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la Ludla 1 “Poca favilla gran fiamma seconda” Dante, Par. I, 34 la Ludla (la Favilla) Periodico dell’Associazione “Istituto Friedrich Schürr” per la valorizzazione del patrimonio dialettale romagnolo Autorizzazione del Tribunale di Ravenna n. 1168 del 18.9.2001 Questo numero è stato realizzato con l’apporto del Comune di Ravenna Società Editrice «Il Ponte Vecchio» Anno XIX • Settembre 2015 • n. 7 (162°) SOMMARIO Dagli archivi parrocchiali al DNA dei romagnoli - Parte seconda di Alessio Boattini Mauro Platani - Eravamo ragazzi di Monteguidi Röb d’incudè - Critica goliardica al concetto di ‘tendenza’ di Silvia Togni E’ temp di Alessandro Gaspari E’ ðgranfâgn Testo e immagine di Sergio Celetti 1942: e’ grel di Marcello Savini La fôla dal tre uchini Fiaba nel dialetto di San Zaccaria raccolta e illustrata da Vanda Budini Tracce di un passato remoto IV - La trasfigurazione del culto dei morti in Romagna - Parte Seconda di Gian Maria Vannoni Parole in controluce: de’ me / faza / fè a l’arvérs Rubrica di Addis Sante Meleti Uniformiamo la scrittura dialettale, cittadini! - Parte II di Dauro Pazzini Stal puiðì agli à vent... I scriv a la Ludla Giuseppe Bellosi - Requiem di Paolo Borghi p. 2 p. 4 p. 5 p. 6 p. 7 p. 7 p. 8 p. 10 p. 11 p. 12 p. 14 p. 15 p. 16 I vantaggi di un’educazione bilingue: ecco perché parlare in dialetto ai bambini fa bene Gentilissimi, da diversi anni la nostra Associazione collabora con gli istituti scolasti- ci del territorio attraverso progetti didattici mirati alla valorizzazione del patrimonio dialettale e culturale romagnolo, svolti da personale qualificato. Come premessa alla nostra offerta didattica, vi invitiamo ad una rifles- sione: che significato ha, al giorno d’oggi, avvicinare i bambini al pro- prio dialetto? Quale valenza didattica può detenere una lingua oramai in via d’estinzione? Il nostro Paese gode di un’inestimabile risorsa – rappresentata dalle tantissime parlate locali – che purtroppo viene ampiamente sottovalu- tata, complice una concezione spesso distorta del nostro patrimonio linguistico, la quale permane ancora oggi. L’uso del dialetto è stato a lungo additato come una delle principali cause del cattivo apprendimento della lingua italiana e, per questa ragione, duramente osteggiato. Ciò ha alimentato una serie di stereo- tipi, quali l’idea che l’impiego del dialetto sia sinonimo di scarsa sco- larizzazione (e quindi arretratezza culturale), o la concezione del dialet- to come “lingua di serie B”, adatta a discorrere quasi esclusivamente di cose basse. Occorre però ricordare che le varietà dialettali hanno rappresentato la vera lingua madre degli italiani fino alme- no alla metà del secolo scorso, mentre la lingua nazionale veni- va appresa solo in un secondo momento, sui banchi di scuola: è del tutto naturale, quindi, che la parlata dialettale influisse sulla pronuncia, sulla sintassi e sul lessico dell'italiano. Continua a pag. 3 Lettera aperta a docenti e dirigenti scolastici Settembre 2015

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la Ludla 1

“Poca favilla gran fiamma seconda”Dante, Par. I, 34

la Ludla(la Favilla)

Periodico dell’Associazione “Istituto Friedrich Schürr”per la valorizzazione del patrimonio dialettale romagnolo

Autorizzazione del Tribunale di Ravenna n. 1168 del 18.9.2001

Questo numero è stato realizzato con l’apporto del Comune di Ravenna

Società Editrice «Il Ponte Vecchio» Anno XIX • Settembre 2015 • n. 7 (162°)

SOMMARIO

Dagli archivi parrocchiali al DNAdei romagnoli - Parte secondadi Alessio Boattini

Mauro Platani - Eravamo ragazzi diMonteguidi

Röb d’incudè - Critica goliardica al concetto di ‘tendenza’di Silvia Togni

E’ tempdi Alessandro Gaspari

E’ ðgranfâgnTesto e immagine di Sergio Celetti

1942: e’ greldi Marcello Savini

La fôla dal tre uchiniFiaba nel dialetto di San Zaccaria raccolta e illustrata da Vanda Budini

Tracce di un passato remotoIV - La trasfigurazione del culto deimorti in Romagna - Parte Secondadi Gian Maria Vannoni

Parole in controluce: de’ me / faza /fè a l’arvérsRubrica di Addis Sante Meleti

Uniformiamo la scrittura dialettale, cittadini! - Parte IIdi Dauro Pazzini

Stal puiðì agli à vent...

I scriv a la Ludla

Giuseppe Bellosi - Requiemdi Paolo Borghi

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I vantaggi di un’educazione bilingue:

ecco perché parlare in dialetto ai bambini fa bene

Gentilissimi,da diversi anni la nostra Associazione collabora con gli istituti scolasti-ci del territorio attraverso progetti didattici mirati alla valorizzazionedel patrimonio dialettale e culturale romagnolo, svolti da personalequalificato. Come premessa alla nostra offerta didattica, vi invitiamo ad una rifles-sione: che significato ha, al giorno d’oggi, avvicinare i bambini al pro-prio dialetto? Quale valenza didattica può detenere una lingua oramaiin via d’estinzione?Il nostro Paese gode di un’inestimabile risorsa – rappresentata dalletantissime parlate locali – che purtroppo viene ampiamente sottovalu-tata, complice una concezione spesso distorta del nostro patrimoniolinguistico, la quale permane ancora oggi. L’uso del dialetto è stato a lungo additato come una delle principalicause del cattivo apprendimento della lingua italiana e, per questaragione, duramente osteggiato. Ciò ha alimentato una serie di stereo-tipi, quali l’idea che l’impiego del dialetto sia sinonimo di scarsa sco-larizzazione (e quindi arretratezza culturale), o la concezione del dialet-to come “lingua di serie B”, adatta a discorrere quasi esclusivamentedi cose basse. Occorre però ricordare che le varietà dialettali hanno

rappresentato la vera linguamadre degli italiani fino alme-no alla metà del secolo scorso,mentre la lingua nazionale veni-va appresa solo in un secondomomento, sui banchi di scuola:è del tutto naturale, quindi, chela parlata dialettale influissesulla pronuncia, sulla sintassi esul lessico dell'italiano.

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Lettera aperta a docentie dirigenti scolastici

Settembre 2015

la Ludla2 Settembre 2015

“Della spontaneità”. Questo potreb-be essere il titolo della nostra ricerca:un lavoro che, come ha ben racconta-to Mauro Mariani, ha preso lenta-mente forma assecondando le circo-stanze che via via si presentavano,senza troppi piani prestabiliti. Sonoun ricercatore dell’Università diBologna (Dipartimento BiGeA) chesi occupa di genetica di popolazioniumane. Oltre a questo, da sempresono un appassionato frequentatoredi archivi storici fra Romagna eToscana. Ecco dunque i primi margi-ni di sovrapposizione e di consonan-za fra di noi. Ovviamente esistonoanche motivi più propriamente pro-fessionali. Uno dei miei principalitemi di ricerca è lo studio della varia-bilità genetica umana in Italia. Qualè il legame fra genetica ed archivi?Dal punto di vista genetico, le popo-lazioni umane sono tutte estrema-mente simili; tuttavia esistono alcunepiccole differenze che possono carat-terizzare alcune popolazioni o areegeografiche. Queste differenze sonoin qualche modo “scritte” all’internodel nostro codice genetico, il DNA.Gran parte del nostro lavoro è cerca-re di capire quali sono i processi sto-rici che hanno prodotto la variabilitàgenetica che osserviamo oggi. Vistain questo modo, si capisce come leg-gere ed interpretare il nostro DNAnon sia poi tanto diverso da leggereed interpretare i vecchi volumi conte-nuti in un archivio “cartaceo”. Ognu-no di noi “conserva” all’interno diogni singola cellula del proprio corpouna serie di informazioni su di sé esui suoi antenati: un vero e proprio

“archivio biologico”, se vogliamo.Ecco dunque per sommi capi il lega-me fra genetica di popolazioniumane e il lavoro storico-genealogicodi Mauro Mariani e dei suoi collabo-ratori. La prima cosa da fare era selezionare,all’interno del nostro vasto archiviobiologico, la parte più utile. Il cromo-soma Y si prestava particolarmentebene alla bisogna. Questo cromoso-ma, infatti, si trasmette esclusivamen-te in linea paterna – come i cognomi– e quindi corrisponde perfettamentealle genealogie prodotte da Mauro. Aquesto punto ci siamo messi allaricerca dei discendenti delle famigliedi cui si avevano informazioni genea-logiche. L’idea era di trovare, per ognigenealogia, alcuni volontari dispostia contribuire con un loro campionebiologico (saliva, nel nostro caso).Idealmente, avevamo bisogno diquattro campioni per genealogia: duecoppie di parenti stretti (padre-figlio,

fratelli, cugini) fra di loro separate dalmaggior numero possibile di genera-zioni. Perché? I parenti stretti ci servi-vano per reciproca conferma, essen-do i metodi di laboratorio non esentida errori, mentre la lunga distanza frale due coppie consentiva di porre aconfronto i rispettivi profili genetici(del cromosoma Y) e rilevare eventua-li differenze. Questo è un puntoimportante: trasmettendosi di gene-razione in generazione, il DNA puòaccumulare alcuni piccoli cambia-menti dovuti a meri errori di trascri-zione, le cosiddette mutazioni. Senon ci fossero mutazioni, non cisarebbe cambiamento, l’evoluzionenon avrebbe ragione di esistere e noinon saremmo in grado di ricostruirealcunché. Intuitivamente, maggiore èil numero di generazioni che separadue individui, maggiore è il numerodi mutazioni che ci aspettiamo diosservare. Il primo obiettivo delnostro lavoro era proprio quello distimare la velocità con cui si accumu-lano queste differenze: il tasso dimutazione. Mi rendo conto che sitratta d’un problema che ben difficil-mente potrà interessare il grandepubblico; d’altro canto è di granderilievo per gli “addetti ai lavori”. Bastipensare che una volta che il tasso dimutazione è conosciuto, diventa unostrumento che può essere applicato aqualunque popolazione per cui sidisponga di dati genetici simili. A chescopo? Ad esempio per cercare didatare un’antica migrazione poco oper nulla documentata dal punto divista storico.

Dagli archivi parrocchialial DNA dei romagnoli

Parte seconda

di Alessio Boattini Dipartimento di Scienze Biologiche, Geologiche e Ambientali (BiGeA)

Università di Bologna

Pievequinta. La famiglia Melandri in una foto degli inizi del secolo scorso

la Ludla 3Settembre 2015

Fra Dicembre 2013 e Gennaio 2014gli “Amici della Pieve” raccolsero pernoi 113 campioni, 56 dei quali(insieme ad altri 43 precedentemen-te raccolti a S. Giovanni in Persicetoper una ricerca analoga) ci sono ser-viti per le stime di alcuni tassi dimutazione. Senza indulgere troppoin dettagli tecnici, abbiamo scopertoche alcuni particolari marcatori delcromosoma Y (RM-STRs) mutanomolto velocemente e quindi sonoparticolarmente utili per mettere afuoco eventi storici recenti, ma ten-dono a “saturare”, e quindi a perde-re capacità di risoluzione, già entropochi secoli. Altri marcatori risulta-no invece più lenti e quindi menoefficaci sulla breve distanza ma utiliper datare eventi accaduti più lonta-no nel tempo. Al termine di questafase abbiamo dunque messo a puntouna serie di strumenti per investiga-re la “storia genetica” di popolazioniumane. Il secondo obiettivo del nostro lavo-ro era proprio quello di ricostruire la“storia genetica” della Romagna.Devo premettere che questa secondafase è tuttora in corso ed i risultatifin qui ottenuti possono considerar-si poco più che preliminari. Occu-pandoci già da tempo della storiagenetica italiana, sapevamo che il

panorama genetico della penisola ècaratterizzato da due fasce longitudi-nali – non esiste quindi una divisio-ne Nord-Sud, come qualcuno potreb-be sospettare – che potremmoapprossimativamente definire “Pada-no-Tirrenica” ed “Adriatica”. Sapeva-mo anche che l’origine di questa‘struttura’ è relativamente recente,risalendo al periodo fra il Tardo Neo-litico e le Età dei Metalli ed è proba-bilmente da mettere in relazione adeventi migratori legati alla diffusionedelle tecnologie neolitiche in Italia.Ci aspettavamo che la Romagnaavesse a che fare con la fascia Adria-tica, invece abbiamo scoperto che lavariabilità genetica romagnola èsoprattutto legata alla fascia “Pada-no-Tirrenica”. Questo, tra le altrecose, implica che la presunta separa-zione fra Emilia e Romagna, per lomeno dal punto di vista genetico,non esiste. Altro punto di un certointeresse è una certa affinità che laRomagna – e in generale tutta lafascia Padano-Tirrenica – mostracon la penisola iberica e l’Europaoccidentale. Risulterebbe trascurabi-le quindi l’influenza bizantina sulterritorio, che pure aveva in Raven-na uno dei suoi centri principali.Altro aspetto interessante, ma anco-ra tutta da esplorare, è la presenza in

Romagna di alcune particolari linee(aplogruppi) del cromosoma Y. Inu-tile dire che alcune di queste (R1b inparticolare) rimandano di nuovoall’Europa centro-occidentale. Altre,più circoscritte, sono state ricondot-te ad un aplogruppo già attestato inItalia nord-occidentale. Le date asso-ciate a tale aplogruppo (circa 3600anni fa) e la sua distribuzione geo-grafica (che ha la massima frequenzain Europa Centrale) potrebberointerpretarsi come risultato di unamigrazione avvenuta da settentrioneverso la fine dell’Età dei Metalli. Equi, per ora, ci fermiamo. Come sivede gli spunti ed i motivi di interes-se sono tanti. Per approfondirli, bisognerebbe sen-z’altro ampliare il numero di cam-pioni (individui) coinvolti, magariprendendo in considerazione anchele principali emergenze urbane(Forlì, Ravenna, Cesena). Bisogne-rebbe analizzare altre parti delnostro “archivio biologico” oltre alcromosoma Y. Penso in particolarea quei marcatori genetici che si tra-smettono seguendo la linea materna(DNA mitocondriale) e che consen-tirebbero di ottenere il punto divista femminile della nostra storia.Speriamo di poterlo fare nei prossi-mi anni.

Lettera aperta a docenti e dirigenti scolastici

Segue dalla primaDiversi studi hanno invece dimostrato che, quando duelingue vengono apprese di pari passo, non solo la padro-nanza di entrambe risulta migliore, con fenomeni diinterferenza reciproca limitati, ma ne trae beneficio l’inte-ro sviluppo cognitivo del bambino: egli, infatti, non solotenderà in futuro ad apprendere più agevolmente qualsia-si altra lingua, ma mostrerà anche una maggiore elasticitàmentale su più fronti, abituandosi ad istituire confronti ecollegamenti logici. Perché, dunque, non ricorrere proprio al dialetto, che inmolte famiglie viene parlato ancora oggi da nonni e geni-tori accanto all’italiano, per imprimere un’educazioneplurilingue alle nuove generazioni? Abituare i bambini sindalla più tenera età all’ascolto di più idiomi (e ricordiamoche il dialetto è una lingua a tutti gli effetti, non una varie-

tà regionale dell’italiano!) rappresenta un investimento alungo termine. L’inglese, il francese o lo spagnolo sonostrumenti indubbiamente utili per muoversi in una realtàmulticulturale quale quella odierna, così come il dialettorappresenta le nostre radici, nonché un fondamentalebagaglio di valori e conoscenze a cui attingere. Riteniamo sia importante promuovere una diversa conce-zione delle lingue locali proprio a partire dalla scuola, inquanto luogo primario di diffusione della cultura nonchéprezioso tramite con le famiglie. Solo così, infatti, il dialetto e le tradizioni locali potrannotrarre nuova linfa e configurarsi come valido strumento diformazione. Restiamo a Vostra disposizione per qualsiasi chiarimentoo richiesta.Cordialmente,

Associazione Istituto Friedrich Schürr

la Ludla4 Settembre 2015

Il Monteguidi del titolo è una locali-tà che si trova sulla strada che daSanta Sofia porta a San Piero inBagno, poco dopo le prime risvolteche salgono al Passo del Carnaio.Qui hanno vissuto la prima partedella loro giovinezza Ivo Barchi – lacui vita ha dato lo spunto alle vicen-de raccontate nel libro – e i suoi fra-telli, in seguito trasferitisi, dopovarie vicende, nella zona del torrenteSamoggia fra il Montone ed il Marze-no sulle colline a sud di Faenza.Come chiarisce il sottotitolo, l’auto-re, Mauro Platani, è partito “Da unsuonatore” - Ivo Barchi, appunto -per giungere attraverso tantissimetestimonianze “a un mondo di musi-ca e colori, ma non solo, da una per-sona a una comunità”.Platani ha dedicato anni di tempolibero ad un’attività di ricerca volta asalvaguardare il patrimonio etnico-culturale e folkloristico della gente diRomagna. In particolare ha svoltouna ricerca approfondita dei ballidella nostra zona che cerca in ognimodo di far rivivere e trasmettere eche propone quando intrattiene ilpubblico con la sua Bânda de’Grel che ha fondato e a cui hade dicato e dedica impegno sis-tematico. “Eravamo ragazzi diMonteguidi” rappresenta ilfrutto degli ultimi 15 anni deisuoi studi e delle sue ricerche.Il libro, che gode del patrociniodella Schürr, si avvale del con-tributo di Loretta Olivucci, allaquale si devono la nota intro-duttiva, la redazione generale ela trascrizione delle parti dialet-tali, e di quello di PlacidaStaro, etnomusicologa di famanazionale, alla quale si devonola premessa al volume e il capi-tolo delle trascrizioni dei cantipopolari presenti nel libro.Se dovessimo riassumere conuna frase l’idea chiave che illibro vuole comunicare, direm-mo che è: La voglia di divertirsinonostante tutto.La voglia di divertirsi è un biso-gno dell’uomo, è un bisognodell’anima; le sue origini si per-dono nella notte dei tempi, maè un bisogno quanto mai attua-

le. È il “nonostante tutto” che cam-bia. Adesso potremmo dire: nono-stante la crisi, la disoccupazione,nonostante tutto quello che sentia-mo al telegiornale tutti i giorni… edè proprio questo “nonostante tutto”che costituisce il sottofondo dellibro.La scelta narrativa di Mauro Plataniè caduta su Ivo Barchi come voceconduttrice. È lui il vero protagoni-sta di questo libro, la persona che loha ispirato, il filo conduttore, colui

che ci accompagna anche senza appa-rire in ogni pagina, non solo comesuonatore, ma come uomo, con lasua storia, la sua vita familiare esociale, il suo impegno politico… L’originalità di questo contributo stanel ricostruire il confronto tra la per-cezione di sé, data dallo stesso Ivo, ela percezione del suo apporto allavita comune resa dalle altre vocidella sua famiglia e dei suoi cono-scenti.Poi, come una ragnatela, il lavoro si è

diramato a 360 gradi affrontan-do tematiche diverse, come adesempio le feste e le varie occa-sioni di ritrovo come la Pasquel-la, il Carnevale, l’Imburnêda, lafesta del Santo Patrono… finoalle Inserenate. Gran parte del materiale di que-sto libro è stato raccolto nellazona di Faenza, a monte dellavia Emilia, fino a Premilcuore,Rocca San Casciano, Passo delCarnaio e, naturalmente, Mon-teguidi.L’autore non ha trascurato isuonatori e ha raccolto spiritosianeddoti e fatti memorabili, neha sottolineato l’aspetto umanoe l’amore per la musica. Inoltremolti di loro, nelle interviste,hanno evidenziato i rapportiche avevano con Ivo e quantofosse gradita la sua presenza allefeste e nei momenti di vita quo-tidiana: infatti, lui si facevavoler bene da tutti sia per la suainnata simpatia e il sorriso sem-pre sulle labbra, sia per la suagenerosità e ospitalità. Per evi-

Mauro Platani

Eravamo ragazzi di Monteguidi

Mauro Platani. Eravamo ragazzi di Monteguidi. Imola, Edi-trice La Mandragora, 2015. Pp. 731 con numerose illustrazio-ni fotografiche nel testo.

Durante i miei viaggi, mi imbatto spesso in riviste di modae in pubblicazioni rivolte a uomini d’affari o a persone

attente al mutare dei gusti della società. Inevitabilmente,quindi, mi trovo a leggere fiumi di inchiostro che decan-tano le tendenze del momento. Notando un uso sconside-rato di vocaboli stranieri (quasi a rimarcare che, per esse-re veramente alla moda, bisogna anche parlare straniero),mi sono divertita a commentare brevemente in dialettoromagnolo il contenuto di alcuni articoli.Per par condicio (eh sì, perché se proprio dobbiamo parlarestraniero, un po’ di latino non guasta!), ho voluto accom-pagnare il testo dialettale alla traduzione a fronte in ‘italia-no di tendenza’.

la Ludla 5Settembre 2015

denziare ulteriormente la loro “car-riera” di musicisti e anche i rapportiche hanno avuto con Ivo, il capitoloSuonatori all’inizio è suddiviso in treparti distinte: Prima di Ivo, In compa-gnia di Ivo e Dopo di Ivo.Altri capitoli, come ad esempioFeste, si occupano più dell’aspettosociale e ricreativo in un momentoin cui le persone avevano ben pocheoccasioni di svago, ma riuscivano lostesso a divertirsi con poco. Nonmancavano scherzi e dispetti, spessoal solo scopo di ridere e far ridere,ma a volte anche con un pizzico dicattiveria come la faðulêda o la ðbidu-nêda.Arricchisce e qualifica ulteriormentequesto libro una consistente raccoltadi stornelli e canti; la melodia dialcuni di essi è stata trascritta da Pla-cida Staro.Infine Platani, in un capitolo finaleResistenza sui monti, testimonianze, haraccolto informazioni e notizie dipersone che, durante la guerra si

sono trovate di fronte a scelte diffici-li, ne ha evidenziato la storia, il ruoloe le motivazioni che hanno spinto iprotagonisti a quelle scelte e a quelleazioni che ne hanno segnato persempre la vita.È però la passione con cui l’autoreha lavorato che ha reso possibile larealizzazione di questo libro a cui egliha dedicato tante energie e tantaparte del tempo libero; ha svolto unmeticoloso lavoro di ricerca dellepersone da intervistare, ne ha valo-rizzato i racconti, le ha ascoltate coninteresse e rispetto, virtù quasidimenticata, portando a termine unlavoro di cui può essere giustamentesoddisfatto.Mauro ha compiuto un lungo per-corso, quello della ricerca-azione. Lepersone che ha incontrato le haaggregate intorno al canto, alla musi-ca, al ballo, man mano che il quadrodi una realtà disgregata si andavaricomponendo: intorno alle persone,non ai documenti.

Con le sue interviste ha dato voce atutte quelle persone che avevanoqualcosa da raccontare e ha fatto inmodo che quel “qualcosa” non rima-nesse patrimonio di pochi intimi, madiventasse quel quid che contribuiscead arricchire la nostra memoria.Da notare che l’autore si è rivolto adalcuni intervistati usando il “voi”come si usava un tempo con le perso-ne di riguardo o anziane che, comun-que, rispondevano usando il piùconfidenziale “tu”, che, a volte,diventava reciproco.Gli intervistati, dal canto loro,hanno sempre espresso piacere e gra-titudine per averli ricordati e contat-tati; hanno dimostrato interesse peril lavoro che progressivamente siandava sviluppando, perché intuiva-no che quelle interviste erano il tra-mite per non essere dimenticati. Èdel resto normale che qualsiasi per-sona anziana sia gratificata dal fattodi essere ascoltata, di ricordare il pas-sato e di regalarlo agli altri.

Röb d’incudè

Par ësar on d’incudè, e’ bðogna purtê d’la röba vëciacoma mi nona, un quël ch’u m pê þa una patachêda. Parfê dal ciàcar e’ bðogna scrìvar ins e’ compiùter e truvê unmont ad paganel ch’i bëca e ch’i met «u m pjis». Un brot afêri par i þirandlon coma me ch’j ha sèmparun grând ðgumbej adös. A me u m pjies d’ciapê sò i miquàtar strëz par avdé e’ mond, senza spèndar tentbaioch, mo par cnòsar dj étar post e scòrar da bon cunla þent. A voj pruvê i magné s-ciét d’chiétar paìð senzafê trop armis-cion. Insoma, l’è un fat fat incudè ësar mudìran!

Röb d’incudèCritica goliardica al concetto di ‘tendenza’

di Silvia Togni

Tendenze

Per essere veramente trendy, uno oggi deve vestire vinta-ge, cosa che di per sé mi pare un nonsense. Per comuni-care bisogna scrivere e chattare online, fare del fishing eavere tanti followers che mettono dei like. Un bel problema per gli affetti da Wanderlust come me,che hanno sempre una sorta di Sturm und Drang addos-so. A me piace viaggiare low cost, da backpaker, per cono-scere altri paesi e parlare live con la gente. Non soppor-to la cucina fusion, ma preferisco provare i prodotti tipi-ci e i piatti del terroir. Insomma, è ben strano oggi essere fashion!

la Ludla6 Settembre 2015

Quante conversazioni sono iniziateparlando del tempo. “L’è un chêld ch’um pê ad bruðê” “A so tott sudê ch’a so amoll” e allora ti viene in mente chetuo zio Ernesto lui sì che sudava,grondava addirittura anche se stavasdraiato all’ombra, e ti ricordi chedue o tre anni fa fece un caldo ecce-zionale. Chi ti sta davanti allora ticontraddice: “No, no! E’ mi nonn u sarcurdeva ad cl’ann che e’ fop un chêldch’u n s staðeva invell, nè drett nè stuglé.Quel sè ch’l’era chêld!” Subito di rim-balzo spari: “E’ mi zi e’ dgeva ch’l’inve-ja a èssar chêld quând ch’u s sfa e’ védar”e allora inizia un dialogo che nel pro-sieguo verterà su altri argomentidopo un sorriso all’evidente esagera-zione, dato che il vetro fonde oltre i1.100 gradi, ma il “tempo” è servito aridurre le distanze, a rompere la cro-sta, il ghiaccio. A proposito, il ghiac-cio ha la stessa valenza del solleone,della nebbia, della neve e della piog-gia: avvicina le persone. Se per casouna pioggia coglie tutti di sorpresa esi trova un riparo improvvisato quan-to precario scatta la solidarietà allavista di un altro sventurato e ci sistringe un poco per fare posto in atte-sa della schiarita, mentre se sei alcoperto e vedi ad esempio un talepedalare come forsennato sotto loscrosciare ti viene un malevolo “Guêr-da che pataca senza umbrëla; st’êtravôlta l’impêra!”. È un problema diempatia e di condivisione o anche diegoismo.Del tempo non siamo mai contenti:“L’inverno è troppo lungo” e “Que-st’estate praticamente non l’abbiamovista”e “Siamo passati dal costume dabagno al cappotto” sono classici ste-reotipi da inizio conversazione buonisempre. Non parliamo poi dei ricordio dei luoghi comuni. “L’ânn d’la nevagrosa” è un classico, “E’ nùval ad Fram-pul” è un esempio sempre presentenei discorsi; “A m’arcôrd che d’invèranu j’era di candlott longh piò d’un métar”oppure “D’e’ cant ad dri d’la ca la nevala jariveva a la finëstra de’ prem piân” o“E’ cricheva al trêv de’ tett da la nevach’u j era”.Se guardiamo sconsolati fuori dallafinestra un cielo color madreperla escuotendo la testa diciamo: “Temparlus acqua cundus” non facciamo

altro che mettere in pratica quel-l’esperienza dei secoli in fatto dimeteorologia accumulata con leosservazioni quotidiane e che si tra-duce in tutta una serie di modi didire e proverbi legati al calendario: laCandelora, Santa Bibiana, “San Pevuldi segn” ecc.Il non rispetto poi delle date nei con-fronti dei fenomeni atmosferici èquasi un’offesa personale: per S. Mar-tino ci deve essere tempo buono perqualche giorno, la prima neve deveesserci per S. Caterina e un Natalesenza neve non pare nemmeno Nata-le e poi guai se non c’è la burrascatadi San Giuseppe o quella di Luglio;non parliamo poi dei temporali diAgosto. Se dopo appunto una furi-bonda burrasca il sole agostanoriprende il sopravvento e l’estate con-tinua imperterrita è quasi un’onta.Ma allora “Prima acqua d’Agosto estatepiù non ti conosco” che valore ha? Madove andiamo a finire? E se per S.Antonio non nevica “S. Antôni da labêrba bianca; s’u n la jha u s la fa” chesignifica? Ma è proprio vero che “Parsânta Bibiâna quaranta dè e una stmâ-na”? Ma il mondo va proprio a rove-scio! “Una völta la nebia l’as magnevaint’al cuciarè” ma sono svariati anniche di nebbia ce n’è pochina e curio-

samente ne ho trovata tanta a Romain pieno Luglio. “La bomba atomica lajà arvultê e’ mond” è opinione comu-nissima: riassume e giustifica tutti iproblemi di riscaldamento globale, diinquinamento, di sopraffazione dellanatura, simbologia del pericolo senti-to a pelle, non conosciuto dai più maistintivamente avvertito da tutti. Sottol’ombrello radioattivo ci sta tutto. Eppure nessuno è disposto a rinun-ciare neppure ad un litro della benzi-na che gli spetta: “Ci penseranno glialtri”, inoltre quasi nessuno si è accor-to che stiamo imboccando la stradadell’arretramento, del ritorno ad unmondo più povero fatto di rinunce.Torneremo a fare legna sul greto deifiumi che da cinquanta anni nessunopulisce più, torrenti d’acqua precipita-no al mare riprendendo di prepoten-za alvei cementificati, frane e dissestoper tornare ad un equilibrio distrutto,la natura è più forte di noi, non c’ècompetizione. Se le pulci oltrepassanoil sopportabile la volpe si getta inacqua per annegarle e risolve il pro-blema ogni volta che ridiventa urgen-te; madre terra ha già risolto il suocon un bel diluvio universale e non èdetto che la cosa non si possa ripete-re, tanto per dare una bella spazzataall’ambiente.

E’ temp

di Alessandro Gaspari

la Ludla 7Settembre 2015

La bév e’ su cafè guardend fura da lafinestra.Þurnêda griða, scura, ch’la minaciaaqua.La bév e’ su cafè cun chêlma, la jètranqvèla adës.Tranqvèla nenca se da la câmbra l’èarivê un quich armór.La n’è preocupêda, la n va a vdê.La jè sol sudisfata che sia suzëst.La l’aveva da fê, sè, la l’aveva pröpida fê.E stranament u j ven da pinsê ch’laraðona in dialet, parchè in cla ca la jècarsuda scurend cun i su sèmpar indialet, sol in dialet.Utmament nenca cun lò la scurevain dialet, tânt l’era da un bël pô chei n s acapiva piò.Int e’ palaz ad front, da dri di vìdar,la vðena la la saluta, la segna e’ zil ee’ pê ch’la dèga: ach bêrba ste tempgrið.Li la s met a rìdar e la fa ad sè cun latësta.Int e’ curtil e’ custôdi rastlend e’ramasa dal foj.La gvêrda l’arloþ, la jà da invstis parandê a e’ lavor.La lavora da ‘na stmana in cla prufu-merì in piaza Cairoli.Lavor fes, sicur, ch’u j pjis.Mèntar ch’la s sfila i calzon de’ pigiâ-ma la ved dal maci ad sângv.U i vô de’ sêl e dl’aqua fresca… paròadës la n’ha temp.

La s’invstes e la va a e’ spec pr’un filad troch, sol un fil, u n i pjis adpastrucês trop.Un ðgranfâgn, un ðgranfâgn pröpisota l’öc… fard, cipria… cuprì,mascarê.La jè pronta… csa j’amâncal… la bur-seta… in d’ëla… sè, int la cambra dalët.

La entra int la câmbra.‘Na longa stresa ad sangv int e’ pavi-ment.Eco qvel ch’l’era l’armor ad prema.E’ su marid l’ha strisê fena a e’cumuden, u s i è agrapê e u s l’è tirêados.Adës l’è alè, in tëra, steð, imòbil.E’ curtël da cuðena spôrch ad sangva là dri la finëstra.L’è stë piò fàzil ad quel ch’la pinseva,quânti? tre, qvàtar, zenqv… chi s’ar-côrda, lò u s’è þirê, u j’ha butê almân int la faza e pu l’è sbrisê þò cm’èun blach.La jà da tu la burseta e andê a e’lavor.La n vô fê têrd.La stresa dri e’ mur par no pistê e’sângv.La scapa d’in ca, zil grið, qveði nìgar,mo e’ va ben acsè.Sperema ch’u n s vèga trop e’ ðgran-fâgn.

1942: e’ grel

di Marcello Savini

Int e’ prê d’sfiânch a la ciða d’Sant’Ânaa infiléva ’na paia int la tâna de’ grelch’u s’puséva ch’u s’éra ðgulê tota nöt.Me a fudghéva e lo u s’ punéva.Alóra a i pisè indentare lo l’avnè fura supiènd.Cla séra e’ cantéva int la ghébamo me avet l’impresion ch’e’ pianþes.A l’ciapè pianî cun do didae a l’pusè ins e’ fös d’dri da ca.

1942: il grillo Nelprato di fianco alla chiesadi S. Anna / infilavo unapagliuzza nella tana delgrillo / che si riposava /dall’essersi sgolato tutta lanotte. / Io frugacchiavo elui si rintanava. / Alloradentro vi orinai / e lui spun-tò fuori sbuffando. / Quellasera cantava nella gabbiet-ta, / ma a me parve chepiangesse. / Delicatamentelo presi con due dita / e loposai sul ciglio del fosso die-tro casa.

E’ Ýgranfâgn

Testo e immaginedi Sergio Celetti

la Ludla8 Settembre 2015

L’era una vôlta tre uchini ch’agli era surëli. Al staseva int la corta d’una ca da cuntaden tra i zècual ei pol. Al faseva e’ bâgn tot i dè int la bucâna, mo al n’aveva maivest e’ mêr… E’ mêr ch’l’è tot pin d’aqua, ch’l’è grând grând… E’ mêr…Sta ad fat che una matena al s’aviè: luton luton, zeti zeti.Al ciapè par la calartina e pu par i cavdel e pu par dal viul-tini… vers e’ mêr!

Camena camena al s’ lasè par drida al tëri cun al psion,cun i filir, cun al bdoli.Al pasè par al lêrghi, in do’ ch’e’ fila la Vëcia, e pr i riveldla vala.Camena camena, sota un sol che mai, agli arivè a la pgneda.E’ mêr u n s’avdeva incóra, mo u j era un’ombra, un fri-schin, un svulater d’usel, un frin frin ad zghêli ch’l’invur-neva. In do’ ch’e’ bateva e’ sol u j era dagl’arbini boni: radec,mazaprit, strìdul e di fiuradlin; u j era nenca di pignulsquesi sgusé… Insoma, al s’imbadarlè a bichê in qua e in là e a n s n’ada-sè che u s i faseva sera. L’era urmai tra loz e broz e al tre uchini al vest che di uslinu n’ in vuleva piò, u s sinteva sol la zveta… o éral un ciù? Luntân, tra i pen e j arbastron, u s sinteva nenca un vers…un baier ch’e’ pareva un cân rabì, mo l’era ad sicura e’ lóv! Al tre uchini al s’impresiunè, parchè a lè d’atórna al n’av-deva né un puler né un capanet. – Pureti nó, coma a fasema?

In che mèntar al sintè par la calera l’armór dal rôd d’una

baröza: l’era un cuntaden ch’ l’era andê a falzê una cargaad zlena e ch’u s’arduseva a cà. – Ooo bon’òman! Farmiv che a javen bsogn! A s sen persipar la pgneda, l’è ormai bur e, al sintiv?, e’ zira e’ lóv! Fasisuna casina, par caritê!E’ cuntaden u i dgè cun ghêrb:– Mo sicura, purini, a v la faz sòbit!E, un manöc sóra cl’êtar, u i fasè una capanina e pu l’an-dè par la su strê. La surëla piò grânda alóra la des:– Ciò burdëli, adës a la próv me, ch’ a so la piò grânda!La s’infilè in dèntar e pu… SGNAC… la i mitè e’ carnaz!

La zigheva:– Ohi, chi è fura è fura, chi è ad dentar è ad dèntar!Al do surlini al pianzeva fura da l’os, mo lì la n’arvè brìsal.Ormai l’era bur e u s sinteva sèmpar l’urol de’ lóv. Camena camena, piânz piânz, al sintè d’arnóv avnì par lacalartina al rôdi d’un caret ch’al strideva: l’era un marangonche l’aveva tajê tot e’ dè di tundel ad pen int la pgneda.

Al gli curè incontra e al pianzeva:– Marangon, fas una casina, ch’l’è nöta e u j è e’ lóv ch’e’zira par la pgneda!– Mo purini – u i dgè e’ marangon – sicura che a v la faz!E’ ciapè int la sega e int la sgheta e, in quàtar e quàtr’öt,u i fasè una bela capanina e pu l’andè par la su strê. La mzâna alóra la des:– Adës u m toca a me ad pruvè la casina.La s infilè in dèntar, la srè la pôrta e pu… CIAC… la i mitèe’ carnaz.– Chi è fura è fura, chi è ad dèntar è ad dèntar! – la des.La znina, la purena, la pianzeva a êgula:

La fôla dal tre uchini

Fiaba nel dialetto di San Zaccaria raccolta e illustrata da Vanda Budini

Questa fiaba fa parte del patrimonio della tradizioneculturale della famiglia di Vanda Budini.

È una variante di quella universalmente nota come“I tre porcellini” (Aarne-Thompson 124).

Di recente dalla fôla dal tre uchini è stato tratto uncortometraggio a cartoni animati ad opera di

Claudio Tedaldi in collaborazione con l’Atelier delCartone Animato.

la Ludla 9Settembre 2015

– Arvèsum, arvèsum…T’an sent ch’e’ zira e’ lóv!?Mo la mzâna la n’arvè brìsal.

L’era nöta bura, la calartina la s’avdeva pena pena, u nmuveva una foja, parò u s sinteva l’urol de’ lóv. La znina la jandeva e la pianzeva:– Pora me... pora pora me...Mo... u s sintè strìdar al rôdi d’un caret… L’era un caretcargh ad sprânghi ad fër e u j era un fàbar ch’u s’andevaa ca in prisia, parchè l’aveva fat têrd par arpzê e’ padlond’un amigh.– Mèstar… fam una capanina par caritè, ch’ a m so smari-da e e’ zira e’ lóv.Mo coma ch’la pianzeva…! E’ fàbar e’ ciapè int agl’intnaje int e’ martël e, vio vio, u i fasè la casina.Int e’ stes temp e’ lóv e’ snasleva tra al möti, l’uruleva el’andeva, parchè l’aveva una fâm da cumigiânt.

Int la pgneda e’ sintè un udór: l’era l’udór d’un’uchina! Uj andè drì tra j arbastron e i pen e e’ truvè la casina adpaja!– Uchina, al so che t’si alè! Arvèsum!– Uchina, arvèsum... Veda che a faz una peta che la ca lava in brudeta!E… PROM, e’ mulè una scureza che la zlena, la paja al vulèin zil, e lò… AM! U s magnè l’uchina int un pcon. Mo l’aveva fat du tri pës, u n la j aveva incóra mandêda zodafat, che e’ sintè incóra udór d’uchina! Ste luvaz, ste tra-

varson, u s mitè a còrar cun e’ nês rês a tëra. E’ snasleva, e’ snasleva, e’ paseva tra i spen dla rôsa sam-bêdga e dal mori e… e’ truvè la casina ad legn. Alora l’in-grusè la vósa:– Uchinaaa, arves la pôrtaaa! ... Al so ta i si: arvèsum seno a faz ‘na peta che la ca la va in brudeta!PRUM… PRUM… Do scurezi ch’al pareva i ton dla premaacqua dl’Asonta e i tundel ad legn i s’arbutè!E’ lóv e’ spalanchè la bucaza e… AM… l’ingulè l’amzâna!Oh, adës mo l’aveva magnê!L’era pin: la pânza gonfa, agli ultmi pen che a gli rusghe-va la gola ma… che fos un’impresion… e’ sinteva incóraudór d’uchina…Mo no, u n puteva ësar avera! Parò… snêsa, snêsa, u s sin-teva.

L’andè drì a i su nasel e... u j era un’êtra casina!– Uchina, arvèsum sòbit, ch’ a n’ò pazenzia… Arvèsum seno a faz una peta… che la ca… la va… in brudeta!PRUM… PRUM… do scurzazi. E gnint! – PRUM… PRUM… Ahi… Ahi!Mo la ca l’era ferma. E’ pruvè d’arnôv cun un grân sfôrz:– PRUM… – e… – Aaah! – U i s-ciupè la pânza!Alóra l’uchina piò znina la s fasè de’ côr: pianì pianì lajarvè la pôrta e la s’avsinè a e’ lóv, che l’era cadù in tëraad sbarandlon.Cun un curtlaz la j arvè la pânza e la tirè fura al su dosurëli, spnacêdi mo vivi e mêlpintidi.La li purtè int la su ca ad fër: al s mitè a durmì abrazêdicun agli él. E’ dè döp, cun e’ sol, agli andè a e’ mêr, ch’l’è grând e l’èbël.E tra mêr e pgneda, tra aqua e erba, tra cap e lumaghini,pö dêsi ch’al sipa incóra a là.

La fôla dal tre uchini. Due fotogrammi tratti dal cortometraggio a cartoni animati di Claudio Tedaldi con l’Atelier del Cartone Animato.

la Ludla10 Settembre 2015

I defunti appaiono nella tradizionefolklorica come caratterizzati daun’ambiguità di fondo relativa alloro rapporto con i vivi. Possiamo riscontrare un’attitudinedi venerazione nei confronti deimorti considerati benevoli, cioèquelli il cui trapasso è avvenuto inmodo più o meno naturale, e unapproccio timoroso nei confronti diquelli considerati malevoli, princi-palmente i giovani trapassati prema-turamente, le donne decedute instato interessante e i suicidi. Risulta presente nel repertorio tradi-zionale romagnolo un’antica praticarituale, attestata da Luciano de Nar-dis, relativa alla consacrazione deltesoro. Si credeva, infatti, che ucci-dendo una persona nei pressi di untesoro nascosto questa sarebbe rima-sta a custodirlo in eterno.1

Molto interessante anche l’attestazio-ne della credenza relativa al panecome principale oggetto apotropaicocontro l’eventuale minaccia rappre-sentata dai defunti, attestazione pre-ziosa perché legata ad un simboli-smo, relativo alla principale fonte disostentamento all’interno di un’eco-nomia contadina, riscontrabileanche all’interno di altre tradizioniorali regionali.Un ulteriore elemento importanteall’interno di questo orizzonte tradi-zionale è il focolare domestico. Que-sto era infatti considerato, durantequei periodi legati all’idea di ritornodei morti, come un collegamentoastrale tra il cielo, casa degli spiriti, el’abitazione, rifugio dei vivi. Attraver-so questo condotto, si pensava potes-sero passare gli spiriti degli antenati,spiriti benevoli che in determinatecircostanze offrivano la loro protezio-ne ai membri della famiglia. Oltre all’evidente legame tra questacredenza e le leggende ancora oggivive e pulsanti relative alla Befana e aBabbo Natale, si può notare unasomiglianza rispetto alla tradizionedei numi tutelari domestici latini. Latradizione di bruciare il ceppo natali-zio, derivata quasi sicuramente dauna pratica magico-simpatica per aiu-tare il sole nei giorni più bui dell’an-no e successivamente tradotta inun’ottica votiva nei confronti degli

antenati, e anch’essa legata alle cre-denze sul ritorno dei morti e al simbo-lismo del focolare domestico. Impor-tante anche il fatto che il fuoco dome-stico fosse considerato come un vero eproprio nume tutelare della famiglia.Inerentemente a quest’ultima cre-denza è utile sottolineare che, fino apoco tempo fa, era ancora attestabilela pratica di consacrazioni rituali dianimali domestici, ospiti o neonatidi fronte al focolare. Il nume tutela-re del focolare spesso si antropomor-fizza trasformandosi in fata, maga ostrega (felda, mega, striga), creaturacaratterizzata da forti caratteri di tipomanistico. Si tratta di un’antropo-morfizzazione che incarna in sé l’am-biguità tipica degli esseri magicipagani in quanto l’essere, sia che sitratti di una fata, di una strega o diuna maga, incute timore e rispettoed è generalmente considerato di

natura vendicativa. Gli antenati e laloro successiva metamorfosi conti-nuano a ricoprire lo stesso ruolo diprotezione/propiziazione rispecchian-do perfettamente le caratteristiche delgenius loci.

Nota

De Nardis Luciano, L'ombra accantoal tesoro, “La Pié”, n. 1-1927, pp. 2-3.Ora in De Nardis L. Romagna popola-re. Scritti folklorici. 1923-1960, Imola,La Mandragora 2003, p. 119:«L’interessato a celare il tesoro preparavail suo orcio capace: e scelto quindi a suooculato criterio il vigilatore, fra i frequen-tatori discreti della sua giornata, ve locollocava accanto, suasivo ed affabile: -Vedi tu quell’orcio? C’è dentro la miafortuna. Non lo posso lasciar senza guar-dia, mi comprendi: e debbo scostarmi dacasa per poco tempo, quanto ne richiedeil saluto ad un amico. Sostituiscimi, tiprego.E poi: - Mi sarai fidato? Sì, fidato bene,promettimelo; perché l’oro non mi dàgaranzia di sé che nell’onestà tua. Io nonne conosco entità di cifra. Esigo che tuabbia a giurare perciò d’esser fido aquanto ti rassegno; e nel nome di Diogiurare: ripeti!E quando il giuramento che costringeval’ignara vittima alla tremenda vigilanzas’era espresso, docile e piano, si compivaatroce l’insidia; perché la stessa manoche aveva accumulato l’oro divenivamano assassina: e il vigilatore morivaaccanto all’orcio e poi nella terra male-detta accanto all’orcio veniva seppellito:onde quello spirito senza requie, nel-l’eternità dei secoli continuasse la guar-dia a cui s’era votato col sacro vincolodella testimonianza di Dio.»

Tracce di un passato remoto

IV - La trasfigurazione del culto dei morti

in Romagna - Parte Seconda

di Gian Maria Vannoni

la Ludla 11Settembre 2015

de’ me, de’ to, ecc.: del mio, del tuo, ecc.:(sottintesi ‘capitale’, ‘roba’, ecc.) L’usodel de partitivo avrà tanta fortuna nellelingue volgari: dàm de’ pen; no fé difig; ui è de’ lavór da fè; ecc. Fino a seio sette decenni fa, fra tanti vecchisenza pensione di sorta, solo qualcunoin bona salùt e con dla téra a e’ solpoteva ancora vantarsi: me a chémpde’ me. L’uso del partitivo è frequentein Plauto, Persa 473: nihil gustabit de meo(nulla più gusterà del mio!); Truc., pro-logo: … de vostro … (anziché de vestro!). Epoi, Stich. 426: dialogo tra il figlio adul-to e il padre, che tiene la borsa: Ducamhodie amicam – Vel decem, dum de tuo.(Oggi condurrò un’amica): in dial.: afarò l’ardót. – (Dieci, se vuoi; ma [chemangino] del tuo).Come tradurre amicam? ‘Amica’,‘amante’, ‘concubina’? Tra le forme dimatrimonio de facto specie tra plebeivi era l’usus, la convivenza di un anno.Altrettanto spiccio era il ripudio dellamoglie: bastava l’assenza immotivatadel marito per tre notti consecutive.

� � �faza: in ital. faccia; dal lat. facies ‘aspet-to’, il che spiega anche l’ital. effigie, daex+facies: già in lat. la vocale tematicapoteva mutare in presenza di prefissi.1

Modi di dire: brota faza; faza lorda;faza da cul; dì int la faza contrappo-sto a dì dré o dì contra…; spaché lafaza; taié la faza.2 Spùdé int la faza èsenza dubbio il modo più volgare diesprimer disprezzo fin dai tempi diPetronio, Satyr. LXXV: in faciem meamìnspue… (spùdum int la faza!), set’avrò fatto un torto. S’aggiunga a lafaza ad ***… in ital., ‘alla salute di***…’ seguìta da un nome o da un’in-tera frase più o meno ironica. Fino a pochi decenni fa ci si vantavad’avé sol ’na faza (tener fede alla paro-la data), vale a dire avé ’na parólasola, che pu, enca in boca a ungiavlàz unést, l’ è ’na parola da rè; inbreve, mostrès galantòm. Non saràsempre stato così; ma era quello che ipiù volevano che di loro si credesse.Del resto, chi mancava di parola sifaceva nemici eterni. Una miacoetanea a tutt’oggi dopo diverse ge-nerazioni non vuol avere rapporti condei parenti acquisiti pr un afèriguastè, ch’ la ’n s’arcorda pió gnencacom e parchè. L’avversione è piùtenace della memoria.Sfazè e faza da s-cièf corrispondono a‘spudorato’, ‘incapace di stare aposto’, ‘maleducato’.3

C’è poi il riflessivo ellittico gódes lafaza, dal lat. gaudére; az gudén la fazaequivale a ‘godiamo della faccia rab-buiata di chi ci vuol male’: ch’ u si lèþla rabia int la faza. Nel lancio della moneta al posto del-l’ital. ‘testa o croce’, il dial. usa faza olèttra, ‘faccia o lettera’. Dopo la vitto-ria navale romana a Milazzo, sullemonete comparve una trireme edentrò nell’uso aut caput aut navim, ‘otesta o nave’: le vicende della storiainducono talvolta a cambiare ‘sim-boli’ e ‘termini’. Da faza poi abbiamofazulèt ‘fazzoletto’. Annodato a glóp-pa o glupòt, si portava a spalla incima ad un bastone.4

Note

1. La radice di spùere è spu-; il frequentati-vo *sputare ha dato spudé; derivati: spud,spudàc’ spudacé ‘sputacchiare’; spu-daciòn sostituisce il plautino sputator(Miles 647). Si aggiunga spómma ‘spuma’,mentre s-ciómma è germanico. 2. Taié la faza significa intervenire nonrichiesto nei discorsi altrui, magari con la

giustificazione: A ’n puteva fè d’ menc adsintì... Era più grave se a taiés la faza al’arzdór dré a fè un afèri, u foss stè la sudòna: u vleva dì che in cla ca u cmande-va la Frenza. Marziale, XI 104, mostracome reagire: Uxor, vade foras, aut mòribusùtere nostris (Moglie, va’ fuori, o adàttatialle nostre usanze).Infine, tra i contadini þughì a taiè era ilgioco d’azzardo più diffuso, che nonrichiedeva ragionamenti: il mazziere,ch’u tneva e’ benc o e’ maz, distribuiteuna carta coperta a testa tra le dieci di unseme, ne alzava dal proprio mazzo unaalla volta e la mostrava dicendo: questa lavenz, questa la perd. Vinceva chi ‘taglia-va’ con la carta d’ugual valore. 3. Ancora Petronio, LVI: nemo mihi in forodixit: redde quod debes (Inción in piaza im’ha mai det: ardàm e’ me avé) e, pocooltre, LVII: Homo inter homines sum, capiteaperto ambulo… (Me a sò galantòm tra digalantómmen: a þir a testa scverta);oppure a n ho da piatèm [nascondermi]sota la fèlda o la téða de’ capél. 4. Infine, non c’è rapporto tra faza efazènda, ‘cosa da fare’, che viene dal lat.fàcere. A Civitella Dio faza [ch’] t’umurèss conserva cristallizzata una formaverbale più antica, a fronte del congiunti-vo esortativo odierno fèza.

� � �fè a l’arvérs: ‘rovescio’ viene dal lat.*reversus, ossia da reversare (in ital.,‘rovesciare’, arvarsè, arvarsès indial., coi contrari ðvarsè e arðvarsès.Modi di dire: a t’dèg un ðmanarvérsch’a t’arðvérs la faza; a que us’arðversa e’ mond! sia che cada dalcielo un ðvers ad aqua ‘acquazzone’,sia che da qualche parte scoppi unarivoluzione: in ste mond ormai u vatot a l’arvérs. Fè tot a l’arvérs èun’idea che rispunta int e’ þughì aðvarsen, una variante del marafonedove si tira a perdere.Tra le idee radicate va ricordata quel-la assai diffusa che funghi, ed altro, sitrovino più facilmente indossandoper caso un indumento a rovescio,come capitava più di oggi a chi s’alza-va da letto al buio, senz’azènd lalómma. Si chiedeva a chi vinceva sfac-ciatamente a carte, come se sovver-tisse l’ordine naturale delle cose: Contot ste cul che t’he avù stasera, u ’n èche stamatena tu t’ séra mess sen-z’adèten al mudandi a l’arvérs?

Rubrica curatada Addis Sante Meleti

da Civitella

la Ludla12 Settembre 2015

(Continua dal numero di Luglio-Agosto)

Insegna n. 3 - PèsIn questa insegna, la parola vorrebbedire pesce, ma francamente lo si capi-sce di più grazie a un disegno grafi-co, non tanto dalla parola stessa. Nell’alta Valmarecchia, ora facenteparte della provincia di Rimini, pre-cisamente a Maciano, ma non soloin quel paese, nel loro dialetto dico-no al pèsc (il pesce). E la parola èmolto sonora. Da noi, a Santarcangelo, ma anchein molti altri paesi della Romagna,non usiamo, in questa parola, ilgruppo di consonanti sc, ma l’abbia-mo sostituito, nel parlato e nella gra-fia, con due sonore e bellissime s. E’pèss (il pesce). Un solo esempio, tanto per visitareuno dei nostri autori, basterà acapirlo. Dalla raccolta di RaffaelloBaldini E’ solitèri, Galeati, 1976, apag. 16, tutto in un verso troviamo:… pèss, sfòi, rusùl, calamarétt (… pesce,sogliole, triglie, calamaretti).

Tiratine d’orecchi

A qualche autore dialettale, vistianche i succitati esempi delle parolescritte sulle insegne dei negozi (sottogli occhi di tutti), non piacciono ledoppie consonanti in dialetto, quel-le doppie consonanti che in finale diparola, dove necessitano, portanoinvece un suono bellissimo, che nelparlato tutti usano e ben si sente. Forse che le doppie consonanti infinale di parola dialettale a qualcunodisturbano gli occhietti belli? Si pro-vino allora, questi saputi della gram-matica e dell’estetica, se hannocoraggio, a mutilare o a dire qualco-sa di quelle parole straniere entratenell’uso e nel vocabolario della lin-gua italiana come boss, cross, miss,pass, stress! E che dire poi delle parole abbrevia-te? Esse non vengono mai scritte conuna sola consonante, qualora leabbiano, appunto perché perdereb-bero e il suono e l’identità graficaalle quali siamo visivamente abitua-ti. La parola eccetera viene dunquecorrettamente abbreviata in ecc.; dot-tore in dott.; aggettivo in agg., comepure il suo termine più antico,

addiettivo, in add.; ma anche unaparola moderna, usata per il linguag-gio tecnologico dei cellulari e deicomputer, app, sta appunto a signifi-care applicazioni, regolarmente scrit-ta con la doppia consonante.

Parliamoci chiaro

Parliamoci chiaro: la lingua italiananon è diventata una lingua melodio-sa senza l’aiuto del suono. Neglianni, la lingua italiana, partendo dallivello di comunicazione popolare, èstata trasformata e migliorata pro-prio tenendo conto della sonorità, equesta sonorità e stata resa visibileanche graficamente. Talvolta due parole sono state fuseinsieme per ottenere un suonounico e scorrevole da un suono spez-zettato. Esempio: né anche: neanche;fin tanto: fintanto; pur troppo: pur-troppo; in fatti: infatti; in vano: inva-no; non ostante: nonostante.Altre volte, sempre al fine di aumen-tarne la dolcezza, due parole distintesono state unite e rafforzate colsuono di una consonante. Ecco alcu-ni esempi: sì fatto: siffatto; più tosto:piuttosto; né pure: neppure; nè meno:nemmeno; e pure: eppure; a punto:appunto; a posta: apposta; a dietro:addietro; se bene: sebbene.Ma non mancano neppure gli esem-pi di alcune parole nate tutt’interema di suono spento come sodisfazio-ne alla quale è stata aggiunta unaconsonante ed è diventata: soddisfa-zione. Adesso sì che a pronunciarladà soddisfazione.

E vi sono pure esempi di eccessivitàdi suono come in sobbillare e sobbissa-re. Anche il troppo suono disturba,ed ecco che queste parole sonodiventate più dolci togliendo lorouna consonante. Sono quindi diven-tate: sobillare e subissare.

La musicalità: effetto piacevole

per l’orecchio e per l’occhio.

Eufonia: gradevolezza di suoni all’in-terno di una parola. E questa ricerca di armonia, che èpoi un effetto di musicalità, vieneapplicato anche tra parola e parola,ed è così, che per gradevolezza disuono, cioè di eufonia, abbiamo adisposizione la d eufonica, d che puòessere aggiunta alle congiunzioni e,a, o davanti a una parola che comin-ci per vocale, ottenendo in questomodo le varianti ed, ad, od.Si intenda bene: abbiamo detto chela d eufonica può essere aggiunta,non che si deve. In alcuni casi, riesceaddirittura a peggiorare la musicali-tà di una frase o di un verso. Eanche qui, è sempre il nostro orec-chio musicale a guidarci nella scelta. Facciamo un esempio. Se io dico: Sono stato in vacanza finoad ieri, con la d eufonica, è moltopeggio che dire, come normalmentesi dice, Sono stato in vacanza fino aieri. Ma se dico: Nave ed equipaggio, èmolto più scorrevole che dire Nave eequipaggio. La stonatura, quando c’è, non è solosonora ma anche visiva.

Uniformiamo la scrittura

dialettale, cittadini!

Parte II

di Dauro Pazzini

13Settembre 2015la Ludla

Un metro di musica

Senza dover scomodare i poeti clas-sici della letteratura italiana, vistoche pure lo scrivente è un autore, amodo di esempio, tanto per spiega-re, mettiamo lì un verso che è ancheuna frase di senso compiuto: Spunta il sole dal mare o dal monte.Scomponiamo questo verso in silla-be regolari: Spun-ta il so-le dal ma-re o dal mon-te.Questo verso, così scomposto, risul-ta essere, matematicamente, didodici sillabe. Ma adesso ritorniamo alla musica-lità. Tutti quanti, poeti o nonpoeti, (ma i poeti a maggior ragio-ne) dovrebbero conoscere la metri-ca, anche, e direi tanto più, e nonè un controsenso, se le loro compo-sizioni fossero unicamente in versiliberi.Anche una composizione in versiliberi deve avere un suo respiro,una sua cadenza, una musicalitàche viene espressa dal suono e dalleimmagini portate dalle parole: quel-le che il poeta sente essere più effi-caci per ciò che vuole esprimere. Detto questo, in metrica, in unverso si tiene conto della musicalità,e talvolta le parole, per effetto sono-ro, cambiano aspetto; e le sillabenon corrispondono più con lo stes-so numero matematico.Mostriamo come la musicalità rie-sce a variare il numero matematicodelle sillabe. La musicalità ci dice che quandouna parola finisce con vocale àtona(non accentata) e la parola seguenteinizia pure con una vocale, la primadi esse non si fa sentire, o s’indebo-lisce tanto da perdere il suo valoresillabico. In questo modo si produ-ce un effetto chiamato elisione, per-ciò le due sillabe, che prima eranodistinte, si fondono e ne formanouna sola. Così: Spun-tail so-le dal ma-reo dal mon-teEcco dunque che il verso risultaessere di dieci sillabe. Quindi si diràche questo verso è un decasillabo. Ma a noi interessa anche vederecome il suono trasforma il verso.L’esempio è questo:Spunt’il sole dal mar’o dal monte.Oppure:

Spunta il sole dal mare o dal monte. La lettera scritta con carattere piùpiccolo significa che la vocale si fasentire più debolmente, e nonforma sillaba.La musicalità, dunque, in un versoè capace di far “sparire” delle vocali.Ma questa sparizione è solo appa-rente, un’evanescenza dovuta allamusicalità, che vince e impone ilnumero di sillabe a lei più congenia-le. Sulla carta, invece, non figuranessuna soppressione o sfumatura,e le parole conservano intatta laloro fisicità. Ed è qui che moltiautori dialettali, che non hannoorecchio musicale, cadono in errorecon le consonanti. Quando devono scrivere la parolasotto, che in dialetto diventa sòtta,gli sembra che questa debba esserescritta senza la doppia consonante.Sembra, a loro, che nel pronunciarequesta parola, la doppia consonantesparisca. Invece la doppia consonan-te, come negli esempi delle vocaliche abbiamo visto sopra, solo sono-ramente si contrae o si affievolisce,così:sòt’a oppure sòttama resta, sulla carta, parola tuttaintera, e tutta intera, con le dueconsonanti, deve essere scritta.

La musicalità, dunque, è capace diprodurre contrazione, come abbia-mo visto. Ma in altri casi può pro-durre, in una parola dialettale, unallungamento di una vocale, allun-gamento che porta realmente allasoppressione di una consonantedoppia che la segue.

E anche qui, come sempre, è ilnostro orecchio musicale a farceloindividuare. A questa categoria diparole appartengono botta, notte,fatto, gatto, matto, passerotto ecc., chein dialetto diventano bòta, nòta, fat,gat, mat, pasaròt. Facciamo un esempio.In dialetto noi diciamo, e anchemolti giovani usano questo detto:tin bòta (tieni botta), che poi signi-fica tieni duro, non mollare (nono-stante un qualsiasi tipo di bottache ti è arrivata o che ti potrebbearrivare).

Perché, se in altri casi, per la musi-calità di una parola conserviamo ladoppia consonante, in questo casola eliminiamo? È proprio la musica-lità stessa che la elimina. Ma la eli-mina, e sembra un controsenso, peraumentarne in musicalità. L’orecchio ci dice che nella parolabòta la vocale accentata è lunga (lafrenata con strascico di cui abbiamogià detto) e quindi una vocale accen-tata che sentiamo prolungata eliminauna delle due consonanti presentinella sua corrispondente parola ita-liana botta. In questo caso, quando pronuncia-mo le due sillabe di questa parola(bò-ta), musicalmente, sentiamoche la parola suona in questo modo:bòòta.In pratica, se le due sillabe di que-sta parola che sentiamo con lavocale lunga (bòò - ta) le traducia-mo in note musicali, non sarebbe-ro due note dello stesso valore,come lo sono due crome, una inbattere e una in levare, ma la primanota (sillaba), ha un suono piùlungo della seconda, come dire unasemiminima e una croma, che suo-nano bene come terzina (tre noteche si eseguono in un tempo corri-spondente alla durata di due), così:(bo-o-ta).

La musicalità trasforma le paro-

le, anche il nome di una nota

musicale

La musicalità, il ritmo, richiedonoche non vi sia inceppamento nelloro fluire, ed a questa regola devo-no sottoporsi anche il nome dellenote musicali stesse. Nel solfeggiomusicale anche la nota Sol, princi-palmente quando si incontra con lanota La, non viene pronunciata solla ma: so la e di sicuro a nessunoviene in mente di mutare la grafiadi questa nota, che è, e rimane, Sol.

Pure il dialetto, come l’italiano, hadelle sfumature musicali che lo faessere una dolce lingua, ma il dialet-to, in più, è anche una lingua alle-gra.

Il dialetto è una lingua allegra. E’ dialètt l’è una lèngua ligra.

la Ludla14 Settembre 2015

Concorso di poesia dialettaleromagnola “Omaggio a Spaldo”

promosso dall’Accademia dei Benigni di Bertinoro

XIV edizione

La smenta d’Spaldo

di Nevio Spadoni - RavennaPrimo classificato

Cvel ’ t’é simnê o Spaldoin temp d’urtigh e d’spen l’è dal parôl ch’al cânta, l’è smenta d’igna sôrta che in sta tëra mara la cres, ch’l’è vita, o vóðinamurêda pérsa dla pêð, dla libartê. Chi sa se un dmân i s-cen i cuiarà i tu fiur, cal nôt int al nöt d’lona ch’al carizéva l’êria dla tu culena ardida pr andê a brazêr e’ mer.

Pôr mêr, che tôt i dè mél e malèn u s’pôrta ad s-cen ch’i borga e’ pân dla libartê e i suspira se, cla parôla antiga ch’la romp tôt al cadeñ, la s’fa sintì fradel.

II seme di Spaldo Quelle che hai semi-nato o Spaldo / in tempi di ortiche e di rovi/ sono parole che cantano, / è seme d’ognisorta / che in questa terra selvatica / cresce,che è vita, o voce / perdutamente innamora-ta / della pace, della libertà. / Chissà se undomani gli uomini / raccoglieranno i tuoifiori, / quelle note nelle notti di luna / cheaccarezzavano l’aria / del tuo fiorente colle/ per giungere fino al mare. / Povero mare,che tutti i giorni / mali e malanni ci porta/ di uomini che cercano il pane / della liber-tà e sospirano / sì, quella parola antica /che spezza tutte le catene, / e ci fa sentirefratelli.

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VóÝ amìghi

di Bruno Zannoni - CerviaSecondo classificato

U j’è dal vóð, di chẽnt, luntẽn acsè int un tẽmp pasê, ch’i pê þà stôria, che sol i véć bacóc cumpãgn a mèi li cunsérva int ‘n ãngul dla memôria.

J’è chẽnt, e vóð, e sõn ch’an sintẽn piò parchè e’ progrës l’ha fat piàza pulìda d’uðânz pasêdi d’môda; nẽnch, parô, parchè da nõ par sémpar l’è finida -imãnch, sẽnz’êtar da sta pêrt de mónd-cla vita che l’avéva e’ pas di s-ciẽne briða quéla d’óman ch’i cunfóndla libartê p’r e’ vól di areoplẽn.

?Chi a sẽntal piò la vóð ad cla campãnache int e’ silẽnzi màgich dla matẽna o a l’ôra de tramõnt, lóngh a la piâna, la sa spandéva dólza int l’êria fẽna? Par tót e’ dè, l’éra la nòstra amìgach’la sgnéva e’ tẽmp cun là su vóð sinzérprinzépi e pù la fẽn d’ógni fadìga,l’óra dla zẽna e quéla dla preghiéra.

E cl’êtra vóð, int l’éiba, su cumpãgna, l’éra che cãnt de gall, fôrt e sicùr,che l’inundéva tóta la campãgnae ch’e’ ciaméva e’ cêr vẽnzar sò e’ scur;daðéndas la sperãnza - che su cãnt -

che cagl’ómbar scùri, avstìdi d’nòtt, a un dè al faðéva pòst bẽn piò importãntch’né sógn buðérd; þà prõnt a fê fagòt.

Di tãnt in tãnt t’sintìtia un’êtra vóðin þir par e’ paéð, un cãnt amìgh:tè a la finëstra p’r ascultê, curióð,d’un umbarlêr o d’un stagnẽn, che zigho d’quél in zérca d’fër o di strëzz véć(cóma se mai i fóss in zérca d’ôr!)ch’i m’è vanzé - chi zigh - int agl’uréć,mó fórsi, ad piò, i m’è vanzé int e’ côr.

Voci amiche Ci sono voci, canti, così lon-tani / in un tempo passato, che sembrano giàstoria, / che solo i vecchi bacucchi come me /li conservano in un angolo della memoria. //Sono canti, e voci, e suoni che non sentiamopiù / perché il progresso ha fatto piazza puli-ta / di usanze passate di moda; anche, però,/ perché da noi per sempre è finita / - per lomeno, senz’altro da questa parte del mondo -/ quella vita che aveva il passo delle persone(dei cristiani) / e non quella di uomini checonfondono / la libertà con il volo degli aero-plani. // ?Chi sente più la voce di quellacampana / che nel silenzio magico del matti-no / oppure all’ora del tramonto, lungo la pia-nura, / si spandeva dolce nell’aria rarefatta?/ Per tutto il giorno, era la nostra amica / chesegnava il tempo con la sua voce sincera /l’inizio e poi la fine di ogni fatica, / l’oradella cena e quella della preghiera. // E quel-l’altra voce, all’alba, sua amica (compagna),/ era quel canto del gallo, forte e sicuro, / cheinondava tutta la campagna / e che chiama-va la luce a vincere sul buio; / dandoci la spe-ranza — quel suo canto — / che quelle ombrescure, vestite di notte, / facessero posto a ungiorno ben più importante / che non sognifalsi; già pronti a fare fagotto. // Di tanto intanto, sentivi un’altra voce / in giro per ilpaese, un canto amico: / tu alla finestra perascoltare, curioso, / di un riparatore diombrelli o di uno stagnaro, quel grido / o diquello in cerca di ferro o di stracci vecchi /(come se fossero in cerca d’oro!) / che mi sonorimaste — quelle grida — nelle orecchie, / maforse, di più, mi sono rimaste nel cuore.

Stal puiðì agli à vent...

la Ludla 15Settembre 2015

Ancora a proposito del “ferro per

i passatelli”

Mi riferisco ovviamente all’attrezzopiù antico che differisce da quellopiù piatto in uso ancora oggi e cheviene utilizzato anche per ottenere lapurea di patate. Non mi pare che finora siano statiriscontrati, nel linguaggio locale o inletteratura specializzata, vocaboli chedefiniscano tale attrezzo. In un inventario del 1793 (Archiviodi Stato di Faenza, volume 4314,pagg. 250v. e 251) riferito alla cucinadel casino di campagna che i contiFerniani di Faenza possedevano aCassanigo di Faenza, troviamo “unvaletto di rame per i passatini” edanche “una mezza luna per i passati-ni”; non v’è dubbio che per “passati-ni” si intendano i passatelli e che il“valetto” (valletto) sia un piccolovaglio (crivello) con fori di appositodiametro. La “mezza luna” sembra essere altradenominazione dello stesso attrezzo,anche se in altro inventario del 1783,sempre riferito ai beni dei Ferniani,

troviamo la locuzione “due cortelli euna mezza luna”: qui la “mezza luna”si riferirà certamente al noto coltelloancora oggi in uso in cucina. Gli inventari consultati riportanodiversi vocaboli che sono fortementecontaminati dal dialetto, come adesempio, nel 1793, “ramina” (schiu-marola, mestolo forato), “parletta”(piccolo paiolo), “mescola” (ramaio-lo), “irola” (teglia di rame), “salarolo”(contenitore di legno per il sale) ecc.

Lucio Donati - Solarolo

Ringrazio l’amico Lucio – un vero topo diarchivio – per essersi ricordato, mentrescartabellava vecchi manoscritti, dell’ap-pello della Ludla dello scorso maggio disegnalare i nomi dell’utensìle da cucinaper fare i passatelli.Visto che l’inventario della cucina dellacasa di campagna dei conti Ferniani èredatto in dialetto faentino italianizzato,possiamo risalire con certezza a dueforme dialettali: e’ valet pri pasaden ela mëþa lona pri pasaden. Con tuttaprobabilità, però, non si tratta di duesinonimi per indicare lo stesso oggetto,perché in tal caso sarebbero stati accomu-nati sotto la stessa voce dell’inventario:evidentemente i due termini indicanodue utensìli diversi, anche se con funzio-ne simile. Nel Saggio di nomenclatura roma-gnola-italiana attinente a cose dome-stiche di Sebastiano Battaglia (Lugo,1877) si trova valet di manfrigul, tra-

dotto con ‘tafferia’ cioè quel largo piattorotondo di legno a sponde poco rilevateper impastare, infarinare, scodellarvi lapolenta ecc. La stessa espressione è ripor-tata dall’Ercolani nel suo vocabolario,sotto la voce Valèt, dove viene tradottacon ‘Valletto dei manfrigoli’, senza altraspiegazione. Quindi per valet pri pasa-den sarà da intendersi una semplice basedi legno per impastarli o un vaglio attra-verso i cui fori fare passare l’impasto perdare loro la forma?Con mëþa lona, invece, penso si possatranquillamente intendere l’attrezzo inuso ancora oggi. Il passaggio metaforico disignificato da mezzaluna-coltello al nostrofër (o stâmp) di pasaden si spiega facil-mente col fatto che quest’ultimo ha lostampo a calotta – che visto di profiloassume una forma a mezzaluna – e conla presenza in entrambi gli utensìli di undoppio manico per l’impugnatura a duemani.

gilcas� � �

Gentili signori della Schurr,vorrei sapere se esiste un sinonimo indialetto romagnolo per ‘balbettare’,oltre al normalmente usato tartajê.Mi è capitato di sentirlo usare, manon riesco proprio a ritrovarlo su nes-sun dizionario italiano-romagnolo.Forse a qualcuno di voi o dei vostrilettori viene in mente?Grazie!

Michela - Via email

Coma un sëls

di Domenico Tampieri - LugoTerzo classificato

Dindò a sit avnù?...al tu pëdg al rósgae’ zërcc un pö amachêe inriznì dla tëra.

T’a-t si scurghê al mânpar fê dal cativêrjie t’a-t si smëngd’avé un côr.

Om,t’é tuchê la lönacun un dìd

e t’a-t si armëst int al mânsol un pôgn d’zèndar.

Om,t’a-m pêr un sëls che piânz e che pìga i su rêm,pöc a la völta, par finì cun al su fój sóta una möcia d’tëra.

Come un salice Da dove sei venuto?... /le tue impronte rosicano / il cerchio un po’ammaccato / e arrugginito della terra. // Tisei scorticato le mani / per fare del male / eti sei dimenticato / d’avere un cuore. //Uomo, / hai toccato la luna con un dito / e

ti è rimasto in mano / solo un pugno di cene-re. // Uomo, / mi sembri un salice piangen-te / che piega i suoi rami, / poco alla volta,/ per finire con le sue foglie / sotto un cumu-lo di terra.

la Ludla16 Settembre 2015

Nell’ottobre dello scorso anno, per i tipi della Mandrago-ra, è uscita Requiem, l’ultima selezione poetica di Giusep-pe Bellosi.Posteriore di poco alla precedente, questa raccolta, tutta-via, altro non sostiene di essere se non una rivisitazioneche ingloba con sottili modifiche altri lavori, di cui s’è giàargomentato per esteso a suo tempo, è dunque plausibileche le sue pagine non abbisognino di aggiuntivi commen-ti ed analisi, quando sono alcune peculiarità del suo auto-re, piuttosto, a offrire l’alibi per specifiche considerazionisul dialetto, sulla poesia, e sul modo in cui essa viene par-tecipata a coloro che la seguono e la apprezzano.Il romagnolo, lingua di comunicazione verbale, e dunqueestraneo per costume all’ingerenza della scrittura, inparallelo con l’attuale e tangibile perdita di credito eascendente su gran parte dei suoi vecchi frequentatori,azzarda riscattare se stesso dall’abbandono rinnovandosiquale strumento di contenuti poetici.Alla poesia, in effetti, va da qualche decennio indirizzan-dosi una composita cerchia di autori di ragguardevolelivello, che è andata espandendo in modo efficace il pro-prio credito anche all’esterno del panorama locale, dandocorpo nel tempo a un’articolata genesi di raccolte che van-tano seri consensi di pubblico e di critica.

Ed ecco che a questo punto, e proprio alla lirica romagno-la, torna a far comodo il ruolo di un’oralità, già esiliata alivelli accessori dall’internettiano dilagare del culto d’im-magine. Non a caso Raffaello Baldini, dall’alto del suocredito, ha sempre affermato che la sostanza e la centrali-tà del dialetto non risiedono nella scrittura bensì nell’ege-monia della parola, cosicché, specie nei riguardi della poe-sia, urge aderire alle istanze di un pubblico che, non pagodi giovarsene in privato, desidera anche intenderla dalvivo, magari dalle stesse labbra dell’autore.In ogni caso, accolta l’idea, l’eventuale carenza di taleapporto implica poi la necessità di ricorrere a coadiutoriesterni, favorendo l’eventuale mediazione d’interpreticapaci e dotati di una cultura e sensibilità, tali da non svi-sare gli intenti del poeta: in prima istanza riguardo a ciòche egli ha voluto palesare nei suoi versi, e infine confor-mandosi al modo in cui l’ha fatto, vale a dire rispettandola corretta partizione metrica e, qualora ne esistano i pre-supposti, dando l’opportuno risalto a rime e assonanze. Tutte peculiarità, queste, che l’autore ha sentito e voluto,ed è sconcertante che siano spesso sacrificate al protago-nismo di un qualsiasi esegeta, che stima di poter fare isuoi comodi con lavori altrui che ha scelto di partecipareagli astanti. Quanto sopra ci riconduce a un Bellosi il quale, senzavoler inficiare la rilevanza del proprio impegno individua-le come poeta, da qualche tempo, con le sue affidabili eattente interpretazioni volte a potenziare l’apertura e l’in-teresse collettivo nei confronti dell’intera lirica dialettale,va designandosi a pieno merito quale uno dei suoi divul-gatori più efficaci e versatili.

Paolo Borghi

Giuseppe Bellosi

Requiem

A i sral un pöst in do ch’ j avânza i segnd’un at o d’un pinsir?o a j armàstal sóldi sòni, dal parôl ch’al t’ve’ int la ment,ch’a’ n’dið mai cvel ’ t’vu dì?

Ci sarà un posto dove rimangono i segni / di un gesto o di un pensiero? / oppure restano soltanto / dei sogni, delle parole che ti vengono inmente, / che non esprimono mai quel che vuoi dire?

«la Ludla», periodico dell’Associazione Istituto Friedrich Schürr, distribuito gratuitamente ai sociPubblicato dalla Società Editrice «Il Ponte Vecchio», Cesena • Stampa: «il Papiro», Cesena

Direttore responsabile: Pietro Barberini • Direttore editoriale: Gilberto CasadioRedazione: Paolo Borghi, Roberto Gentilini, Giuliano Giuliani, Addis Sante Meleti

Segretaria di redazione: Veronica Focaccia Errani

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