Dante I, 34 la Ludla · Dante, Par. I, 34 Periodico dell’Associazione “Istituto Friedrich...

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1 la Ludla “Poca favilla gran fiamma seconda” Dante, Par. I, 34 Periodico dell’Associazione “Istituto Friedrich Schürr” per la valorizzazione del patrimonio dialettale romagnolo Anno X Giugno 2006 n. 5 Società Editrice «Il Ponte Vecchio» SOMMARIO la Ludla Autorizzazione del Tribunale di Ravenna n. 1168 del 18.9.2001 Poste Italiane - Ravenna - Spedizione in A.P., Legge 46, art. 1, comma 2 D C B Questo numero è stato realizzato con l’apporto del Comune di Ravenna p. 2 “Una foglia contro i fulmini” di Paolo Borghi p. 4 Traslazioni di senso dal latino ecclesiastico all’ordinanario dialetto di Gilberto Casadio p. 5 Sa’ Zvân amdór, Sa’ Pir sgadór Bas-ciân p. 6 Ben vega a c’ha d’andéa di Maurizio Balestra p. 8 E’ ramajôl di Tonina Facciani p. 10 Da Giorgio Lazzari un nuovo dizionario dell’avifauna romagnola di Gianfranco Camerani p. 11 Se u v’aves da pizghêr e’ nês di Loretta Olivucci p. 12 Due racconti di Rino Salvi p. 13 Sette commedie di Bruno Marescalchi di Sergio Agostini p. 14 L’avuchêt Sivio Camarân di Massimo Stanghellini p. 16 Fôl un sonetto di Giorgio Bellettini L’Assemblea ordinaria della “Schürr” Il 20 maggio: una bella giornata per la Schürr. Il rendiconto econo- mico relativo al 2005 è stato approvato con piena soddisfazione del- l’Assemblea che ha constatato lo stato e la qualità delle attrezzature d’ufficio e la solidità economica dell’associazione che, pur non aven- do cespiti d’entrata oltre le quote annuali (ancora 12 euro) e i pro- venti da convenzioni con enti pubblici e da progetti culturali di vol- ta in volta coperti da fondazioni e da banche, proprio in virtù del suo dinamismo e dell’oculata parsimonia degli amministratori, riesce a svolgere, in dignitosa povertà, svariate attività editoriali, pubbli- cistiche, interventi nelle scuole e in sedi culturali di prestigio, con- vegni, concorsi, eccetera. In questo contesto è parso naturale pensare al futuro con progetti d’espansione, ma anche di radicale innovazione della struttura, in un futuro che non sarà certo domani, ma questa progettualità anche spinta è segno (buon segno) di vitalità. Paolo Domenico Melandri mentre illustra il rendiconto economico; accanto a lui il Dottor Lino Strocchi, presidente del Collegio dei sindaci revisori (Foto Torquato Valentini). [continua a pagina 12]

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1la Ludla

“Poca favilla gran fiamma seconda” Dante, Par. I, 34

Periodico dell’Associazione “Istituto Friedrich Schürr”per la valorizzazione del patrimonio dialettale romagnolo

Anno X • Giugno 2006 • n. 5Società Editrice «Il Ponte Vecchio»

SOMMARIO

la LudlaAutorizzazione del Tribunale di Ravenna n. 1168 del 18.9.2001

Poste Italiane - Ravenna - Spedizione in A.P., Legge 46, art. 1, comma 2 D C B

Questo numero è stato realizzato con l’apporto del Comune di Ravenna

p. 2 “Una foglia contro i fulmini”di Paolo Borghi

p. 4 Traslazioni di senso dal latinoecclesiastico all’ordinanariodialettodi Gilberto Casadio

p. 5 Sa’ Zvân amdór,Sa’ Pir sgadórBas-ciân

p. 6 Ben vega a c’ha d’andéadi Maurizio Balestra

p. 8 E’ ramajôldi Tonina Facciani

p. 10 Da Giorgio Lazzariun nuovo dizionariodell’avifauna romagnoladi Gianfranco Camerani

p. 11 Se u v’aves da pizghêr e’ nêsdi Loretta Olivucci

p. 12 Due racconti di Rino Salvi

p. 13 Sette commediedi Bruno Marescalchidi Sergio Agostini

p. 14 L’avuchêt Sivio Camarân di Massimo Stanghellini

p. 16 Fôlun sonetto di Giorgio Bellettini

L’Assemblea ordinaria

della “Schürr”

Il 20 maggio: una bella giornata per la Schürr. Il rendiconto econo-mico relativo al 2005 è stato approvato con piena soddisfazione del-l’Assemblea che ha constatato lo stato e la qualità delle attrezzatured’ufficio e la solidità economica dell’associazione che, pur non aven-do cespiti d’entrata oltre le quote annuali (ancora 12 euro) e i pro-venti da convenzioni con enti pubblici e da progetti culturali di vol-ta in volta coperti da fondazioni e da banche, proprio in virtù del suodinamismo e dell’oculata parsimonia degli amministratori, riesce asvolgere, in dignitosa povertà, svariate attività editoriali, pubbli-cistiche, interventi nelle scuole e in sedi culturali di prestigio, con-vegni, concorsi, eccetera.In questo contesto è parso naturale pensare al futuro con progettid’espansione, ma anche di radicale innovazione della struttura, inun futuro che non sarà certo domani, ma questa progettualità anchespinta è segno (buon segno) di vitalità.

Paolo Domenico Melandri mentre illustra il rendiconto economico; accanto a luiil Dottor Lino Strocchi, presidente del Collegio dei sindaci revisori (Foto TorquatoValentini).

[continua a pagina 12]

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“Una foglia contro i fulmini”

Poema in prosa di Tonino Guerracon lacerti in versi romagnoli

di Paolo Borghi

“Quando piove a Pennabilli le goccescivolano via sulle foglie degli alberi”.

Nell’essenziale fluire di questa doz-zina di parole Tonino Guerra riesce acolmare la nostra fantasia con la re-altà di quell’ acqua che scorre, dallaquale ci è poi leggero immaginarePennabilli come un luogo ricco difogliame e dunque di alberi da cui,scivolando scivolando, quelle goccescorrono ad ingrossare il Marecchia.E chissà che non sia proprio per at-taccamento alla vallata ed al greto delfiume romagnolo in odore di PassatorCortese che egli, già parecchi anni orsono, abbia optato di ritirarsi nellaseducente campagna collinare lambi-ta da quella che lui stesso definiscecome una pelle d’acqua gorgoglian-te. Un liquido derma che muove dal-l’alta valle declinando spiccio versol’Adriatico e nel quale il poeta sem-bra aver rinvenuto la propria genesi,una discendenza che mediante unindagare tenero e meticoloso ad untempo nei dedali più reconditi del ri-cordo, risale ininterrotta agli ormailontani anni della sua infanzia (o del-l’infanzia del mondo?).

E questa sorta di epifania siripropone da allora, con la semprevivace ed innovativa maniera di in-tendere ed affrontare la vita (e dunquela poesia) propria del bambino, checonosce soltanto espressioni nuove,vitali e plasmate da parole che, ina-deguate ad arrestarsi, una voltaespresse non possono fare a meno diprendere il volo.

Sono dunque la semplicità e lo sti-le scevro da pregiudizi appartenentiagli occhi dei piccoli, quelli coi qualiegli si avvicina e fronteggia nei suoiscritti tematiche impegnative e spi-nose quali la vita e la morte, la felici-tà e l’amore oppure, come nel suo ul-timo lavoro: Una foglia contro i fulmi-ni (Maggioli Editore, febbraio 2006),il silenzio, l’assenza, l’isolamento, unisolamento dal quale sta sperandoconforto, e nel quale insegue consa-pevolezza il protagonista, uomo col-mo di interrogativi che non possie-dono risposta. È una segregazione, lasua, frammezzata ma certo non miti-

gata da ricordi e da fugaci eppure sin-tomatici incontri coi personaggi mar-ginali che popolano le pagine del li-bro, come il venditore ambulante chedal suo camioncino vende agli ap-partati asociali che vivono nei ca-lanchi frutta, uova, pane, formaggio;come il principe georgiano, impauri-to dal comunismo, che gli regala unafoglia:

-La tenga in tasca, così la proteggeràdai fulmini-; come la coppia di anzia-ni Riminesi, fuggita dalla città per-ché essa non era più adeguata ai loropensieri, e che egli dapprima incalzaed infine scopre in una larga coltiva-ta a granturco, celati nell’esigua ra-dura che avevano essi stessi arrangia-to falciando alcune steli. E sembraproprio che il poeta, con questa de-scrizione, voglia trascinarci a pensa-re a quei provocanti cerchi nel granoche i cultori di fantascienza e dell’e-soterico amano addossare ad ignote

ed inquietanti esistenze extraterrene(ecco come, negli scritti di ToninoGuerra, le cose che egli racconta, edunque vive, si commutano soventein irruzioni nella fantasia, colme distupori e di sorprese, che ti persuado-no a tutt’altra parte da quella cui pen-savi di essere condotto).

Incombe turbato sul tutto “non leho chiesto per quanto tempo deside-rava stare lontana”, il ricorrente ab-bandono al ricordo/rimpianto dellamoglie partita per Mosca.

D’invéran andémmi a lètapena u s smurtévva e’ sòule se e’ piuvévva a stémmi asantì l’aqua ch’la curévvatal grundèri fina ch’a mitémmipi dróinta l’insógni.

[D’inverno andavamo a letto\ appena sispegneva il sole\ e se pioveva stavamo a\sentire l’acqua che correva\ sulle grondaiefino a quando mettevamo\ i piedi dentro alsogno.]

Amalgama di una forse solo ingan-nevole leggerezza e di una spontanei-tà naturale e dunque immediata, tut-to in lui si tramuta in narrazione edogni sua narrazione converte poi insogno ed in poesia.

Così, nell’ultimo impegno del san-tarcangiolese Tonino Guerra, si incal-zano accenti, cadenze e soggetti cheper quanto dissimili uno dagli altririsultano comunque inglobati in unamatassa composta da un unico filoconduttore, una sorta di labirinto,dunque, cui è agevole rintracciare lavia maestra in quel profumo di erba-luisa, fragile e risoluto ad un tempo,che sembra impersonare per il poetauna natura sostituta di un trascenden-

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te, dinanzi al quale egli non si ingi-nocchia poiché gli parrebbe non equoper le sue convinzioni, bensì s’appa-ga di sedersi a riflettere, lasciandosicolmare la mente da quelle foglie pro-fumate che cingono e chiuderannopoi l’intero poema.

Nelle pagine della composizione lasua poesia e la sua prosa, sovente emagistralmente fuse fra loro (ma dirado come in quest’ultima fatica)sono tutto un rincorrersi di immagi-ni, di vicende e di figure umane chetramite questo filo guida, vengonoconfidate al lettore come fossero ilcanovaccio, o meglio la sceneggia-tura, di un film, un film nel quale ipersonaggi vengono da lui tracciatisì per linee essenziali, ma con una sen-sibilità, un sentimento ed un’atten-zione tali da renderceli unici ed indi-menticabili.

E così il fugace incontro con la vec-chia donna dalla quale tutto prendeinizio e che, accogliendolo, colmavai propri occhi “di una chiarezza pro-fonda come se una quantità d’acquamostrasse il suo fondo”, termina conun enigmatico commiato nel quale

lei, tramutandolo in guisa di avven-to, gli confida in modo sibillino:“Spesso è nel momento dei saluti checominciano gli incontri.”

Ed inoltre la Signora, “una giova-ne donna magra e piena di gesti” checercava nella “zona delle piume” e nelprofumo dell’erba-luisa una specie dirivelazione imperscrutabile che la aiu-tasse a “correggere una certa indipen-denza della sua immaginazione (vo-glie involontarie, spiega Guerra su-bito dopo) che la infastidiva da quan-do s’era sposata”.

E per concludere Remone, dal voltoche “esprimeva soltanto disattenzionee assenza totale da questo mondo” eche, intravisto per la prima volta, cosìci viene raccontato:

“Un corpo alto, possente” che “fa-ceva pensare ad un grosso animalepreistorico guidato da un odore”, e cui“probabilmente arrivavano soltantosegnali misteriosi e lontani”; il Re-mone che strappando ed affidandoalle acque del torrente tutte le foglied’erba-luisa, darà principio ai com-miati: il suo... quello della sSignora...quello del protagonista\poeta, che

all’atto della partenza si renderà con-to che le poche risposte che era riu-scito a trovare, s’erano trasformate aloro volta in altrettante domande.

L’ambito dialettale di questo suoultimo lavoro non è certo incoerentecon quelli che l’hanno preceduto, enei quali Guerra riconsidera un mon-do di ricordi e di sogno, allorché letracce del passato arretrano un passodopo l’altro fino all’epoca di una gio-vinezza solo apparentemente lonta-na, un mondo semplice e di semplicidal quale è comunque insensato la-sciarsi indurre in errore giudicandoloalla stregua di tanta inutile paccotti-glia vernacolare, mentre si fondaall’opposto su intuizioni e valori di in-consueto ed accertato spessore: nellesue opere siamo alla radice di un sen-timento che, scevro da improduttiviartifici, sorge in tutta la sua vigorianarrativa e dal quale sarebbe stoltonon lasciarsi coinvolgere.

La è arivàta da in èltindò ch’u j’è i màndal in fèstae la m’à infilé tra i làbar un fiòurcumè che févva la mi màch’la mitévva la próima vióladi su vès in bòcca de mi bàe lèu u la tnévva un dèfiuróida tra al su paróli.

[È arrivata dall’alto\ dove i mandorli fan-no festa\ e mi ha infilato tra le labbra unfiore\ come faceva mia madre\ che mette-va la prima viola\ dei suoi vasi in bocca amio padre\ e lui la teneva un giorno\ fiori-ta tra le sue parole.]

L’amarcôrd, quando s’erge a questilivelli occorre conservarlo quale pre-zioso e vitale fautore di vita, di me-moria e perché no? di fiducia e dun-que di speranza nel futuro, tanto piùquando è il poeta stesso ad affermare:

“Da un momento all’altro dovrò purdire a qualcuno che non sto cercan-do soltanto la mia infanzia, ma addi-rittura l’infanzia del mondo.”

Qui accanto la Signora e l’erba-luisa: unodei 9 acquerelli di Tonino Guerra che illu-strano il racconto.

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Traslazioni di senso

dal latino ecclesiastico

all’ordinario dialetto

di Gilberto Casadio

Diversamente da quanto succede initaliano ed in altri dialetti, non sonomolti i termini e le espressioni dellatino della Chiesa entrati nel dialet-to romagnolo. Nel numero de «laLudla» dello scorso marzo abbiamovisto i Maraveld e la Donna Bisodia,ai quali possiamo aggiungere le ca-rialesi, voce desueta riportata dalMattioli, con il significato di ‘lungag-gini, noiosa tiritera’. Il vocabolo traeorigine da Kyrie eleison (in greco: Si-gnore, abbi pietà!), invocazione fre-quentissima nella Bibbia, entrata pre-sto nella liturgia, dove si alterna conChriste eleison (Cristo, abbi pietà!).Come già ricordava su queste pagineManlio Cortelazzo («la Ludla», mar-zo 2003, p. 2) il dare il nome di unapreghiera ad un discorso lungo e pro-lisso è cosa comune a molti dialetti,specie quando si tratta di formula ri-petuta di frequente nella liturgia e dalsignificato non comprensibile al co-mune fedele.Vi sono poi alcuni altri termini indi-canti riti od oggetti propri della litur-gia che hanno assunto in romagnoloun significato traslato. È il caso dispargës, ‘aspersorio’ cioè la sferetta

bucherellata con manico usata dalsacerdote per spruzzare l’acqua bene-detta. Il senso traslato non è registra-to dai vocabolari romagnoli, ma ri-cordo di averlo sentito più volte usa-to nel significato di ‘ammennìcolo,appendice di poco conto’. Spargës è illat. adsperges, seconda persona singo-lare del futuro di adspergere ‘asperge-re’, che si trova in un versetto del sal-mo 50, più noto come il Miserere:Adsperges me hyssopo, et mundabor ‘Miaspergerai di issopo e sarò purificato’.Accanto a spargës si possono colloca-re altri termini come êvmarèj (oêvmarì), pitèr, batésum, sacrament, us-

ciaza ed il verbo crasmê.Le ëvmarèi e i pitèr sono ‘tipi di pa-sta minuta per minestra’ e devono illoro nome alla forma dei grani delrosario ai quali corrispondono rispet-tivamente le preghiere Ave Maria ePater (noster); i pitèr hanno dunqueuna dimensione leggermente superio-re a quella delle êvmarèi.Batésum assume il significato trasla-to di oggetto di poco conto. È usatosoprattutto al plurale: batìsum ‘cian-frusaglie’.Sacrament vale ‘oggetto di grandidimensioni’, generalmente ingom-brante.Us-ciaza è normalmente riferito apersona: un’us-ciaza longa ‘un’animalunga’.Per questi ultimi due termini si puòipotizzare la derivazione dalle escla-mazioni (Sacrament!, Os-cia!) allavista di cose o persone di dimensioninotevoli o quanto meno inusuali.Crasmê ha il significato traslato di‘bastonare, riempire di botte, conciareper le feste’ sia fisicamente sia inmodo figurato. Il senso metaforico sispiega con l’uso di tamponare con unbatuffolo di bambagio la fronte deicresimati, unta dal vescovo col crismadurante il rito. Il batuffolo veniva fer-mato con una fascia, sicché i cresi-mati sembravano tutti feriti alla fron-te. Un tempo si diceva popolarmenteai crasmòt: It pianta la giudëla ‘Ti pian-tano il chiodo’, creando nei bam-binetti di 7-8 anni una certa preoc-cupazione, non sempre facile da scac-ciare razionalmente.

Mario Lapucci, Rugazion (processione nei campi).

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Sa’ Zvân amdór

Sa’ Pir sgadór

Riti legati alla fienagione in Romagna

Bas-ciân

Giugno è il mese dedicato alla mietitura ed allafienagione, operazioni agricole che un tempo, quandoerano totalmente manuali, si prolungavano anche nelmese di luglio. Non sono molti i proverbi legati allafienagione. Ricordiamo:

Sa’ Zvan amdór Sa’ Pir sgadór.

La mietitura cominciava il giorno di San Giovanni Bat-tista (24 giugno), dopo la benefica guazza del mattino, elo sfalcio del fieno e delle stoppie il 29, giorno di SanPietro.

Sulla fienagione sono interessanti le tradizioni riporta-te dal Placucci nel suo Usi, e pregiudizj de’ contadini dellaRomagna:

[I contadini] usano anco nel presente mese [di maggio],allorché si avvicina il tempo di raccoglier li fieni, di porre uncoppo su di un olmo, ed a lui d’appresso un sasso appeso aduna funicella, che scosso dal vento urti sul coppo: come puredi porre tra la siepe una conocchia armata di stoppa, e colfuso fitto nella estremità della stessa; e col frastuono prodottodall’anzidetto coppo col sasso, credono, che le talpe non dan-neggino li prati.

L’usanza è così ripresa da Luciano De Nardis:Perché le talpe non abbiano a danneggiare e il campo e l’or-

to, subito che la primavera risveglia ogni letargo e sopore, ilcontadino appende un coppo giù da un albero e un sasso ac-costo a questo: perché il vento, urtando il sasso sul coppo,come il batacchio nella campana, produce rumore, così checostringe la talpa, sempre guardinga e sospettosa, a sfuggirse-ne via in trepidazione arrancando sulle sue zampette rosee epulite come le mani di un bambino lattante. (Luciano DeNardis. Romagna popolare. A la garboja, 156).

Gli operai impegnati nella fienagione mangiavano settevolte al giorno: un’usanza nella quale all’esigenza con-creta di sostenere il fisico costretto ad affrontare una cosìgrande fatica si intrecciava il rituale legato al sette, nu-mero magico per eccellenza. Così scrive il Placucci nelcapitolo intitolato Delle operazioni di agricoltura apparte-

nenti al mese di giugno: allorquando poi segue la seganda de’fieni, che si fa col mezzo di copiose opere, devono li contadiniin tale giorno mangiare sette volte; e guai se li padroni nonacconsentissero, che sarebbero non solo criticati, ma rimar-rebbe imperfetto il lavoro.

Ecco come seguono le mangiate. Ad un’ora dopo levato ilsole si mangia il panetto, cioè pane, e coppa di majale: dacolezione a mezza mattina carne fritta, uova fritte, gallettiin umido, e fegato fritto di vitello; a pranzo lasagne, lessodi carne grossa, gallinacci a lesso, sette o otto galletti ar-rosto; a merenda frittelle, e galletti in umido, e salame; almerendino prima di sera un fritto; la sera da cena insalata,torta, e coppa o presciutto: dopo di avere ballato, mangianoun arrosto di polli.

In tale occasione – conclude Placucci – le donne recano aciascun uomo un garofano; due di casa sono sempre in giro aportare vino, che riconosciuto buono dalle opere, corrispon-dono per allegria con urli, e schiamazzi.

Lo sfalcio non era lavoro per le donne cui competevano le successi-ve opere col rastrello e col forcale, intese a seccare le erbe fienarolee a proteggerle, debitamente ammucchiate, fino al momento del tra-sporto sull’aia ove si faceva il pagliaio, mettendo il fieno finalmenteal sicuro da quegli acquazzoni che erano l’incubo dei contadini –sempre con l’occhio a e’ mêl-canton – durante la fienagione.Bruegel il Vecchio, Fienagione (particolare), 1565.Olio su tavola, 114 x 158. Praga, Narodni Galerie.

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6 la Ludla

Ben vega a c’ha d’ andèa

diMaurizio Balestra

La lettura della poesia di CinoPedrelli, Da i sét cruseri, mi haspinto ad alcune riflessioni sull’anti-ca credenza romagnola, che dice es-sere possibile, la notte di San Gio-vanni, vedere il passaggio delle stre-ghe che si dirigono alla loro festa,aspettandole in un quadrivio, con ilmento appoggiato fra rebbi di unaforca da pagliaio. Credenza che Mi-chele Placucci nel suo Usi, e pregiudizjde’ contadini della Romagna (DalBarbiani, Forlì, 1818), rimanda “Abimmemorabili”.

In spala ó bott’ la forca de’ pajer,ó fat un zérc par téra int e’ crusér,e’ mangh alé int e’ méz a j ó punté,la testa tra i du brénch a m’ só’ afazé.

Secondo la tradizione, le streghe,sapendo di essere visibili all’inforca-to, lo salutano con un rituale “Benstaga l’inforchéa”a cui questi, altret-tanto ritualmente è bene che rispon-da “Ben vega a c’ha d’andèa”.

Cosa possa succedere a chi non co-nosca la risposta al loro saluto non èdato sapere.

A j ó alzé j ócc:“Ben vaga la barghé!”.Dal vosi á arspost:“Ben staga 1’infurché!”.Aj ó cnusú una vosa: quela ad lia.La viaza propi in bona compagnia!

Placucci non aggiunge molto di piú.Riporta però un “fatto antichissimodi storia rustica” che, in qualchemodo, dovrebbe chiarire “d’onde de-riva tale pregiudizio” ma che, in ef-fetti, oltre a non spiegare alcunché,viene invece a porre ulteriori quesiti.

«... amoreggiando una volta un gio-vine con una ragazza gli fu supposto,che dessa fosse una strega. Volendochiarirsi del fatto eseguì 1’insegnata-gli operazione, che è la già esposta; ementre stava in aspettazione collamassima ansietà di scorgere le stre-ghe, ed in un con esse se vi fosse lasua bella, ecco vede da lungi una fol-ta schiera di streghe a cavallo di ne-gre pecore, precedute dalla di lui stes-sa amante, la quale giunta alla di lui

vicinanza, anzi nel passargli d’appres-so, disse: “Ben staga l’inforchèa”.

In mezzo all’affanno, ed allo stupo-re, appena poté il giovine a voce rau-ca e fioca rispondere:

Ben vega c’ha d’andèa.Adirata l’amante in allora replicó:“Prema d’dman tam le da paghèa”.

Prima di domani me l’hai da paga-re. Atterrito il giovine e spaventatosi diede alla fuga, non essendosene piúavuta notizia alcuna».

La storia, qui narrata, aggiunge unterzo elemento, che viene a coloraredi tutt’altra luce quello che potevasembrare un cordiale scambio di sa-luti fra la brigata delle streghe e chi,capace di padroneggiare il sortilegio,si metteva nella condizione di poter-le vedere. L’elemento nuovo è datodalla punizione, in questo caso scate-nata dalla rabbia dell’amante/strega,riconosciuta come tale.

Ma come si inserisce la minacciadell’amante/strega nello scambio disaluti, quasi scambio di parole d’or-dine, fra l’inforcato e le streghe?

L’impressione che si ricava dallastoria è che quest’ultima sia stata ag-giunta a posteriori, come monito anon farsi tentare ad avvicinare le for-ze del male. Anche Pedrelli, proba-bilmente, poco convinto dalla con-clusione della storia tramandataci daPlacucci, fa finire la scena un attimoprima:

La m’á guardé, passand, cun di ócc da gata.Adéss a j ó capí chi ch’ u s’ la trata:1'é quell ch’ à i pia da chèvra, e’ su muros,1'é quell ch’ e’ fa baraca ’torna a un nos!

Nello specifico del racconto, 1’atteg-giamento della strega/amante sembradettato dalla rabbia di essere stata sco-perta e nello stesso tempo di non poterfar nulla, all’innamorato per punirlonell’immediato, perché protetto dall’in-cantesimo. La punizione quindi è soloannunciata e rimandata a poi, quandoquesti, fuori dall’incantesimo, sarà allasua mercé.

C’è però qualcosa che non convin-ce nel suo comportamento. Perché,se non voleva essere scoperta, non èrimasta celata in mezzo al gruppo del-le compagne? Perché si è fatta avantia salutare l’innamorato, quando il sa-luto era previsto dovesse generica-mente venire dalla brigata delle stre-ghe e non da lei?

In effetti il dispetto provato dalla stre-ga/amante potrebbe essere causato daqualcos’altro.

Gli studi di Carlo Ginzburgh sul fe-nomeno dei “Benandanti”, presentenel Friuli tra la fine del ’500 e la metàdel ’600, potrebbero aiutarci a com-prendere meglio questa credenzaromagnola, inquadrandola in una se-rie di credenze legate ad antichissimiculti agrari della fertilità, le cui trac-ce sembrano presenti in un’area mol-to vasta dell’Europa centrale, area chedalla Lituania si allarga alla Germa-nia, alla Svizzera, alla Jugoslavia e al-l’Italia del Nord, sino a giungere, pro-babilmente, anche in Romagna e ol-tre. Dagli atti dei processi delSant’Uffizio ai “Benandanti”, conser-vati dalla Curia arcivescovile diUdine, le schiere notturne risultanoessere due: quella degli “stregoni”votata al male e quella, loro avversa-

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ria, dei “benandanti”, composta, in genere, da “nati ve-stiti” con la camicia1, che si sentono “chiamati”, spintida una forza che li costringe “in spirito” (ma anche insogno) ad andare a combattere per impedire la distruzio-ne dei raccolti ed allontanare le carestie. Le notti in cuiqueste schiere dovrebbero scontrarsi in battaglia sonoquelle delle quattro tempora dell’anno, cioè i quattro pas-saggi di stagione, i momenti più critici, quando “il peri-coloso trapasso dalla vecchia alla nuova stagione, con lesue promesse di semine, di raccolti, di mietitura o di ven-demmia” crea uno stato di tensione psicologica (un alter-narsi di angoscia e di speranza) nelle popolazioni conta-dine, indifese di fronte ai capricciosi andamenti del cli-ma. Di questi momenti critici il più temibile è quello delsolstizio d’estate, il 21 giugno, che nella tradizione popo-lare diventa il 24 giugno, la notte magica per eccellenza,festa di San Giovanni.

Ritornando alle frasi rituali scambiate fra l’inforcato ele streghe, quanto detto sopra dovrebbe bastare per farcicogliere in esse qualcosa che va oltre il semplice saluto e il“Ben vega a c’ha d’andéa” potrebbe essere letto anchecome un augurio. Augurio che l’inforcato, ad altavoce, fa a se stesso e alla brigata volante: “coloro che de-vono andare, vadano per il bene” e cioè, speriamo di ave-re incontrato dei Benandanti. Frase con cui, nello stesso

tempo, l’inforcato si dichiara schierandosi fra le forze delbene. Una dichiarazione, questa sì, veramente capace difare infuriare un’amante/strega!

Nascosta in mezzo alle altre, lei non può essere certa diessere stata vista e riconosciuta, però, prendendosi l’one-re di salutare il giovane, rende il suo essere palese. Maperché lo fa? Il saluto/richiesta di parola d’ordine dellestreghe, forse, in origine prevedeva non una ma due ri-sposte, che avrebbero loro permesso di individuare da cheparte era schierato l’interrogato. A seconda della rispostaottenuta si sarebbero svelate le sue intenzioni. Da cheparte stava? Difficile dirlo, che io sappia la tradizione nonci dice nulla in proposito, ma l’andamento della storiaraccontata da Placucci, alla luce di quanto detto a propo-sito dei Benandanti, ci spinge ad ipotizzarlo.

Vola vulanda,Barléch e’ cmanda;Barléch e’ cémaala luntena;e’ céma alá tra i muntad Benevent,e me a j ó santí a sc-ciuchédal suteni via pr’ e’ vent.

Note

1 Anche in Romagna i nati con la camicia sono segnati.Ecco cosa riporta Placucci in proposito:La camicia consiste in quella pellicola in forma di velo,fra la quale il bambino nasce avvolto. Deve il bambinoconservare tale camicia gelosamente, anco reso adulto, econ questa si guariscono quelli, che ne sono affetti. È in-dicibile quanto si apprezzi tale camicia, e chi la possiede,questi si chiama fortunato; anco tale si dice il nato nonsecondato. A tanto giunge il fanatismo su tale oggetto,che accadendo risse fra due contadini, asserendo l’unoessere nato colla camicia, e di averla con sé, il suo com-petitore si dà alla fuga. A singolare stravaganza per altrode’ contadini, è da supporsi, che credono invulnerabile ildetto uomo della camicia, ma solo però riguardo al piom-bo, e perciò in caso di rissa il competitore sostituisce allepalle di piombo altre di cera, o d’argento, oppure mitra-glia, e così credono eludere la virtù portata dalla ripetutacamicia.

Sulla notte di San Giovanni, vedasi anche «la Ludla» n.5 \ 2005 Bas-ciân, p 4.

Francisco Goya y Lucientes, Linda maestra, Caprichos, 68.

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8 la Ludla

E’ ramajôl

di Tonina Facciani

Racconto segnalatoal concorso di prosa romagnola “e’ Fat” 2005

(Dialetto di Sarsina )

La ghiésa la jéra stæta scunsacræta.Sbaræta sa du lign contra la pôrta. Ign’i dgiva la mesa da un bël pëz. Intla faciæta davænti, tra un crep ecl’ælt, u i pindiva sbiridundlun uncartël sla screta PERICOLANTE. Lacanönica ad dreda la jéra mesa ancórapeg, e acsè la chésa de’ cuntaden de’prét, tach ma cvela: i tet j éra stætrisuchit de’ svuit [risucchiato dal vuo-to], sól chejca tégla la stéva su parmiræcli; e’ sambugh e chejca marugaj éra crisut parsæna dæntra la stænzach’la géva vës [che doveva essere stata]de’ prét (com ch’i fus i padrun lór!),e adësa i spravanzéva su de’ bugh[buco]de’ tet senza pansæ ma gnint.

Me a m’n’acurgit sobti d’una schêlas’un dent sì e un nö, ch’ la ’rivévam’un pianarötli tuta gramigna ecvêjch stupjon. Davânti a e’ piana-rötli u resistiva una mëûa pôrta adlegn sbjavit, tachæta su s’un gangri[cardine] sól, ch’la gigléva se fiat de’vent [cigolava con l’alito del vento].Alóra a-n pudet resest: sa un pô d’paura (a-n degh busija), a rivet te premscalen, par pudé leg sóra la pôrta a lasùuna data da dalung: 1886.

A cmincet [cominciai] a gvardem ingir: u j éra una chælma, un silænzi adcl’êlt mond… ch’u rimbumbéva.

D’in su, e’ faich u cridiva [in alto ilfalco credeva]che e’ ciel u fus tut e’ so:u féva di gran gir d’in qua d’in là, d’ingiò e d’in sò, fin da sbasæs d’arnóvpar fa la ronda ma che por campanilmëz caschæt gieu.

Intent chi élt du da te stradon irughiéva [gridavano]:

–T’cè mata?! – però j éra trop chieppar sparabichë [erano troppo’ impegnatia sbirciare] su addentra un cancel tutbutun e lusi, cvi ch’i-s chieud e is’apres [si chiudono e si aprono] sænzaméni, ch’u déva m’una vela [ad unavilla] ad sgnurun.

A ’rturnet a pistà l’érba, a scavidetuna murecia ad sës; una finëstra ca-

sca giù a-n la javéva vesta tra lagramegna e a inzampet (röba adrompmi e’ cöl!). Fin ch’a fot dentrala stala, se tet bas, la grepia ad sas,ancóra sal ciampanëli [anelle per le-garvi il bestiame] tachi me mur; e a là,taca ma ’na trëva, u i pindiva ancórae’ santin ad Sant’Antogni si suaniméli tórna i pe.

Madös ma la stala [addossato alla stal-la], un mëz stalet di baghen, se tróghdat la vólta par tëra: chejdun i j évafat e’ su bsogn ad dæntra, chemaladuchet!

Un runzét [ronzio] ad muscun ch’i

Tonina Facciani a Bertinoro il 12 febbraioscorso, durante una manifestazione in suoonore nella Residenza municipale. (fotoGfr.C.)

sambréva di mutur u-s mitet in mötapar truvê e’ bugh da scapà via; isambréva ch’i la javes sa me! Alragnatéli li m’avéva guæsi cichæt;l’udór ad vëch um fet avnì e’ starnut.

Turnend indrì, i rugni [gli spini] i -m furéva e’ cöl de’ pe; l’urtiga,impusebli scavidéla: mo me a-n lasantiva gnénca, l’éra com ch’a-rturnesstarpigna com da burdëla [selvaticacome da bambina]: i fur i-n mi dulivaprópja, enzi i-m féva guæsi ben…

Ch’ilt adësa i éva pérs davéra lapazenzia: i bastmiéva da dla:

– Ché ch’ la circarà che u-n gn’ègnent; l’aspëta ch’u i chesca una téglagiù ma la tësta! –

Sól lu u-s déva pæsa; u paréva dìcvel ch’a panséva me:

– A stam [stiamo] acsì bæn a cve: a-z dem pæsa, a n’an nisuna frëcia [fret-ta].–

Incantæt, u guardéva l’orizont, egieu i grep, al vali, e pu i munt, pieu

sla curiosità [più con la curiosità] chela nostalgia, parchè a la su età u s’apieu voja ad scuprì che ad arcurdæ.Par fa quel ch’u fa tot i burdel, uchiapéva pasion a tirè gieu me grepun sas döpa cl’ ælt, fin ch’i-n sparivatra la machia. E ogni vólta ch’u dévae’ vól ma un, sl’öch’ u-l cumpagnévapar amsurè la su fôrza, int la scumesad’andê’ sæmpra piò da lóng.

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9la Ludla

Nota ortograficaCon il segno æ si rende una vocale molto chiusa intermedia fra la e e la a;con il segno eu una e velare.Per il resto si usano i segni della grafia della «Ludla», quantunque vadano letti più chiusi di almeno un tono rispetto alle parlatedella pianura, e le nasalizzazioni siano molto deboli.

La responsabilità delle traduzioni tra parentesi quadre è da ascrivere alla Redazione.

A pirdema e’ temp tut du sænza savé e’ parchè e parcom, [e il per come] senza dæc [darci] fastidi da un e cl’ælt.

Ad un cert punt a inzampet [inciampai] int una cósach’la ’rlusiva tramëz l’érba: un ramajôl! un pöri ramajôlad alumigni. E’ manch spizét l’éra stæt giustæt a la mej ala peg [peggio] s’un pëz ad spranga [fil di ferro] (adësa tutaruznita), par pudél arduprël [poterlo riadoperare].

Int l’inchæv [incavo] u s’éra ardot una gemna [giumella]ad acva: u i sbativa agl’éli una mosca viva, u i galigévaænca una fujina ad róra [rovere].

Ad che mumænt u-m travirset l’amna me côr[l’animami attraversò il cuore]: sobti a m’i ’maginet [mi immaginai]cvænt labri al s’i sarà bsinéti [avvicinate] ma che ramajôl!

A vreb vlut avdé al su faci [facce], savé com i-s la pasévaa le dov’ j éra… A-n pudet lasêl [non potei lasciarlo] dovl’éra com gnent, e al cujet só[lo raccoli]: che goc ad acvala-m caschet sóra i pe, la mosca la fot lebra ad ciapà e’vól. A fut par arbutêl via [fui lì lì per ributtarlo via], e pu ala fæn a-l tulet su, sal meni ch’al triméva com ch’al stespar rubè.

Cvant i m’avdet ch’élt [gli altri]i schiupet de’ ridi [scop-piarono dal ridere]:

– Dove vai con quell’immondizia?! –Sol lu, e’ mi fjól, ch’l’à un rispët par i santimænt ad

ch’ilt ch’u bsogna avdé, u-m difindet:– Lasciate che lo prenda con sè, che male c’è?! –Ænca se parec i-m dis ch’a so ancóra gióvna a

cunfront… me a jò fat in temp ad bé m’un ramajôl comaquël: u s’impuzéva [immergeva] int l’orcia dl’acva frescaapæna tiréta so de’ poz. Che buti [che bevute]!

A vlì met e’ ramajôl e un’ ôrcia, sla böchia [con la botti-glia] dl’acva minerëla e e’ bichier ad plastica?!

Me a jò fat in tæmp ad avdé ænca al pgnati, i ghiem, ee’ pajól [le pentole, i tegami e il paiolo] sal töpi [con le toppe],in gir par chésa. U j éra un imstér [un mestiere]una vôltach’u-s chiaméva [chiamava] “e’ stagnin”, ma che ramajôll’éra stæt giustet com u-s pudiva [come si poteva, alla menpeggio] da un dla chésa [casa]: forsi u-n gn’éra gninca ibajoch par e’ stagnin…

Giuliano Giuliani, E’ ramajôl, maggio 2006.Matita su carta, cm. 25 x 35.

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10 la Ludla

Grazie a Giorgio Lazzari e al Ponte Vecchio

Un nuovissimo dizionario

dell’avifauna romagnola

ordinata secondo i nomi dialettali

di Gianfranco Camerani

Il titolo di quest’opera prestigiosa– Dizionario ornitologico romagnolo –può trarre in inganno: qui non sonosolo censiti gli uccelli stanziali inRomagna e quelli che si fermano danoi più o meno occasionalmente du-rante la migrazione; in questo dizio-nario gli uccelli sono ordinatialfabeticamente secondo i nomidialettali: i nomi che usavano i no-stri vecchi e che ai miei tempi s’im-paravano da ragazzini, ascoltando spe-cialmente i discorsi dei cacciatori:

“Un vêrgh ad canarul [marzaiole]…j à dê una strisêda sóra e’ cêr e pu j èandé a butês in pgnéda. U j à truvéBerig1 int e’ Bivdór Grând…”

E noi lì a bere i nomi degli uccelli,il gergo dei cacciatori e la toponoma-stica epicòria, così squillante e densadi storia: al Bofli, la Caléra de’ Mëz, alPiguröti, la Mëza Lona, tutti nella Pi-neta di Classe. E per quanto riguardail gergo, un vêrgh era un consistentestormo, ancora fresco d’arrivo, men-tre un ciap era un branchetto, e lastrisêda un passaggio, basso soprail chiaro, di uccelli che però nonsi posavano. Il cacciatore di vallestrologava per sottilissimi segnil’intenzione degli uccelli di posar-si o meno, e si comportava di con-seguenza.

Magari gli uccelli erano calatiindotti dal richiamo del cac-ciatore. La fabbricazione e l’uso deirichiami sonori era artesofisticatissima: ogni specie ri-chiedeva il proprio, naturalmente;quello per le marzaiole era un cu-rioso strumento di legno e cannache produceva un crech crech…

Inutile chiedere ai cacciatori difarteli provare! Ne erano gelosis-simi! Li tenevano come cose pre-ziose nelle capaci tasche dellasacona, la giacca di velluto dallagrande tasca posteriore, che era co-mune a tutta quella popolazione unpo’ selvatica di cacciatori, pescato-ri, raccoglitori di erbe eduli e mol-luschi, che appena poteva, pra-ticava la valle, la pineta, la mari-na come ambiente d’elezione.

Potrà scusare il lettore questo

fuori campo? ...Ma è anche colpa del-l’Autore che quasi ad ogni voce tro-va l’occasione per condurci a rivisi-tare situazioni che un tempo eranoparte vitale della cultura popolare eadesso – ahinoi – rimangono nellamemoria dei vecchi; o patrimonioletterario da viversi nei libri o nei di-zionari come questo, appunto, checoglie in pieno la lezione del voca-

bolario di Libero Ercolani: non merenomenclature, ma lacerti di esperien-za condivisa da una comunità. Per-ché non era, naturalmente, solo espe-rienza del cacciatore che “dietroall’uccellin sua vita perde”2: tutti era-no commossi dalla leggiadria degliuccelli: dal contadino che, tornato suicampi per le opere dei marzatelli,s’inebriava al canto dell’allodola

cirlona (la “allodetta che in aere sispazia”3), alla ragazza intenta allafienagione che chiedeva a e’ cochda la bëla vósa quanti anni dove-va attendere prima di andar spo-sa, o al vecchio che, assai più me-stamente e con contraria aspet-tativa circa il numero dei cu-cu,chiedeva quanti anni gli restas-sero da vivere.

Ma il comportamento degli uc-celli dava anche utili indicazioniper strologare l’andamento sta-gionale, e con ben più precisio-ne, la meteorologia della giorna-ta, come notava Leopardi e DersùUzalà nell’indimenticabile film diAkira Kurosawa. Anche di questiaspetti il Dizionario non manca didar conto.

Ora però non vorremmo che illettore credesse che questo indul-gere agli aspetti della tradizionepopolare escludesse il rigorescientifico. Il Lazzari individuacon sicurezza tassonomica i nomiscientifici e, in aggiunta alla de-nominazione italiana, dà anchevari nomi stranieri, com’è giusto,poi, per uccelli che spesso vanta-

La copertina del dizionario di Giorgio Lazzari (respon-sabile della gestione dell’Oasi Punte Alberete-ValleMandriole nel Ravennate) cui si deve un altro presti-gioso Dizionario Botanico Romagnolo (Edizioni Mistral,Ravenna 1996) anche esso illustrato da Nerio Poli.Bella anche la presentazione di Attilio Rinaldini.

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11la Ludla

no una cittadinanza europea, quan-do non anche mediterranea ed afri-cana.

Non si prenda questa completezzacome un indulgere all’erudizione: inomi non sono “purissimi accidenti”e spesso danno utili indicazioni sulsoggetto. Per rimanere alle marzaiole(da noi i canarul, con probabile rife-rimento alla vegetazione dell’ambien-te vallivo che preferiscono) giova sa-pere che queste piccole anitre, in cer-te parti della Toscana, sono dettecrecche o creccole, con riferimento alrichiamo che producono.

Insomma dobbiamo dire grazie aGiorgio Lazzari che dopo il Diziona-rio Botanico Romagnolo (1996) com-pleta con questo Dizionario Ornito-logico un “monumento”, nel senso eti-mologico della parola, alla cultura po-polare romagnola.

Se dopo tanti apprezzamenti ci po-tessimo permettere di rilevare un neo,indicheremmo una non sempre coeren-te corrispondenza fra la grafia e la fone-tica per quanto attiene la zona di pia-nura in sinistra del Savio compresafra Ravenna, Forlimpopoli, Forlì,Lugo e Faenza. A questo riguardo sipoteva forse fare qualcosa di più; e ci

auguriamo che in occasioni di futureedizioni (che non dovrebbero man-care neanche questa volta) si possaprendere in considerazione anchequesto aspetto. Siamo tuttavia i pri-mi a capire quanto arduo sia stato ilcompito del Lazzari, costretto a distri-carsi fra vari vocabolari, dal Morri(1840) al Masotti (1996) e ognunocon un suo particolare criterio orto-grafico!

L’Autore confessa infine un’inci-piente passione per l’etimologia; cene rallegriamo, certi che per questavia possano venire cognizioni utilinon solo in campo linguistico. Al ri-guardo ci permettiamo di avanzareun’ipotesi. Nel Ravennate il germanoreale è detto zison (o anche zizon, conassimilazione della s alla z), ma la de-nominazione non si estende sorpren-dentemente alla femmina, detta sem-plicemente l’anadra, dal promiscuo janëdar; il che incoraggia l’ipotesi cheil nome del maschio faccia riferimen-to a qualcosa che la femmina nonpossiede. E allora la mente va subitoal latino CAESIU(M): quel colore in-certo fra il verde e il celeste (moder-namente scelto come nome di unminerale di tal colore) che i latini

usavano soprattutto per denominareun colore degli occhi4, ma forse an-che per la testa iridescente verde-az-zurra del germano: un ipoteticocesone divenuto in romagnolo Zison,secondo il comune transito CENA(M)>‘zena’; CENTU(M) > ‘zent’; CAESAR >Cesar>Zésar o Zézar…

Infine la transizione e>i in zisonubbidisce alla regola che vuole da noile e e le o sempre toniche, di conse-guenza le atone sono costrette a trasfor-marsi (Cesena>Cisena) o a sgombe-rare (Mezzano > Mzân).

Non vi pare che la conoscenza diquesto passato renda il nome moltopiù suggestivo e quasi poetico?

Note

1. Berig fu il principe dei cacciatori diCastiglione di Ravenna. E quando vendettela sua mitica cagna, la Vally, accogliendoalfine un’offerta tale che un bracciantenon poteva permettersi di rifiutare, coiproventi si comperò la casa dove poi vis-se fino alla morte.

2. Dante Purg., XXIII, 33. Dante Par., XX, 734. (D’Annunzio, Alcyone, Il Fanciullo, V:

“e se gli occhi tuoi cesii han neri cigli…”)-

Se u v’ aves da pizghêr

e’ nês…

di Loretta Olivucci

Gnit ad piò fàzil, adës che la primavira “brilla nel-l’aria e per li campi esulta”, mo la impines nench e’mònd ad pollini…I nost vec, che i pollini i-n savéva scvési cvel ch’e’fos, i pinséva che ste scadurin e’ fos, in realtê, un signêld’un caich cvël ch’l’éra a le a le par zuzédar.La Dina ad Piron (Masa Castël), la pureta, ch’la jérala mi suocera, in sti chés la dgéva:

U-t pezga e’ nês:o pogn o bés,o letra in viaz,o tësta a ca de’ c…

Vincent Van Gogh, Primavera (particolare).Olio su tela, cm. 73 x 92.Amsterdam, Van Gogh Museum.

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12 la Ludla

[Continua da pagina 1]L’Assemblea ordinaria della “Schürr”

Per quanto riguarda la linea della “Schürr” e del suo pe-riodico «la Ludla», tutta tesa all’unificazione culturaledella Romagna nell’accoglienza e condivisione di tutte leparticolarità linguistiche e culturali della nostra terra, ilconsenso è stato unanime, come pure per la scelta ribaditanel 2000 e mai rimessa in discussione di lasciare la politica“guerreggiata” a chi già la fa. Unanime pure l’apprezzamen-to per le metodologie di gestione del sodalizio, nel rispettopuntiglioso della collegialità e della trasparenza.

Ed ecco come i cento votanti (soci presenti e rappresentati amezzo delega) hanno distribuito le otto preferenze a disposi-zione: Gianfranco Camerani 93; Oriana Fabbri 71; GiovanniGalli 65; Carla Fabbri 63; Giovanni Assirelli 61; Vanda Budini56; Domenico Melandri 50; Rosalba Benedetti 49; GiacomoDonati 44; Franco Fabris 32; Giovanna Morigi 28; OmeroMazzesi 27; Romano Casadei 24; Marino Monti 23; LinaMiserocchi 17; Aurelio Fabbri 12; Paolo Grilli 12. I primi 13andranno a formare il nuovo Comitato direttivo.

Due racconti

di Rino Salvi

nel dialetto di Poggio Berni

e due disegni di Francesco Verlicchi

Ecco parchè

U j è stè un mumént che se a-m mitòiva a zcòr i-m stéva da sintòi [mi ascoltava-no], pu, pianin pianin, t’at n’incorz che chilt i di sé [dicono di sì] sla tèsta per fètcuntént, mo, péna t’at fermi un sgond per tô so e’ fiè, i-t taja e’ zcàurs e te t’arvènza lè…Alaura l’è mej stè zet. Te t’an t’incaz e luilt j è lébri.Ecco parchè a-m so mès a zcòr da par me, a-m stagh da sintòi e pu a m’arspònd.Dal volti a-n faz gnenca la fadoiga ad arvoi la boca, tènt a capés l’istès.Per arcurdèm quèl ch’a-m so dét, al scroiv.Me, da par me, a zcor in dialèt, l’è cmè ès néud [è come essere nudi], u-s void tot etè t’ci prôpi tè.

E’ Vardàun

– Rino svegti, l’ è môrt e’ Vardàun! –A i vloiva prôpi ben me Vardàun.U-m ciapèva tla brazèda, u-m mitoiva a caval e pu u-m gioiva:– Dì “putèna” ma la tu ma che a quasò la-n-t fa gnént.–Mu mè u-m paroiva da ès te zil, però a-n gioiva gnént [io non dicevo niente], parchèsinò, quant ch’a s-ciandòiva…!E pu e’ Vardàun l’à spusè la Delina e j à avù Renzo.E dop ad Renzo e’ Vardàun l’à compri la Triumph, una motociclèta ingloisa ch’laféva voja ad côr soul a guardèla.I paroiva ch’i fôs néd insén.E pu cla matoina…– L’à guèrs di dri [ha guardato dietro] per avdoi s’l’annoiva so qualcônsa [per vederese veniva su qualcuno], mo u n’à guèrs davènti… – e’ gioiva [diceva] e’ mi ba.Mu me u-m scapèva da piénz, cmè quant ch’l’è môrt Renzo, trop zomni [giovane],e s’un burdèl ad set an ch’a m’e’ so trôv tla scôla e l’éra e’ Vardàun spudèd.

Con questi due racconti, Rino Salvi inizia la sua collaborazione a «la Ludla».Insegnante da tempo impegnato anche sul fronte del dialetto, ora in pensione, può forse trovare un po’ di tempo anche per la nostrarivista, lui che, oltre a scrivere, ha anche esperienza di grafica editoriale. Questo, il voto della redazione.

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13la Ludla

Pubblicate per la prima volta in volume

Sette commedie

di Bruno Marescalchi

di Sergio Agostini

Dalle Edizioni del Girasole civiene questo Teatro di Bruno

Marescalchi curato da GiovanniMorgantini e Paolo Parmiani; un

libro che raccoglie i copioni dicelebri commedie romagnole fra

cui La Burdëla Incajeda, Lamân de mél e La ca ’d Sidori

che sono testi giustamente famosi.Ma il libro offre anche copionimeno noti, come l’atto unico

A la stazion e L’insognraramente rappresentati.

Giova dire che la conoscenza diMarescalchi, se si escludono gli

addetti ai lavori, è stata possibilesolo attraverso le rappresentazioni

teatrali dal momento che questolibro, a ricordo d’uomo, è la

prima iniziativa editoriale checonsente di avvicinare l’autore

attraverso la pagina scritta, che èpoi un elemento indispensabile per

valutare appieno un’opera.Non vogliamo con questo

sminuire l’importanza dellarappresentazione teatrale; dicia-

mo semplicemente che si tratta didue strade, convergenti al fine,

ma distinte. Ben venga da partedel meritorio Editore una succes-

siva edizione che proponga icopioni ancora inediti.

Giovano assai alla conoscenzadell’autore sanzaccariese

la prefazione di GiovanniMorgantini che si sofferma

soprattutto sulla biografia e ilsaggio di Paolo Parmiani che

prende in considerazione i proble-mi della teatralizzazione dei testi.A lato pubblichiamo una testimo-

nianza dell’architetto SergioAgostini che certo su

Marescalchi, per esperienzadiretta, ne sa più di tutti noi.

C.F.

Ebbi occasione di conoscere il farma-cista Bruno Marescalchi più di 70 annifa a San Zaccaria. Il suo sguardo pacatoè rimasto nella mia memoria come èsuccesso per il geometra Maioli (attorenella “Ravgnana” che è la nostra Com-pagnia dialettale la quale ha utilizzato isuoi copioni per anni). Allora, Ma-rescalchi e Missiroli (il commediografoche ci ha dato la “Rumagnola”) face-vano un gran discutere delle due este-tiche dominanti: quella di Aristotele equella di Croce. Io allora non sapevonulla di queste cose perché ero moltopiccolo e ascoltavo stupito il loro dire.Ora, rileggendo i loro testi, credo cheloro avessero concluso che le due este-tiche potevano coesistere perché il sen-timento era il sentimento della naturaumana. Soprattutto in Marescalchi ilverosimile ritorna ad essere tale proprioperché si realizza nell’inverosimile, in-fatti il quotidiano in alcuni momentidella nostra vita viene agitato o costret-to dall’eccezionale. Questo ecceziona-le emerge nella famiglia romagnolascossa dall’innamoramento dei giova-ni. Soprattutto il teatro di Bruno trattadi continuo la diversa problematica del-l’innamoramento nelle famiglie roma-gnole dagli anni Trenta agli anni Ses-santa. Ma il verosimile esige uno stu-dio approfondito della natura umanache doveva essere interpretato dal vero.Ciò emerge di continuo nella coerenzadei suoi personaggi i quali si pongonodavanti a noi come persone vive, raffi-gurati plasticamente nelle vivaci sce-ne. Ancora grande attenzione Mare-scalchi ha prestato al dialetto roma-gnolo mettendo in evidenza i suoi modidi dire e le sue splendide metafore chesi sono consolidate nel nostro linguag-gio comune. A tutto ciò dobbiamo ag-

giungere una scorrevolezza del discorsoche ha affascinato i nostri attori. NegliAnni Settanta la “Ravgnana” entrò incrisi proprio perché mancavano nuovicopioni e Chiarini, allora direttore dellacompagnia, mi avvicinò perché parlas-si con il prof. Icilio Missiroli per con-vincerlo ad andare a Bologna per par-larne con la sorella del nostro comme-diografo. La sorella non si convinse. Oranel centenario della sua nascita la pub-blicazione di 7 tra le sue 22 commedierintracciate costituisce già un ricono-scimento del nostro autore, ma forse sipotrebbe anche arrivare a pubblicaretutta la sua produzione e, io penso, in-testare una strada a Marescalchi. Nondico una piazza o un monumento comeVenezia ha fatto per il suo Goldoni.Goldoni ebbe certamente più fortunaperché il dialetto veneziano era allorala lingua europea!

La copertina del volume del Girasole.

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14 la Ludla

L’avuchêt Sivio Camarân

in una rievocazionedi Massimo Stanghellini Perilli

Fra i personaggi dellavecchia Ravenna che per

eccentricità e spavalderia siproponevano all’attenzione(che in questi casi è sempre

un po’ ammirazione e unpo’ critica) dei concittadini,Silvio Camerani ebbe certo

un ruolo di primo piano.Di lui parla il compianto

Massimo StanghelliniPerilli, che di «la Ludla» fu

collaboratore e della“Schürr” socio onorario, in

due suoi libri: “Evviva lacaccia” (Edizioni del Gira-sole, Ravenna, 1990) e in

“E’ prénzip pretôr” (sempreEdizioni del Girasole,

Ravenna, 2000).A dire il vero, nel primocaso (pp. 70-72) Silvio

Camerani è indicato come“l’avvocato C.”, mentre

nel secondo (pp.120-123)se ne dà il nome per esteso,

seppure dialettizzato nelcognome: Silvio Camarân.

La bella foto vienedal fondo fotografico del-l’avvocato Paolo Poletti,

messo a nostra disposizionedal consocio professor Piero

Malpezzi di Brisighella edalla gentilissima

signora Giovanna.La foto scattata nel 1903ritrae l’avvocato quando

ancora “l’éra stil còma unasaraghena” e spavaldamente

si firmava “Voltaire”.Il pezzo che riportiamo conlicenza del cortese Editore

fa parte del racconto Lasulfamigazion che si trova

nel già citatoE’ prénzip pretôr.

Gfr.C.

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15la Ludla

“Prèma dla prèma guera mundiêla,a Ravèna u j’era quatar zuvnot che e’su pasatemp l’éra ad divartis a sfòtare’ prösum: Silvio Camarân, AmedeoFarena, Antoni Stanglen e Nino Tò-macelli.

Silvio Camarân e’ staseva in che bëlpalaz in ângol tra via Cavour e PonteMarino, Amedeo Farena in via Sa’Vidêl, Antoni Stanglen in cla bela caveneziana in via Paolo Costa e NinoTomacelli l’éra quel dla farmazì in viaMazzini.

J’era tot amigh, mo Camâran eFarena i l’éra d’ piò.

Alóra j’era stil còma do saraghen,mo pu döp j’è cambiè: e’ prèm l’ave-va mes so una pânza icsè grânda ch’unariveva piò a ptunes al scherp es’l’avéva bsogn d’andêr in taxi, quandch’ l’arivéva e bsugneva tirêl fura pr’ipi; e’ sgond l’éra armast còma unagarnê.

Tot du j à fat una gran cariera: e’prèm l’è dvintè minestar plenipoten-zieri1, e’ sgond president dla Casa d’Sparâgn.

Par divartis j’avéva fundê un giur-nêl: e’ «Corriere di Romagna», cunla séd int una camaraza in via XIIIGiugno, int è palaz in angôl cun viaPaolo Costa indov ch’u j’era latipografì d’ Pollini.

I fasèsta i j’espropriè; a e’ giurnel i jcambiè e nòm e e’ dasè fura “La San-

ta Milizia” cun diretór prèma Gam-berini e pu Somazzi.

Mo e’ giurnêl un fo piò lo.E’ “Corriere di Romagna” l’éra in-

teligent, malegn e scret ben, in pêrtséri e in pêrt par sfotar e’ prösum.

Par la fësta ad Feragost, la “Crona-ca di Ravenna” la prinzipieva:

“Ferragosto, giorno di festa, aRavenna si vive bene: sono partiti perla villeggiatura… E zo i nom d’ toti alparson antipatichi.

La redazion l’aveva quatar scaran,una têvula, una màchina da scrìvare, dri dla têvula, apugêda a la muraja,òna d’ cal librarì cun l’êrc par infilejla scarâna.

Ai du zuvnot la redazion la isarvéva, quând ch’u-s putéva, nencapar zért servizi, còma i dgéva i rafiné,par garconnière , e i fasesta, cun la sumanì d’ tradùsar tòt in itagliân“ganziera”.

Amedeo Farena l’era piò intrapren-dent d’e’ su amigh e e’ sfrutéva piòtant la redazion.”

[…]“Un’êtra pasion dl’avuchêt Camarân

l’éra la caza, mö cla caza speciêla ch’l’éra e’ rastël in pgnéda.

Nö quela int e’ còc o in tinëla o lapösta al lodal cun la zveta, indóv ch’u-s sta sèmpar insdé.

A e’ rastël è bsogna caminê’ sèmpar

e no pérdar la linea cun chj étarcazadur.

Par l’avuchêt l’éra una fadiga damat, mò lò u-n muléva; sól che, cuncal gambazi, a forza d’ caminê’, fra calcusazi, u s’i faseva al sfargaj.

Alora e rugeva: “Fermi tutti!!!” e èrastël u s’afarméva. L’avuchêtCamarân è tireva fura da la saconaun scartoz ad gras d’ porc, u-s tirevazo i bragon e u-s sfarghéva l’intérandal cös.

E e’ rastël u s’inviéva.A la mëza, e’ rastël, arivê a la Ca

Vëcia o a la Ca Nôva, u-s farmévapar la clazion.

E’ Baron l’aveva za praparê e’ fughpar al brasul.

L’éra un bël mument par tot, furache par l’avuchêt.

I prèm bichir d’ ven, i cument, dê’la cartaza a i buvér, tni da stê al brasulch’al sfriguléva int la gardëla….

Camarân, s-ciantè da la lòngacaminêda, u-s sbarandléva in tëra. Ealóra e’ sölit fenòmen: tot i cân de’rastël i cureva a lichê’ e’ strot che, cune’ calór, e daseva fura da i bragondl’avuchet Camarân.”

Note

1. Nella carriera diplomatica il gradodi ministro plenipotenziario è secondosolo a quello di ambasciatore. A loro siaffidano le ambasciate di secondo livello.

Illustrazione di Mario Lapucci tratta da Evviva la caccia

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«la Ludla», periodico dell’Associazione Istituto Friedrich Schürr, distribuito gratuitamente ai sociPubblicato dalla Società Editrice «Il Ponte Vecchio» • Stampa: “il Papiro”, Cesena

Direttore responsabile: Pietro Barberini • Direttore editoriale: Gianfranco CameraniRedazione: Paolo Borghi, Antonella Casadei, Gilberto Casadio, Danilo Casali, Franco Fabris, Giuliano Giuliani

Segretaria di redazione: Carla Fabbri

La responsabilità delle affermazioni contenute negli articoli firmati va ascritta ai singoli collaboratori

Indirizzi: Associazione Istituto Friedrich Schürr e Redazione de «la Ludla», Via Cella, 488 • 48020 Santo Stefano (RA)Telefono e fax: 0544. 571161 • E-mail: [email protected] • Sito internet: www.argaza.it

Conto corrente postale: 11895299 intestato all’Associazione “Istituto Friedrich Schürr”

Poste Italiane s. p. a. Spedizione in abbonamento postale. D. L. 353/2003 convertito in legge il 27 / 02 / 2004 Legge n. 46 art. 1, comma 2 D C B - Ravenna

Fôl

Da babin, còm ch’l’uséva, i-m dgéva al fôle piò d’na fôla la m’indurmintéva;cun l’aqua e de’ savon i-m faséva al bolche pr’un mument int l’êria al starluchéva…

Un temp ch’l’è fni quând ch’l’è cminzêdi al scôl,mo a la Befâna incóra me a i cardéva;e quel che a caminê e’ strusciè sët sôlch’l’éra un atléta in gâmba, me a pinséva.

A pös crédar al strigh e nenca a i mégh,crédar int e’ vampiro o a e’ lop cativ,a l’Araba Fenice e nenca a i drégh,

a i fauni che int e’ bösch i sóna al piv;mo a-n créd a quel ch’i dis pr’agli elezion:ch’a so un pataca, sé, mo nö un cvajon!

Un sonetto di Giorgio Bellettini

Premuti da una sequela d’appuntamenti elettorali in un clima di esacerbate animosità con contrapposizioni muso amuso anche sul tema essenziale della costruzione della casa comune degli italiani (un tema che un tempo ci unìseppure a fatica), inondati da promesse di ogni genere, non pochi di noi stanno esaurendo la propria buona lena.Che sia il caso di sdrammatizzare azzardando a sorriderci sopra?«la Ludla» ci prova con questo sonetto che Giorgio Bellettini ci inviò tempo fa e che prende spunto dalla voglia difiabe, dalla fervida immaginazione e dall’ingenuità propria dei bambini di sempre.

Paolo Borghi

FavoleDa bambino, come si usava, mi raccontavano favole \ e più di una favola mi addormentava; \ con l’acqua e del sapone mifacevano le bolle \ che per un momento luccicavano nell’aria… \\ Un tempo che finì quando sono iniziate le scuole, \ ma allaBefana ancora io credevo; \ e l’uomo che a forza di camminare logorò sette suole \ che era un atleta di valore, io pensavo. \\Posso credere alle streghe e anche ai maghi, \ credere nel vampiro o al lupo mannaro, \ all’Araba Fenice e anche ai draghi, \\ai fauni che nel bosco suonano le pive; \ ma non credo alle promesse fatte per le elezioni: \ che sono un ingenuo, sì, non uncoglione!