Dante, la Ludla - dialetto romagnolo

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la Ludla 1 “Poca favilla gran fiamma seconda” Dante, Par. I, 34 la Ludla (la Favilla) Periodico dell’Associazione “Istituto Friedrich Schürr” per la valorizzazione del patrimonio dialettale romagnolo in collaborazione con il Comune di Ravenna - Assessorato alla Cultura Autorizzazione del Tribunale di Ravenna n. 1168 del 18.9.2001 Società Editrice «Il Ponte Vecchio» Anno XXIV • Gennaio 2020 • n. 1 (201°) SOMMARIO Tolmino Baldassari a dieci anni dalla scomparsa Nevio Spadoni e Paolo Borghi I giovani e il dialetto - I Nicola Valentini di Veronica Focaccia Errani Sante Pedrelli - E’ nòud me fazulètt di Gian Piero Stefanoni U j era air e’ pôrch! di Alfonso Nadiani Illustrazione di Giuliano Giuliani Il XV Trebbo della Schürr di Sauro Mambelli I balli di una volta - I - Il valzer di Alberto Giovannini Parole in controluce: fatór. bas di Addis Sante Meleti I luoghi di Rimini nella topono- mastica popolare - IX di Davide Pioggia Al rizët dla sgnora Maria Al fartël - Al frap ad Cranvêl I scriv a la Ludla Pri piò znen Gino Della Vittoria - Int l’eteran di Paolo Borghi p. 2 p. 4 p. 6 p. 8 p. 9 p. 10 p. 11 p. 12 p. 14 p. 15 p. 15 p. 16 Gennaio 2020 - N. 1 La nostra Associazione ha passato abbondantemente i venti anni di vita e in questo anno 2020 che è appena iniziato viene naturale considerare i risultati fin qui ottenuti con il lavoro dei volontari che si sono avvicen- dati negli anni e con l’impegno di quello zoccolo duro composto da colo- ro che non hanno mai smesso, dopo l’iscrizione come socio, di dare il proprio prezioso contributo alla Schürr. Di quanto avvenuto è stata data ampia documentazione con il Notiziario che accompagna ogni numero de la Ludla. Diamo allora una veloce occhiata agl’impegni futuri che la Schürr ha già in previsione. Fin dai primi giorni di gennaio si è iniziato con l’uscita set- timanale sul nostro canale YouTube, Romagna slang, dei 25 filmati girati nel 2019 e con la prima presentazione ufficiale il 19 a Cassanigo. Il 17, in occasione della Giornata nazionale dei dialetti, presso la sede della Casa Matha di Ravenna, la Schurr ha presentato una serata dedicata alla donna romagnola. A marzo avremo a Cesena il pranzo sociale abbinato all’ormai tradizionale Trebbo di primavera. Il 17 aprile un appuntamen- to importante: le assemblee ordinaria e straordinaria per l’approvazione dello statuto in linea con le nuove disposizioni legislative. Ad aprile–maggio inizieremo a Sant’Alberto le 8 lezioni sul dialetto, concor- date con il Decentramento del Comune di Ravenna, alle quali seguiran- no altre 4 lezioni ad ottobre. Fra maggio e giugno ci saranno le registra- zioni degli ulteriori 25 filmati di Romagna slang così da raggiungere il rag- guardevole numero totale di 90 clip per far conoscere in maniera simpa- tica ma istruttiva modi di dire, parole ecc. del nostro dialetto. Il 2020 sarà anche l’anno del concorso biennale di poesia in dialetto E’ sunet, un appuntamento culturale che ha raggiunto la sua 18 a edizione. La Ludla, pubblicata con il contributo dell’Assesso- rato alla Cultura del Comune di Ravenna, uscirà come sempre per essere inviata a soci, biblioteche, scuole, pubbliche amministrazioni ecc. Non man- cheranno certamente le richieste di collaborazione, di testimonianza, di supporto, di informazione che ci giungono da privati, da associazioni, da studiosi o semplici curiosi; richieste che cercheremo di sod- disfare per quanto possibile. Nel rinnovare l’invito a collaborare a quanti sentono di poter dare il pro- prio contributo personale all’Associazione auguria- mo ai lettori un felice e proficuo anno 2020. Un’occhiata al futuro

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la Ludla 1

“Poca favilla gran fiamma seconda”Dante, Par. I, 34

la Ludla(la Favilla)

Periodico dell’Associazione “Istituto Friedrich Schürr”per la valorizzazione del patrimonio dialettale romagnolo

in collaborazione con il Comune di Ravenna - Assessorato alla CulturaAutorizzazione del Tribunale di Ravenna n. 1168 del 18.9.2001

Società Editrice «Il Ponte Vecchio» Anno XXIV • Gennaio 2020 • n. 1 (201°)

SOMMARIO

Tolmino Baldassari a dieci annidalla scomparsa Nevio Spadoni e Paolo Borghi

I giovani e il dialetto - I Nicola Valentinidi Veronica Focaccia Errani

Sante Pedrelli - E’ nòud me fazulèttdi Gian Piero Stefanoni

U j era air e’ pôrch! di Alfonso NadianiIllustrazione di Giuliano Giuliani

Il XV Trebbo della Schürrdi Sauro Mambelli

I balli di una volta - I - Il valzerdi Alberto Giovannini

Parole in controluce: fatór. basdi Addis Sante Meleti

I luoghi di Rimini nella topono-mastica popolare - IXdi Davide Pioggia

Al rizët dla sgnora MariaAl fartël - Al frap ad Cranvêl

I scriv a la Ludla

Pri piò znen

Gino Della Vittoria - Int l’eteran di Paolo Borghi

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Gennaio 2020 - N. 1

La nostra Associazione ha passato abbondantemente i venti anni di vitae in questo anno 2020 che è appena iniziato viene naturale considerarei risultati fin qui ottenuti con il lavoro dei volontari che si sono avvicen-dati negli anni e con l’impegno di quello zoccolo duro composto da colo-ro che non hanno mai smesso, dopo l’iscrizione come socio, di dare ilproprio prezioso contributo alla Schürr. Di quanto avvenuto è stata dataampia documentazione con il Notiziario che accompagna ogni numerode la Ludla.Diamo allora una veloce occhiata agl’impegni futuri che la Schürr ha giàin previsione. Fin dai primi giorni di gennaio si è iniziato con l’uscita set-timanale sul nostro canale YouTube, Romagna slang, dei 25 filmati giratinel 2019 e con la prima presentazione ufficiale il 19 a Cassanigo. Il 17,in occasione della Giornata nazionale dei dialetti, presso la sede della CasaMatha di Ravenna, la Schurr ha presentato una serata dedicata alladonna romagnola. A marzo avremo a Cesena il pranzo sociale abbinatoall’ormai tradizionale Trebbo di primavera. Il 17 aprile un appuntamen-to importante: le assemblee ordinaria e straordinaria per l’approvazionedello statuto in linea con le nuove disposizioni legislative. Adaprile–maggio inizieremo a Sant’Alberto le 8 lezioni sul dialetto, concor-date con il Decentramento del Comune di Ravenna, alle quali seguiran-no altre 4 lezioni ad ottobre. Fra maggio e giugno ci saranno le registra-zioni degli ulteriori 25 filmati di Romagna slang così da raggiungere il rag-guardevole numero totale di 90 clip per far conoscere in maniera simpa-tica ma istruttiva modi di dire, parole ecc. del nostro dialetto. Il 2020sarà anche l’anno del concorso biennale di poesia in dialetto E’ sunet, un

appuntamento culturale che ha raggiunto la sua 18a

edizione.La Ludla, pubblicata con il contributo dell’Assesso-rato alla Cultura del Comune di Ravenna, usciràcome sempre per essere inviata a soci, biblioteche,scuole, pubbliche amministrazioni ecc. Non man-cheranno certamente le richieste di collaborazione,di testimonianza, di supporto, di informazione checi giungono da privati, da associazioni, da studiosio semplici curiosi; richieste che cercheremo di sod-disfare per quanto possibile. Nel rinnovare l’invitoa collaborare a quanti sentono di poter dare il pro-prio contributo personale all’Associazione auguria-mo ai lettori un felice e proficuo anno 2020.

Un’occhiata al futuro

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la Ludla2 Gennaio 2020 - N. 1

Intervento di Nevio Spadoni

Int la vegna

Diversi sono gli elementi che costituiscono questa liri-ca: la vigna, il buio, il vento, gli alberi, ma soprattuttovi è la presenza del poeta che sta in ascolto. C’è in tantapoesia di Tolmino il senso dell’oltre, del mistero, anchese non è esplicita l’indicazione del trascendente. C’èinfatti un limite invalicabile, un filtro che non permet-te al poeta di oltrepassare. E da questo “vuoto delmondo” lui si astrae per immergersi nel mistero. Sap-piamo che la parola greca mystérion, rimanda al silenzio,perché significa anche ‘serrare le labbra’. Il poeta alloradialoga con queste figure fantasmatiche, presenze benimpresse nella sua memoria, figure che lui ha amato invita, come quella del cognato Sandrìn, consideratocome un fratello e ricordato in altre liriche, con diversefigure parentali.

Int la vegna

Us éra fat scur int la vegnae’ vent l’éva e’ fes-c lònghj élbar la vóða basa.A so armastê in ureciae am so basê dri tërae’ cöl pighê cumè un ulöch. A j ò fat segn cun la mâne lo un s’è mös.Al so ch’e’ vléva dì ch’a j andes me,mo me am séra inciudê:u j éra int l’êria e’ ðvùit de mònd,un filtar fen ch’un s’pasa.

***A zarcaren fèn’a séra

Una poesia che mi pare possa connettersi per certi aspet-ti alla precedente è A zarcaren fen’a séra, tratta da Al rivid’êria. La ricerca del bene e del giusto, l’ansia di assoluto,sono state delle costanti nella vita di Tolmino e, con esse,la ricerca di una luce che dia pieno senso alla vita e giusti-fichi anche la poesia.

A zarcaren fèn’a séra

E’ bé ch’u s’inturdes int la curenae int e’ rispir bóls dal ciði ‘d campâgnaarmasti da par ló int e’ fê’ dla sérasânza un’ora pro nobise ‘d dentr e’ Signór grið dla sacristìl’è int e’ scur d’un mur þal.

A zarcaren fen’a sérala luð ch’la þuga con l’òmbra dla róvrae par fê’ prèma a ciaparen ‘d travérsmo a n’i faren guadâgn. Piò têrd ad nöta us sent e’ mònd cum ch’ l’éraal piöpi lònghi al stresa in êlt la vetala boza dj’élbar la dið una réchiaad drida e’ vent u j’è quaicvël ch’e’ ðmêða.

Intervento di Paolo Borghi

Come contributo personale a questa fattiva opportunitàdi ricordare l’opera di Tolmino Baldassari, avrei privilegia-to la lettura di alcune sue poesie tratte da Al rivi d’eria (unaraccolta dell’ 86 pubblicata da IL PONTE, col commento diFranco Loi).Le poesie prese in esame sono accomunate da un qualco-sa che sotto molti aspetti le rende omogenee, le concilia,e questa sorta di tramite si personifica nel vento. Unvento che, tuttavia, alla luce delle sue specifiche preroga-tive di impeto e mutabilità, assume e incarna via via neitesti prescelti, significati e ruoli ben definiti e selettivi.Quello che si fa esplicito, in qualsiasi modo, è l’avvicen-darsi nei componimenti in questione di quegli attributi diirruenza, tenacia e per contro anche di imponderabilità emistero, che in ultima analisi rendono il dilagare delvento una faccenda suggestiva, trainante e al tempo stessoinsostituibile.Proprio Al rivi d’eria, dunque, è titolo della prima poesiache non a caso funge anche quale copertina del libro dacui è tratta, e già dal titolo ci compenetra di un’atmosferad’attesa gravida di silenzi e soggetta all’assenza/presenzadi quell’aria che da sempre vaga inesausta sul mondo,

Tolmino Baldassari

a dieci anni

dalla scomparsa

Il 18 gennaio, presso il Palazzo dei Congressi diMilano Marittima, si è svolta la Giornatadedicata a Tolmino Baldassari nel decimo

anniversario della scomparsa, in collaborazione fral’Associazione a lui intitolata e la Schürr.

Nel corso della manifestazione, agli interventi dinumerosi critici letterari si sono succedute le letture

di testi di Tolmino da parte di poeti ed amici.Contiamo di pubblicare sulla nostra rivista alcuni

di questi contributi. Iniziamo con gli interventi di Nevio Spadoni e

Paolo Borghi.

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la Ludla 3Gennaio 2020 - N. 1

un’atmosfera immota e del parimutevole, compendiata in un amal-gama di fattori essenziali al percorsodella silloge, che paiono chiudere informa sintomatica nell’animo e negliintenti del poeta il cerchio di un arca-no… di un sogno.

Al rivi d’êria

A staðen zet insen cun dal parôlie bandiri giazèdi fèrmi int l’aquavèrda sânza vent

un ðluntâna caicvël ch’a n’en ciapêrâma fiurida int l’êria rôðaluð de’ mònd ch’la camena vèrs e’ bösch

in so int al bêrchi i rid ch’i va a pèl d’aquaj amigh chi tòrna indrì chè e’ þir l’è curt

e l’è dalòngh che cânta e’ mèrale’ ciâma int l’êria fresca dla matenavapur chi dà un rispir nurmêlin dòv che pasa un gnitche zèrca al strêdi boni d’ètar tempe l’èra e’ vent ad mêrz ch’e’ rispirèva

un’êta vôlta e’ zet e’ bat dalònghint una stopia ch’la balena þala….

pruvì d’ciamê si fos incòra a lècaicvël ch’l’èpa ðmaðèuna bulêda d’sòl in so int la cvèrta

e d’nöta e’ bat j urloðcumè l’òmbra dla fiâmba dla candèlacun l’aqua ch’la va avânti a pidariulcumè s’ui fos nenca stanöta e’ cochin so int al rivi d’êria

al vòði ch’al s’arduð int i þardenl’aqua de’ mêr ch’la ðbèsa sota i pie’ vent e’ vent che pasa e t’ai sid’dentar

Fin dall’inizio con quel “A stasen zet”che introduce la lettura, Tolmino cifa intuire la rilevanza che posseggonoper lui la quiete, il raccoglimento,l’introspezione.Giusto il silenzio e quanto gli fa dascorta, infatti, può essere ritenuto untratto distintivo della poesia e dell’in-tera raccolta, così come, del resto,l’ineluttabilità e la fuggevolezza deltempo concesso in dote all’uomo, untempo che, concludendosi, sradica

fatalmente da lui tutto ciò che eglinon è stato veloce a interiorizzare… afar proprio (nella fattispecie quellarâma fiurida int l’êria rôsa)…a far pro-prio, dicevo, nel corso di quel brevegiro in barca che sembra alluderesenza indugi alla caducità della vitaumana.Un verso dopo l’altro il poeta si com-penetra in una sorta di personale eemblematica simbiosi con la naturache ci circonda, e che l’uomo, senzaneppur rendersene conto, già allora(non scordiamo che la poesia risaleagli anni ottanta) aveva preso adoltraggiare senza remissione, a dispet-to di quanto si lasciava degradato allespalle, incluso il canto del merlo…inclusi… quei vapori che danno un respi-ro di normalità alle cose… Tutte concretezze oggettive, insom-ma, che egli, giovandosi di quel nien-te… ad che gnint che zèrca al strêdi bonid’ètar temp, bramerebbe individuare erecuperare tramite la poesia, indennicom’erano una volta. Purtroppo il tentativo di riappropriar-si del passato, armonizzandolo di paripasso col presente, è destinata a rive-larsi alla stregua di una mossa disillu-sa ed utopica, e questo pur facendoappello alla riproposizione di circo-stanze ineluttabilmente trascorse cheda sempre, comunque, paiono benpoco intenzionate a collaborare.E nondimeno continuano di notte abattere gli orologi e l’acqua a far muli-nelli come se ci fosse anche questa notteil cuculo sulle rive d’aria, attestando insostanza che si possono sempre trova-re vie di scampo alternative e consola-torie alla summenzionata carenza dicollaborazione. Determinante al sussidio, in ognicaso, quella presenza attiva, e dunquequel desiderio di non mollare, impli-citi per buona sorte nei valori difondo che fanno da cardine alla vita,impliciti nelle entità essenziali e con-crete come quel vento, che fin dai pri-mordi attornia e plasma la sostanzadell’uomo, suscitando e accrescendoin lui il desiderio di intraprenderesotto sua scorta l’itinerario senzariserve, un viaggio tutelato e sospintoda quel: e’ vent, e’ vent che pasa e t’ai sid’dentar, in modo analogo a quantofacevano i navigatori d’un tempo che

col vento e nel vento varcavano marie oceani, magari portando a termineil giro del mondo.

***La poesia di Tolmino, pur senzamenzionare la morte in modo espli-cito, da sempre è stata in intima rela-zione con la consapevolezza dell’aldi-là, con l’istintiva adesione ai silenziche gli fanno da scorta, con la conti-guità a un mondo dei defunti che invita, per un verso o per l’altro, aveva-no intersecato la propria esistenzacon la sua.E assieme al silenzio, di nuovo l’aria,e dunque il vento, compongono iltramite che congiunge e custodisce idue mondi altrimenti divisi: da unaparte quello percepibile dall’uomo,dall’altra quello non materiale…incorporeo, in cui sembrano dormirele sembianze degli scomparsi, in unsonno tanto leggero da far pensareche possano sempre svegliarsi (e t’pin-sares ch’is pö svigê’ dmatena).Ma ciò purtroppo non avviene, adispetto che si insista…e si insista achiamarli nella nebbia, senza peròche le invocazioni trovino alcunriscontro, mentre il vento, sèmparquel, perenne e senza confini, si faportavoce e interprete di un dolorecollettivo pervaso di nostalgia e dirimpianto.

I dôrma

I dôrma in tëra tot inseme t’pinsares ch’is pö ṣvigê’ dmatenamo sól al rovri al s ṣmêṣatachêdi so int e’ zil

e’ vent l’è sèmpar quele’ ṣbresa ‘d sfiânch dla bota pina ‘d giazint e’ canton la ca

prôva d’ciamê’ int la nebiavóṣa ch’la n trôva e’ fònde’ ṣbat al pôrti

cum’a sarebla adës la Nini?

L’érba int al brazi

Cs’a vu ch’a i dges a e’ ventstulghê int e’ fosl’érba int al brazij oc int e’ zil ch’is perdint un quaiquël ch’un fnes?

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la Ludla4 Gennaio 2020 - N. 1

Raccontaci un po’ di te, di chi eraNicola prima di intraprendere lacarriera di direttore d’orchestra.Sono ravennate, sia da parte mater-na che paterna, da generazioni. Sononato e cresciuto qui, e come per tantialtri ragazzi, Ravenna iniziava a star-mi un po’ stretta, non vedevo l’ora diandarmene e fare esperienze fuori.Così, raggiunta la maggiore età, misono trasferito a Parma, dove ho vis-suto per dieci anni e dove mi sonoformato come musicista.

Però, poi, sei tornato.Sì, sono tornato. A Ravenna hoconosciuto mia moglie e abbiamodeciso di crescere qui le nostre figlie,perché ritengo che sia una città amisura d’uomo, tranquilla, un con-testo adatto ad una famiglia, insom-ma. E poi c’è il mare. Non sarà comequello delle Baleari, certo, ma se

nasci in una località di mare è unacosa che poi ti manca, quando cel’hai lontano.

In che modo le tue esperienze fuoridalla regione, anche all’estero,hanno cambiato il tuo rapportocon la Romagna?Mi hanno portato sicuramente avedere la mia terra da un’altra pro-spettiva. Da un lato, è proprio graziealla distanza che ho rivalutato la miacittà, ne ho colto dei lati positivi cheprima, in un certo senso, non vede-vo, davo forse per scontati. Dall'altrolato, ne ho compreso meglio anche ilimiti. Quando dici che vieni dallaRomagna, sai, quasi tutti associanoimmediatamente la riviera, ma quel-la sud, da Cesenatico a Rimini, perintenderci. Quella parte di Romagnadove è forte la tradizione legata alturismo, dove anche grazie al cinema

I giovani e il dialetto - I

Nicola Valentini

Rubrica a cura di

Veronica Focaccia Errani

Apriamo questa prima Ludladel 2020 con una nuova

rubrica. A darci lo spunto,quel rinnovato (se vogliamo,

inaspettato) interesse neiconfronti del dialetto che

stiamo riscontrandosoprattutto da parte di quellagenerazione di romagnoli nati

fra gli anni ’80 e ’90,cresciuti a cavallo di due

epoche da un punto di vistanon solo storico-culturale, ma

anche linguistico. Sono moltiplicate le richieste

di corsi sulla lettura escrittura del dialetto, così

come è cresciuta la curiositàper l’etimologia di voci ed

espressioni dialettali ormai indisuso (ed il successo del

canale youtube RomagnaSlang, nel nostro piccolo, ne è

una prova). Il “perché" di questo fenomeno

non è banale, e forse vale lapena approfondirlo dando

voce ai diretti interessati. Daqui, l’idea di intervistare

alcuni giovani romagnoli, notial pubblico nei più svariaticampi, per riflettere insieme

sui temi dell’identità edell’eredità linguistica, in un

mondo in rapidocambiamento.

Per inaugurare questo spazio,abbiamo scambiato quattrochiacchiere con il ravennate

Nicola Valentini, classe1984, direttore d'orchestra

affermato a livellointernazionale, che si è

gentilmente prestato per laprima volta a dismettere i

panni di musicista e araccontare il suo legame con

la città d’origine ed il suorapporto con il dialetto.

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la Ludla 5Gennaio 2020 - N. 1

si è consolidata l’immagine del roma-gnolo amichevole, accogliente, simpa-tico. Ravenna invece si discosta daquell’immaginario comune, a mioavviso, è un luogo a sé. Fu sceltacome capitale proprio perché isolata,in mezzo alle valli, lontano da quellagrande arteria di comunicazione, dicircolazione di genti, che storicamen-te è stata la via Emilia. Credo chequesto abbia influito in qualchemodo sul carattere dei ravennati, suuna certa chiusura che ancora oggiavverto nella mia città, sotto varipunti di vista.

E se parliamo di dialetto, qualiimmagini vi associ?Quand’ero bambino, in casa sentivoquotidianamente parlare in dialetto imiei nonni. E quando si è piccoli, lefigure che si amano di più, moltospesso, sono proprio i nonni. Perme, quindi, era naturale cercare dicomunicare con loro nella loro lin-gua. Oggi tutti riconoscono i vantag-gi di un’educazione bilingue, ma apensarci bene non è una novità: già inostri genitori ne hanno avuto una.Come ora è normale parlare italianoin casa e studiare l’inglese a scuola,

un tempo si parlava il dialetto in casae si studiava l’italiano a scuola.Domani magari sarà la norma usarel'inglese in casa e studiare il cinese ascuola. Non ci vedo nulla di diverso,o di strano: si tratta solo dei tempiche cambiano e della società che siadegua.

È una considerazione non banale.Dalle tue parole è evidente che perte il dialetto è una lingua al pari dialtre, mentre a lungo è stata conside-rata una lingua “di serie B”, ed èuno stereotipo ancora vivo nellamentalità di molti…Certo che il dialetto è una lingua, èstata una lingua madre per secoli, incerte parti di Italia lo è ancora oggi.Una lingua con una tradizione orale,però: le vecchie generazioni comuni-cavano in dialetto, ma non pensava-no certo a scrivere in dialetto, perquello c’era l’italiano, o il latino, seguardiamo alla Chiesa. Negli ultimidecenni si è iniziato a scriverlo, e que-sta operazione è già indicativa di unpassaggio epocale, secondo me.

Quale futuro vedi, quindi, per ilnostro dialetto? A detta dei più,

sembrerebbe un “malato termina-le”: tu cosa ne pensi?Mentre frequentavo il liceo classico,in tanti mi chiedevano che sensoavesse studiare il latino ed il grecoantico, due cosiddette “linguemorte”. A parte il fatto che nonsono morte, ma si sono semplice-mente trasformate nel tempo e nel-l’uso, noi continuiamo a studiarleper il loro valore di patrimonio cul-turale, per ciò che in quella linguaci è stato tramandato. Lo stessocredo che sarà per il nostro dialetto:rimarrà come preziosa testimonian-za delle nostre radici. Per questoritengo che, oggi, chi scrive, chicompone in dialetto non stia facen-do un’operazione inutile, ma al con-trario stia dando al dialetto quelladignità letteraria che credo sia lachiave per la sua sopravvivenza. Inuna forma diversa da quella che èstata per secoli, è ovvio, ma negarlosarebbe un anacronismo. È lo stessoanche nel mio campo: nel proporrela musica di ieri non devo maidimenticare che davanti ho il pub-blico di oggi, e che quindi devo tro-vare nuove modalità per far arrivareil messaggio.

Ravenna - Teatro Alighieri: Nicola Valentinidirige la Sinfonia “Jupiter” di W. A. Mozart

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la Ludla6 Gennaio 2020 - N. 1

In questa terza opera, esattamente alcentro della sua produzione, SantePedrelli, il tenero cantore, l’omino difumo della poesia romagnola operaun scarto rispetto ai testi precedentipur entro i temi e le dinamiche disempre. Il mondo di Longiano nellalontananza e nell’eco del presente,Roma nella confidenza di un recipro-co possedersi, la meraviglia di unanatura informata dal frammento,l’esistenza allora come parte di questameraviglia in cui ogni tempo ed ognielemento pare sospendersi e sospen-dere il parlare umano entro una con-tinua creazione che lo trascende:sono ancora queste le riflessioni diuno sguardo e di una memoria vivis-sima. Più forte, e urgente, è la spintacui la parola sottende entro una que-stione di poetica strettamente legata aun costume del vivere che sa nel quo-tidiano servizio il bene e il vero del-l’esistere, il dire un suo strumento,un suo necessario ricordarsi. Questoè allora “il nodo al fazzoletto” deltitolo, il tenere a mente per nonammalarsi di versi, o forse per nonammalare i versi sempre riportati allaconcretezza di un reale di prova e par-tecipazione insieme. Di romantico haperò nella sua visione, come esatta-mente riportato da Pietro Civitarealenella prefazione, un bagaglio (“la pro-iezione dei sentimenti sulla realtàsensibile, l’azione del tempo cherestringe sempre più i confini dell’esi-

stenza, la natura che collide con lapsicologia e i propositi dell’uomo”)cui nell’approdo dar mestiere ad unsentire che sa dell’esistere la parziali-tà, ed il limite, ma anche quella ordi-narietà segreta della luce che ci saaltra storia tra le maglie di un proce-dere sovente incontrollato. Qui hainizio il dialogo, in un ininterrottoascolto, come detto tra queste paginepiù forte come Sante si sentisse pre-muto nel bisogno di tenere stretteforme del vivere e aspirazioni dellamemoria, ricordandone e rinsaldan-done il legame. Che è poi ciò che piùci fa umani, e prossimi all’interno diuna storia comune. Il ricordo alloranon è un perdersi all’indietro, mapartecipata azione di un apparteneresuscitato che ci conferma e si confer-ma risalendo dagli elementi della evo-cazione entro un presente cui tentaree trovare l’accordo nella vocazione acrescerci. Ed allora il mondo, cheancora risale innocente e libero per-ché puro entro uno sguardo che hasaputo coltivarsi nella salvaguardia di

ciò che legato e cresciuto, è legato ecresciuto per sempre, è il segno diuna appartenenza a quella favola delvivere che non cessa nella sua confi-denza di ripeterci all’assenso nel dive-nire miracoloso dell’esserci, e dell’es-serci insieme. E dunque per questo ilsuo resta un canto improntato allagioia, seppur sovente nella malinco-nia delle perdite, perché iscritta(secondo la più vera poesia) nell’unità di una parola che sa bened’ogni immagine l’immagine prima,l’uomo, il bambino nell’alveo di unaprirsi che dallo spazio natale si rac-corda dalla casa alla terra, dalla fami-glia al paese in quel lembo che dallacollina di Longiano sa unirsi al mare.Un mondo esatto e collettivamentecompiuto però, in un volo a cui ilcaro Sante, come di rondine, noncessa mai di distendersi nel riconosci-mento delle care cose, dei cari ordininella comprensione di quella pienez-za che gli viene dal sentirsi nella natu-ra natura (come in Cuntantèzza “Con-tentezza” ad esempio dove lo sguardo

Sante Pedrelli

E’ nòud me fazulètt

di Gian Piero Stefanoni

Gian Piero Stefanoni è uncritico letterario e poeta

romano che ha avuto la sortedi frequentare e di stringere

un rapporto di amicizia conSante Pedrelli (Longiano,28 aprile 1924 – Roma, 11

novembre 2017).Sul sito web “Poeti del Parco”

ha pubblicato la recensionedelle prime due raccolte del

poeta di Longiano: L’udòurde vent e E’ ghéfal.

Di recente ci ha proposto unanota al terzo libro di Pedrelli,

E’ nòud me fazulètt, che volentieri pubblichiamo.

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la Ludla 7Gennaio 2020 - N. 1

Ci siamo permessi di aggiungere, in appendice alla recen-sione di Gian Piero Srefanoni, alcune poesie a nostra scel-ta, tratte da E’ nòud me fazulètt.

La redazione

L’artòuran

U m’ven da piénz s’a pens ch’l’è i utum dètla mi chèsa si clómb, la bèla strèda.

Carghem int una machina, Lunzèin, una matòina prèst u s’dvénta pòrbia.

Marì la sta poch ben e la n’pò vnéi, a m’ sò zughé la véita int al paróli.

Il ritorno

Piango se penso che son gli ultimi giorni / nella mia casa coicolombi, la strada bella. // Mettimi in una macchina, Longia-no, / una mattina presto si diventa polvere. // Maria sta pocobene e non può venire / mi son giocato la vita dentro le parole.

E’ pastròc

E’ mi Signòur, t’é fat un bèl pastròca rigalèm la véita insén sla mòrta: e piò ch’a i pens, e piò ch’a dvent stralòc.

E tl’utum e’ ven stóuch’e’ déis: -Pedrelli, stop. -Mai vest e mai cnusóu.

Il pasticcio

Hai fatto un bel pasticcio, Signore, / a donarmi la vita assiemealla morte: / più ci penso, più divento strabico. // E alla fineviene questo che dice: - Pedrelli, stop. - / Mai visto e mai cono-sciuto.

***Améigh

A i ò di améigh ch’i scòrr soltènt dla nòta dl’invéran de vent dla nòiva e dla nébbia. Parchè ch’i n’scòrr dla mòrta s-cètt e nètt?

Amici

Ho degli amici che parlano soltanto della notte / dell’inverno delvento della neve e della nebbia. / Perché non dicono semplice-mente della morte?

lo risveglia sciolto già in quegli ele-menti di cui è parte e collante). Unmondo concretamente presente evivo, dicevamo, e di cui la sua Roma-gna non ne è che il paradigma, allacui possibilità ci richiama nella forzadi un persistere da lui attraversato trale intemperie della guerra e della real-tà sociale (sindaco del suo paeseprima, Longiano appunto, e sindaca-lista poi) e dunque nel cuore di unconvivere in cui ognuno, nella dina-mica della propria storia, è racchiuso.È allora a non disperdere il bene diquesta tensione tutto lo sforzo di unascrittura sapientemente e coraggiosa-mente intrecciato tra frattura edespansa luminosità dell’insiemeriportate dunque nelle forme di unsogno che trovano, nell’epigramma enelle fantasie strofiche di un dire oral’esistenza per perdita ora per recupe-rata incisione, l’espressione di untempo cui la vita come la morterischiano di apparire come dietrouno stesso deserto. È quindi controquesto rischio, a ricordare piuttostola fioritura di una vita che non cessamai di stupirci e interrogarci nel rosa-

rio delle sue passioni, la maglia caldadi un gomitolo intessuto dall’amore,per la sua donna, Maria, e pei suoicari, familiari, amici, poeti (dall’affi-ne Balestra), la direzione di un detta-to che una volta esploso (il primolibro, L’udòur de vent, ricordiamo è del

1993, dunque alla vigilia dei settan-t’anni) non lo avrebbe più lasciato.Di questo ora ci premeva dire dopo lalettura di questo libro, nell’attestazio-ne di un momento critico forse dellasua produzione, la verifica di se stessoall’interno di una meraviglia e di unafantasia dello sguardo al servizio diquel dire etico e civile della parolamai disgiunto dal ricordare e doman-dare se siamo e proveniamo daglialtri. Avremo modo di analizzare poipiù nel dettaglio altre modalità eforme di una poetica che fino all’ulti-mo Extratime (2017) nella necessitàdella sua nominazione continuerà adabbracciarci. Oggi vogliamo ricordar-lo così, lasciandoci nella perfezionedi questa lirica (Quant vólti e’ soul -“Quante volte il sole”) che dice tuttodi Sante, del suo correre e affannarsinel sogno: Quant vólti e’ soul /u m’hacóurs dria, / quand ch’a ciapéva e’ treno:// e soùl ch’u n’t’lasa mai /ch’e’ te mimèr e’ nas / e te tu mèr e’ mór “Quan-te volte il sole /mi ha corso dietro,quando salivo sul treno: / il sole chenon ti lascia mai / che nasce nel miomare / e muore nel tuo”.

Sante Pedrelli, E’ nòud me fazulètt,Poesie scritte nel dialetto romagnolo diLongiano (1997 2002), Raffaelli Edito-re, Rimini, 2003.

Da: E’ nòud me fazulètt

di Sante Pedrelli

Page 8: Dante, la Ludla - dialetto romagnolo

la Ludla8 Gennaio 2020 - N. 1

Quest l’è un fat d quând che incoraa Fenza u j era al Pôrt, che se par lavia Milia da Furlè t avnivta a Fenza tat duvivta farmê a la dugâna e paghêla tasa par zerta röba a i grasir.Un dè un cuntaden e’ vneva da Redaa Fenza cun un car indo’ che sora u javeva una bëla carga ad fasen ad sar-ment che u li duveva purtê a Caghin,e’ furner de’ Fòran vëc. Davânti a laPôrta dal cêv, la Pôrta de’ Borgh dFenza e’ ferma e’ sumar par l’ispe-zion e e’ dis a e’ grasir: “Se me dmatena int e’ mëz ad stalfasen a j nascond un pôrch ch’a jò dapurtê a Gigin e’ mazlêr, vo a n l’avdìbrisa e acsè me a m sparmej adpaghêv la grasa. Èl mo un quël ch’u spösa fê?”

I grasir i s mitet a rìdar:“Vò, e’ mi umarël avì da rèsar imba-riêgh, o a sì mat! Mo a vliv che u spösa fê un quël de’ gènar?”. E e’ cuntaden: “Ah… u n s po pröpi brisa?... no,védal… me a pinseva: occhio nonvede… ecc… ecc…”. Alora i grasir i s’instizet: “Basta! Via via… circolare!”. Alora e’ cuntaden e’ dà la baja a e’sumar e u s’amöla vers e’ Borgh parscarghê al su fasen. La matena döp i grasir i véd arivêcun un’êtra carga ad sarment e’ cun-taden de’ dè prema. Alora e’ cman-dânt e’ taca a dì a i su grasir: “Farmil, farmil! Trama al su fasen u jà un pôrch!”

E e’ cuntaden: “No, no! U n j è gnint!” I grasir i taca a scarghê dal fasen, mode’ pôrch gnânch l’ombra. Alora i grasir i dget a e’ cmandânt:“A que u n j è gnint! Sol di sar-ment!”E’ cmandânt u s arvolz a e’ cunta-den: “Beh, e alora?”E e’ cuntaden:“Alora?... Alora, u j era air e’ pôrch!”.Da che dè, döp a ste fat, int e’ mipaés, quând t ariv têrd int ‘n’ucasiono int un aféri l’usa dì: “Ah… u j eraair e’ pôrch!”.Ste fat u l cunteva Tugnin d’Balasad’ Casanigh e l’à sèmpar zurê ch’l’èun fat evera.

U j era air e’ pôrch!

di Alfonso Nadiani

Illustrazione di Giuliano Giuliani

Racconto secondo classificato ex aequo al concorso e’ Fatorganizzato dalla nostra Associazione

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la Ludla 9Gennaio 2020 - N. 1

Quello del prossimo 15 marzo 2020a Cesena sarà il trebbo “in zir par laRumâgna cun cvi dla Scürr” n. 15.Eravamo partiti nella primavera del2013 recandoci a San Mauro Pascoliperseguendo l’idea di riprendere latradizione spallicciana dei trebbi dia-lettali nelle varie città romagnole. Ilprimo trebbo risale al lontano 1914in occasione di un raduno di emi-nenti personaggi della cultura roma-gnola voluto da Aldo Spallicci inquel di Bertinoro.* Dopo il pranzoconsumato in un ristorante su aMontemaggio, qualcuno cominciò arecitare e cantare in vernacolo. Itrebbi spallicciani si tennero a fasialterne prima e con continuità dopoil secondo conflitto mondiale; ad uncerto punto furono presi in manodalla Sucietê di piadarul di Forlì e ilpersonaggio che ne coordinava l’or-ganizzazione era considerato l’aþdor.All’aþdor Spallicci sono succeduti iforlivesi Antonio Mambelli, IcilioMissiroli, il castiglionese UmbertoFoschi, il cesenate Dino Pieri eMario Vespignani che per tanti annifu instancabile animatore fino al2008, quando i trebbi cessarono perlo scioglimento dei Piadarul. Alcunianni dopo la nostra Associazioneritenne di farsi promotrice dellaripresa di queste manifestazioni, chedanno possibilità di espressione acoloro che ancora si dilettano a scri-vere e comporre usando il nostrodialetto. Sembrava quasi una scom-messa e invece si è trasformata neglianni in una felice realtà: i nostri

trebbi sono due all’anno, uno in pri-mavera e uno in autunno, perché cisono sembrati i due periodi piùadatti agli spostamenti dei parteci-panti ed alla visita delle località ospi-tanti.I primi 14 trebbi si sono tenuti, insuccessione, a San Mauro Pascoli,Dovadola, Cervia, Bertinoro inoccasione del centenario del primotrebbo, Faenza, Longiano, San Mari-no, Riolo Terme, Villanova diBagnacavallo, Santarcangelo, For-limpopoli, Russi e Ravenna. Il pros-simo, come già anticipato, si svolge-rà il 15 marzo a Cesena. La procedu-ra organizzativa è ormai consolidata:una volta scelta la località si prendo-no contatti con le amministrazionicomunali e con eventuali associazio-ni culturali locali e si procede assie-me per definire orari e programmi,

compreso il ristorante opportuna-mente verificato in loco per stabilireil menu dell’immancabile pranzosociale, alla fine del quale si proce-derà allo svolgimento del trebbo.Nel notiziario allegato al numero diquesto mese potrete trovare il pro-gramma dettagliato dell’appunta-mento organizzato in collaborazio-ne con l’Associazione Te ad chi sit e’fiol, con la Biblioteca Malatestiana,dove sarà ospitato anche il trebbo, econ il Comune di Cesena.Un’occasione per ritrovarci con socied amici e rinnovare la tradizionenel solco del dialetto tracciato ormaipiù di cent’anni fa.

* Su quel primo trebbo vedi: AntonioCastronuovo, Compie cento annil’idea del “trebbo”, in «La Ludla»,anno XVIII, ottobre 2014, n. 9, pag. 6.

Il XV Trebbo della Schürr

di Sauro Mambelli

E quest cus’ ël?

Un nostro socio di Cesena ci ha portatopochi giorni fa in redazione questooggetto, chiedendoci a che cosa servis-se. Giriamo la domanda ai nostri lettori.È un attrezzo di metallo pesante e robu-sto con manico di legno. Le dimensionimassime sono di cm. 45x23 circa.Attendiamo la vostra risposta.N.B. Purtroppo non è un quiz e dunquenon si vince nulla.

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la Ludla10 Gennaio 2020 - N. 1

Il valzer è una danza in 3/4 che, insie-me alla polka e alla mazurka, forma ilnucleo fondamentale della musica daballo romagnola moderna.Per quanto il valzer ormai sia conside-rato a tutti gli effetti tipico del liscioromagnolo, la nascita di questo ballo,con la Romagna, c’entra ben poco. Le prime forme riferibili al valzer,infatti, possiamo ritrovarle in un’areacompresa tra la Svizzera, l’Austria e ilsud della Germania, dove già alla finedel ‘700 durante le feste rurali eranodiffusi balli di coppia su un accompa-gnamento strumentale rigorosamen-te in 3/4. Il Ländler e il DeutscherTanz, così si chiamavano, erano infat-ti danze che prevedevano due balleri-ni che tenendosi le mani eseguivanouna serie di movimenti alternati tracui anche i caratteristici battiti dimani. Non si può parlare ancora diballi a contatto veri e propri, ma è evi-dente come ci sia una progressiva coe-sione tra i ballerini rispetto ad altredanze, un esempio su tutti i folklori-stici Schuhplattler, dove ci si esibiscein saltelli e passi singolarmente. L’ingresso a corte di questi balli, laprogressiva riduzione delle parti salta-te e il successivo avvicinamento deiballerini portano al mutamento dinome, preferendo abbandonare il piùrustico nome ländler, che valeva gros-somodo paesano, a favore della parolawaltzer, derivata da waltzen che indical’atto di spianare il terreno, a rimarca-re il fatto che i piedi non dovesseropiù staccarsi dal pavimento.Momento decisivo per la diffusionedel valzer in Europa è l’ascesa altrono di Francia dell’austriaca Maria

Antonietta a fianco di Luigi XVI che,nella sua opera di rivoluzione deicostumi della corte, importa dallapatria questa danza, che nel giro dipochi anni diventa imprescindibilenelle serate più prestigiose. Nonostante la rivoluzione francese eNapoleone, la moda aveva già attec-chito in lungo e in largo e il valzerdivenne ben presto, anche grazie allaRestaurazione, presenza immancabilenei repertori di tutte le orchestred’Europa e non solo.Rientrato così dalla porta principaleanche a Vienna, questo ballo diventòin breve la danza più rappresentativanella corte austriaca, anche per meri-to di importanti autori come Lannere la famiglia Strauss. Ancora oggi,infatti, in occasione del Concerto diCapodanno presso il Musikverein, ivalzer (di cui il più celebre è sicura-

mente Sul bel Danubio blu) sono parteconsistente della scaletta.È proprio da qui, ispirandosi alla piùaristocratica tradizione mitteleuropeache il nostro Carlo Brighi, dettoZaclen, tra i primi violini dell’Orche-stra del Maestro Toscanini, decide diriproporre questa musica, che spingea ballare abbracciati, nelle aie e nellefeste romagnole, trovando subito unpronto riscontro tra il caloroso pub-blico di Romagna tanto da rimpiazza-re quasi totalmente le vecchie danzepopolari.Il resto della storia è probabilmentenoto ai più, con il giovane SecondoCasadei che si fa le ossa nell’orchestri-na Brighi, e che, una volta messosi inproprio, trasformerà il valzer nel ballopiù amato nelle balere componendo,tra gli altri, quel capolavoro che ormaiè il nostro inno: Romagna mia.

Inizia da questo numero unarubrica dedicata ai balli

popolari di un tempo, curatadal giovane Alberto

Giovannini, faentino,diplomato al Conservatorio,

docente di educazionemusicale nella scuola media,

attualmente impegnato pressola nostra redazione nel

tirocinio curriculare per lalaurea magistrale in

Italianistica.

I balli di una volta - I

Il valzer

Rubrica a cura di

Alberto Giovannini

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la Ludla 11Gennaio 2020 - N. 1

fatór: in ital. fattore, letteralmente‘colui che fa’ per conto terzi.1 Inter-posti tra padrone e mezzadri, i fattoriamministravano i poderi e tenevano iconti. Era raro sentirne parlar bene,quand’erano assenti. In un paese pic-colo come Civitella, ma non solo lì,dove la ricchezza era fatta di fondiagricoli e dove per alcune generazionisi tenevano a mente le vicende d’o-gnuno, tutti sapevano che i signorirecenti erano ex-fattori delle pochefamiglie ricche da qualche secolo,estinte o finite in miseria tra ’800 e’900, per aver lasciato i fattori abriglia troppo sciolta.2 Dei fattoriarricchiti subentrati ai proprietari, lanonna diceva: i ha incora la tera sot’agli óngi, che þa i s’ dà dl’ònda (cam-minano dondolando come chi s’èingrassato troppo; o, figuratamente,come chi si dà importanza). Ma forsein lei parlava il rimpianto per il gio-vane fattore che l’aveva lasciata vedo-va troppo presto, prema d’avé fatenca lu e’ so bel malét ‘sacchetto’.I modi di dire erano parecchi: buðe-der e lèder com un fatór3; fa’ e’ fatórpar si mið, t’camparé ben si èn; e’fatór u frega patròn e cuntaden; e’

fatór u t’ roba int i cont e pu u t’frega la spóða, ecc.4 E del fattore chegià possedeva della terra di suo, dice-vano: s’u compra ben int e’ marchédal bès-ci, l’ha cumprè par sé; s’ l’ hafat un afèri poc bòn, oh!, par chéðl’eva cumprè pr e’ patron.5

Note

1. L’è quel ch ’u fa vale per chiunquepossa decidere com’era il caso del-l’arþdór. Si dice pure: l’è ’na volta, o l’èe’ disten, o l’è l’ucasiòn ch’la fa (quindi,prima o poi, capita anche l’improbabile).2. O perché alla ricchezza fondiaria s’ag-giungevano altre forme di ricchezza.Nelle veglie tra il serio e il faceto si rac-contava che fosse stato chiesto ad ungrande proprietario terriero: U ’n è orach’a cambiiva fatór, dato che quest cheque u v’ha þa frighé meþ mond? E ilpadrone rispose: T’vó vdé se un fatórnov u m’ arpulés da fat [del tutto]? Lafarmacista, tra le due guerre, amministra-va i suoi poderi senza fattore, parchè a tôsó l’è sa [lat. satis] i cuntaden.3. Ad un maestro di campagna, che giu-dicava un alunno molto intelligente,capitò di sentir la madre, con una lungaserie di figli tutti un po’ tonti, bor-bottare tra i denti con una certa soddis-fazione: sta’ bòn (meno male): u’ s vedch’ u tira a la vóipa, riferendosi al fat-tore. Ma il marito, benché si fosse trova-ta migliorata almeno in parte la razza, sen’andava in giro con l’aria d’un cane bas-tonato: in troppi sapevano chi fosse ilvero padre; anzi, a che burdél u si liþevaint la faza, com u suzéd par disdèttapropri coi fiol rubé. Così erano chia-mati, almeno dalle mie parti, i figli messial mondo fuori del proprio letto: masarebbe stato più logico definirli regalé,poiché affidati al buon cuore altrui. Sepu la voipa la i era ad pel ròss – u j eraun fatór ch’ii dgiva e’ Rusìn – u ’n unðrazèva gnenca on, no sol pr avé int lafaza i cavél ross e e’ rèmmol [‘crusca’,cioè ‘lentiggini’], ma parsena int e’ mucìsó [ammucchiare] di baioc. Un altro fattore aveva indotto una con-tadina ad appartarsi con lui sota unalazèra – la ‘lacciaia’ era il filare di gelsi ociliegi o mandorli e viti che divideva icampi tra loro – e s’apprestava a fè e’ sodvér, quando la donna esclamò: Guardì,guardì, ch’ui è a lé ’na bessa a boca aver-ta ch’ la v’ fa la lengua propri a vo. Al

che il fattore, stizzito, rispose: Va’ t’ amora d’azident, u t’ pè quest e’ mumentad badè a la bessa? Te pensa piotòst a fèdal corni a che’ bèc de’ to òm.4. A Civitella si dice di norma buðèrdche per attrazione diventa buðèder,quand’è accoppiato con lèder. 5. Fino a mezzo secolo fa, usavano direancora patròn soprattutto i contadinidiscesi dalle vette dell’Appennino (dal’Èip).

bas: in ital. basso. Non era un aggetti-vo latino, ma ‘osco’, di una linguaaffine al latino parlata in vaste zonedell’Italia meridionale: nel latinoclassico Bassus compare infatti solocome nome gentilizio d’origine cam-pana. Ma l’aggettivo, proprio di unazona ristretta si diffuse, seppur nonin modo uniforme da richiedere inqualche luogo persino una glossa:crassus, pinguis, non altus «grasso,pingue, non alto» registrata daIsidoro di Siviglia. Ma in Italia la dif-fusione a livello popolare dovetteessere più capillare, benché chi inten-deva scriver bene in epoca classicaevitasse d’usarlo.L’aggettivo compare in italiano e indialetto in molte espressioni come:andè a la basa (in pianura; bass’Italiaindica il Meridione.); avé de’ mèl intal pèrti basi (intorno all’inguine);guardé bas (per umiltà o per ver-gogna, diverso quindi da guardè abas oppure da bas); armistè o stè bas(non farsi notare, o non montare insuperbia); éss piotòst basin; fè di bèssarvizi (pulire le latrine o giù di lì);cherna ad basa (era la carne di ani-mali morti per incidenti vari di cui sivendevano sottocosto a cura delleamministrazioni locali solo le partiritenute non infette); la tera la è basa(come sapeva chi doveva zappare): latera basa la fa dulì la schina; ecc. Viè poi il verbo, anche riflessivo ðbasè;vale anche in senso figurato: l’è orach’u se ðbèsa (nella superbia o, ancheper il prezzo richiesto).Più di mezzo secolo fa, una nonna diSanta Sofia raccomandò al giovanenipote arruolato in aviazione: Tepovrìn, a m’aracmànd, va piàn evola bas.

Rubrica curata daAddis Sante Meleti

Civitella 1936 - Forlì 2019

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la Ludla12 Gennaio 2020 - N. 1

Segue dal numero di Dicembre, pag. 3

9. I Cantieri Navali e la Sinistra delPorto. A partire dalla fine del XVIII secolo,Rimini divenne il primo porto delloStato Pontificio e anche il porto piùimportante fra Venezia e Ancona,con la più ampia flotta peschereccia.Nonostante ciò i cantieri navalierano ancora poco sviluppati, e perfar fronte alle crescenti richieste dinuove imbarcazioni nella prima metàdel XIX secolo - come si è detto -- ven-nero costruiti nuovi cantieri sullaDestra del Porto. Date queste premes-se il Porto di Rimini sarebbe diventa-to probabilmente un grande portopeschereccio e commerciale, congrossi cantieri e forse anche un quar-tiere industriale. Si è visto tuttaviache a partire dalla meta del XIX seco-lo cominciò a svilupparsi l’attivitàbalneare, e la città scelse il propriodestino nel momento il cui il Comu-ne decise, nella seconda metà delsecolo, di partecipare alla gestionedello Stabilimento Bagni. A partireda quel momento la maggior partedelle risorse pubbliche della cittàvenne investita nello sviluppo dellaMarina, per cui mancò la possibilitàdi fare grandi investimenti sul Porto.Per di più subito dopo l’unità d’Italiail porto di Ravenna era stato promos-so a Porto Nazionale e si erano fattigrandi investimenti per rendere navi-gabile il Canale Corsini, mettendocosì in comunicazione Porto Corsinicon la città e dunque con la ferrovia.In questo frangente si incontraronodunque due volontà, che probabil-mente si condizionarono a vicenda:lo Stato decise di puntare sullo svi-luppo di Ravenna, mentre la città diRimini decise di puntare sullo svilup-po delle attivita balneari. Con lo svi-luppo della Marina sulla destra delMarecchia i cantieri navali finironoper concentrarsi progressivamentesul lato sinistro del porto, e così giàall’inizio del XX secolo era rimastoun solo grande squero, quello cheancora oggi è «lo Squero» (e’ Squér)per eccellenza, il quale sorge propriosulla Sinistra del Porto (lettera H), difronte al Faro. Come si è detto nellaprima metà del secolo scorso sul lato

opposto erano ancora presenti i Can-tieri Gentili, ma anche questi sonostati travolti dallo sviluppo dellaMarina, per cui oggi il quartiere can-tieristico è definitivamente dislocatosul lato sinistro. Tradizionalmente i cantieri di Riminisono sempre stati specializzati nellacostruzione e manutenzione diimbarcazioni di stazza media e picco-la, e fino a pochi decenni fa questeerano costruite solo in legno, secon-do un’arte antica di secoli. Nella rea-lizzazione di queste barche svolge unruolo cruciale la figura del maestrod’ascia (e’ pröta)1, il quale, ricevuta lacommessa dall’armatore, progetta labarca, sceglie il legname e solitamen-te esegue lui stesso le opere più deli-cate, come la sagomatura della chiglia(la chégglia), detta anche «colomba»(la culåmmba)2, e del paramezzale (e’paramþël), le due grosse travi longitu-dinali entro cui vengono imprigiona-te le ordinate (agl’urdinëdi), o corbe (alcörbi), le quali, con una metafora trat-ta dal corpo umano, si possono con-siderare le “costole” della barca, lad-dove la chiglia ne è la “colonna verte-brale”. Questa sagomatura in passatoveniva appunto eseguita con l’ascia,uno strumento che assomiglia a unapiccola zappa dalla lama affilatissima,e per questo è detto popolarmente«zappetta» (la sapètta). Il maestrod’ascia inoltre dirige il lavoro degliartigiani impegnati nella costruzionedella barca, come i carpentieri o«marangoni» (sing. e’ marangoun, pl. imarangùn)3 e i calafati (e’/i galafà).Quanto all’attrezzatura (alberatura,manovre, bozzellame eccetera, cioètutto ciò che costituisce metaforica-

mente il “motore” della barca), essaviene realizzata da un artigiano spe-cializzato che è appunto l’attrezzista,detto tradizionalmente «l’alberante»(l arburënt).Se in linea di principio ognuna diqueste attività prevede una diversafigura professionale, poi di fatto unagran parte del lavoro degli artigianiconsiste nella manutenzione diimbarcazioni già esistenti. Questa inpassato richiedeva soprattutto l’inter-vento periodico di un bravo calafato,il quale spesso veniva anche imbarca-to sui grandi bastimenti mercantili omilitari. Così era frequente che imaestri d’ascia fossero anche calafati,o addirittura che fossero dei calafatiche avevano acquisito l’arte dellacostruzione. Di conseguenza al difuori della cerchia degli addetti ailavori spesso venivano chiamati gene-ricamente «calafati» tutti gli artigianiimpegnati nella cantieristica navale.Se già all’inizio del XX secolo sullaSinistra del Porto erano presenti deicantieri, lo stesso non si può dire perle abitazioni. Le fotografie e le piantedell’epoca mostrano infatti rari edifi-ci lungo il porto, per lo più di servi-zio o industriali, e una vasta campa-gna che giunge fino a pochi metridalle banchine. Fra le due guerrecomincia a comparire un nucleo abi-tato più consistente, distribuito inuna stretta fascia a ridosso del porto,e solo dopo la Seconda guerra mon-diale si avrà un’intensa urbanizzazio-ne. La Sinistra del Porto, dislocataoggi lungo l’omonima via, è dunqueun sobborgo con un’identità lingui-stica e urbanistica recente, tuttaviaquesto nucleo di abitazioni distribui-

I luoghi di Rimini

nella toponomastica popolare

IX

di Davide Pioggia

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13la Ludla Gennaio 2020 - N. 1

te in una stretta fascia presso il portocanale e pressoché isolate dal restodella città divenne presto un ambien-te sociale e urbanistico con caratteri-stiche peculiari, e con una forte con-centrazione di marinai e artigianiportuali. Pertanto, pur essendo unquartiere relativamente giovane, lo sipuò considerare uno degli eredi diuna cultura marinara e portuale vec-chia di secoli.

10. La BarafondaVerso la fine degli anni Trenta delsecolo scorso si completò la realizza-zione del Deviatore del Marecchia anord della città, dopo quasi vent’annidi lavori, i quali realizzavano un pro-getto vecchio di secoli. Questa nuovafoce del fiume consentiva appunto dideviare buona parte delle sue acque,proteggendo la città dal pericolo dellealluvioni che l’avevano spesso deva-stata in passato. In seguito, nel dopo-guerra, il porto è stato poi definitiva-mente trasformato in un canale chiu-so che termina al di sopra del Pontedi Tiberio. Nel frattempo tutta lazona a mare è stata urbanizzata, percui oggi fra il Porto, il Deviatore e laFerrovia si vede una distesa pressochéuniforme di edifici, che vengono con-siderati un unico quartiere, dettoufficialmente S. Giuliano Mare, poi-ché il risultato di quest’urbanizzazio-ne è lo stesso che si sarebbe avuto seil Borgo di S. Giuliano si fosse pro-gressivamente proteso verso il mare.Storicamente però le cose non sonoandate in questo modo, e sussistonoin quest’area dei nuclei urbani piùantichi della successiva urbanizzazio-ne a tappeto. In particolare abbiamogià visto che la Sinistra del «Porto,che si affaccia sull’omonima via, sipuò considerare un sobborgo dotatodi una propria identità sociale e lin-guistica.Lo stesso si può dire della Barafon-da (la Barafånnda), che ha il suonucleo storico nell’area indicata conla lettera I.Nell’antichità tutta quest’area fuperiodicamente devastata dalle pienedel fiume Marecchia, che già attornoall’XI secolo ruppe gli argini presso S.Martino in Riparotta, all’altezza diViserba. Per secoli dunque la zona è

rimasta quasi certamente paludosa einospitale, e infatti essa appare deltutto spopolata nelle illustrazionifino alla metà del XIX secolo. Le cosecambiano verso la fine del secolo,quando nelle tavolette catastalicominciano a comparire alcune spo-radiche costruzioni e il tracciato dialcuni fossi che attraversano l’area,tant’è che la zona a nord del Marec-chia veniva detta anche «i fossi» (ifåss) ancora nei primi decenni del XXsecolo. Questi cambiamenti, seppureminimi, dimostrano che l’area erastata bonificata ed era diventata colti-vabile, sicché poterono insediarsidelle famiglie di contadini e ortolani.Queste per integrare le loro renditepraticavano anche la pesca dalla riva,dalla quale si può «pescare alla tratta»(pschë a la tràta) o «con lo spontale»(pschë s’ e’ spuntël).Nei primi decenni del XX secolo pres-so la Barafonda compare già un iniziodi urbanizzazione, la quale acceleranotevolmente dopo la realizzazionedel Deviatore, e ancor più dopo laSeconda guerra mondiale. Oggi,come si è detto, non c’è soluzione dicontinuità fra la Barafonda e la Sini-stra del Porto, e ufficialmente si trattadello stesso quartiere: S. GiulianoMare. Fino a pochi decenni fa esiste-va una sorta di pudore diffuso a usareil nome «Barafonda», ma c’è chi hacontinuato a rivendicare la propriaidentità culturale anche nelle sceltetoponomastiche, e da qualche anno ildesiderio di recuperare anche ufficial-mente quel nome sembra essersi raf-forzato e diffuso. Si è arrivati cosìall’eccesso di chiamare Barafondatutto il quartiere di S. Giuliano Mare,ma si tratta appunto di un eccesso,perché – ad esempio – chi è nato ecresciuto sulla Sinistra del Porto puòanche dire di essere di S. GiulianoMare, ma non può certo dire di esse-

re della Barafonda. Anche dal puntodi vista linguistico si tratta di parlatediverse, e i riminesi sono ben consa-pevoli di questa differenza. In linea dimassima possiamo dire che la Bara-fonda è compresa fra il Deviatore delMarecchia e il Parco Briolini, sortonell’area delimitata fino a pochidecenni fa da due dei suddetti «fossi»:il Dosso e il Dossetto.Proprio sul Parco Briolini si affacciada qualche anno l’ingresso della dar-sena Marina di Rimini, uno dei piùimportanti porti turistici del Mediter-raneo, che si allunga nell’ultimo trat-to del lato sinistro del porto, per cuiesso appartiene in parte alla Sinistradel Porto e in parte alla Barafonda,per lo meno secondo la percezione dialcuni. Alla realizzazione della nuovadarsena ha fatto seguito poi unaripresa dell’urbanizzazione, sicché ilquartiere di S. Giuliano Mare stadiventando uno dei quartieri piùmoderni e di maggiore espansionedella città, dopo essere stato conside-rato per decenni un quartiere limitro-fo, escluso sia dalla Città storica siadalla Marina vera e propria.

Note

1. Questo termine deriva dal venezia-no proto: così a Venezia si chiamava ingenere chi dirigeva una maestranza.2. Mentre il termine «chiglia» puòessere riferito a qualunque imbarca-zione, la «colomba» è propriamente lachiglia delle barche in legno di mediee piccole dimensioni, e anche questoè un termine preso dal veneto.3. Altro termine che probabilmente ègiunto a Rimini da Venezia. Basticonsiderare che la campana principa-le di S. Marco è detta Marangonaproprio perché è quella che con i suoirintocchi dava inizio alla giornatalavorativa dei «marangoni».

Fine

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la Ludla14 Gennaio 2020 - N. 1

Quel ch’u i vô (par do parson)

• ¼ ad lìtar ad lat• ½ bichir d’aqua • 3 cuciarê ad simunëla o d mnëstra cöta

e avanzêda da mëþdè, tridêda• 1 ôv • 2 cuciarê ad zòcar• 3 cuciarê, schersi, ad farena• 3 cuciarê cojmi ad pân gratê• la gòsa gratêda d’un limon

Cuma ch’u s fa

Armis-cê gnaquël e pu mètar l’impast, una cuciarê a la vôlta(aiutendas cun un did o un’êtra cucêra), a frèþar int l’ôlibulent. Cavê al fartël cöti cun la ramena e metli a sughêsins la chêrta þala e pu sarvili chêldi e inzucarêdi.

Al fartël

Al rizët dla sgnora Maria

Al frap ad Cranvêl

Quel ch’u i vô

4 èto ad farena2 ôv50 grem ad butì o ad gras50 grem ad zòcar1 piþgutin ad sêlUna cucêra ad Mistrà

Cuma ch’u s fa

Impastì ben ben gnaquël e se l’impast e’ fos tröp dur faðil piòmurbi cun queica cuciarêda d’lat. Tirì una spoja pröpi stila,cun la rudëla tajì dal strèsal che a farþarì int un bël pô d’grasbulent e pu spurbjili sora cun de’ zòcar.

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la Ludla 15Gennaio 2020 - N. 1

A proposito di uno dei bellissimi sipa-rietti di Romagna Slang, vorrei dare unpiccolo contributo circa il modo didire “Fê’ i pi róss” per definire il pas-saggio delle ragazze nubili dallo statodi speranzose ricercatrici d’un maritoa quello di rassegnate zitelle (purtrop-po si tratta dell'ennesima prova delmarcato maschilismo delle nostreterre ma in questo siamo sempre statiin buona compagnia con tanti altriconnazionali d'altre contrade).In realtà, e riporto la cosa dalla testi-monianza diretta di mio padre Giu-liano Ghiberti (Ravenna, 1926-2018),accanito cacciatore e uno dei migliorifucili di Ravenna (...), l'espressionecompleta suonerebbe così:Fê’ i pi róss coma la flâna (ma Ercolaniscrive “fléna”) = Fare i piedi rossicome la pavoncella.La pavoncella, che è uccello di vallemigrante nei paesi del centroeuropaper nidificare e riprodursi, ha da gio-vane le zampe d’un color carnicinopiuttosto spento che vira sempre piùal rosso pieno man mano che l’ani-

male invecchia e tende a diventarstanziale. Col che ben si spiega ilsignificato del modo di dire...

Giorgio Ghiberti - Ravenna

Ringraziamo il sig. Ghiberti per la preci-sazione che ci ha inviato, allegando duefoto tese ad avvalorare quanto sostenuto.Purtroppo la Ludla è stampata in biancoe nero e non possiamo sottoporre la que-stione al giudizio dei nostri lettori. Cilimitiamo a pubblicare una delle due foto,se non altro per mostrare l’eleganza diquesto uccello di palude.

Ho letto le indicazioni per prepararela “sopinglesa” sul n. 12 dicembre2019, pagina 14, nella rubrica “Alrizët dla sgnora Maria”.

Non potendo contattare la collabora-trice/collaboratore, manca la firma,mi rivolgo alla redazione perchécredo sia impossibile eseguire la pre-parazione utilizzando “4 ôv”. Per labuona riuscita della ricetta è fonda-mentale utilizzare “4 tóral d’öv”.Purtroppo questa piccola svista rendeirrealizzabile la “sopinglesa”.Ringrazio per l’attenzione.Cordiali saluti

Marisa Fabbri - Via e-mail

Gentile lettrice,molto probabilmente ha ragione, ma devodire che abbiamo trovato diverse versionidella sopinglesa perché pare che ognifamiglia ne abbia una propria che si sco-sta di poco dalle altre. (con albume, senzaalbume, con buccia di limone, con lattefreddo, con latte caldo ecc.) Proverò afarla con la precisazione che lei ci suggeri-sce. Cari auguri e continui a leggerci emagari a bacchettarci benevolmente!

Carla Fabbri

P.S. Gent.ma signora Marisa,ricordo a Lei ed a tutti i lettori che laLudla non è una rivista di cucina e che,più della correttezza (per altro auspicabi-le) delle dosi e dei procedimenti, lo scopodella rubrica è quello di rievocare e conser-vare il nome autenticamente dialettaledei vari ingredienti e degli utensìli adope-rati in cucina per la preparazione dei cibi.

gilcas

Pri piò

znen

Ripensate alle vacanze di Natale da poco trascorse e mettete le parole mancan-ti al posto dei puntini scegliendole fra quelle in fondo:

- E’ sumar cun e’ bo i scaldéva …..................................- La Befâna la vuleva cun la …........................................- Adës l’è un …................................... che u s bat i dent.- Int la calzeta di babin capriciuð u j éra sól de’ …...........- Al lùdal al va so par e’ …................ e al fa cich – cioch.- I righéli i arluðeva sota ..............................… ad Nadêl.- Sora la capâna e’ briléva la ........................................…

fred, Gesù Bambino, garnê, carbon, l’êlbar, camen, stëlacun la coda

A cura di Rosalba Benedetti

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la Ludla16

«la Ludla», periodico dell’Associazione Istituto Friedrich Schürr • Editore «Il Ponte Vecchio», Cesena • Stampa: «il Papiro», CesenaDirettore responsabile: Ivan Miani • Direttore editoriale: Gilberto Casadio

Redazione: Paolo Borghi, Roberto Gentilini, Giuliano Giuliani • Segretaria di redazione: Veronica Focaccia Errani

La responsabilità delle affermazioni contenute negli articoli firmati va ascritta ai singoli collaboratori

Indirizzi: Associazione Istituto Friedrich Schürr e Redazione de «la Ludla», Via Cella, 488 •48125 Santo Stefano (RA)Telefono e fax: 0544.472261 •E-mail: [email protected] • Sito internet: www.dialettoromagnolo.it

Conto corrente postale: 11895299 intestato all’Associazione “Istituto Friedrich Schürr”Info Point della Schürr: Libreria Dante di Longo - Via Diaz 39 - Ravenna - Tel.: 0544 33500

Bottega Bertaccini - Corso Garibaldi 4 - Faenza - Tel.: 0546 681712 • Libreria Alfabeta - Via Lumagni 25 - Lugo - Tel.: 0545 33493Poste Italiane s.p.a. Spedizione in abbonamento postale. D. L. 353/2003 convertito in legge il 27-02-2004 Legge n. 46 art. 1, comma 2 D C B - Ravenna

Nell’incalzante e convulsa stagione che in una maniera onell’altra ha precorso l’avvento del duemila, abbiamo assisti-to, e d'altra parte non solo in Romagna, a tutto un imporsidi nuove voci che hanno preso ad affrontare la poesia espres-sa in dialetto, con toni ben poco analoghi a quelli degli auto-ri che li avevano preceduti.Questo, in primo luogo, trattando e approfondendo temati-che che fino a quel momento, gli anacronistici fiancheggia-tori della tradizione, avevano considerato non solo inadattema senz'altro sconvenienti a ogni linguaggio locale, in quan-to impraticabili dal suo lessico ed estranee alle sue caratteri-stiche distintive.Quale retaggio di soggetti inesplorati e non convenzionali èdunque giunto alla luce, restando poi a disposizione deipoeti che hanno stabilito di avvalersene, dotati a ogni buonconto della padronanza e della sensibilità necessarie perfarlo in maniera appropriata, ma anzitutto persuasiva.Nella poesia di questa pagina sedici, muovendo proprio daqueste rinnovate tendenze, volte a conferire idoneità inso-spettate alla lirica dialettale, le nozioni connesse eppure anti-tetiche di tempo e di eternità erompono in maniera indaga-trice e trainante dall’incalzare dei versi, avendo buon gioco

nel prospettarsi all’animo del lettore come due delle piùemblematiche.Coadiuvando poi alla chiusura del cerchio, prende posizio-ne il tema della morte il quale, legato com’è fin dai primor-di alla nostra presenza terrena, col suo incombere vessatorioed ostile completa il circuito, aumentando a dismisura ilcumulo di insicurezze e precarietà che da sempre contraddi-stingue l’esistenza delle persone.Il concetto della dipartita, conclusione aspra e perentoria diqualunque arco vitale, si perde nella notte di un tempo cosìremoto da non serbare tracce accertabili e forse per questoviene affrontatato sovente, specie in poesia, nel tentativoinconscio di esorcizzarla scongiurandone in qualche modolo spettro.La morte, in effetti, è una condanna dalla quale l’uomo èoppresso e turbato insieme, oppresso in quanto, imperscru-tabile, simboleggia nella sua mente l’avvento di un nulla chenon riesce o intende accettare, turbato poiché, in ogni caso,lo strappa da ciò che lo concerne ed avvince in maggior misu-ra: dagli affetti, dalle emozioni, dalla vita stessa insomma. E su questa triade dispotica e intimidatoria, compendiata daGino Della Vittoria all’interno di un’intrigante poesia inromagnolo, l’umanità si è interrogata e continuerà a farlosino a quando un passe-partout conforme e misericordiosonon acconsentirà l’accesso a una porta, al di là della qualeogni enigma potrebbe trovare la propria soluzione, o maga-ri porci di fronte a un arcano ancor più inesplicabile.

Paolo Borghi

Int l’eteran

U i sarà pu un pasagpar scapè d’int e’ tempe antrè int l’etéran:‘du èl e’ cunfen? Parec i ralenta pien pien‘t un’avciaia lunghesima.Parec i va a sbat d’impruvisaint la sbara:c’m a farai a capì’ch’u n s’conta piò agli òri?

E po’ s’a vol dì’ etéranse e’ temp u n gn’è piò?

Nell’eternità Ci sarà pure un passaggio \ per uscire dal tempo \ ed entrare nell’eternità:\ dov’è il confine?\ Parecchi rallentano, pianopiano \ in una vecchiaia lungissima.\ Parecchi vanno a sbattere all’improvviso \ nella sbarra:\ come faranno a capire \ che non si contano piùle ore? \\ E poi che vuol dire eternità \ se il tempo non c’è più.

Gennaio 2020 - N. 1

Gino Della Vittoria

Int l’eteran