nome dialettaledell’oggetto qui sotto fotografato.

Pubblichiamo, fra quelle che abbia-mo ricevuto, due risposte che sintetiz-zano le due denominazioni con cui ènoto in Romagna questo utensile dacucina:

Io l’ho sempre chiamato "fèr di pasadèin".Infatti mia mamma e mia nonna lo usa-vano esclusivamente per fare i passatelli.Ne conservo uno identico a quello in fotoin un angolo della dispensa come ricordo.

Giuseppina Sbrighi Calisese di Cesena

Nella zona della bassa lughese l’utensileraffigurato è chiamato: "E stâmp dipasadén".

Sergio ChiodiniSan Bernardino di Lugo

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Mia madre, riferendosi ad una perso-na che ha perso l’orientamento, dice:“U s’è vultê spéra!”. Spéra = spettro osfera?

S. T. - Via SMS

Spéra significa ‘disco solare’, ‘raggiodi sole’. L’origine è dal latino volgarespera per il classico sphaera, a sua voltadal greco sphaîra ‘sfera, oggetto circo-lare, corpo celeste’. Perde l’orienta-

mento chi non ha più ben chiara laposizione del disco solare nel cielo.

gilcas

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Cogliendo l’invito di codesta Reda-zione ad esprimere un parere sulloscritto della sig.na Arianna Ancara-ni (apparso sullo scorso numerodella Ludla) espongo alcune consi-derazioni.1) La totale libertà di espressione èammessa nel soliloquio. Ma se untesto è destinato alla lettura di piùpersone è giusto che si osservinoquelle limitazioni espresse nelle clau-sole dei concorsi a cui si riferisce loscritto. Pertanto il contenuto di quel-le clausole è pienamente condivisibi-le, perché i limiti della libertà diespressione stanno nel rispetto delleidee e delle sensibilità altrui. Questoconcetto è ovvio e, forse, non dovreb-be esserci nemmeno il bisogno diribadirlo nei bandi di concorso che sipresumono destinati all’attenzione dipersone intelligenti e consapevoli.Quindi non si tratta di imporre una“auto censura preventiva”, ma diribadire le norme del buon viverecivile.2) Circa la “dissacrante attitudine cheè il sale della nostra tradizione lettera-ria, scritta e orale”, mi permetto diosservare che quando una lingua habisogno di espressioni dissacranti evolgari per continuare a vivere vuoldire che non ha altri valori da propor-re ed è quindi auspicabile la sua estin-zione. Ma non è così per il nostro dia-letto che è ricco di tradizioni illustri,di sentimenti e di ideali nobili. Difronte a qualche autore che si è diver-tito a condire la sua prosa con parolescurrili c’è una schiera di scrittori epoeti che hanno esaltato la “Roma-gnolità” nei suoi aspetti più nobili eaffascinanti. Cito per tutti un solonome: Aldo Spallicci.3) Allora, domanda la signorinaArianna, “Di che cosa dovremmoparlare?”Le cose di cui si può e si deve parlaresono tante. Sopra la sfera del sesso (earee attigue) c’è il “cuore” coi suoisentimenti e le sue emozioni; sopra ilcuore c’è il cervello con le sue idee e

la sua fantasia, e, per chi ci crede,sopra il cervello c’è l’anima col suodesiderio di infinito e di eternità.Non esaltiamo chi si ferma a bassaquota, rivolgiamo il nostro interesse ela nostra attenzione a chi vola più inalto.In tempi di disgregazione morale ecivile ce n’è più che mai bisogno.

Paolo Bonaguri - Forlì

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Perché quando uno fa finta di non capiresi dice che fa e’ smarì ad Catarnon?

B.V. - Via email

Fê e’ smarì ad Catarnon è un modo didire tipicamente romagnolo chesignifica ‘fingere di non capire’ o,meglio, ‘fingere di essere estraneo acerte situazioni nelle quali invece si èchiaramente coinvolti’. Secondo la tradizione e’ smarì adCatarnon è quello che, sorpreso in unpollaio a riempire il sacco di galline,alla domanda su che cosa facesse lì,rispose che si era smarrito. Lo stesso,un’altra volta, fu sorpreso mentreconduceva un paio di buoi tenendoliper una corda: accusato di furtorispose che lui aveva raccattato unafune per strada e mai e poi mai avreb-be pensato che a quella ci fosseroattaccati dei buoi.Ci si chiederà: chi è il Catarnon prota-gonista di questo modo di dire? Pareche si tratti nientemeno che di Cate-rina Sforza, Signora di Imola e diForlì. Si dice, ma la cosa è tutt’altroche sicura, che la Signora controllas-se i suoi sudditi attraverso spie trave-stite da contadini che andavano ingiro con tanto di buoi al seguito.Sconfitta da Cesare Borgia, detto ilValentino, perse la signoria e alle suespie, per non fare una brutta fine,non rimase altro che fare gli ‘smarritidi Caterinona’, fingendo di non esse-re compromessi con lei. Una piccola notazione grammatica-le. In romagnolo può succedere che inomi personali femminili, quandovengono alterati, passino al maschilecome nel caso di Catarnon: da Mariaabbiamo e’ Marion, da Lucia e’ Luzjinecc.

gilcas

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la Ludla 15Giugno 2015

Libri ricevuti

Giuseppe BellosiRequiemTraduzione e note di LorisRambelliEditrice La Mandragora,Imola 2014. Pp. 130

Vanda BudiniCavalèta, stècval, Caprèta,Dòndla, S-ciaf fermocopertaper boviniMuseo Etnografico “Sgurì”di Romano Segurini, Savarna 2015. Pp. 66

Alessandro GaspariC’era una volta in cucina. Legustose ricette della tradizioneromagnola raccontate da uncuoco per passione.Carta Canta, Forlì 2010.Pp. 231

Giovanni ZaccheriniRavennati a viso aperto. Perso-ne e personaggi di ieri e di oggi. Danilo Montanari Editore,Ravenna 2014. Pp. 238

Silvio LombardiUn inféranEditrice la Mandragora,Imola 2015. Pp. 252

Checco Guidi“E’ granèl ad sabia”. Antologiapoetica. Prefazione di Rita GianniniPazzini, Villa Verucchio 2014.Pp. 131

Pier Giorgio BartoliJ’ilus. Vita grama.Aforismi e foto di P.G.B. Prefazione di Paolo Borghi.Ravenna 2014. Pp. 32

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la Ludla16 Giugno 2015

«la Ludla», periodico dell’Associazione Istituto Friedrich Schürr, distribuito gratuitamente ai sociPubblicato dalla Società Editrice «Il Ponte Vecchio» • Stampa: «il Papiro», Cesena

Direttore responsabile: Pietro Barberini • Direttore editoriale: Gilberto CasadioRedazione: Paolo Borghi, Roberto Gentilini, Giuliano Giuliani, Addis Sante Meleti

Segretaria di redazione: Veronica Focaccia Errani

La responsabilità delle affermazioni contenute negli articoli firmati va ascritta ai singoli collaboratori

Indirizzi: Associazione Istituto Friedrich Schürr e Redazione de «la Ludla», Via Cella, 488 •48125 Santo Stefano (RA)Telefono e fax: 0544. 562066 •E-mail: [email protected] • Sito internet: www.argaza.it

Conto corrente postale: 11895299 intestato all’Associazione “Istituto Friedrich Schürr”Poste Italiane s.p.a. Spedizione in abbonamento postale. D. L. 353/2003 convertito in legge il 27-02-2004 Legge n. 46 art. 1, comma 2 D C B - Ravenna

La poesia, e quella dialettale non fa eccezione (a puro tito-lo d’esempio sarebbe sufficiente rifarsi ad alcune paginedi Walter Galli), si è rivelata sovente portavoce dellacoscienza critica dei tempi, rendendosi partecipe dellemultiformi tipologie di disagio individuale e collettivo chesi accompagnano con tenacia all’esistenza dell’uomo,creatura da sempre assuefatta a norme di vita improntatea un arrivismo egocentrico, al cui seguito non è raro chei più fragili e meno determinati stentino a trovare garan-zie, tutele e prerogative per quanto possibile legittime e aldi sopra delle parti. Rifacendoci in senso lato a contrarietà e disagi è pacificoconstatare che l’Italia stia attraversando uno dei periodi dicrisi più lunghi e malaugurati dal dopo guerra in avanti,così com’è palese, in merito, che una sintomatica schieradei nostri portavoce al parlamento, si sia comportata finoa ieri alla stregua di un gregge di scombinati, o quantomeno di superficiali, affatto restii a prenderne coscienza.Di giorno in giorno, comunque, diviene sempre più diffi-cile per noi gente comune capacitarci della questione,

condizionati e inermi come siamo di fronte alle baruffedei talk show quotidiani, fra gli speranzosi che garanti-scono di scorgere una luce in fondo al tunnel e le rispet-tive opposizioni che, al contrario, preconizzano un av-venire ancor più ostico di quello che già stiamo sperimen-tando sulla nostra pelle.Dagli artefici di questo sterile gioco delle parti (in praticala quasi totalità di coloro cui nelle ultime consultazionipolitiche abbiamo demandato l’incombenza di rappresen-tarci) è improbabile che possa scaturire l’attestazioneschietta ed esplicita di un senso di colpa (o magari soltan-to di rammarico) espresso nei nostri confronti riguardoalla propria corale inconcludenza, cosicché, per non cede-re al fatalismo e alla rassegnazione, sarà opportuno farciingrato carico della congiuntura cercando sostegno neiversi dell’odierna pagina sedici, che Carlo Falconi ha col-mato di una satira amara ma non remissiva, beffarda manon sconfitta.L’autore, con questa poesia, che è allo stesso tempo effica-ce interprete del momento e incentivo a una desolatapresa di coscienza, ci incalza a non conformare la mentealla credula dabbenaggine di un Polifemo qualsiasi, néincline né idoneo a tener testa allo sguardo marpione ecalcolatore di un Nessuno che alla fine, in un modo o nel-l’altro, troverà sempre la strada per emergere indenne daqualsiasi frangente.

Paolo Borghi

Carlo Falconi

Nisõ’

Nisõ’

Nisõ’ u s’ l’ imazinéva chela 3Elle la sarêv falìda

Nisõ’ u s’ l’ aspitéva chela CESI l’ avês lasé tôt a ca’

Nisõ’ u l’avrêv cardù chee’ Mercatone Uno e’ putes andé in bancaròta

Nèch Polifemo e’ fasêt‘na brôta fẽ’ cun Nisõ’e dal vólt u m’ pé chenuêtar nó a sègna Polifemo

Nessuno Nessuno se l’immaginava che \ la 3Elle sarebbe fallita \\ Nessuno se l’aspettava che \ la CESI avesse lasciato tutti a casa \\ Nes-suno l’avrebbe creduto che \ il Mercatone Uno potesse andare in bancarotta \\ Anche Polifemo fece \ una brutta fine con Nessuno \ e a voltemi pare che \ noialtri siamo Polifemo