Copia di Ludla Nov-Dic 13-Colore:Layout Ludla d’inquietudine per il consu-marsi delle cose, Coma...

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la Ludla 1 “Poca favilla gran fiamma seconda” Dante, Par. I, 34 la Ludla (la Favilla) Periodico dell’Associazione “Istituto Friedrich Schürr” per la valorizzazione del patrimonio dialettale romagnolo Autorizzazione del Tribunale di Ravenna n. 1168 del 18.9.2001 Questo numero è stato realizzato con l’apporto del Comune di Ravenna Società Editrice «Il Ponte Vecchio» Anno XVII • Novembre-Dicembre 2013 • n. 10 SOMMARIO A Nevio Spadoni il premio Guido Gozzano di Paolo Borghi Il soggetto (sottinteso) di Erika Corbara Il posto del romagnolo nell’area linguistica europea di Veronica Focaccia Errani Il Natale della Ludla Due storie natalizie E’ fònd dl’uspidæl di Rino Salvi Le figure magiche nelle fiabe popolari romagnole II - L’orco di Cristina Perugia Parole in controluce: dè ment Rubrica di Addis Sante Meleti Gögia, cöch sèch e pìrule di Giuliano Bettoli Gian Bruno Pollini - Pulinèra in cusèna di Addis Sante Meleti Stal puiðì agli à vent... E’ Babin di Paolo Borghi p. 2 p. 4 p. 5 p. 6 p. 8 p. 9 p. 10 p. 11 p. 12 p. 13 p. 14 p. 16 Il nostro Giuliano Giuliani per gli auguri di fine anno ci regala quan- to di più tradizionale potevamo attenderci: un’intensa e commoven- te rappresentazione della Natività, una simbologia di alto valore che egli ritiene possa costituire un punto d’incontro fra credenti e non credenti: i primi la vedranno come uno dei capisaldi della loro fede e gli altri come un suggestivo evento profondamente radicato nella nostra cultura. Agli auguri di Giuliano si unisce l’intera redazione della Ludla. Auguri ai lettori Novembre - Dicembre 2013

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la Ludla 1

“Poca favilla gran fiamma seconda”Dante, Par. I, 34

la Ludla(la Favilla)

Periodico dell’Associazione “Istituto Friedrich Schürr”per la valorizzazione del patrimonio dialettale romagnolo

Autorizzazione del Tribunale di Ravenna n. 1168 del 18.9.2001

Questo numero è stato realizzato con l’apporto del Comune di Ravenna

Società Editrice «Il Ponte Vecchio» Anno XVII • Novembre-Dicembre 2013 • n. 10

SOMMARIO

A Nevio Spadoni il premio GuidoGozzanodi Paolo Borghi

Il soggetto (sottinteso)di Erika Corbara

Il posto del romagnolo nell’arealinguistica europeadi Veronica Focaccia Errani

Il Natale della Ludla

Due storie natalizie

E’ fònd dl’uspidældi Rino Salvi

Le figure magiche nelle fiabepopolari romagnole II - L’orcodi Cristina Perugia

Parole in controluce: dè ment Rubrica di Addis Sante Meleti

Gögia, cöch sèch e pìruledi Giuliano Bettoli

Gian Bruno Pollini - Pulinèra incusènadi Addis Sante Meleti

Stal puiðì agli à vent...

E’ Babindi Paolo Borghi

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Il nostro Giuliano Giuliani per gli auguri di fine anno ci regala quan-to di più tradizionale potevamo attenderci: un’intensa e commoven-te rappresentazione della Natività, una simbologia di alto valore cheegli ritiene possa costituire un punto d’incontro fra credenti e noncredenti: i primi la vedranno come uno dei capisaldi della loro fede egli altri come un suggestivo evento profondamente radicato nellanostra cultura. Agli auguri di Giuliano si unisce l’intera redazione della Ludla.

Auguri ai lettori

Novembre - Dicembre 2013

la Ludla2

Ogni iniziativa volta ad affrancare lapoesia neodialettale dalla tassativacondizione d’inferiorità e di suddi-tanza nei confronti di quella in italia-no, fino a poco tempo fa – e nellamaggior parte dei casi – s’è scontratacon l’ottusa barriera di preconcetti,chiusure mentali ed emarginazioneche nei fatti vessava la produzionedialettale, usualmente valutata acces-soria e di irrilevante impatto formati-vo, quando non proprio grossolana esguaiata.

Convinzioni, queste, prive di accetta-bile fondamento e sfatate dall’odierna– e per molti versi singolare – ascesain Italia della poesia dialettale, per cuila sua piena, legittima equiparazione aquella in lingua, già propugnata enon da oggi dai cultori e dagli estima-tori d’idee più evolute, s’è venuta viavia a diffondere, tanto da elevarsi aconquista ormai indiscussa e tale dafarle acquisire credito presso case edi-trici che – con sporadiche eccezioni –l’avevano in precedenza disdegnata.

Novembre - Dicembre 2013

A Nevio Spadoni

il premio Guido Gozzano

di Paolo Borghi

Nato a San Pietro in Vincoli,vive a Ravenna, ed ha esordito

come poeta dialettale nel 1985con il volume “Par su cont”

(Ravenna, CooperativaGuidarello), l’anno seguente

con l’editore Longo di Ravennapubblica il suo secondo libro:

“Al voi” cui fa seguito nel 1989“Par tot i virs” (Udine,

Campanotto) e nel 1991 “Acaval dagli ór” (Ravenna,

Longo). Nel frattempo riceve ilPremio Boncellino (1984) e

qualche anno dopo il PremioLanciano per la poesia inedita.

Nel 1994 pubblica con laravennate Edizioni del Girasolela raccolta “E' côr int j oc”. Del

2007 è “Cal parôl fati in ca”(Rimini, Raffaelli Editore)

volume che raccoglie lepubblicazioni precedenti, e che

comprende una parte ineditadal titolo “I Sgrafegn”, con laprefazione di Ezio Raimondi.

Gli ultimi lavori pubblicatisono “Un zil fent” (Il Vicolo,2010) con la prefazione di L.

Benini Sforza e “Fiat Lux”(L'Arcolaio 2011) presentato da

Alberto Casalboni.Con Luciano Benini Sforza, hacurato l'antologia “Le Radici e

il Sogno. Poeti dialettali delsecondo Novecento in Romagna”

(Faenza, Mobydick, 1996).Ha edito i seguenti monologhi

teatrali: “Lus”, “La Pérsa”,“Sta nöt che al vós”, “L'isola di

Alcina e Galla Placidia”,raccolti in Teatro in dialetto

Romagnolo (Ravenna, Edizionidel Girasole, 2003). Ancora

suoi sono “Francesca DaRimini”, “Ridono i Sassi ancordella città”, “Teresa Guiccioli e

Lord Byron: un amore”.Nel 1995 gli viene assegnato il

“Tratti Poetry Prize” per “E' côrint j oc” e nel 2000 il testo“L'isola di Alcina” riceve lenomination al premio Ubu

come migliore novità italiana emiglior spettacolo dell'anno.

la Ludla 3Novembre - Dicembre 2013

Il tutto con l’odierno beneplacitodei critici più accreditati e quasicontendendo alle opere in lingua ilsupporto di una platea di lettorinon più soltanto periferica manazionale se non addirittura cosmo-polìta.A tal proposito risulta sintomaticoin Romagna il caso di Nevio Spado-ni, e della sua produzione poeticaintimamente connessa al linguaggiodialettale, un’affinità palesata damolteplici contenuti di grande inci-sività emotiva fra cui trapelanosovente i temi della tradizione edella memoria, assunti che riecheg-giano d’inquietudine per il consu-marsi delle cose,

Coma al scarâñ d’pavira

Cal stêtui d’ mêrumch’ al fa boca da rìdarme a degh ch’agli à sintìal nöst parôl.E’ temp piân piânu gli à scarplêdi.Adës nench al parôlu gli à infusêdi e’ tempcal parôl fati in cacoma al scarâñ d’pavirach’al dgéva e’ mondcvânt che incórau n’pirulévacun la televiðion.

per il disfacimento del paesaggionaturale, per l’azzittirsi degli istinti-vi rituali di comunicazione, soggettiche marcano l’uomo d’oggi metten-do in evidenza tutta una zavorragreve di sconcerto, solitudine e crisidelle relazioni interpersonali.

Sedisti lassus

E’ brot e’ ven d’e’ cânt dla séra nötacvânt che i faron da un pëz i s’è punée u s’sëra j os insanguné pr e’ fredd’un þirandlê ch’u n’cnos staðon nè óra.Ðérbi al parôl sta nöt ch’al t’s’ströza in gólacvânt ‘t’zirch d’ardùðar chi du blëch par cae pu ðmurtê cun do urazion la luðòna dal tânti luð ch’agli è pr e’ mond.Quaerens me sedisti lassustantus labor non sit cassus.E fura e’ temp e’ mânda þo dla néva.

I testi di Spadoni spaziano fra remi-

niscenza e presente senza caderenella trappola di abusati localismi difacciata, e volgono verso più attualiprospettive con la compiutezza diuna poesia, tanto più autentica inquanto testimone e referente del suointenso rimpianto per le cose perdu-te, non vissute,

E a ridaren de’ temp

E i m’ven a dìche j èn i n’pasa in prisias’i s’armes-cia i lens dal nöt biânchicun i tu gnech a e’ dè.L’acva e e’ solj à ariþnì e’ curniðone l’è þa óra che te t’chembia ca.E’ pò dês nench che þo par cl’êtra strêt’senta l’udór de’ pân apèna fat,ch’e’ pësa un care la röda ch’la dëga du vulton.E alóra e’ srà coma turnê tabach:t’at mitiva la bêrba d’furmintone t’saltiva int al scol coma un mat.Int un pirôld’na schêla longaa inciudaren i pëse a lè fìrum coma stêtui d’þeþa ridaren de’ temp ch’u s’à futì.

un rammarico che si fa premessa egenesi del disagio di vivere espressodall’autore in tanta della propriapoesia.

Parchè ch’u s’arvesa un os

Cavël ch’i ðbara

e e’ bðogna murì d’zighendparchè ch’u s’arvesa un ose che un fil d’luð l’arivasóra la porbia.

Dalle sue pagine emerge manifestala dicotomia fra la spinta vitale delpassato e il contemporaneo pessi-mismo di una società globalizzata econsumista, che ci fa vivere in unasorta d’incomunicabilità dallaquale sembra che non desideriamoo non siamo più in grado d’affran-carci, ed è ormai evidente che pro-prio su simili pagine e sulle lorotematiche dense di introspezione einquietudine

FantéÝum

E pu mo avreb þurêche stanöt un cvicadonl’è vnu in ponta d’pi.Bðugnareb vultês da cl’êtra pêrtae fê cont d’gnit,s’t’i dé trop menti n’s’aveia piò.

incombe il mandato di concorrereallo sdoganamento della lirica neo-dialettale – e in particolare di quel-la romagnola – dai diffusi precon-cetti che la segregano da troppaparte a ruoli di marginale quantogrossolano intrattenimento.Nevio Spadoni, dopo aver consegui-to apprezzamenti internazionali conle sue produzioni per il teatro, il 12ottobre di quest’anno è stato insi-gnito dell’autorevole Premio Nazio-nale di Poesia e Narrativa intitolatoa Guido Gozzano.La giuria del concorso, con valuta-zione unanime, ha deliberato di pre-miare la sua raccolta Cal parôl fati inca [v. la recensione in Ludla, luglio’07] considerandola, fra quelle dioltre duecento partecipanti, qualemigliore opera di poesia pubblicataa far tempo dal 2007, ed è quantomai eloquente che il concorso nonprevedesse alcuna distinzione fraitaliano e dialetto, comprovando intal modo che, esternata nell’uno onell’altro linguaggio, la rilevanza, ilpotenziale e l’efficacia della verapoesia sono in ogni caso indistin-guibili.

la Ludla4 Novembre - Dicembre 2013

Come nelle scuole viene costante-mente ripetuto, in italiano il soggettoè in genere sottinteso: ciò vale a direche, nella maggioranza dei casi, non èespresso sintatticamente ma ècomunque deducibile dalla desinen-za verbale.Ciò vale innanzitutto per i pronomipersonali soggetto (io, tu, egli, ecc.)che, se desumibili dal contesto odalla situazione, vengono quindigeneralmente omessi poiché nonsono necessariamente indispensabiliai fini della comunicazione. Al contrario, una loro esplicitaespressione denoterebbe non il sog-getto in quanto tale, bensì una mar-catura dello stesso: verrebbe cioè cosìevidenziato non il soggetto della frasema il fatto che una certa persona enon un’altra abbia compiuto unadeterminata azione. Confrontando leseguenti frasi il contrasto appare evi-dente:

lo sento (frase standard)io lo sento (frase marcata)Con l’introduzione del pronome per-sonale viene così focalizzata l’attenzio-ne sul soggetto: sono io a sentire uncerto qualcosa e non un altro. Lo stes-so vale anche per i seguenti esempi:

scrivi bene tu scrivi bene

ci vadoio ci vado

andiamo al mercatonoi andiamo al mercato

Le lingue che mostrano la tendenzaad omettere i pronomi personali sog-getto vengono generalmente indicatenei manuali di linguistica come pro-drop (dall’inglese pronoun dropping).Appartengono a questa categoriaquindi, non solo l’italiano, ma anchela maggior parte delle lingue roman-ze1 e molte di quelle slave.E il dialetto romagnolo da che partesta? Da un breve esame delle seguen-ti frasi la risposta è subito chiara: neldialetto il soggetto deve sempre essereespresso (l’asterisco prima della fraseindica agrammaticalità).

* l sẽntal sẽnt

* screv bẽnt’screv bẽn

* j vegaj veg

* andẽ a e marchéa jandẽ a e marché

In tabella sono riportati i pronomipersonali del dialetto e dell’italiano:

Non solo: oltre ai normali pronomipersonali soggetto sopra riportati, indialetto sono presenti anche i cosid-detti pronomi doppi (chiamati ancheforti o tonici2) che vengono usati perfocalizzare l’attenzione sul soggetto:

a sò a cà (frase standard)mè a sò a cà (frase marcata)

Con l’introduzione di un ulteriore(per questo quindi doppio) pronomepersonale viene così marcato il sog-getto. Si notino anche i successiviesempi:

a n l’ò vest briðulmè a n l’ò vest briðul

u i vó fêr un righéllò u i vó fêr un righél

Lo schema seguente riassume l’interoinventario dei pronomi personali sog-getto del romagnolo, indicando sia la

Il soggetto (sottinteso)

di Erika Corbara

Erika Corbara, nata a Forlì nel1982, risiede stabilmente in

Germania dal 2009.Laureatasi brillantemente

all’università di Bologna inlingue straniere (inglese, tedesco

e russo) ha poi proseguito ipropri studi a Potsdam

specializzandosi in linguistica. Proprio in Germania ha

riscoperto la propria identitàromagnola e attualmente,nell’università tedesca, sta

lavorando alla tesi di dottoratosulle strutture sintattiche dei

dialetti romagnoli, conparticolare riguardo

al forlivese.

“Parlare tedesco o italianoalla fine per me è la stessa

cosa, ma ogni volta chetorno a Forlì mi sento

sempre più estraneaaccorgendomi che il dialetto

romagnolo viene sempremeno parlato.”

Persona Romagnolo Italiano

1a Sing. a io2a Sing. t tu3a Sing. M.3a Sing. F.

e / u /l’la / l’

egliella

1a Plur. a noi2a Plur. a voi3a Plur. M.3a Plur. F.

ial

essiesse

la Ludla 5Novembre - Dicembre 2013

forma debole (atona), che per regoladeve sempre essere espressa, che quel-la forte (tonica), usata facoltativamen-te per mettere in rilievo il soggetto.

Si assiste cioè, in altre parole, ad unrovesciamento dell’informazionestrutturale3 fra sintassi italiana e sin-tassi romagnola per quanto riguarda

l’interpretazione del soggetto: quellache in italiano rappresenta la formamarcata (cioè col soggetto espresso)viene invece percepita in dialettocome forma normale.io sono a casa ≠ a sò a càio mi ricordo ≠ a m’arcordvoi non c’eravate ≠ a n j sivtaPer rendere la stessa informazione indialetto diventa necessario introdur-re il pronome tonico (facoltativo) chenella sintassi originaria dell’italiano èinvece assente:io sono a casa = mè a sò a càio mi ricordo = mè a m’arcordvoi non c’eravate = vó a n j sivtaDa queste brevi considerazioni risul-ta quindi evidente come le informa-zioni (e le conseguenti implicazionimentali) espresse dalla sintassi roma-gnola non corrispondano a quelleespresse dalle stesse strutture sintatti-che dell’italiano (e viceversa!).

È questo uno dei tanti punti che cidovrebbero portare a riflettere, masoprattutto ad approfondire la nostraconoscenza e comprensione delromagnolo, della nostra originarialingua madre, e contemporaneamen-te a combattere il mito della cosiddet-ta “uniformità”.

Note

1. Fa eccezione il francese2. Per approfondimenti si consiglia viva-mente la lettura dei seguenti testi: - Adelmo Masotti (1999), GrammaticaRomagnola. Ravenna, Edizioni del Gira-sole, pag. 59-60. - Ferdinando Pelliciardi (1977), Gramma-tica del dialetto romagnolo. La lèngva dla mitëra. Ravenna, Longo Editore, pag. 87-90.3. Termine tecnico che indica le infor-mazioni espresse dalla struttura dellafrase (informazione quindi della struttu-ra, ossia strutturale).

Persona

Dialetto Romagnolo

Forma forte(Facoltativa)

Forma debole(Sempre presente)

1a Sing. mè a2a Sing. tè t3a Sing. M.3a Sing. F.

lòlì

e /u / lla / l’

1a Plur. nõ a2a Plur. vó a3a Plur. M.3a Plur. F.

lóló

oal

Il fenomeno sopra descritto dalladott.ssa Corbara per il dialetto roma-gnolo, cioè l'impossibilità di omettereil pronome personale soggetto, è raronel quadro delle lingue neolatine:l'autrice stessa, infatti, precisa che faeccezione il francese.Che dialetto romagnolo e francesepresentino elementi comuni sipotrebbe ricondurre alla loro matricegallo-romanza, ma se si allarga ilnostro orizzonte è interessante notarecome questo fenomeno (assieme adaltri) sia presente in altre lingue euro-pee che però non mostrano legamidiretti di parentela, come inglese otedesco. Per spiegare ciò, in linguistica siricorre al concetto di interferenza:nel corso della storia, le lingue svi-luppano necessariamente elementicomuni in seguito al contatto fra idiversi gruppi di parlanti. Risultaquindi plausibile che in un’areacome l’Europa, dove i rapporti fra legenti sono sempre stati ricchissimi,alcune lingue non immediatamenteimparentate abbiano sviluppato trat-ti condivisi.Tali tratti sono stati oggetto di indagi-

ne di un progetto di ricerca1, e alcunidi questi, la cui combinazione sem-bra caratterizzare in modo quasiesclusivo alcune lingue europee, sonostati presi come parametri per defini-re il “tipo linguistico europeo”. Gli studiosi hanno osservato che ladiffusione di queste caratteristiche èdisomogenea sul territorio: la combi-nazione massima dei tratti si ha nellelingue collocate nell’area centrale,corrispondente in modo approssima-tivo alla regione renana (odierneFrancia, Germania, Olanda e Italiasettentrionale), ritenuta quindi il cen-tro di irradiazione del contatto inter-linguistico, per poi sfumare man

mano che ci si avvicina ai confini delVecchio Continente. Il fatto che il dialetto romagnolo rea-lizzi la totalità dei tratti del “tipo lin-guistico europeo” conferma la tesiesposta dagli studiosi, secondo laquale anche l’Italia settentrionalerientrerebbe nella zona focale. Que-sto, anzi, induce a riflettere su comeanche l’analisi delle varietà “non uffi-ciali”, come i dialetti, spesso trascura-ti, possa fornire interessanti informa-zioni a verifica di ipotesi linguistiche.

Nota

1. Progetto EUROTYP, della European ScienceFoundation.

Il posto del romagnolo

nell’area linguistica europea

di Veronica Focaccia Errani

la Ludla6 Novembre - Dicembre 2013

E’ Nadêl dla Ludladi Arrigo Casamurata

D’in ste mundaz, ch’è queði andé da mêl,u s’êlza sò ‘na pörbia maladeta,ðmasêda da che caos generêlch’u l’ha culpì dafat: com’una ðdeta.

L’è l’eguìðum, l’ödj criminêl;l’è l’ingiustizia, ch’la rogia vendeta;ch’i-n s’ ferma maj, e gnânch e’ dè ‘d Nadêl,e i ciöta a tot la Stëla Banadeta.

Però int e’ bur prufond, a un zert mument,qujcöða, a un trat, d’ilà luntân, l’arluð,calmend un biðinin e’ grân spavent.

L’è un brânch ad brêva þenta ch’la s’arduð;un fiu’ ‘d parson ch’al-s met in muviment:cun dal LUDAL al-s pröva ad fê’ un po’ ‘d luð.

Il Natale della Ludla Da questo mondaccio, che è quasiandato a male, /si solleva una polvere maledetta, / mossa daquel caos generale / che lo ha colpito completamente: comeuna maledizione. // Si tratta dell’egoismo, dell’odio crimina-le; / dell’ingiustizia, che urla vendetta; / che mai s’arrestano,nemmeno il giorno di Natale, / e coprono a tutti la StellaBenedetta. // Però, nel buio profondo, ad un certo momento,/qualcosa, improvvisamente, là lontano, brilla, / calmandoun poco il grande spavento. // Sono una schiera di bravagente che si raduna; / un fiume di persone che si mettono inmovimento: /con delle "Ludle" provano a fare un poco di luce.

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Ròma, Nadêl 2013 – An Nôv 2014Fernando di Plizéra dèt Badarëla

Ferdinando Pelliciardi

A m dirì ch’a m’invèc, ch’a sò un bagian,mò a sent di scurs ch’i tô l’amór a e pan

e pu in te pöst dl aröst i s dà de fòme acsè mè a m instizès e a n vègh piò lòm.

In cambi a voi pinsê’ a dal röb ch’a m fidstrichènd stra al bràza i mi anvudì ch’i rid

e i à in te côr la féd che e temp avnì’e srà piò bël ch’u n’è un zarden fiurì.

Mi direte che sto invecchiando, che sono uno sciocco, / masento in giro discorsi senza alcun senso, / e poi invece dell’ar-rosto ci propinano solo del fumo / e così io mi irrito e non civedo più. // Al contrario io voglio pensare solo a cose di cuimi posso fidare / stringendo tra le braccia i miei nipotini cheridono // e racchiudono in cuore la fiducia che l’avvenire /sarà più bello di un giardino in fiore.

Come ormai consuetudine, dedichiamo alcune pagine di questo ultimo numero dell’anno a testi aventi per tema le imminenti festi-vità. In queste due pagine ospitiamo gli auguri alla Ludla ed ai suoi lettori di tre nostri soci ed amici (Arrigo Casamurata, Ferdi-nando Pelliciardi, Augusto Ancarani) ed un sonetto sul Natale di Nino Lombardi, poeta sammarinese precocemente scomparso(1901-1937) i cui versi risentono l’influenza di Aldo Spallicci. Alla pagina 8 trovate un racconto di Sergio Celetti ed una “prosa dacabaret” di Giovanni Nadiani, mentre la pagina 16 ospita come sempre una composizione di Paolo Borghi.Le illustrazioni sono di Albrecht Dürer, Martin Schongauer, Giuseppe Ugonia.

Il Natale della Ludla

la Ludla 7Novembre - Dicembre 2013

Nadel 2013di Augusto Ancarani

con i più sinceri auguri a “la Ludla” ed ai suoi lettori

Bon Nadel a tott cvént in sté mond trestch’u s’adana a zarché la péz, l’amore e’ cata sempr’ e sol guèra e dulore u s’è smengh d la Madòna e d Gesò Crest.

I fradel pr’i fradel i è gvént furest :i s’amaza s’ i n’è dl’istess culor,i s tradess par du suld, i n’ cnoss l’ unor,e cvi ch’ ruba piò tènt i è i rè di unest.

Par zonta, e’ geval u i ha mess la codae al tass al ploca e’ sangv piò dal mignatta cvi chi ha fèm ch’ i gvénta piò purett.

E vo, spuslòti da la cherna soda,purtì e’ brod a bulor int al pignatt,gratì la forma e butì zò i caplett.

Natale 2013 Buon Natale a tutti in questo mondo tristo /che si arrabatta a cercare la pace, l’amore / e raccoglie sem-pre e solo guerra e dolore / e si è dimenticato della Madonnae di Gesù Cristo. // I fratelli sono diventati forestieri per i fra-telli: / si ammazzano se non sono dello stesso colore, / si tra-discono per due soldi, non conoscono l’onore, / e quelli cherubano di più sono i re degli onesti. // In aggiunta, il diavo-lo ci ha messo la coda / e le tasse succhiano il sangue più dellemignatte / a quelli che hanno fame che diventano più poveri.// E voi, spose rotondette bene in carne, / portate il brodo abollore nelle pentole, / grattugiate il parmigiano e buttate giùi cappelletti.

Nadeldi Nino Lombardi

L' era Nadel. La tevla già parceda s' una tvaia d' bugheda, bienca a latt, tôtta pina d' bicir, d' salvietti e piatt e' pareva ch' la géss: bona magneda!

I caplétt i sbruntleva drenta e' pgnatt rasiunand se cappôn dla gran buieda che d' mettle arrost un sl' era meriteda, e e' badeva a ripeta: Ch' fén ch' ò fatt!

Tôtta cla roba bona e tôtt chi udôr i géva mi nost occ: sô donca, magna! E an vdemie egli' ori da sintì e' sapor!

I bôssa ma la porta. Chi sarà?Un purètt l'è vnud só da la campagna,L' ha fema e fredd. Oh, fei la carità!

Natale Era Natale. La tavola già apparecchiata / con unatovaglia di bucato, bianca come il latte, / tutta piena di bicchie-ri, di tovaglioli e piatti / sembrava dicesse: buona mangiata! //I cappelletti brontolavano nel pignatto / ragionando col cappo-ne della grande infamia / che di metterlo arrosto non se l'erameritata, / e badava a ripetere: che fine ho fatto! // Tutta quel-la roba buona e tutti quegli odori / dicevano ai nostri occhi: sudunque, mangia! / E non vedevamo l'ora di sentire il sapore! //Bussano alla porta. Chi sarà? / Un poveretto è venuto su dallacampagna, / ha fame e freddo. Oh, fategli la carità!

la Ludla8

Sota NadêlTesto e immagine di Sergio Celetti

La scapè da e’ Supermarket e ‘na vintê giazêda la j cavèqueði e’ rispir.La javeva e’ côr ch’u j bateva fôrt: trop j arcurd ch’i j mur-seva l’ânma.La s’avdeva in che post l’ân prema cun e’ su Tonino mèn-tar ch’i cumpreva i righél ad Nadêl par parent e amigh.Adës e’ carël l’era queði vuit e int la tësta la javeva lò, sollò.Avdé in ca al su röbi, la pepa, la s-cioma da bêrba, j ucél,l’arloþ l’era ogni vôlta ‘na pugnalêda int e’ côr.La javeva dicið ad mètar tot quânt int ‘na scatla mo la n sdicideva mai.Ciapêda da sti pinsir la javdè int un canton ‘na mocia adscatlon, la n tulè sò on e la s’aviè a la màchina.La punsè e’ scatlon in tëra par tirê fura al cev quând ch’lasintè un miaglê alþir e la javdè ‘na gatina nigra saltê den-tra a la scatla.“Eh no, gatina, questa l’è la mi!”La s’abasè e alzend e’ cverc la javdè la gata che la s’era stu-glêda int e’ fond e tri gatin a oc asré che i s’era atachè a itètal.L’avanzè a gvardê cla scena incantêda da la naturaleza adcla gata che int ‘na situazion de’ gènar la faðeva tranquelacoma che j aveva fat milion d’animél da che e’ mond l’èmond. La n i pinsè do vôlt, la jarvè e’ portabagaj e cun dilicatezala mitè in dentra e’ scatlon.La muntè in màchina e i su pinsir da che mument i fo

coma ch’la puteva sistimê la gata cun i su gatin.Pasend sota a ‘na gran stëla ad Nadêl luminoða la n lajavdè piò cme un quël inòtil mes a lè sol par arciamê þentaa cumprê, a cunsumê, mo u j avnè da pinsê a la su mamache la dgeva sèmpar che e’ Signor un vô che a Nadêl u jepa da èsar chi ch’i n ha inciun avðen a sè.

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Luminariedi Giovanni Nadiani

St’ân e' mi vðen, un bottegante, l'à mes fura al luz d’Nadêli 21 d'setèmbar. A me, par dì la varitê, u m'pareva un pòprest...«Mo - a degh - u n'è ch'a v'siva ðbagliê staðôn: oggi comin-cia l'autunno.»«Nö, nö, l'è che cun la criði ch'u j è, l'è própi e' sumument: bisogna stimolare i consumi, os-cia!»E acsè lo l'à adubê e' balcôn sóra la butéga cun dal luz, conuna luminaria, grânda sèmpar a forma d'tet.La séra, cvând ch'al s'apèia, agli è un spetacul: acsè toticulurêdi, coi capezzoli rosso fuoco, al pê cvaði avéra, solche ciô agli è un pô grândi... Un'attrazione, l'à raðon e' mivðen, parchè dì pu che i li ven a vdê fina d'in piaza, a duchilòmetar a pè, ch'u j è dla þent ch'ji ven in prucisiôn,come i pastori alla capanna, e nench cvist coma i pastur, jè tot òman, tutti maschi, single certificati, ch'e' pê ch'in'épa mai vèst gnînt, e ch'i 'speta un miracul... Magarid'putêli ciucê nench se agli è d'védar...«Mo - a degh - acsè giösta par curiuðitê, mo chi èla clamudëla a cui si è ispirato l'autore e ach nomar d'regipët apôrtla? Ciò ch'u n's'sépa mai ch'a n'l'épa da incuntrê parla strê, e alóra a i fegh i mi cumpliment...»E pu me a so partì par l’èstar par lavór e a so turnê a casòl sot'al fëst, e cvând ch'a j ò vèst e' mi vðen, il bottegan-te, a i fegh:«E allora gli affari natalizi, cun toti cal lampaden, éi andêben? Le tette hanno stimolato i consumi?»«Mo staði zet, cs'a savesuv, vó?! L'è stê un diðastar! Un diða-star...Agli éra toti luz cineði, boni da gnînt, ch'a n'segna gnàncaincora arivé a dizembar, che coma e' silicone int al tet arfa-ti dla mi befâna, agli éra þa s-ciupêdi toti!

Due storie natalizie

Novembre - Dicembre 2013

la Ludla 9Novembre - Dicembre 2013

Cla nôta, té crùsæri dl’uspidæl adSatarcànzli, e’ frèdd u t’antréva tagl’òssi e u s’éra pôrt vi ænca a gl’éut-mi àmni ch al ziréva da ch l’àura.Gnénca un cæn in zôir, ad che zétt ut féva cumpagnì snò e’ sgòzli dal grun-dæri e di rém d j’élbri môll frôid adnèbia, dénsa e ômida ch la annôiva sòa undædi da maròina.Pitròin u s’éra bôtt madòss ’na cvartà-za vècia e l’aspitæva, disdòi té biru-zòin, che cl’ælt u s féss vôiv.Cl’ælt l’éra un vicèt znin e ingian-glôid, tôt plæd, s’un pæra d’ucialìnchi stéva sò per miræcli sàura i bafi. Eféva l’impiegæd t l’uspidæl.I s’éra cnuséu m’un tævli dl’ustarì e,tra un scartòz ’d luvòin s’un pizghìn’d sæl e un bicìr ’d vòin, j’avòiva fatdò ciàcri, acsè, tænt per pasæ e’ temp.U i piasòiva Pitròin mé vicèt, l’éra unburdèl svég, e pu e stéva tla Calongacmè leu da zòmni, u i paròiva che fôssche giôst, cvèl che zirchéva da un pô.Acsè, dop i luvòin, i s’éra méss a cia-caræ un pô piò da fétt.Verament l’éra e’ vicèt che zcuréva,Pitròin e stéva da sintôi.U i stéva génd che t l’ufóizi dl’uspi-dæl, fra du dè, l’arvéva un sach pin ’dsuld e che léu u l savòiva cmè fæ perpurtæl vi, pu bsugnæva fæl sparôipr’un pô, e aspitæ che i carabinìr i scalméss.«Tôt a què!?» l’avòiva dét Pitròinfasénd bòca da roid.Ecco parchè, disdòi té biruzòin, mécrusæri dl’uspidæl, cla nòta l’aspitæ-va. L’aspitæva e’ vicètt ch u i butéss zòe’ sach pin ’d suld ch’l’éra andæ afrigæ at ciàura.Una finèstra la s’irva ma l’éutmipiæn, e sint la bòta dé sach tébiruzòin mò e sint ænca e’rumàur d’un carètt ch’e staper arvé sòta l’ærch.Pitròin e dà vàusa ma la cavà-la e, senza spitæ nisséun, e vavi ad scapæda vérta, drétt vérse’ Paunt d’Avrôcc.Intænt cl’ælt, da la pôrtadl’uspidæl, e guardæva dinsòe dinzò mò u n avdòiva gnént,e paròiva che la nèbia la s fóssmagnæ Pitròin, la cavàla e e’biruzòin.“U s vòid ch l’à vést cvalca-déun e u s’è spòst”, l’à pens e’

vicètt. Dòp ’na mez’aura u n s’éra véstancàura nisséun, alàura l’è ’ndæ adurmôi.Pitròin u n s’è vést gnénca e’ dè dop ee’ dè dop ancàura. Pitròin u n s’è véstpiò.«Duv’è ch’l’è andæ?» l’à dmand e’ vècmé su ba tla Calònga.«L’è ’ndæ in America,» l’à ’rspòst e uj’à céus la pôrta sla fàza.In America?! S-cia, té vòia ’spitæ! Evlòiva dôi, e vlòiva fæ mò, sa tôtt e’via vai ’d carabinìr ch u j’éra tl’uspi-dæl chi dè, l’éra mèi stæ bun, l’éramèi stæ zétt. L’è stæ bôn e zétt per unbèl pèz.Cvànt che Pitròin l’è ’rtaurni dal’America ch’l’ælt e stéva ancàura bône zétt... té camsænt.«Mò ’d chè ch l’è mórt?» l’à dmand.«L’éra dvént stræn, e zcuròiva da parsè cmè chi matt, da cvant ch l’éraandæ in pensiàun e stéva tótt e’ dèdisdòi s’na pancòina dla staziàun e seta i dmandìvi cói ch l’aspitæva ut’aspundòiva: “Cvèl dl’America”, i l’àtróv a lè ’na matòina, disdòi sla pan-còina ch u n’aspitæva piò nisséun.»

Pitròin invìci l’aspitæva la su bèlaMarì, cla soira a Muntalbæn.La éra bèla la Marì! La piò bèla Marìch l’avéss mai vést. Una mòra ch laféva vòia! I baléva, i baléva, maPitròin u i ziréva tôtt datònda, mò un’éra imbariégh, l’éra còtt. Còtt, cun-tént e sgnàur.La zénta la giòiva ch l’avòiva fat i suldin America, mò u l savòiva léu duv’è ecum’è, léu e cl’ælt té camsænt.Cvant ch’i s’è spusé Pitròin e la Marìj’à compri un fònd mé Pôz. Un bèlfond, sla cæsa própi sé cuimirózz dégrèp, l’Eus ad cva, la Marècia ’d là,datònda la Rumàgna e, a lazò tlapiæna, e’ blô dé mær. Ad maz, e’ græn t i cantìr, s’e’ vangìnch l’annoiva sò da maròina, l’éra uninsôgni ad òndi tôti d’or, e la sòira slastarlæda té zil e paròiva prôpi da ès téParadôis.Un insôgni té Paradôis ænca la vôitaad chi dô fintænt che Pitròin u n’àdét la verità ma la Marì... Li la è stè zéta du tri dè pu la l’à ciàpa brazèt, sòta e’ purghi.«Ta sintôi Pitròin, a sém bèla vécc,

andæ sò e zò ma sté grèp l’èsémpra piò fadôiga, i fiùl a ngn’avém, ma néun côi ch u ipensa? T’a l sé s’èll ch a t dégh?U i pensa l’uspidæl! A i riga-lém e’ fond, luilt is dà dò cam-bri e i s bæda finchè amurém.»E acsè j’à fat. Cvant ch j’èmurt j’à mèss ænca una lapideper arcurdæ “i due benefatto-ri”.Ecco parchè la mi ma, ch lam’à racàunt sta stôria, cvant laavdòiva la lapide t l’uspidæl laridôiva sòta i bafi.

E’ fònd dl’uspidæl

di Rino Salvi

la Ludla10

Un personaggio molto simile allaversione malvagia del mago è costi-tuito dall’Orco. Esso incarna in real-tà il vero e proprio archetipo dellafigura negativa senza ambiguità esenza mezze misure. Dal punto divista fisico è rappresentato solamen-te come un gigante dalle proporzio-ni smisurate, del cui aspetto non siha mai una completa descrizione, aparte qualche accenno cromatico, lecui tonalità prevalenti sono, comeper il mago, gli infernali rosso enero: ne sono un esempio i nomidei due terribili orchi della fiabaSéðar e’ suldê1, chiamati per l’appunto“Órch Ros” (Orco Rosso) e “ÓrchNégar” (Orco Nero).Se a tali elementi connessi con l’in-ferico si aggiunge anche la caratte-rizzazione di questo mostro comegigante inghiottitore, si completa lalista di fattori che ascrivono talepersonaggio al mondo dell’oltre-tomba e si comprende anche la suavalenza simbolica sotto l’aspetto ini-ziatico. Infine, in molti casi, tra labarba di quest’essere magico vi sonotre peli di colore diverso (rossi, d’ar-gento o d’oro, toni anch’essi simbo-leggianti la provenienza inferica)che l’eroe deve cercare di tagliareper una qualche ragione: o perpoter sposare la principessa2, o perammansirlo3. Tuttavia, al di là dell’aspetto fisico, èinteressante notare anche alcunecaratteristiche che accomunano tuttigli orchi delle fiabe studiate. In primo luogo l’orco risiede esclusi-vamente su un alto monte all’internodi un castello, in cui vive normalmen-te con un folletto4 o un gobbo che loservono come garzoni, e una moglie5.Quest’ultima, in particolar modo,costituisce una figura importante, dalmomento che riveste la funzione diaiutante magico: è infatti lei che,dopo aver accolto in casa l’eroe avver-tendolo del pericolo, impedisce che ilmarito lo mangi con vari stratagem-mi, tra i quali è ricorrente la sommi-nistrazione di vino o di cibo drogati6.Ciò permette all’eroe d’interrogarel’orco senza pericolo e di riuscirequindi a scappare. Infatti una peculiarità della figuradell’orco nelle fiabe di magia della

raccolta sembra essere la conoscen-za: spesso dotato dell’attributo diMêgh o Strigon, questo personaggio èdetentore di un sapere senza limiti,ma occorre porgli le domandedurante il sonno: «(…) st’umaz sam-bêidgh l’à l’inþegn d’un animêl, moquând e’ dôrma, a fêi dal dmândi l’ar-spond a tot gnaquël, e quel ch’e’ dið l’èla veritê sacrosânta. (…)»7. Anche que-sta sua qualità deriva probabilmentedal legame con il regno oltremonda-no, e in essa si può ravvisare abba-stanza agevolmente il bagaglio diconoscenze che lo stregone o il sacer-dote consegnavano all’iniziandodurante un periodo di permanenzanella foresta: “Il fanciullo faceva un tirocinio piùo meno lungo e severo. Gli si inse-gnavano i metodi di caccia, gli sicomunicavano segreti di caratterereligioso, gli s’impartivano cognizio-ni storiche, norme e comandamentidel costume sociale, ecc.”8.Infine, è particolarmente interessan-te notare che l’eroe non affrontamai l’orco in modo diretto, non c’èun vero e proprio scontro come inve-ce può accadere con gli animali fan-tastici o con altre creature magichein funzione di antagoniste, e neppu-re appare possibile conquistarne lagratitudine con un gesto generoso:per uscire indenne dal contatto conquesto essere fatato e trarne vantag-gio, l’eroe è costretto a raggirarlo,ingannarlo con uno stratagemmanella realizzazione del quale risultadeterminante l’intervento dellamoglie o del folletto al servizio delterribile gigante.

Note

1. Baldini-Foschi (a cura di), Fiabe diRomagna raccolte da Ermanno Silvestroni,vol.2. Fiaba n. 30.2. “(…) instânt ch’u n’avéva i tri cavel dl’ÓrchStrigon ch’e’ sa gnaquël, u n’areb putù spuðê laprincipesa.” (Baldini-Foschi, vol. 1. Fiaban. 15).3. “«Sintì» la des lì, «L’órch e’ mi òman l’à tricavel ros: e’ bðugnareb ch’a j i cavèsuv, e acsèe’ dvintareb un pô piò bon»” (Ibidem. Fiaban. 11).“«(…) E’ bðogna t’aj i tèia, sti tri fil ch’j à intal bêrb, e dop ló i dvintarà dj umëz bon ch’in’sarà piò bon d’fê gnit (…)».” (Baldini-Foschi, vol. 2. Fiaba n. 30).4. “«(…) L’Órch Négar l’è e’ peþ (…). Lo par e’su sarvezi l’à un fulet ch’u s’ciâma Scrichet(…)».” (Ibidem).5. Tranne che nella fiaba Þanël e MèstarIndven (Baldini-Foschi, vol. 2. Fiaba n. 32)in cui l’Orco Mago vive insieme allanonna che svolge le stesse mansioni e lastessa funzione della moglie che si ritrovaaltrove.6. “«S’e’ fos acsè» la des lì, «dmanaséra, quânda i prapér e’ su ven chêld, a j in met e’ dopi,dla puzion dl’érba ch’la fa durmì, e pu a putentintê.(…).»” (Ibidem. Fiaba n. 30). Sembraa questo punto logico istituire un paralle-lo con le droghe assunte dagli sciamaniper poter accedere all’altra dimensione edialogare con gli spiriti, per poi riportarenel mondo degli uomini risposte a even-tuali interrogativi e risoluzione ai proble-mi della comunità. Tuttavia è bene sotto-lineare che tale rapporto è frutto di unragionamento analogico personale, nonessendo affatto provato nella realtà.7. Ibidem. Fiaba n. 32.8. Propp, Le radici storiche dei racconti difate, Torino, 1998. Pp. 89-90.

Le figure magiche

nelle fiabe popolari romagnole

II - L’orco

di Cristina Perugia

Novembre - Dicembre 2013

la Ludla 11

dè ment, cioè dar mente a ...; vni intla ment, venire in mente. Il lat.mente[m] corrisponde sia a ‘mente’che a ‘pensiero’, tanto che no dèment al negativo di fatto equivale ano dèt pinsìr. Però ment e pinsìr, semai lo furono, non sono sinonimi insenso stretto: è come se la ‘mente’fosse una sorta di ‘luogo interiore’che contiene i pensieri che via viamutano. Modi di dire: da’ ment a quèla chelé, t’avdré com tu fnes; te tira drét eno dé ment a inción (‘non ti curar dilor, ma guarda e passa’ – dicevaDante)1; puren, da’ ment a la tunòna ch’ l’ ha t’insegna pr e’ to ben(non ha secondi fini); da’ ment a chinuvlón ch’i s’ bota só int e’ mont dalFórchi: fra poc u fa un scarvàz2. InQuintiliano, Inst. I 2, si ritrova damentem ad peiora facilem (da’ mentefacile al peggio), cioè ‘immàginati ilpeggio…’. Si può arguire che nel lati-no parlato, popolare, si dicesse spessopure da mentem mihi (alla lettera: dam[a] ment a me…, ‘dammi mente’,‘prestami ascolto’). U m’ ven int lament è poi il calco dell’espressionelatina che sa persino di ‘macheroni-co’: mihi venit in mentem. Plauto, Trin.

77: Qui in mentem venit tibi istaec dictadicere? (Ma come ti viene in mente didire queste cose qui?), o in Truc. 931,come domanda: Venitne in mentem tibiquod…? (Ti viene in mente che…?). Edancora Virg. Aen. IV, 39: Nec venit inmentem… (Né viene in mente…).3

Si rifanno all’etimo di ment anchealtre voci coi loro derivati come l’or-mai rarefatto ramintè4 (rammentare),cument e cuminté5, ðgument6, ecc.;e, persino, il verbo ‘mentire’. Seppurinconsapevolmente, s’avvertì assaipresto che la falsità era connessa alpensiero e al linguaggio; che, anzi, illinguaggio spesso serve a mascherareil pensiero.

Note

1. Inciòn è nec unus (nemmeno uno) col cnel frattempo palatizzato e con una i d’ap-poggio premessa. Inciósa o incósa [da‘ogni cosa’] sono contratti e col significa-to di ‘tutto quanto’. A’n ho vest inción adem ’na men, ma a i ho fat tot inciósa. ACivitella si oscilla fra inciósa e incósa. Sinoti la s sorda, che viene direttamente dallatino caussa, scritto talora con la sdoppia, che si mutò poi nell’ital. ‘cosa’.Questa però è ‘còða’ con s sonora poichéviene invece dalla variante lat. causa conuna sola s e fu avvertita come originatadalla r intervocalica del lat. arcaico.2. Ogni paese di collina ha il suobarometro rudimentale. A Civitella chi stadavanti al caffè in fondo alla piazza chenel ‘400 era il ‘mercatale’ fuori del borgomurato e guarda a destra, dalla parte dellastretta stradina che una volta scendendonel fiume portava a Galeata, vede a Nord-ovest stretta tra le case l’immagine – unsprài ‘spiraglio’ – del monte delle Forche:se lì si raccolgono nubi nere, allora piove.U bota só [di nuvlon]: è un modo diprevedere il tempo antico quanto il paese.3. A mentem Persio, IV 48, sostituiscepenem: … in penem quidquid tibi venit…(…qualsiasi cosa ti venga nel pene…) è unpo’ come chiedere “Che cos’hai in quellatesta di…”4. Ramintè è ormai fuori uso nel dialetto,raro pure in italiano a vantaggio d’arcur-dès, ma i vecchi della mia infanzia l’usa-vano ancora. In ogni caso, una linguaimpoverisce ogni volta che scompareun’utile distinzione. Proprio partendodagli etimi, si rammenta con la ‘mente’, siricorda col ‘cuore’. Non è la stessa cosa:

infatti, quando di un antico amore ci sirammenta soltanto, il cuore non è piùcoinvolto e se ne parla con ritrovata tran-quillità. Aver relegato ramintè tra leparole ‘passate di mente’ è un bruttosegno ed anche arcurdès ne patisce: oggii sentimenti che coinvolgono il cuoresembrano pesare di meno. Allo stessomodo, sembra regredire l’uso diðminghés ‘dimenticarsi’ e, almeno in col-lina, scórd prevale su ðmèn[d]g ‘smemora-to’. Infine de+mente[m], cioè ‘privo dimente’, continua in ‘demente’, in dial.dament, raro ma non scomparso). Tra imodi di dire divenuti quasi proverbiali:co i me ènn, u m’è armest sol du quèibon: la memoria e… cl’eter quél chepropi adés a ’n u m’ arcord pió che ch’usia. Qualche sornione commentò: E’vòster guai l’è ch’ al vostri dòni i s’l’èscurdè prem’incora ad vó. E concludeva:A no ramintèv, a sìv par chéð dvintè unpó dament? 5. Cument (sostantivo) e cumintè (verbo)– derivati da cum+mente[m] – hannomolto corso in dial., dove spesso si cari-cano di una maldicenza che può scon-finare nella cattiveria, del tutto assentenel verbo commentari – e derivati –‘portare alla mente’, ‘riflettere’, ‘anno-tare’, ecc. Tra i modi di dire: Quel che léu ’n gn’è pericol ch’u fèþa un cument dibón: s’u ’n t’ónþ, u t’ scòta, pensandoalla padella; pensando al paiolo, s’u ’nt’imbórna u t’ scota. 6. Ðgument in ital. sgomento (sostantivoed aggettivo) da ex+cum+mente[m] indica ilfatto di restare privo della capacità di‘commentare’: chi è preso dallo sgomentoè ‘turbato’, ‘impaurito’, ‘ammutolito’,‘sbigottito’: u armesta baðì [voce peròinsolita a Civitella]. Per ðbigutì, ‘sbigotti-to’, il Devoto, Avviam., scrive: «dal frc.ant. esbahir, incr. con bigotto»; il Corte-lazzo-Zolli però esclude a ragione ognirapporto con ‘bigotto’ che ritiene unfrancesismo settecentesco. Il Diz. Etim.Ital. lo ritiene «forse dall’ant. fr. esbahir(fr. mod. ébasìr), prov. esbair avvicinato a‘bagutta’». ‘Ba[g]utta’ è la maschera bian-ca che copre il viso dalla fronte al labbrosuperiore e, appunto, permette di ‘parlarechiaramente’. Il francese ébasìr, d’origineceltica, corrisponde perciò al dial baðì: l’èarmest baðì. Il verbo ‘basire’, già presentein ital. soprattutto al nord dal XVI sec.,significava in origine ‘cadere in deliquio,svenire’.

Rubrica curatada Addis Sante Meleti

da Civitella

Novembre - Dicembre 2013

la Ludla12 Novembre - Dicembre 2013

È stato Luigi Antonio Mazzoni,drammaturgo, regista e tutto il resto,a dirmelo: “A-l sé-t? La parôla gögia lan’gn’è miga int i vucabuléri”.Ho controllato, è vero. Gögia nonrisulta in alcun vocabolario: purissi-mo gergo faentino, allora?Gögia era il nome di quelle buchetterotonde, di circa due centimetri didiametro e altrettanti di profondità,che i ragazzi scavavano in terra pergiocare con le palline. Ma, a Faenza,oggi, si chiama gögia anche il piccoloavvallamento rotondo che uno scon-tro ti lascia nella carrozzeria dell’autooppure che si forma su un pavimentoo in un fondo stradale.Io non ho mai giocato a palline. Erouna schiappa in tutti i giochi e miaccontentavo di guardare gli altri. Maricordo bene quando i miei soci gio-cavano a tòti, cioè a ‘tutte’.Parlo degli anni attorno al 1940 e,per il posto, mi riferisco al sagratodella chiesa dla Masõ (della Commen-da) nel Borgo di Faenza. I partecipan-ti al gioco - tre o quattro al massimo -erano muniti ciascuno di una palĩnad’gazósa. Una di quelle famose pallinedi vetro, grosse, di color verdino chevenivano usate dai fabbricanti digazose per chiudere a pressione ilcollo delle relative, caratteristichebottigliette. Per aprire la bottiglietta,quello della bancarella o il baristadoveva spingere dentro al collo dellabottiglietta, di prepotenza, la pallinacon un apposito affare di legno.Naturalmente le palline in possessodei ragazzi, abbastanza preziose, pro-venivano da bottiglie rotte. Si chia-mavano al palìn d’gazósaper distinguerle dalle pal-line più piccole, colorate -al palìn d’scaiôla - con lequali si facevano altri gio-chi come: pêpa, muciadĩ, epiramide.Ma torniamo a tóti e al gög.Si scavavano in terra tregög, lontane un metro emezza l’una dall’altra opressappoco. A turno,partendo dalla primagogia, si tirava la pallinausando l’indice o il mediopiegato sotto il pollice: lapallina diventava così il

proiettile di una piccola balestra.Bisognava infilare, una dietro l’altra,le tre “gogge” per tre volte consecuti-ve, rifacendosi da capo ogni volta.Quando arrivavi con la tua pallinadentro alla terza “goggia” al terminedel terzo giro, tu eri a tóti. Da quelmomento tu eri “mortale”: ogni palli-na avversaria che colpivi, quella eraeliminata.Lungo tutto il percorso potevi sem-pre colpire la pallina avversaria perallontanarla il più possibile e impe-dirle di infilarsi nelle “gogge”. E, almomento del colpo, che si chiamavacöch, se dicevi la parola: Piruléndo -gerundio presente di un verbo miste-rioso - avevi diritto, per “coccare”meglio, di ripulire col palmo dellamano il terreno che divideva la tuadalla pallina nemica. Se dicevi poi“Piruléndo ch’a t’môva”, potevi addirit-tura pulire anche sotto la pallinaavversaria. Ma “piruléndo”, pian pianosi era ridotto a “pìrule”, più comododa enunciare. Naturalmente l’avver-sario ti poteva precedere dicendo“Gnit piruléndo” o “Gnit pìrule” e tu

non potevi pulire un bel niente.Ricordo nitidamente Mimo, un caroamico che è morto da un pezzo, uncampione delle palline, che usavaquesta formula: “Fëga gnit, t’a n’fëgacadẽna, ta n’la mèta a gnìcaro!”.Quando il nemico si apprestava a col-pire la tua pallina con la sua, tu avevidiritto di dire sdèta malèta surgatìna,formula che uno studioso di etnolo-gia potrebbe definire un “singolarescongiuro apotropaico”.Un ultimo particolare.Quando tu stavi per entrare nell’ulti-ma gögia, quella che ti avrebbe resomortale per gli altri, gli avversari conla pallina vicina, i più soggetti a esse-re eliminati, avevano diritto di pre-tendere “e’ cöch sèch” e tu avevi l’ob-bligo di dare un cöch alle loro pallineper allontanarle dalla zona che stavaper diventare molto pericolosa perloro.Lo so che, così, a parole, non sonoriuscito a descrivere lo svolgimentodella gara a tóti cun al palìn d’gazósa.Senza poi dire che le regole di questogioco potevano essere molto diverse

da un posto all’altro.Ma, almeno. vi chiedo: laparola gögia si usava, e siusa, anche in altre parti diRomagna?

P.S.Nella mia zona, allora, siain questo come in altrigiochi, si poteva chiedereil break, cioè l’interruzio-ne momentanea delle“operazioni”: la formulaera “Sgõnd ëti”. Qualcunoci à dato impetto anchelui? E che voglia dire“secondo atto”?

Gögia, cöch sèch e pìrule

di Giuliano Bettoli

la Ludla 13Novembre - Dicembre 2013

Ogni volta che capita di ragionaresulla sopravvivenza del dialetto ilpessimismo cresce, anche per lascomparsa dei lessici specifici dipari passo con le varie attività estin-te o mutate, già praticate sull’usciodelle botteghe o sull’aia. Ognimestiere aveva i suoi strumenti, i cuinomi arricchivano il linguaggio sug-gerendo metafore e modi di dire.Per far un esempio: in meno di unsecolo l’oblio è caduto su voci elocuzioni ricavate o indotte dallatessitura assegnata alle donne daiprimordi della civiltà. Tutto ciò s’ag-giunge al fatto che sono già allaseconda generazione quelli che sten-tano a capire il dialetto e rifiutanod’apprenderlo. Ma a che cosa si riduce una lingua,se buona parte del suo lessico svani-sce e, insieme, calano di numerocoloro che abitualmente la usano? Ben vengano quindi, almeno comedocumento a futura memoria, rac-colte come questa relativa alla cuci-na, coi termini propri di chi s’affac-cendava ai fornelli. Il libretto contie-ne pure una ventina di ricettesolitamente desuete, come quel-la del migliaccio fatto col sanguedel maiale e della saba il cuimosto sul fuoco va ridotto ad unterzo. È come cuocerlo tre volte:se ne ricavò il modo di dire:‘furbo di tre cotte’.Si obietterà che l’attività dellacucina è quella cambiata dimeno. Non è così. La donnad’oggi spesso lavora fuori casa e,quando rientra, tira fuori dalfrigo le solite cose in buonaparte confezionate. Ad esempio,s’è rarefatto il brodo di carneche bolliva più di tre ore e impo-neva quasi di badarlo, così comes’imponeva di smaltire il lesso;sono inoltre sempre più raricerti umidi di verdure e maialeper le serate più fredde, o l’insa-lata d’erbette spontanee colte afebbraio. Ci fu persino l’arted’utilizzare gli avanzi e così nac-que l’idea d’ogni pasta ripiena.In cucina si celebravano dei riti,coi bambini in attesa, prontiall’assaggio: l’impasto del pane;la piada; la sfoglia assottigliata

ritmicamente; la polenta fumante; ilbaccalà o il pesce povero di venerdì;la preparazione dei cappelletti per ipranzi delle feste e quella di dolci edi conserve; il coniglio per l’arrosti-no domenicale, o il pollo ruspantecotto con la brace ardente anche sulcoperchio. Tutto si concludeva allagrande verso la fine dell’anno con la“festa” al maiale, talvolta compratodal contadino, a metà con un vici-no. Se ne bolliva o friggeva pure ilsangue, quando non te ne facevano

bere un bicchiere, crudo, come rico-stituente. Oggi i figli sono educati – si fa perdire – ad una monotonia alimenta-re che li priva del gusto della varietàe del sapore dei cibi poveri, inspie-gabilmente costosi o introvabili,come se il suino fosse fatto di soloprosciutto e il bovino di quartiposteriori: nessuno sa più che lin-gua e coda di bue dànno il lessomigliore. Il volumetto elenca pure la pajê,

che, se non erro, è la romane-sca paiata, antica quanto lapastorizia. Ne accenna anchePetronio (I sec. d. C.) nel Saty-ricon, dove chiama chordae lebudelline, perché usate inalcuni strumenti musicali persecoli: … habùimus … chordaefrusta et he-pàtia in catillis…(…avemmo [da mangiare] frùs-toli di budello e fegatelli inscodelline): il tutto servito inun catinum concacatum (piattodi portata, non troppo pulito).Non è questa la pajê, doratauna volta fritta? Anche mianonna ogni anno sotto Pasquaprenotava le budelline dalmacellaio per friggercele unitein brevi treccine infarinate,frammiste alla corata tagliata apezzetti. Per lei era unadevozione da rimangiare unavolta all’anno, come l’uovobenedetto. Morta la nonna,mia madre cominciò a dimen-ticarsene: oh! st’ann a m’serapropi scórda e dop i ’n eva pió.Un brutto auspicio, anche peril dialetto.

Gian Bruno Pollini

Pulinèra in cusèna

di Addis Sante Meleti

Gian Bruno Pollini - Zia Camilla, Pulinèra ‘n cusèna. Lessicogastronomico romagnolo, Edizioni Moderna, Ravenna, 2006.

la Ludla14

18a edizione del concorso di poesia romagnola

“San Martino d’oro” - Conselice

La séradi Franco Ponseggi - Bagnacavallo

Primo classificatoE’ dè e’ lavór, la prisia, e’ muvimẽnt, la córsa cõntr e’ tẽmp, la cunfuðiõn;la pêz, la séra, e la sudisfaziõn d’un pô d silẽnzi e d’una bêva d vẽnt.

E a-n voj savé d’impegn o apuntamẽnt!I-m dið: "A vẽnt? Andẽ’ a la riuniõn",o "U j’è la fësta, mùðica, canzõn, andẽn in piaza, ch’u j’è tãnta þènt!"

A-j deg ch’a jò un afêri, ch’ a-n pos briða,ch’a j’aringrëzi tãnt, mo u n’è distẽn, ch’u-s trata d’una côsa þa diziða.

Ló i n sa che me, staséra, int e’ camẽn,a jò do patatẽn int la burniða,e aspet a cve, þughènd cun e’ zampẽn.

La sera Il giorno il lavoro, la fretta, il movi-mento, / la corsa contro il tempo, la confusio-ne; / la pace, la sera, e la soddisfazione / diun po’ di silenzio e di un filo di vento. // Enon voglio sapere di impegni o appuntamenti!/ Mi dicono: "Vieni? Andiamo alla riunione",/ o "C’è la festa, musica, canzoni, / andiamoin piazza, che c ‘è tanta gente!" // Gli dicoche ho un affare, che non posso, / che li rin-grazio tanto, ma non è destino, / che si trattadi una cosa già decisa. // Loro non sanno cheio, stasera, nel camino, / ho due patatinenella cenere calda, / e aspetto qui, giocandocon l’attizzatoio.

Chi linzuldi Paolo Gagliardi - Lugo

Secondo classificatoQuand ch’l’à savùche atëch a cla bdolau j éra di tabëchla ngn’à pinsé sò un àtum.L’è córsa a ca a tu i linzul,qui d’lein dla dóta,pî d’richèm e d’sfranþ.

L’à ðlinté al córd, la j à tiré zo e pu la j à glupé oun par oun, cum ch’la faðè cla vólta la Madöna cun su fiól, che Crest che lì, Minghina, la n’è mai ‘rivéda d’óra d’cnòsar, gnench l’ùltum dè, quand ch’la s’è ‘viéda.

Quei lenzuoli Quando ha saputo / cheappesi a quella betulla / c’erano dei ragazzi1 /non ci ha pensato un momento. / È corsa acasa a prendere i lenzuoli, / quelli di lino della

dote, / pieni di ricami e frange. // Ha allenta-to le corde, li ha tirati giù / e poi li ha avvoltiuno ad uno, / come fece quella volta la Madon-na con suo figlio, / quel Cristo che lei, Domeni-ca, / non è mai riuscita a conoscere, / neppurel’ultimo giorno, / quando se n’è andata.1. Nello (1914-1944) e Luciano (1922-1944) Orsini - Impiccati per rappresagliail 22 agosto 1944 a Savarna (Ra).

Fugh e aqua (Lampedusa)di Arrigo Casamurata - Forlì

Terzo classificato

Streta, ch’e’ parevach’la-n si vles pió stachê’,cla mâmala j ha dël’ùtum bese l’ùtma careza,sugnendche int un pajes luntân, ch’u-j è i biench, e’ fjöll’avreb putù truvê’ la "vita".

Lò l’era nìgar.

Un fugh maladet,senza cör,l’ha scanzlé i sogn.

Int una spiàgia frustira l’aqua la j passa sôra cun i su bis e al su carez che lòu-n pô pió sintì.

Fuoco e acqua (Lampedusa) Stretta,che pareva / non volersi più distaccare, /quella mamma / gli ha dato / l’ultimo bacio/ e l’ultima carezza, / sognando / che in unpaese lontano, / dove sono i bianchi, / ilfiglio / avrebbe potuto trovare la “vita”. //Lui era nero. // Un fuoco maledetto, / impie-toso, / ha cancellato i sogni. // Su di unaspiaggia forestiera / l’acqua gli passa sopra /con i suoi baci / e le sue carezze che lui / nonpuò più sentire.

Novembre - Dicembre 2013

Stal puiðì agli à vent...

la Ludla 15

“La vita con ironia”Concorso di zirudelle indetto dalla

Pro Loco di Bagnacavallo - 2013

La giuria del concorso ha selezionato, fraquelle presentate, venti composizioni - perla verità non sempre aderenti allo schemametrico della zirudella - che sono statepubblicate senza ordine di merito in unopuscolo a cura della Pro Loco. Dalla raccolta abbiamo scelto un paio dizirudelle che si segnalano sia per l’aderen-za al tema, sia per la correttezza metrica.

Smart e phonedi Hedda Forlivesi, Alfonsine

Incudè la pê un’impresacun e’ mond che va in discesa,infilê una zirudelada fé ridar e nenc bela.Pu... chi ch’scor in rumagnôl?Manch a dil! gnânca e’ mi fiôl!Um s’arvolta! aferi seri,par dì bab, u m ciâma Arteri,Rimba, Sclero, s’a vut ch’seja,(a saral dla mi fameja?!)Mo s’la fos finida a qvel’andreb bona, a va degh me.Qvând ch’e’ scor di su baghej,di su zugh, d’tot qvent ch’i’arghej,oh, tabech s’ la gventa durae pu u m ciapa una paurache la bêglia, sbagliend sach,l’epa baratê e’ tabach.Gigabait, mega e pixel(e me a pens: l’è un indvinel!).Mo e’ mi Dio ch’l’è un bon omcus’èl mai nench e’ Tomtomla chiavetta Uessebì(cosa arala mai d’arvì)e pu nench 1’Emmipitrèe me a degh: “A n sarò mech’ a j ò pers e’ tanabed?”.Tut da lè, me pu a ngn’ò fedche s’a n vegh su Interneta smares d’lèzar di fetche Nintendo e su fradél(i è una vaca e un videl...).E pu... basta d’ st’ingavegnch’u m à bagatê l’inzegn!

Smart e phone Oggi è una gara dura /con il mondo che va in discesa, / mettere infila una zirudella / che faccia ridere e siabella. / Poi... chi parla più il romagnolo? /Neanche a dirlo! Neppure mio figlio! / Si rivol-ta a me, è un affare serio, / per dire babbo, mi

chiama Arterio, / Rimbambito, Scleroti-co, cosa vuoi che sia, / (sarà della mia fami-glia?). / Ma se fosse finita qui / andrebbeancora bene, ve lo dico io. / Quando parladelle sue cose, / dei suoi giochi, di tutte quellerigaglie, / ohi, ragazzi, diventa dura / e miassale la paura / che la levatrice, sbagliandosacco, / abbia scambiato il bambino. / Giga-bit, mega e pixel / (e io penso: “Sarà unindovinello!”). / Ma Dio mio che sei un buonUomo / cosa è mai ancora il Tomtom / lachiavetta USB... / (che cosa dovrà mai apri-re) / e poi ancora Mp3 / e io mi chiedo “Nonsarò io / che ho perduto il cervello?” / Cavatidi lì, io non credo / che se non vado su Inter-net / disimparo di leggere i fatti / che Nin-tendo e suo fratello / (sono una mucca e unvitello...). / E poi basta...! Questo ingarbuglio/ mi ha rovinato il cervello.

Pcô’ d’irunèadi Renzo Passalacqua

Villanova di Bagnacavallo

L’irunèa l’è una smént che la viàza stra la zént, la pò fêr avnì la févar e la pèzga cóma e’ pévar. L’irunèa spés la bëca in tla méda di patëca, in tla méda di quajô’ e stra quii chi fa i sburô’: che is créd néd cun la camìsa mo i’è bèc e i n’e sa brisa. L’irunèa l’è par quii chi fa i svègg mo i’è invurnì, ch’is da êria da grân gal mo i’ha al pèn de’ papagàl, e la sera i va a balê dóp a èsars andé a pnê, spargujèndas un pö’ d’gèl là stramëz a tri cavèl, così dop al ballerino non si sposta il riportino. A guidê i’è brév sól lô, i’ha dal machin da migliô, da migliô di vecchie lire e cambiêli a non finire;o sinò di furastrêch’i’è piò grós d’un cararmê, e s’iavès da dê’ la bòtai sra sèmpar grènd pilòta, che Schumacher in cunfrônt e po’ nénca mètr’a mônt. […]Quând ch’l’arìva pu l’istê cun chi chéld chi fa s-ciupê, quii chi sta ‘torn a Ravèna

i tö sò e i va a Marèna, in bermùda cun i cósp e pu i gónfia còma i rósp, quând chi zuga a rachitô’ sènza un atum d’rimisiô’, che se fós e’ su lavôr l’andrèb sóbit da e’ dutôr. Im cuntè che l’irunèa la nisèt a l’ustarèa, tra un’amzèta d’tarbulé’, una bòcia d’barzamé’, un mëz litar d’marascô’ adacvê cun e’ bursô’. Tra una brèscla, un becacìno, un futècc e un roversìno, stra lingvàzi e ciacarô’ un s’salvéva pròpi inciô’, nénc se dóp un’ora o dò inciô’ u i’apinséva piò, parchè a sé’ brév ragazùl, parchè a sé’ di rumagnùl.

Bocconi d’ironia L’ironia è una semente/ che viaggia tra la gente, / può far venir la feb-bre / e pizzica come il pepe. / L’ironia spessopunge / nel mucchio dei patacca, / nel muc-chio degli sciocchi / e tra i borioni: / che si cre-dono nati con la camicia / ma son cornuti enon lo sanno. / L’ironia è per quelli / chefanno gli scaltri ma sono tonti, / che si dannoarie da gran gallo / ma hanno le penne delpappagallo, / e la sera vanno a ballare / dopoessersi andati a pettinare / cospargendosi unpo’ di gel / là in mezzo a tre capelli, / così dopoal ballerino / non si sposta il riportino. / A gui-dare sono bravi solo loro, / hanno macchine damilioni, / da milioni di vecchie lire / e cambia-li a non finire; / oppure dei fuoristrada / piùgrossi di un carrarmato, / e se anche “darannola botta” / si crederanno sempre grandi piloti /che Schumacher in confronto / può anche“mettere a monte”. […] / Quando arriva poil’estate / con quei caldi che fanno scoppiare, /coloro che abitano intorno a Ravenna / pren-dono su e vanno a Marina, / in bermuda congli zoccoli / e poi gonfiano come rospi, / quan-do giocano a racchettone / senza un attimo diremissione, / che se fosse il loro lavoro / andreb-bero subito dal dottore. / Mi raccontarono chel’ironia / nacque all’osteria, / tra una mezzet-ta di trebbiano, / una bottiglia di berzemino, /un mezzo litro di marascone / annaffiato conil borsone. / Tra una briscola, un beccaccino,/ un quadriglio e un roversino, / tra maldicen-ti e chiacchieroni / non si salvava proprio nes-suno, / anche se dopo un’ora o due / nessunoci pensava più, / perché siamo bravi ragazzi, /perché siamo dei romagnoli.

Novembre - Dicembre 2013

la Ludla16 Novembre - Dicembre 2013

«la Ludla», periodico dell’Associazione Istituto Friedrich Schürr, distribuito gratuitamente ai sociPubblicato dalla Società Editrice «Il Ponte Vecchio» • Stampa: «il Papiro», Cesena

Direttore responsabile: Pietro Barberini • Direttore editoriale: Gilberto CasadioRedazione: Paolo Borghi, Gianfranco Camerani, Veronica Focaccia Errani, Giuliano Giuliani, Omero Mazzesi, Addis Sante Meleti

Segretaria di redazione: Carla Fabbri

La responsabilità delle affermazioni contenute negli articoli firmati va ascritta ai singoli collaboratori

Indirizzi: Associazione Istituto Friedrich Schürr e Redazione de «la Ludla», Via Cella, 488 •48125 Santo Stefano (RA)Telefono e fax: 0544. 562066 •E-mail: [email protected] • Sito internet: www.argaza.it

Conto corrente postale: 11895299 intestato all’Associazione “Istituto Friedrich Schürr”Poste Italiane s.p.a. Spedizione in abbonamento postale. D. L. 353/2003 convertito in legge il 27-02-2004 Legge n. 46 art. 1, comma 2 D C B - Ravenna

Si sa: i giovani non tengono in alcun conto il trascorrere deltempo; le loro giornate dilagano al di là della percezione diun suo dissiparsi ostinato che, ne hanno tanto a disposizio-ne, per loro in pratica non ha luogo. Con l’età, tuttavia, lecose tendono a cambiare e minuti, ore e mesi attaccano viavia a rincorrersi in una gazzarra convulsa che, alla fine,porta ogni ricorrenza a succedersi a quella che l’ha precedu-ta, con sostanzioso anticipo su quanto avremmo egoistica-mente preferito.Una poesia apparsa qualche tempo addietro proprio su unaLudla di dicembre e scritta indubbiamente da un poeta conla gioventù piuttosto alle spalle, asseriva nell’ultimo verso:"L’è za Nadèl?"... e’ temp l’è un lemp ch’u n’ tóna.

E si trattava di una affermazione quanto mai fondata vistoche, trascorsi un po' d'anni, giusto in un lampo ci rinvenia-mo già al cospetto di quello del 2013.Per cui è di nuovo Natale e come sempre, nell’occasione,vengono alla ribalta tutti quei buoni sentimenti che nelresto dell’anno non trovano mercato, e dunque via liberain noi ad altruismo, concordia, onestà, speranza...Tuttavia, se istigati dalla ricorrenza fossimo presi anche daldesiderio di un sincero esame di coscienza, rispetto all’an-no prima cosa potremmo trovare di cambiato in megliodentro di noi e nella società, all'interno della quale, volen-ti o nolenti, recitiamo la nostra parte?Ben poco temo, eppure lo spirito della ricorrenza è un'al-tra volta fra noi, e nella rievocazione di quella nascita cosìcelebrata e su cui tante aspettative l’umanità pone da oltreduemila anni, l'impegno ad un salto di qualità che coinvol-ga noi e il nostro domani è quanto di meno ci si possa pre-figgere.

Paolo Borghi

E’ Babin

E’ Babin

S’a baten còma sèmpr’a rinvanghê’cvel che par chj’étar a faðen ad bon,ðminghènd pu cvel che chj’ét i fa par nó,se tot a s'incuren sól 'd reclamê’

diret, parsuéð che i dvir j’è pr’i cvajon,e a fôrza d’adruvêli icè par fêa j'arduðen parôl coma unestêa un sempi babarê’ senza raðon,

s’a cuntinven a strichêr’al mân’a pogninsipì d’afarmês pët on ch’ l’ha bðognpar dêi ‘na mân ðgrivèndol di su stent,

che dè e’ Babin e’ srà nêd’invanament parchè ‘sa contal cunsacrê’ e’ Nadêlse chj’étar dè a baþghen sól cun e’ mêl?

Il Bambino Se insistiamo come sempre a rivangare \ quello che per gli altri facciamo di buono,\ dimenticando poi quello che gli altri fannoper noi,\ se tutti ci diamo pensiero solo di reclamare \\ diritti, persuasi che i doveri sono per gli stupidi, \ e a forza d’usarle così per fare \ ridu-ciamo parole come onestà \ a un semplice blaterare senza ragione,\\ se continuiamo a stringere le mani a pugno \ invece di fermarci davanti auno che ha bisogno \ per dargli una mano sgravandolo dai suoi stenti,\\ quel giorno il Bambino sarà nato invano \ perché cosa vale consacra-re il Natale \ se gli altri giorni bazzichiamo solo col male?