“Poca favilla gran fiamma seconda” la Ludla · un intenso canzoniere in asse fra due millenni,...

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la Ludla 1 “Poca favilla gran fiamma seconda” Dante, Par. I, 34 la Ludla (la Favilla) Periodico dell’Associazione “Istituto Friedrich Schürr” per la valorizzazione del patrimonio dialettale romagnolo Autorizzazione del Tribunale di Ravenna n. 1168 del 18.9.2001 Questo numero è stato realizzato con l’apporto del Comune di Ravenna Società Editrice «Il Ponte Vecchio» Anno XVII • Settembre 2013 • n. 8 SOMMARIO Carlo Falconi - E’ Cruséri di Paolo Borghi Un bon amigh di Loretta Olivucci Bambini e messaggi di Mario Maiolani Ricordando Valderico Vittorio Mazzotti di Edmo Vandi I dè dla stmâna di Bas-ciân Mo cum’ ëj i Rumagnul? di Silvia Togni La Mestra ad Pulnarõ di Carmen Bendandi Illustrazione di Giuliano Giuliani Il fabbricante di stuoie di Veronica Focaccia Errani Parole in controluce: curòi /cròi Rubrica di Addis Sante Meleti Stal puiðì agli à vent... I scriv a la Ludla Libri ricevuti Enzo Travaglini - Totta cla sabia di Paolo Borghi p. 2 p. 4 p. 5 p. 6 p. 6 p. 7 p. 8 p. 10 p. 11 p. 12 p. 14 p. 15 p. 16 Segnaliamo ai nostri lettori l’uscita del terzo volume della Ludla rile- gata che raccoglie le quattro annate che vanno dal 2009 al 2012. Il volume va ad aggiungersi alla raccolta degli anni 1997-2004 (la Ludla in formato “piccolo”) e a quella del periodo 2005-2008. La Ludla rilegata consente di consultare agevolmente i numeri della nostra rivista anche in virtù dell’opera certosina del consocio Pier Giorgio Bartoli che ne ha curato gli indici: quello generale, degli auto- ri, delle illustrazioni, l’onomastico, il toponomastico e degli argomen- ti. Per motivi di spazio (e di costo) sono stati inseriti - nelle ultime due raccolte - solo quelli degli autori, dei nomi propri e dei luoghi citati: gli altri sono consultabili sul nostro sito internet. Per gli amanti delle statistiche diremo che dal 1997 al 2004 sono usci- ti 58 numeri (ivi compreso il numero zero del ’97) di 12 pagine ognu- no in formato B5, mentre dal 2005 al 2012 sono stati pubblicati 77 numeri di 16 pagine in formato A4. Se consideriamo anche le uscite di quest’anno, il presente numero di settembre è il 143mo della serie e porta il totale delle pagine ad oltre duemila: il che fa della raccolta della Ludla una vera e propria enciclopedia dedicata al dialetto ed al folklore della Romagna. La Ludla rilegata Settembre 2013

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la Ludla 1

“Poca favilla gran fiamma seconda”Dante, Par. I, 34

la Ludla(la Favilla)

Periodico dell’Associazione “Istituto Friedrich Schürr”per la valorizzazione del patrimonio dialettale romagnolo

Autorizzazione del Tribunale di Ravenna n. 1168 del 18.9.2001

Questo numero è stato realizzato con l’apporto del Comune di Ravenna

Società Editrice «Il Ponte Vecchio» Anno XVII • Settembre 2013 • n. 8

SOMMARIO

Carlo Falconi - E’ Cruséridi Paolo Borghi

Un bon amighdi Loretta Olivucci

Bambini e messaggidi Mario Maiolani

Ricordando Valderico VittorioMazzottidi Edmo Vandi

I dè dla stmânadi Bas-ciân

Mo cum’ ëj i Rumagnul?di Silvia Togni

La Mestra ad Pulnarõdi Carmen BendandiIllustrazione di Giuliano Giuliani

Il fabbricante di stuoiedi Veronica Focaccia Errani

Parole in controluce: curòi /cròiRubrica di Addis Sante Meleti

Stal puiðì agli à vent...

I scriv a la Ludla

Libri ricevuti

Enzo Travaglini - Totta cla sabiadi Paolo Borghi

p. 2

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Segnaliamo ai nostri lettori l’uscita del terzo volume della Ludla rile-gata che raccoglie le quattro annate che vanno dal 2009 al 2012. Ilvolume va ad aggiungersi alla raccolta degli anni 1997-2004 (la Ludlain formato “piccolo”) e a quella del periodo 2005-2008.La Ludla rilegata consente di consultare agevolmente i numeri dellanostra rivista anche in virtù dell’opera certosina del consocio PierGiorgio Bartoli che ne ha curato gli indici: quello generale, degli auto-ri, delle illustrazioni, l’onomastico, il toponomastico e degli argomen-ti. Per motivi di spazio (e di costo) sono stati inseriti - nelle ultime dueraccolte - solo quelli degli autori, dei nomi propri e dei luoghi citati:gli altri sono consultabili sul nostro sito internet.Per gli amanti delle statistiche diremo che dal 1997 al 2004 sono usci-ti 58 numeri (ivi compreso il numero zero del ’97) di 12 pagine ognu-no in formato B5, mentre dal 2005 al 2012 sono stati pubblicati 77numeri di 16 pagine in formato A4. Se consideriamo anche le uscitedi quest’anno, il presente numero di settembre è il 143mo della seriee porta il totale delle pagine ad oltre duemila: il che fa della raccoltadella Ludla una vera e propria enciclopedia dedicata al dialetto ed alfolklore della Romagna.

La Ludla rilegata

Settembre 2013

la Ludla2 Settembre 2013

Avvezzi nei suoi confronti ad attender-ci differenti forme di approccio e didialogo, è plausibile che ci si possaaddentrare con una certa cautela nellalettura dell’ultimo testo dialettale diCarlo Falconi, ravvisando esprimersiin prima persona, ed in vece dell’auto-re, una figura di donna che sembraannoverare fra le sue peculiarità unragguardevole numero di primavere. Suddiviso in tre unità ben distinte fraloro E’ cruséri prende il via, infatti, conuna celebrazione ideale e compositadel personaggio di Gianina de Casalẽ’,la nonna paterna del poeta, e consta diun intenso canzoniere in asse fra duemillenni, che trae ispirazione dalla suarecente scomparsa.In questa sezione introduttiva, cometessere di un articolato mosaico inte-riore – esteso nel ricordo fino agli inizidel secolo scorso – trovano posto, inaggiunta a quella di Gianina, altre esignificanti effigi femminili che hannocondizionato in qualche modo l’estrodell’autore, innescando e plasmandoin lui un groviglio di sensazioni e dicomplicità affettive, che non potevanoemergere in alcuna maniera se nonconvertite di proposito in dialetto,ancor prima che in poesia. Come sel’unico espediente di cui egli sentissedi potersi avvalere, nell’impegno ditener salda la loro memoria, fosse quel-lo di preservarla all’interno di paginetradotte proprio nel gergo che aggrap-pa le sue radici alla consuetudine ed aitrascorsi, il solo che egli avvertisse con-cretamente idoneo a mettere in relazio-ne, senza ambiguità e travisamenti dialcun genere, rievocante e rievocate.Sebbene il tono globale di questaprima parte della silloge appaiaimprontato ad un senso disilluso dismarrimento ed abbandono, dovutoalla perdita tuttora irrisolta......la tu cambrasènza piò n’arméri la sónaprecìs a ‘na césa vùita.1

...è affatto distinguibile nelle poesie, ilpalesarsi di una tendenza al ricordoben più sentita ed esplicita di quantonon fosse emerso dall’opera d’esordio,e giusto in questa propensione si evi-denzia il dissenso profondo ed ende-mico di Falconi, nei confronti di unsuccedersi del tempo incline a bandiresenza indugi dal presente, l’esistenza

dei defunti e di ciò che li circondava.Nel contesto, si tratta di una formaemotiva di reazione all’oblio, indottada quell’insieme di presenze intime econfidenziali percepite in equilibrioancor fragile fra vita terrena e aldilà;sembianze femminili che dal passatoperseverano a colmare l’oggi del poetadi suggestioni e testimonianze, elevan-do a veste di simbolo la loro medesimaesistenza. Rivelatrice fra tutte l’immagi-ne di Gianina de Casalẽ’ la cui memo-ria sintetizza, nell’animo del nipote, laraffigurazione emblematica di unasocietà, di un mondo e di un linguag-gio a lei strettamente connesso e cheegli, come individuo e come autore, vaintuendo dissolversi.Adès ch’ a t’ci aviédac’ s’oja da fé cun sta lẽngua che quèche nisõ’ e’ sa piò scôrarche nisõ’ adróva piògnanch par biastmé.

Adès a la pòs nènch abandunécme ‘na böcia vùita int e’ méza e’ mêr furastér dla nötpar distẽm a la matënacun e’ su savór ch’ l’impastaincóra la böca.2

Ed è attendibile chiedersi se non possaessere proprio quel sapore che gli per-mea ancora la bocca, quello che lo isti-ga a reagire per sconfessarne la defezio-ne, scortandolo ad un riesame emozio-nale del suo specifico idioma di appar-tenenza individuato, in ultima istanza,come tramite per affrancare dall’ano-nimato e dall’abbandono il territorio,il paese e la casa che l’hanno vistonascere; un frasario custode di espres-sioni e di parole atte ad evocare nellasua mente le lontane e complici traccedi cibi, profumi e sapori che negli annihanno permeato la sua infanzia e lasua giovinezza...

Apẽna a paséva l’ós ed ca’i vidar apané i lasévaa là ‘d fôra tôt e’ mônda l’udór dla mnëstra int i fasó’u m’abrazéva fẽn’a sira.3

... suscitando in lui la salda determina-zione al riscatto delle proprie discen-denze e delle connesse vicende indivi-duali, che il lessico spersonalizzato edanonimo dei mass media non sembrapiù in grado di riferire in modo persua-sivo. Un proposito di affrancamento, ilsuo, sintetizzabile come una sorta dirigetto nei confronti d’una quotidiani-tà convenzionale e pressoché estraneaa se stessa, nella quale gli è sempre piùarduo identificarsi.Falconi, tutto sommato, non lo si evin-ce prendere il via dal romagnolo pergiungere alla poesia, eppure finisce perrecuperarlo comunque dentro se stes-so abbracciandone l’uso d’impulso,quasi consapevole di cosa può signifi-care per il futuro del dialetto, un soste-gno limpido della poesia volto adosteggiare l’odierna prassi, magarisconfessata ma inoppugnabile, di ripu-dio e di rimozione.S’a smités ed buté zòdi virs in sta lengua che quètè e tot chi s-cè’ ch’ j àridù e spudé sangavragagné, padì, biastméadbù e sbacajé in dialêti sarév pasé sóra sté môndpar gnint cme cal tômbpr’ e’ dè di mórtch’agl’à sól di fiur fent.4

Poi, come in quei film che trattano divicende remote, finché un repentinoviraggio dal bianco e nero al colorenon riporta improvviso A e’ dè d’incó,percepiamo il poeta congedarsi dalricordo per intraprendere una seccaed impietosa analisi dell’epoca odier-na e delle difficoltà che la affliggono:

Carlo Falconi

E’ cruséri

di Paolo Borghi

la Ludla 3Settembre 2013

la disamina di una contemporaneitàche, muovendo dalla globalizzazione,dalla politica o dalla mancanza di lavoro,finisce per addentrarsi fra la congerie diemarginati e “diversi” che la vivono econ cui, in un modo o nell’altro, saràgioco imparare a coesistere, siano essidrogati... disabili... carcerati... nomadi. Sintomatica e allusiva, a tal proposito,l’attestazione della zingara...Stugléda aquè par tëraa garavlé du baiôch.

Nènch incó a t’ daghl’ucasiõ’ par scarghétal bisach dl’ãnma.5

... in cui quell’opportunità poco avval-sa di “vuotarsi le tasche dell’anima”,offerta allusivamente e con esiti circo-scritti dalla gitana, non godrà di sover-chie occasioni per farsi succedanea ditutte le abitudinarie e gratuite prassi disanatorie confessionali, troppo spessoaffrontate come abulica consuetudinepiuttosto che come fervida convinzio-ne.E del pari espressiva la denuncia dellalapdancer, che testimonia l’inconclu-denza di tante vite campate senza effet-to.T’ a m’sgranfêgn sôl cun j óct’a n’è brisa e’ curaged dém un mórs.

A sò e’ ritrat dla tu vitavstida ed gnintch’la sguêla sra al mã’.6

E così, assieme al tentativo di integra-zione con gli immigrati del calzolaio,che si pone diversi interrogativi perconcludere sbottando in un pragmati-co: A farò al schérp nèch a ló, assieme alcarcerato suicida, assieme alla protestadel contadino risoluto a tiré int e’ còlagli inconcludenti ed agli inetti, pagi-na dopo pagina si fa manifesto il biasi-mo dell’autore, nei confronti dei trop-pi che dinanzi alle iniquità ed agliabusi reagiscono ottenebrando la pro-pria coscienza, nell’illusione di poterlapoi riscattare rifugiandosi nella dime-stichezza rassicuratrice del rituale.… s-cẽ’ purêtch’ j’è cuntẽnt d’arciapésl’ãnma butẽnd zò un’òs-ciacme ‘na tequila bum-bum.7

In occasione del debutto dialettale dialcuni anni or sono, si sostenne che il

pur cauto giovarsi del ricordo messo inatto da Falconi, a causa dell’età nondovesse essere recepito come un artifi-cio ammiccante e un po’ fine a se stes-so, ma si configurasse meglio comeun’impalcatura da cui proiettarsi nellavita, con tutti gli impulsi e la pienezzache la pervadono, ma altresì con leincoerenze e i dilemmi che la assillanoe ci assillano.L’ argomentazione viene adesso suffra-gata già dal titolo rivelatore di quest’ul-tima opera, nella quale il poeta, anco-ra in balia dei trascorsi e dei contrac-colpi emotivi di una dipartita che halasciato il segno, si pone emblematica-mente al cospetto di un crocevia.E si tratta di un cruséri dinanzi al quale,condotto ad epilogo l’imprescindibilepreambolo dedicato al trapasso dellanonna, la vitalità dell’autore inizia aprendere il sopravvento, osteggiando laresa incondizionata ad una remini-scenza commossa ma pur sempre estra-nea al futuro.Al di là dell’incrocio ci sono strade ine-splorate da percorrere, e così l’incastel-latura della memoria attacca a vacilla-re, sotto i fermenti di una società infebbrile evoluzione, che non trovatempo per guardarsi alle spalle. Unconsorzio in balia di mutamenti pro-fondi e indocili all’uomo, causa preci-pua di un diffuso senso di manchevo-lezza e di inerzia specifico in lui e capa-ce, se non osteggiato senza indugio, diindurlo a volare in cerchio come unatorma di moscerini smaniosa di lasciar-ci avvampare da un lampione.Nuétar, muscõ’ e musarê’alè datõnda cun la sghisad’ lasés brusé.8

A questo punto, per non gettare la spu-gna, Falconi avverte l’esigenza indifferi-bile di affrancarsi dalle preesistenti

pastoie, a partire proprio dalla persua-siva sudditanza alla rievocazione; neconsegue un itinerario progressivo dicommiato da nostalgia e rimpiantoche, giusto nell’ultima poesia della rac-colta, perviene all’incompatibilità tota-le: allorché ci si prefigge d’andarsenesul serio, magari non lontano ma sem-plicemente troncando i vecchi, coerci-tivi legami col passato, l’attrito fraintenzione e fardello dei ricordi rischiadi farsi insostenibile.Pr’aviés da bõ’ e’ basta scurdésdi arcurd e sluntanésda i sôgn ch’ i t’ à arlivé.9

Traduzioni

1. Da Maz domêla e dôg. ... la tua camera \senza più un armadio risuona \ propriocome una chiesa vuota.2. Adesso che te ne sei andata \ che cosadevo fare con questa lingua \ che nessunosa più parlare \ che nessuno adopera più \nemmeno per bestemmiare.\\ Adesso laposso anche abbandonare \ come una bot-tiglia vuota in mezzo \ al mare forestierodella notte \ per svegliarmi di mattina \con il suo sapore che impasta \ ancora labocca.3. Da Mnëstra int i fasó’. Appena entravo incasa \ i vetri appannati lasciavano \ tuttoil mondo fuori \ e l’odore della pasta efagioli \ mi abbracciava fino a sera.4. Se smettessi di scrivere \ versi in questalingua \ tu e tutte le persone che hanno \riso e sputato sangue \ discusso, patito,bestemmiato \ bevuto e parlato a vanverain dialetto \ sarebbero vissuti \ per nientecome quelle tombe \ nel giorno dei morti\ che hanno solo fiori finti.5. Da Zingara. Rannicchiata qui per terra\ a racimolare due soldi.\\ Anche oggi tido \ la possibilità di svuotarti \ le taschedell’anima.6. Da Lapdancer. Mi graffi solo con gliocchi \ non hai il coraggio di morsicar-mi.\\ Sono il ritratto della tua vita \ vesti-ta di niente \ che scivola fra le mani.7. … poveri cristi \ che credono di ripren-dersi \ l’anima buttando giù un’ostiacome una tequila bum-bum.8. Da La vita. Noialtri, mosconi e mosce-rini \ lì attorno con la voglia \ di lasciarcibruciare.9. … Per andarsene veramente \ è suffi-ciente dimenticare \ i ricordi e allontanar-si \ dai sogni con cui sei cresciuto.

la Ludla4 Settembre 2013

Int la sêla d’aspët dla stazion u j éraun gran via vai ad þenta, l’éra chëld e,nench se e’ vintuladór e’ ðmaðeva unpô l’êria, u n è che e’ cuntès gran che.Francesco e’ tneva da stê e’ treno parandê a pasê al ferie a e’ su paeð, da isu, ch’i n è avlù avnì cun lò parchè l’èfadiga lasê la tëra indù ch’u j è al turadìð, i tu amigh, la þenta ch’a t vôben. Francesco l’éra avnù sò a pruvi-sôri e pu, un pô a la vôlta, u s éra fatdj amigh, u s éra truvê ben int e’ lavóre la vita dla zitê in fond in fond la n idiðpiaðeva.L’éra arivê un pô prëst parchè u j éraciap una ðmegna, u s j éra mes unaröba adös a e’ pinsir ad turnê a ca,che e’ tulè sò e’ su trenton e l’andè ala stazion.Intant che e’ tneva da stê, e’ paseva e’temp a guardê la þenta ch’la jéra alè atni da stê e’ treno, coma lò.U j éra una babina ch’la dgeva avé trienn tra sè e no cun la su mâma e do suamighi che, forsi, al faðeva e’ viaþ insen.E pu l’è arivê marid e moj cun dutabëch ch’i n aveva e’ pöst a férum edal vôlt i þugheva, dal vôlt i braveva.Alè da cânt u s éra mes inðdé on êlt,mêgar, cavel biench, manê ben, cun jucél, ch’u n caveva j oc da e’ lìvar chee’ tneva int al mân.

U j éra do ragazi ch’al scureva tra adló e al rideva; Francesco u li guarde-va spes: ona la jéra bionda, cun icavel longh, les, oc cér e un bël surìð,la javeva indös un stidin celëst ch’u jariveva sóra al znöc e, cvând ch’lacavaleva al gâmb, u s avdeva un pôad cösa; cl’êtra la javeva una masa adcavel undulé, cun du oc ch’i parevaviv e, cvând ch’la rideva, la miteva inmostra una bëla fila ad dent biench euna fuseta int una gôta. Dri a ló u jéra un burdlet e ona piò anziâna chela puteva èsar la su mâma.Ona la s ðvintajeva, la n’aveva e’ pösta férum, la gvardeva sèmpar l’urloþ,

sia cvel ch’la javéva a e’ pols, sia cvelch’l’éra tachê int la muraja, ogni tântla tireva sò un suspir piò grös, u savdeva ch’la jéra stofa ad tnì da stê.Pröpi impët a lò, on che e’ liþeva e’giurnêl, mo u n l’avdeva int la faza.U s sinteva in cuntinuazion una vóðada l’êltparlânt che la dgeva i trenoch’i ariveva, indù ch’i sareb andé, incvel binêri ch’i s afarmeva…Alóra cvel ch’l’éra inðdé in pët a lò e’punsè e’ giurnêl e Francesco e’ vdèch’l’éra… l’éra…U n éra pusèbil: Giulio l’éra môrt unmeð prema int un inzident in mutóre u n puteva èsar Giulio cvel ch’l’éraalè! E inveci l’éra pröpi lò. Francescou n capèva piò gnint, e’ côr u i bate-va a tirumbëla, l’avreb avlù scòrar,ciamêl, mo u n éra bon, al gâmb agliaveva la tarmarëla e e’ rispir u s érafat grös.Senza dì gnint Giulio u s aviè e Fran-cesco dri; Giulio l’éra ðvelt, u s insti-cheva tra la þenta e Francesco e’ zar-cheva ad stêj dri, mo cl’êtar e’ cami-neva sèmpar piò fôrt, u s ðluntanevasèmpar ad piò nench se Francesco ui daðeva piò ch’e’ puteva par no lpérdar; u l segueva cun j oc e tot int‘na vôlta u n e’ vdè piò. Alóra e’cminzè a còrar sperend ad putéltruvê tra la þenta e pu e’ sintè unaböta, una böta, mo una böta acsèfôrta ch’u n la javeva mai sintida,ch’la javneva pröpi d’int la sêlad’aspët.E’ pareva e’ finimond: l’avdeva dlaþenta scapê da tot i chent, rugendcoma di mët, cun al mân int i cavel,e’ terór stampê int la faza.L’éra i du d’agost de’ 1980 a Bulogna.

Un bon amigh

di Loretta Olivucci

la Ludla 5Settembre 2013

I miei primi ricordi sui bambini risal-gono all’anteguerra, quando anch’ioero parte di loro, ed a quei tempi lacondizione era abbastanza particola-re: una volta superato il periodo arischio di morte infantile, nel qualese ne aveva tutta la cura possibile,venivano allevati un po’ allo statobrado, senza eccessivi riguardi, e spes-so erano oggetto di scherzi e prese ingiro mortificanti, causa a volte diduraturi complessi.Le occasioni erano molteplici. Unesempio che mi sovviene era nell’oc-casione della costruzione di unpagliaio: quando lo si iniziava si trac-ciava attorno allo stollo centrale (lazarbêla), il cerchio sul quale lo sisarebbe poi innalzato. La posizione sidefiniva a passi e ad occhio, ma spes-so si lasciava intendere ai bambiniche fosse necessario un particolareattrezzo per tracciarlo, da andare aprendere a prestito da un vicino.Allorché il vicino si sentiva chiederedal bambino “e’ tond de’ pajèr” (iltondo del pagliaio), intuiva la presain giro e rifilava all’ignaro malcapita-to un sacco con dentro qualchepesantissimo arnese preso a caso.Se il “vicino” non era proprio vicinoed i suoi istinti pedagogici un po’ per-fidi, il malcapitato arrivava stanco,sudato ed infine mortificato, quandoil pagliaio era già in avanzata esecu-zione. Altra mortificazione era farfare a un garzone dei muratori unimpasto considerevole digesso, che poi indurivarapidamente, imponendopesanti lavori di scalpella-tura per ripulire.Non sorprendiamoci se anoi non è giunto unmondo perfetto: i nostritempi ci sono stati tra-ghettati da ragazzi allevatianche con queste malvagi-tà.

***I bambini dovevanocomunque stare fuori daidiscorsi dei “grandi”, nonintromettersi e ubbidire atutti, talvolta tiranneggia-ti dal sadismo di qualchefratello maggiore.

Se appariva a casa un forestiero, sinascondevano vergognosi per farepoi capolino dai loro rifugi a curiosa-re.Oltre al portar da bere a chi lavoravanei campi, con ceste e sporte dibevande protette da foglie per mante-nere il fresco al meglio possibile, oaltri lavoretti più o meno faticosi,uno dei compiti ai quali potevanoessere spesso chiamati era il portaremessaggi. La facilità con la quale sono oggi pos-sibili le comunicazioni non permettedi rendersi conto di quanto potesseessere aleatorio mandare messaggi ecoordinare i rapporti fra le persone.Quasi mai si inviava una nota scrittaper vari motivi caratteristici dell’epo-ca: la scarsa dimestichezza con lo scri-vere ed il leggere in genere, la scarsadiffusione di carta e matita, l’incapa-

cità a sapersi esprimere e leggere cor-rettamente, la probabilità che il mit-tente od il destinatario fossero analfa-beti. Le persone sapevano parlare,naturalmente in dialetto, ma sarebbe-ro certamente sorte situazioni quantomeno comiche, da ciò che avrebbepotuto scrivere un semianalfabeta ecosa poi avrebbe potuto leggervi ecapire un interlocutore di analogolivello.Venivano allora costretti i bambiniad imparare a memoria il messaggio,imponendogli di ripeterlo infinitevolte prima di farli partire, per accer-tarsi della correttezza della comunica-zione.Da messaggi non correttamente rife-riti potevano nascere le situazioni piùstrane con curiose incomprensioni opericolosi malintesi. Ero già diplomato e impiegato in

Cooperativa quando unanziano cliente lasciò unmessaggio per me ad unamatura ed esperta segreta-ria, riguardante certi lavorida eseguire presso di lui.Dopo aver spiegato benbene le proprie necessità,con le numerose racco-mandazioni del caso, pre-tendeva riascoltarlo peraccertarsi che avesse capitobene, e le chiese: “Facciasentire come dirà!”, tantoera abituato a questa pras-si! Me lo raccontò poi lasegretaria, assieme al mes-saggio, sorpresa, divertita,ma anche un po’ offesa:“Per chi mi ha preso, quel-lo lì?!”.

Bambini e messaggi

di Mario Maiolani

la Ludla6 Settembre 2013

Fu simpatia a prima vista. Animosensibile e carattere sanguigno, Val-derico ti coinvolgeva con la sua pas-sione per tutto ciò che era alle originidelle tradizioni romagnole. Eravamoa metà degli anni ‘70 quando mi tele-fonò chiedendomi di partecipare alletrasmissioni di Telerimini nelle quali,con Gianni Quondamatteo, si disser-tava sul dialetto e sugli usi e costumidel nostro lembo di Romagna. Gian-ni lo conosceva già e dette subito ilsuo assenso. Valderico arricchì con ilsuo entusiasmo, la sua passione, icontenuti della nostra trasmissioneproponendo poi una serie di seratenei paesi del nostro circondario, sera-te che ebbero subito un grande suc-cesso di pubblico. La scaletta preve-deva un mia introduzione, una dottadissertazione di Gianni Quondamat-teo sui valori e sulla necessità di noncancellare le nostre tradizioni, lenostre radici a supporto indispensa-bile del nostro dialetto e delle storieche i nostri “vecchi” ci avevano lascia-to. Si terminava poi con le veementirecite di Valderico che comprendeva-no sue poesie, rime di poeti roma-gnoli, Guerra, Fucci, Baldini (... ebrech de mi Pitrein”) per finire congli applauditissimi contadini di Giu-stiniano Villa.

Mi inserì successivamente nel guppodi poeti partecipanti ai “Trebb diPiadarùl” che si tenevano la primadomenica di ogni mese nei comunidel nostro entroterra. Il programmacomprendeva alle ore 10 l’incontroin Municipio con il Sindaco dellacittà, a seguire la deposizione di unacorona d’alloro al Monumento aiCaduti di Tutte le Guerre, quindi ilpranzo in un ristorante tipico, infinela recita delle nostre ultime creazioniche poi venivano pubblicate in libric-cini editi dalle “Edizioni Girasole” diRavenna. Alcune firme: TolminoBaldassari, Libero Ercolani, PinaRenzi, Antonio Gallegati, BertoMarabini, Wilfrido Grossi, Maria

Dogheria Bertaccini, Aldo Zama etanti altri.Un convivio indimenticabile si tennein un convento di Suore nei pressi diBertinoro. Menù luculliano, qualitàeccelsa e vino da portarti in paradiso.Alla fine le suore ci invitarono aduna preghiera che noi da buoni“anarchici-baciapile” come tutti iromagnoli, accettammo di buongrado (anche se alle mie spalle sentiiqualcuno mormorare: “L’è la proimavolta ch’a pregh, ma dop d’unamagnèda ichsè ma qualchdoun uttoca ringraziè!”). Ci mancherà di Val-derico la sua apparenza burbera chenascondeva l’anima di un poeta dirara sensibilità.

Ricordando

Valderico Vittorio Mazzotti

di Edmo Vandi

Li conosciamo tutti: Lòn, Mért, Mìr-cul, Þôbia, Vènar, Sàbat e Dmenga.Come in altri dialetti settentrionali,il romagnolo elimina il termine dì(giorno) che caratterizza in italiano iprimi cinque limitandosi al nome delpianeta (o divinità pagana): Luna,Marte, Mercurio, Giove, Venere.Sàbat deriva dal giorno festivo ebrai-co (lo shabbàt) e la dmenga da quellocristiano: in latino dies Dominica ‘ilgiorno del Signore’. Per noi la settimana comincia il lune-dì, ma nei paesi anglosassoni l’inizio

è posto di domenica, che per loro è il‘giorno del Sole ‘(Sunday in inglese eSonntag in tedesco), tanto è vero che itedeschi chiamano Mittwoch ‘mezzasettimana’ il mercoledì.Per noi invece il giorno centrale dellasettimana è la þôbia (in altre parlateromagnole detta anche þubia, þubie oþuba), il cui nome deriva dall’aggetti-vo latino Jovia (dies) ‘(giorno) diGiove’. Di uno che sta sempre tra ipiedi si dice infatti che L’è sèmpar inte’ mëþ coma la þôbia ‘È sempre inmezzo come il giovedì’. Un altro pro-

verbio avverte: Þôbia intrêda, stmânapasêda ‘Giovedì iniziato, settimanapassata’, ma poi aggiunge Mo, s’t’évoja ad lavurê, u j n è incora la mitê!‘Ma, se hai voglia di lavorare, ce n’èancora la metà!’. Sempre a propositodi giovedì: mentre in italiano, di unoche non c’è tutto, si dice che ‘glimanca un venerdì’, in romagnolo sidice anche che u j amânca una þôbia.Un proverbio sul sabato afferma cheU n j è sàbat senza sol, / e u n j è donasenza amor ‘Non c’è sabato senza sole/ e non c’è donna senza amore’. Qui“sole” si dovrà intendere anche nelsenso figurato di ‘gioia, serenità’:infatti, come diceva il Leopardi, “que-sto di sette è il più gradito giorno, /pien di speme e di gioia: / diman tri-stezza e noia / recheran l'ore”.

I dè dla stmânadi Bas-ciân

la Ludla 7Settembre 2013

Riallacciandomi all’articolo di Nadia-ni e Savini pubblicato nel numerodella Ludla del Gennaio scorso suglistereotipi attribuiti a noi Romagnolie al dibattito che ne è seguito, misono spesso chiesta come poter defi-nire il carattere tipico del Romagno-lo. Al mio asserire che gli stereotipi incircolazione sono quasi sempre falsi oquantomeno molto riduttivi, moltevolte mi son sentita controbatterecon la stessa domanda: “Ma allora, ilRomagnolo che tipo è?”.È chiaro che in Romagna, come altro-ve, esistano i tèmid (timidi) e i ciacaron(chiacchieroni), i parþin (precisini) e izafucion o saifuton (pasticcioni), quipar ben (la gente perbene) e al tëstichêldi (le teste calde), ma ci sono alcu-ni tratti caratteriali che potremmodefinire esclusivi della nostra terra. Benché non sia un’amante di incasel-lamenti e classificazioni, ho isolatoquattro grandi tipologie caratterialidelle genti di Romagna: e’ balèch, e’pataca, e’ stregn e l’invurnì.E’ balèch viene da ‘balocco’, cioè unfantoccio, perché pazzerello e strava-gante, detto anche zampêlgh, nomedialettale del rospo smeraldino, dalmanto alquanto bizzarro. Ha lo stessosignificato del piemontese ‘balengo’,che pare abbia la stessa derivazionedel termine ‘sbilenco’, sempre perindicare qualcuno che proprio nor-

male non è (es.: l’è un pô balèch, mo l’èun brêv burdël).E’ pataca è lo sbruffone un po’ inge-nuo, che si dà un sacco di arie spessoa sproposito, senza averne né i titoliné i motivi.E’ stregn è un tipo sdegnoso, serio epoco socievole, forse derivante dalprovenzale stragno ‘strano’, ‘estraneo’oppure anche dal verbo ‘strènþar’,stringere, in ragione della sua chiusu-ra mentale. È spesso sinonimo di spa-gogn, nel senso di abitante del ‘pagus’,del villaggio, quindi rozzo e chiuso insé stesso (es.: l’è stregn dur, u n ciacaragnenca s’t’aj pest i pi).L’invurnì è uno poco sveglio, un po’tontolone, che si fa spesso sopraffaredagli altri, insomma noi diremmoche l’è un pôr sgraziê. La parola sembra

giungere dall’antico lat. ebrionia che èla ‘sbornia’, da cui anche il franceseivrogne.Visto che la nostra terra è intrisa distoria, se volessimo trasporre questitipi caratteriali in ambito storico,potremmo impersonare e’ balèch nelgiullare di corte, e’ pataca sarebbesenza dubbio un governante pocoilluminato, e’ stregn sarà il suo consi-gliere fidato in quanto sa tenere labocca chiusa e non sparla in giro,mentre da ultimo l’invurnì incarne-rebbe la figura del servitore.Sono certa che ciascuno di voi ribat-terà che non si riconosce in nessunadi queste quattro categorie, tuttaviacredo che talvolta, se non in modopermanente, ognuno di noi vi si siaritrovato. Chi non ha mai detto per esempio‘Mo s’a so invurnì, a n l’aveva miga vest!’oppure ‘Incù, a jo pröpi fat la figura de’pataca!’ ?La paternità e tipicità tutta romagno-la di questi tratti caratteriali derivadal fatto che tali aggettivi sono prati-camente intraducibili nell’italianostandard, se non mediante perifrasi,proprio come ‘pizza’ e ‘spaghetti’, ter-mini esportati così come sono intutto il mondo proprio perché diffi-cilmente traducibili in altri idiomi.Parole come pataca, sdoganato inmodo magistrale dal nostro IvanoMarescotti, e invornito, impiegatospesso da comici e personaggi televisi-vi romagnoli, sono ormai uscite daiconfini della Romagna per entrarenel vocabolario di tanti ‘non roma-gnoli’. Insomma, forse anche gli Ita-liani stanno imparando ad apprezzarevizi e virtù delle genti di Romagna!

Mo cum’ ëj i Rumagnul?

di Silvia Togni

la Ludla8 Settembre 2013

A cuntêla la pê cvéði una fôla, invé-ci l’è un fat avéra: me a-v voj cuntêla stôria d’una famì ad ðbrazẽt e adcvãt ch’u-s’andéva a lavurê a pe. Iðbrazẽt, omn e doni, i partéva da e’paéð in grop, cun un baston sóra laspala indò ch’e’ spindugléva in zimauna gulpadina, cun dentra un töchad pã, un ôv dur, una feta ad panze-ta rãnza e una fjasca impavirêda,cun un pô ad mëzvẽ (e’ ciarël): cve-sta l’éra la magnêda de’ dè.J andéva schélz tra cal strê o calérpini ad buði e ad porbia, j arivévafena int la vala dla Basóna indò chela riséra la jéra pruteta da la pgnédae da e’ vẽt de mêr. Dal vôlt, invéci, javéva l’ ôvra int la Stangiãna, tëradura e gnara, e a là u-s simnéva e u-s amdéva e’ grã, e’ furmintõ; u-sðghéva la spagnêra e e’ strafòjal… Ilavuréva da la matẽna prëst a la sératêrd: da sól a sól; e pu al doni, arivê-di a ca, agli-avéva da fê e’rëst dilavur: pjê e’ fugh, praparê cvël damagnê, ardùðar i fjul… Döp magnê jòman j andéva a l’ustarì par fê cvà-tar ciàcar e bés un bichir ad sanþvéso ad canẽna; e pu a lët a fê di fjul.La Teréða ad Pulnarõ, cla matẽna di17 ad loj de’ 1905, i l’avéva ciamêdaa ôvra int la Stangiãna, a médar e’grã, mo la jéra indiciða, l’a-n savévacvel ch’fê... E vjaz l’éra long e lì lajéra grêvda, la staðéva par fnì e’ tẽp,e médar tot e’ dè la jéra dura: druvêla fêlza, stê göba, lighê al côv cun ibélz… e, cun chi chéld che faseva,sota a che sól e’ baléva la Vëcia1.Insoma, la situaziõ l’éra gnara, mo lila-n avléva pérdar l’ôvra: u-j faðévacòmad chi du bajoch che l’avrebciap; la fameja la carséva e i bajochi-n bastéva maj. La partet in tromba;la pãza la j bðéva, mo lì l’era unadona ad strenga e la lavuret tot lamatẽna sẽza farmês; pu a mëz-dè,par magnê un pcõ, la-s mitet in ðdéint la riva de’ fös, a l’ombra d’unalbaraz, insẽ cun al cumpãgni adlavór. Tot int ’na vôlta la sintet undulór int la pãza acsè fôrt che i-utulet e’ rispir, cun una sudêda dacaval… e u s’i rumpet agl’acvi. E pudöp, tra dulur, rog e lamẽt, e’ babĩch’l’avléva pröpi avnì a e’ mond, e’puntet i pi e l’avnè fura a l’arvérsa,con i pi, invéci che cun la tësta!

L’éra una bëla babina, sãna e grösa,che la faðet e’ su prem sgagnôl tra lastopja e l’arsura dla tëra . Int un lëtad paja, sóra una baröza, ingulpêdatra di blëch, mãma e fjola agl’ariveta ca, faðend la surpréða a e’ su bache, content dla babina, u l’avletciamê Maria. La carset cun un caràtar indipendẽt,urguglióða, inteligẽta…E pu la savé-va cvel ch’la vléva: u i pjaðéva d’an-dê a scôla, nẽch se al pusibilitê al n’jéra. Fnidi al scôli int e’ paeð, bðu-gnéva andê a Ravena, parchè lil’avléva fê la mestra. La pianzet unãn a fila, par convẽzar i su … che a-la fẽ i-s rasegnet a fê piò sacrifizi parcuntintêla.Acsè, tulend una bicicleta imprëstda una parẽta, a-la matẽna, cvãtch’e’ cantéva e’ gal, la staðéva so evio pr’ e’ Ðmãn, par fê zirca cvengchilometri pr’ arivê a scôla, cuncvalsiasi tẽp: burasca e fred d’invé-ran, che u-s’impjeva al mãn int e’manubri, che pu döp u j avnévanẽca al mòng… Mo int la bóna stasõe fjuréva la natura: la strê de’ Ðmãnla dvintéva una maraveja, al sévi adspẽ marugh ch’al sgnéva i cunfẽ daltëri, al fiuréva ad biãch, i pasarot ifaðéva i nid, i fos j éra ad tot i culure e’ vjôla e e’ lela dla sêlvja sambéd-ga, la camamela, i ruðlëz, al marghe-riti e lengvi ad cã, la pjadanëla checun al su zoli i faðéva una pumêdapr’ al muroj... Ch’à-n scurema pude’ sambugh, che cun i su fjur i faðé-

va un ungvẽt pr’i carpej di pi. La-mcuntéva che l’arivéva a scôla cun uncaputẽ da miðérja, e sól li la purtévaal calzeti ad lãna pastóra, gucêdi dala su mãma; la-s vargugnéva cveði,mo in cumpẽs la jéra tr’al piò brêvidla scôla! Gvintêda mestra e vẽt e’cuncórs, la situvaziõ econömicafamigliêra la cambjet un biðinĩ. Laprema vôlta ch’la-s cavet una voja, la’rivet a cà cun un stidĩ ros e un caplẽint la tësta: la su mãma la faðet e’gêval a cvàtar: “Schifóða, vargògnat!– la i get –, me a végh a l’ôvra int lariðéra, a möl int l’acva, e te t’zir cune’ caplẽ…”.Mo li la-s sintéva bëla e bëla la jérapröpi: bionda coma e’ grã, cun unapëla ciêra coma la Madona, e unfìsich ben fat, cvindi la-n paséva sẽzaësar guardêda in tot i post ch’ l’an-déva.La j avet un grand’amór ch’e’ duretuna masa: lò l’éra un avuchêt e ungiurnalesta ad Ciðena, un gran ripu-blicã che l’ha neca partecipê a laCostituẽta e dirët e’ giurnêl de’ supartì par tent’en. L’éra piò vëc ad liad parec en… Insoma e’ distẽ u n’ àvlu ch’i-s marides, acse j-è armëst totdu raghez.La jà campê par la su famì e par i susculér che i la ciaméva “la Mestra adPulnarõ” che l’éra e’ sóra-nom dlafamì, o “la Pulnarõna”.In chj’en int e’ su paéð, u-j éra unzért nòmar ad zuvan inteletuélamigh dla Maria che, avend piò o

La Mestra ad Pulnarõ

di Carmen BendandiIllustrazione di Giuliano Giuliani

Racconto segnalato al concorso 2013 del premio letterario “Sauro Spada”

la Ludla 9Settembre 2013

mãch la stesa etê, i-s frecventéva culturalment: Giusep-pe Valentini, poéta, scritór, che l’avnéva d’instê int la càvëcia de’ su ba; Icilio Missiroli, nêd a Zazacarì, mestar,profesór e poeta ch’u-s fasè cnòsar da tot pr’al cumégi indjalët rumagnôl, attivesta ripublicã, che döp a la libera-ziõ l’è stê nẽch sèndich ad Furlè; Bruno Marescalchi,farmacesta e scritór ad cumegi djaletêli nẽca lo, l’ era stéa scôla insẽ cun la Maria; mo a pôca distãza u j staðévanẽch Aldo Spallicci: dutor, poeta e scritor, cnunsù intota la Rumãgna alóra e adës… Lo l’era piò vëc ad tot, el’éra un pô e’ mèstar ad cla bëla cumbrècula. E’ téma disu scurs l’éra la Rumãgna e al su tradizion, infati i s’àlasê un bël patrimôni ad scret.Me a-m so maridêda cun l’ anvód dla Maria e a stagh intla su ca. Döp a tent en da la su pérdita, sfurgatlend intla sufeta, tra un di su vëc lìvar arpöst int un cantõ e maisfujê, a jo truvê sta puviðì cun la firma dl’avtór, intitulê-da “A e’ Pont dla Vëcia”. An l’aveva mai leta, nẽch parchèla-n gni è in “Tutte le poesie in volgare di Romagna” (Mila-no, 1975). La mi fantaðì la-m à purtê a fantastichê, forsiun pô tröp, mo la-m pê pröpri screta par li.

A e’ Pont dla Vëcia2

«A j arturneva da la cazza in vala,‘e a e’ pont dla Vëcia dri a San Zacarìj occ a la sciopa ch’a j aveva a spalae avstida tot ad ross la j era lì.

Longhi longhi cal zeia indò che, a meja e meja, e’ camena un pinsircume sol in che bionde indrèntar un mond.U s’ passè sora un vêrgh ad cucalett– 1’ è bianch piò ch’ n’ è e’ lat e’ col ch’ avì–la guardè int al cartocc de mi curpet– e la faztina coma e’ vostar vsti -.A e’ pont dla vëcia l’ è tot verd e’ Dban,l’è fresch e verd cme una pastura ad prê – la j è giazzêda ben la vostra manqua, par l’erba, l’è bël a caminé. »

Ades, cvãt ch’a pas da e’ Põt dla Vëcia e a gvêrd e’ rivêlde’ Dbã, a-n pos fê d’ mãch ad pinsê a che sti ros e a clasacõna vérda, là in chêv tra tëra e zil.

Note

1. E’ baléva la Vëcia ‘Ballava la Vecchia’ Questo ”ballo della Vecchia” consiste nel tremolìo dell’ariaprodotto dai vapori che si sollevano dalla terra nelle giornatemolto calde; in quella specie di tremolìo si ravvisava una per-versa danza.2. A e’ Pont dla Vëcia ‘Al Ponte della Vecchia’Il Ponte sul Bevano, nella Via della Vecchia, tra San Zaccariae Castiglione di Ravenna.

la Ludla10 Settembre 2013

La stuoia, nel mondo contadino,aveva una molteplicità di utilizzi: esi-stevano stuoini da appendere alle fine-stre per ripararsi dalla luce, stuoie digrandi dimensioni utilizzate per ladivisione degli spazi domestici, altreper la protezione dei materassi dall’in-festazione dei parassiti, stuoie di picco-le dimensioni inserite nelle stie comerudimentali lettiere per le bestie, stuo-ie realizzate appositamente per i sali-nari di Cervia per la copertura dellecataste di sale (stura d’ Ziria), ecc.La confezione delle stuoie avvenivamediante l’utilizzo di un telaio, unsupporto costituito da due stangheorizzontali (stàngh) rette perpendico-larmente da due pali (drèt). L’assesuperiore poteva esser abbassata orialzata a seconda delle esigenze, inse-rendo all’altezza desiderata i piccolipaletti (cavèi) che la sostenevano neifori dell’asse verticale. In questa produzione manifatturieraveniva impiegata la stiancia (comune-mente detta pavìra, ‘paviera’): le cimeerano accuratamente sfilettate conun coltellino ed intrecciate a formarela tniða, una funicella che andava acostituire l’orditura del telaio; lefoglie più esterne venivano poi inseri-te perpendicolarmente sull’orditoprecedentemente impostato, comple-tando così l’intreccio. Ad ogni pas-saggio si abbassava con forza unbastone (pëtan) legato parallelamenteall’asse superiore del telaio e dentrocui erano inseriti i fili dell’ordito:questa operazione andava così a com-pattare la trama. L’artigiano doveva lavorare in piedi difronte al telaio; l’esecuzione richiede-va, oltre che una particolare manuali-tà ed una rapidità nell’intrecciare,anche una certa forza fisica.Per la realizzazione dei piccoli stuoiniposti alle finestre (sturùl), venivaimpiegata un’erba diversa, il giuncopungente (bròia), che permetteva unintreccio più fine.

Nomenclatura

Bièta: s. f. ‘cuneo’ di ferro o legno, che siintroduce fra due pezzi per fissarli; inquesto caso, posto ai lati del telaio pertener ferma la stanga inferiore. It. ant. biétta (GDLI), dal lat. med. bleta(XIII sec., GLE), d’origine ignota; è forse

probabile che si tratti di un grecismomediato attraverso l’Esarcato bizantino,cfr. gr. bletós, dal v. bàllo ‘spingo’, oppurecfr. blêtron ‘chiodo’, ‘spranghetta’ (DEIs. v. biétta).Bròia (bróia : Morri, Ercolani, Masotti) :s. f. bot., Juncus acutus ‘giunco marino’,detto anche ‘giunco pungente’ per viadelle sue foglie appuntite. I dizionari dia-lettali, tranne il Morri, danno una defini-zione estesa di questo termine, includen-do tutta la vegetazione palustre ad ecce-zione della canna. Dal confronto con gliinformatori dialettofoni è emerso, inve-ce, che il tradizionale ‘giunco’ era indica-to come þonc e non è da intendersi comesinonimo di bròia. Nel veneziano siriscontra brula per ‘giunco’. Dal lat. tardo broja ‘erba palustre’; l’isola-mento di questa voce farebbe pensare adun grecismo penetrato per mezzo del-l’Esarcato, connesso probabilmente conil gr. brya, pl. di bryon ‘alga marina’ (DEI;LEI VII, 1075).

Cavèi (cavéja, cavéa : Quondamatteo) : s.m. ‘cavicchio’, ‘piolo’, legnetto inseritonei pali verticali del telaio per sorreggerela stanga superiore. Der. dal lat. tardo cavicla (XIII sec.,GLE), forma assimilata di clavicula, dim.di clavis ‘chiave’, ‘vite’; da essa sono deri-vati nell’italiano cavicchia e, attraverso ilprovenzale cavilha (cfr. fr. cheville), caviglia(REW 1979, DELI s. v. cavicchio, DEI s.v. cavicchia).Stura: s. f. ‘stuoia’; canniccio tessuto dicanne palustri.It. ant. stuòra (XVI sec., DEI), dal lat.med. storia, storium (IX sec., GLE), perstorea (REW 8279), di origine indeur.,probabilmente connesse al gr. storennýnai‘stendere’ (DELI e GDLI).Tniða: s. f. ‘funicella di erba palustre’,generalmente stiancia o carice, che fun-geva da orditura posta sul telaio per larealizzazione di stuoie.La voce, documentata solamente da alcu-ni dizionari dialettali, deriva probabil-mente da tensa (dal v. tendere), ‘cordatesa’, cfr. lomb. e veron. tensare ‘cingere’,e fr. tenser ‘proteggere’, ecc.; (DEI s. v.tensa). Nel linguaggio giuridico medieva-le (XII sec.) tensa assume il significato di‘terra comunale’, forse delimitata lungo iconfini da una corda tesa. Nel romagno-lo si sarebbero verificate, quindi, unachiusura della vocale tonica e un passag-gio metatetico fra questa e la consonantenasale.

Nota

Per le informazioni contenute nel pre-sente articolo, nonchè nei precedentiarticoli relativi alla lavorazione delleerbe palustri, si ringrazia l’Ecomuseodelle Erbe Palustri di Villanova diBagnacavallo (Ra).

Il fabbricante di stuoie

di Veronica Focaccia Errani

Nodo di erbe palustri (foto tratta dal sito del-l’Ecomuseo delle Erbe Palustri)

la Ludla 11Settembre 2013

curòi (a Civitella), altrove cròi: inital. cércine; Ercolani, Voc., registraentrambe le voci. È il dimin. lat.corolla volto al maschile1; a sua voltada lat. corona (in greco koròne: in dial.curòna). Era un occasionale curòi ilcanovaccio arrotolato a ciambella edisposto sul capo su cui portare deipesi: il secchio dell’acqua, la cesta deipanni da sciacquare nel fiume, quel-la dell’erba appena falciata, o l’assedel pane da cuocere al forno pubbli-co.2

Tuttavia, tra i monti per lavori parti-colarmente pesanti – com’era portarsulle spalle grossi massi dalla cava ogrossi tronchi fuori dal bosco sullastrada dove il carro attendeva – e’curòi era un vero e proprio ‘bastoumano’ trattenuto sulla fronte dauna fascia di cuoio e imbottito poste-riormente a salvaguardia di nuca espalle, lasciando libere le mani.3

Anche il femm. curolla, sempre piùraro, sta per ‘cesta bassa’ per la covadella chioccia (Masotti, Voc.) oppureper quei cespi d’insalata che s’al-largano come una corona.4

Note

1. ‘Corollo’ – italianizzato così dai nostri

vecchi – è registrato da Meyer-Lübke,Rom. Etym. 1911. 2. Oggi nei nostri paesi del pane impa-stato in casa e cotto nel forno pubblicoall’ora concordata è scomparso anche ilricordo.A volte toccava ai ragazzi portare il paneda cuocere al forno poggiando l’asse(l’èsa de’ pen) sul sellino e sul manubriodella bicicletta da condurre a mano.Almeno così facevano i più savi e obbedi-enti. Ma, a qualcuno, ch’u vleva fè e’ðburòn a vnì þò da sòm a im [lat. imus]de’ paìð, muntènd int la biciclètta conl’ésa ad ciovra [sopra] la testa e senza tnée’ manubri par gnint, il pane ancora dacuocere volava via proprio nell’ultimacurva secca in prossimità del forno. C’erasempre nei pressi qualche donna chel’aiutava a raccogliere le pagnotte da terrae a ’rdèi un pó ad déima [un grecismo daartigiani, per ‘forma’; altrove dima odelma], ma rapidamente, parchè e’ fórencheld u ’n aspeta: e pu ui pensa e’ chelda ’rpulì e’ pen e a bruðé tot i mìcrobi! Eintanto gli anticipava i rimbrotti dellamadre cui sarebbero seguite le botte delpadre. Quasi per sfida dopo un po’ qual-cun altro riprovava a riðg ad fè enca lu lasu bela ðmatarèda e a fè vulè e’ pen dacoð. Oggi, anche la voce mìcrob è sparita.3. A titolo di curiosità, in latino si chia-mava furca, ‘forca’, una sorta di bastobiforcuto che proteggeva nuca e spalle:così i carbonai dei tempi di Plautotrasportavano i loro sacchi. Ricavata daun pollone di frassino, la furca aveva unmanico lungo, e il carbonaio si riposavaogni tanto appoggiando il carico ad unmuro, ad un albero o alla scarpata di unastrada a mezza costa. Poteva togliersi orimettersi addosso il carico, senza doversichinare ogni volta, poiché il lungo mani-co teneva il sacco sollevato all’altezzadelle spalle. Ma la furca diventava pureun crudele e spiccio strumento di torturae di morte, usato per sollevare per la golail condannato con le mani legate airebbi, senza neppure infilzarlo: in furcamtòllere (tô só int la forca). Tra le ‘mosseistintive’ dirette al prossimo nei momen-ti d’ira e giunte fino a noi – al bróti mòsi– c’è quella di mostrare l’indice e ilmedio aperti a V: a t’infurcaréb; oppurequella di puntare il solo indice: a t’in-filzarèb. Una terza ‘mossa’ è ricordata daMarziale, Epigr. II 28: digitum porrìgitomedium (mostragli il ‘dito medio’!) Più

tardi s’aggiunsero le corna fatte conl’indice e il mignolo.Proprio fùrcifer ‘portatore di forca’, cioè‘da appendere’, è l’epiteto offensivo piùfrequente in Plauto. In Terenzio,Phorm. 220, lo schiavo dice al padroncinoa cui ha suggerito le marachelle: tu iamlitis audies; ego plectar pendens (Tu sentirai irimbrotti; io sarò appeso e bastonato). E,secondo Svetonio, Ner. XLIX, Nerone,dichiarato dal senato ‘nemico di Roma’,decise di morire suicida prima d’esserecatturato e giustiziato, con la nuca trat-tenuta dalla forca e colpito a morte a ver-gate, come avevano fatto i pastori che fon-darono Roma con le vipere e i lupi cat-turati.Nessun apparato odierno per l’estremosupplizio le somiglia, ma si dice tuttora‘condannare alla forca’. Ed è ancorachiaro il passo di Plauto, Càs. 437-8: … egoremittam ad te / virum cum furca in urbemtamquam carbonarium… (ti rimanderò incittà quest’uomo con la forca [al collo]come un carbonaio). Si trattava di unschiavo da giustiziare; ma nella commediaantica nessuno muore; anzi, con le suesolite astuzie lo schiavo condannato evitail supplizio e si fa affrancare dal padroneche s’impegna a sfamarlo fin che vivrà. Lasoluzione imprevista presente anche inaltre commedie conclude lo spettacoloalla grande. Ma i fatti potevano prendereun’altra piega. Plauto accenna di nuovo alsupplizio, Rud. 1170: Quin tu i dierecta cumsùcula et cum porcis (Ma va’ piuttosto afarti impiccare con la troietta e i porci!)Qui i significa va’, dal verbo lat. ire, ‘ire’ormai scomparso anche in ital.; ma versoBagno di Romagna dicono ancora l’è it,‘è andato’. Dierecta è per diem erecta‘innalzata in giornata’. E sùcula, ‘þòccola’,diffusa dal cinema in romanesco, ormai èadottata anche da noi; l’etimo però non èsoccus ‘zòccolo’, ma è il diminutivo di sus,vale a dire ‘maialina’, ‘troietta’.Anche al tempo della Romagna preuni-taria col contrabbando che prosperavanei due versi, gli ‘spalloni’ come i car-bonarii plautini portavano ancora sullespalle di qua e di là dei confini le mercipiù disparate, anche una soma di granodi circa 80 chili. 4. Dal lat. caespes (caespit-) in dialetto èrimasto casp, col dittongo ae che non s’èdissolto in e prima della palatizzazionedella c, com’è avvenuto in ‘cespo’, ‘cèspite’e zispói ‘cespuglio’, da *caespulium.

Rubrica curatada Addis Sante Meleti

da Civitella

la Ludla12 Settembre 2013

XII edizione del concorso “Omaggio a Spaldo”

indetto dall’Accademia dei Benignidi Bertinoro.

Dulôr

di Rosalda Naldi - ForlìPrima classificata

Stila coma una cânae’ vsti pió grând dla su figura,la trampâla da lóngh e’ sintirgulpêda int e’ dulôr,la strapa un fiôr sambêdgla cônta föl antighiint al brazi de’ témp.

Stila coma una câna la dondla a e’ sófi de’ vént, agrapêda a e’ rastël de’ campsânt la zērca vajô’ ‘na faluga pērsa int e’ bur dl’eternitê.

Dolore Sottile come una canna / il vesti-to più grande di lei, / vacilla lungo il sen-tiero / avvolta nel dolore, / strappa unfiore selvatico / racconta favole antiche /nelle braccia del tempo. // Sottile comeuna canna / oscilla nel soffio del vento /aggrappata al cancello del cimitero /cerca in giro una favilla / perduta nelbuio dell’eternità.

Artei

di Marco Magalotti - CesenaSecondo classificato

La storie la va ‘ventie an um n’adag;e intent a zerc ad dì paroli cerich’al pose spieghè a tot quel ch’a so’ me.Um rozle i scurs ‘tla testa cm’è dal zolie nas stenta pansir ingarbuì. A ni chev piò i zampett, ch’an n’ho la forze o forsi piò che al forzi ugn’è la voie.

Am cminz a incarugnì int una scaranee nenc s’aiò i oc virt an veg piò e mond.E dop, par fela curta e spiatarleda e basta un nom, la deda e poc ad piò?!

No! Questa l’an è una bona storiaun um pis d’astè ‘que ‘spitè la morte.A voi andè in zir, nenc senza umbrelapar incuntrè la zenta, e vent, e sol.

A voi che la gnafe, par ciapem, l’am epa da dè dria cun la scioma.

Ritagli La storia va avanti e io non mene accorgo; / e nel frattempo cerco di direparole chiare / che possano spiegare atutti chi sono io. / Mi girano i discorsinella testa, cose da piangere, / e nasconosettanta pensieri confusi. / Non riesco adare avvio a nulla, perchè non ho la forza/ o forse più che le forze non c’è la voglia.// Comincio a morire su un sedia / eanche se ho gli occhi aperti non vedo ilmondo. // E dopo, per farla corta e benservita, / basta un nome, la data, / epoco più?! // No! Questa non è una sto-ria che appaga / non mi piace rimanerequi ad aspettare la morte. // Voglio anda-re in giro, anche senza ombrello / perincontrare gente, il vento, il sole. // Voglioche la morte, per afferrarmi, / mi debbarincorrere, sudando fino a schiumare.

Fóil

di Germana Borgini - SantarcangeloTerza classificata

Sémpra che cantàun dri e sbadàj dla finèstra,

che fóil ad luða cèrche tàja agl’ombrie u s’apòza se d’àgoc tla faldèda.

Fóil e fóil intrizédper un scapòin ch’un bsugnaràma nisèun.

E’ cere gvèntarà schèur e’ e fóil lois

fina a spizès.

Stal puiðì agli à vent...

la Ludla 13Settembre 2013

Filo Sempre quell’angolo / vicino allospiraglio della finestra, // quel filo diluce chiara / che taglia le ombre / e siappoggia sui ferri da lavoro a maglia sulgrembo. // Fili e fili intrecciati / per unsottopiede che non servirà / a nessuno.// Il chiaro / diventerà scuro / e il filoliso // fino a spezzarsi.

E fug

di Lucia Baldini - LugoSegnalata

Sera d’inveran. E fug e breva in t’ e camei…Fra un pò us amortas’an met sò dl etra legna. Nec la mi vita la guintarà zendrae una vintèa ula sparguiarà pre mond. Mo prema avreb feam sintì, scaldèa, fèa lom. S’oia fat infèna adëss? Um pèa d’ non avè cumbinè gnit d’bou.E mi Signor, s’un è trop tërd, a posia avè incora un zòc znì znìpr afruntèa la not cl ariva giazeda e longa cl an fìness piò?

Il fuoco Sera d’inverno. / Il fuoco rumo-reggia nel camino... / Fra un po’ si spe-gnerà / se non metto / altra legna. /Anche la mia vita diventerà cenere / euna ventata / la disperderà per il mondo./ Ma prima vorrei farmi sentire, / scalda-re, illuminare. / Cosa ho fatto finora? /Mi sembra di non aver combinato nientedi speciale. / Mio Dio, / se non è troppotardi, / posso avere ancora un pezzo dilegna, piccolo piccolo, / per andare incon-tro alla notte in arrivo, / gelida e lunga,che non finisce più?

Véc

di Marino Monti - ForlìSegnalata

L’insté e’ pasain cl’êria ad védarindò ch’u s’ spëciaómbarad ca e calérurmai smési, badêdi sol da véc ch’i s’inveja vers serasenza una stré senza un lampion.

Vécch’i cnos sol ló e’ sôndal vôs dla tëra ch’al rimbomba par gnit.

Véc sempar piò int un grân zét pr arcurdéd’avé sintì canté un usignôle pintìsdninz a l’ósadës che totl’è fnì int una zità.

Vecchi L’estate /trascorre / in quellaaria di vetro / dove si specchiano / ombre/ di case e carraie / ormai abbandonate/ sorvegliate solo da vecchi / che si avvia-no / verso sera / senza una strada /senza lampioni. // Vecchi / che conosco-no solo loro / il suono / delle voci dellaterra / che rimbombano / per nulla. //Vecchi sempre più / in un gran silenzio /per ricordare / d’aver sentito cantare unusignolo / e pentirsi / davanti all’uscio /ora che tutto / è finito in una città.

E’ sunadôr

di Domenico Tampieri - LugoSegnalata

L’è una matëna cun e’ sólche brùsa stra i cavëll e cun e’ mêr che pê un spècc d’arzènt…e’ sunadôrl’è insdéint un cantôn dla strê,avstì coma un spintàcc,cun ‘na fàza sbiavìdae smarìda…e’ strufègna sèmparcla sunêda,tót i dè,d’una tristèzach’l’a-m fa agapunê la pël.Me a-l stëgh a scultê,coma ch’a fòss in cìsa,parchè int la su ânmau j è nèca la mi malincunèja.

Il suonatore È una mattina, / col sole/ che brucia tra i capelli / e con il mare/ che sembra uno specchio d’argento... /il suonatore / è seduto / in un angolodella strada, / vestito come uno spaventa-passeri, / con un volto smunto e smarri-to... / strimpella sempre / la stessa suona-ta, / tutti i giorni, / d’una tristezza / chemi fa rabbrividire. / Lo sto ad ascoltare,/ come fossi in chiesa, / perché nel suoanimo / c’è anche la mia malinconia.

la Ludla14 Settembre 2013

Ancora sulla grafia romagnola… incóra?Mi sembrava che dopo la presentazio-ne dei contributi inviati alla Ludlasull’argomento da parte dei lettoriinteressati avessimo fatto dei passi inavanti: e non voglio riproporre leconsiderazioni da me espresse nelmio secondo contributo (Ludla, Giu-gno 2012), per non sottrarre spazioalla rivista e per non sentirmi dire, amia volta, “incóra?!”.Vedo però che lo fa Maioli; e cosìchiedo un piccolo spazio per puntua-lizzare alcuni aspetti.La storia dell’italiano la sappiamo.Ma noi, che in Romagna Dante loabbiamo avuto, lo abbiamo sfamato,gli abbiamo fatto la tomba però nonsiamo stati capaci di dirgli “cus ëli calparôl sfurbidi ch’a dgì, e’ mì pataca? Icvè,s’ avlì fê dla cumégia, a la fašì in ruma-gnôl”. Persa quell’occasione, nonabbiamo più avuto autori di riferi-mento per svolgere, a favore della lin-gua romagnola, quel ruolo che Dantee Boccaccio hanno svolto per l’italia-no. Lasciamoli dormire in pace eandiamo al centro della questione:non si tratta di stabilire se dobbia-mo/possiamo/sia meglio, utile odannoso/etc scrivere con o senza isegni diacritici atti a indicare la pro-nuncia di ciò che un autore si è presola briga e la responsabilità di scrivere,bensì, nel caso si scelga di metterli,QUALI concordiamo di mettere.Onde evitare, come è successo e con-tinua a succedere, che allo stessosegno si attribuiscano suoni diversi,che fastidio può dare a chi pensa dinon averne bisogno o vuole leggerecome gli pare e nella sua parlata untesto che sia stato scritto in una parla-ta diversa? Può benissimo fare finta

che non ci siano! Ma, se uno invecevuole sapere come l’autore pronunce-rebbe il suo scritto, avrà pure il dirit-to di trovarselo indicato con i segniappropriati – e condivisi, in base aquanto detto al punto precedente –e perché preoccuparsi della faticafatta da chi vuole mettere i segni, acercarli nella tastiera o a crearli conopportune combinazioni di tasti? Cipenserà ben lui a trovare il metodo;ce ne sono diversi e ognuno può sce-gliere quello che reputa più conve-niente.Quindi, per concludere, io vedo solodue strade ragionevoli, basate supoche regole e molto semplici: - o non si mette nessun segno, dandoper scontato che chi legge sa già sga-vagnarsi con il romagnolo e lo leggecome gli pare; (quando lettori di que-sto tipo arriveranno alla fine dei pro-pri giorni il romagnolo si estingueràcon loro)- oppure glieli mettiamo tutti, per aiu-tare a leggere chi il romagnolo lovuole imparare; presumibilmente ungiovane e i giovani delle generazionifuture.Non condivido invece le arrampicatesugli specchi, i salti mortali o lemasturbazioni cerebrali di chi, pro-prio in nome della “semplificazione”,mette solo i segni ritenuti “necessari”;ma per fare questo deve mettere inpiedi una complessa architettura pertenere insieme tutta una serie di rego-le e di casi e di eccezioni e di deroghealle eccezioni, che presuppongonouno studio approfondito e unamemoria di ferro che non sono indotazione né ai vecchi e né ai giovani. È poi vero che ci sono anche in italia-no tante pronunce diverse per la stes-

sa parola, ma è anche vero che perporre rimedio a questo “eccesso dilibertà” ci sono i Dizionari (ripetia-molo ancora una volta che non èsinonimo di Vocabolario) e le scuoledi dizione. La televisione ha comple-tato l’opera di Dante, nella diffusio-ne dell’italiano, decidendo di dare ledritte, in primis, ai lettori del tele-giornale, alle presentatrici e ai princi-pali presentatori di spettacoli; e que-sto è stato un grande atto culturale.Quanto all’esempio di giugn, zugn,zoin, zoign, conseguente alla propostadi analizzare un’area con opere“numerose e consistenti” – cus a vôldì’? -, poi trascriverli senza accenti chenon siano sulla tastiera (peccato cheBill Gates abbia avuto una maestradiversa e abbia sciupato una posizio-ne su di un tasto per la é) ... e “sceglie-re una versione, non importa quale”… avì vòja ad rìdar!Ben diversa invece è la impostazionedi Zoli che propone di mettere apunto un romagnolo standard, per lascrittura, che potrà essere letto condiverse pronunce. Diversa e interes-sante perché è una proposta che pre-suppone approfonditi – e costosi –studi e analisi di natura etimologica,per individuare, con questo metodoscientifico, la parola giusta.Et de hoc satis.

Angelo Minguzzi

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Siccome credo che le lodi (ah! sèmparstal lêvd!) non siano sgradite, desiderocomplimentarmi ancora una voltaper la Rivista, come sempre bella einteressante.In particolare voglio esprimere il piùsentito apprezzamento per l’interven-to di Maiòli (o Maióli??) sulla grafia[Ludla, Luglio-Agosto, pag. 4. n.d.r.].Bene. Bravo. Sublime. È quello chevorrei aver scritto io.Ero già da tempo su questa strada...ma ormai sono deciso. Il Romagnolosi può (deve) scrivere senza (quasi, sal-vando magari i due accenti tradizio-nali) segni, come gran parte delle lin-gue del mondo (così ci guadagneràmolto anche in comprensione). Buon lavoro a tutti.

Ferdinando Pelliciardi

la Ludla 15Settembre 2013

Libri ricevuti

Graziano PozzettoLe cucine di Romagna.Storia e ricette.Prefazione di Tonino Guerra.Consulenza storica di PieroMeldini.Orme Tarka, Roma, 2013.Pp. XXIV - 422

Mario RossiBrevi prose in dialetto ravegnano.Edizioni Senza Speranza,Ravenna, 1998.Pp. 48

Rubiconia Accademia deiFilopatridi.Quaderno XXIV.Omaggio a Giovanni Pascoli.A cura di Edoardo Turci.Società Editrice «Il PonteVecchio», Cesena, 2012.Pp. 181

Giovanni Nadiani Terminal. Blues del broker fallito.Mobydick, Faenza, 2013. Pp. 48 con CD allegato.

Diana SciaccaÉrba de mi curtil.Poesie in dialetto romagnolo contraduzione a fronte.Illustrazioni dell’autrice.Associazione Culturale Casti-glionese “Umberto Foschi”.Edizioni Risguardi, 2012.Pp. XXIV - 143

Mario MaiolaniPerché in Romagna si dice così.Presentazione di GabrieleZelli.Società Editrice «Il PonteVecchio», Cesena, 2013.Pp. 122

Angelo ChiarettiDante Alighieri primo turista inRomagna.Editrice Pliniana, Selci-Lama, 2013. Pp. VII - 136

la Ludla16 Settembre 2013

«la Ludla», periodico dell’Associazione Istituto Friedrich Schürr, distribuito gratuitamente ai sociPubblicato dalla Società Editrice «Il Ponte Vecchio» • Stampa: «il Papiro», Cesena

Direttore responsabile: Pietro Barberini • Direttore editoriale: Gilberto CasadioRedazione: Paolo Borghi, Gianfranco Camerani, Veronica Focaccia Errani, Giuliano Giuliani, Omero Mazzesi, Addis Sante Meleti

Segretaria di redazione: Carla Fabbri

La responsabilità delle affermazioni contenute negli articoli firmati va ascritta ai singoli collaboratori

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È probabile che non sia questa la prima occasione in cuise ne fa cenno sulla Ludla (e verosimilmente non sarà l’ul-tima) in ogni caso l'assunto recita che la poesia, qualoradovesse palesarsi incapace di indurre al pensiero e all'in-trospezione, abdicherebbe ad uno dei propri mandati piùvincolanti e suggestivi.D'altra parte, se analizziamo a fondo le spinte emoziona-li e il senso di compiutezza che legano l'uomo alla poesia,è agevole rendersi conto di quanto gli venga rimunerato(sempre che non si appaghi di un approccio frettolosoquanto inutile) l' impulso di identificarsi nei suoi versi,di trovare corrispondenza e pienezza fra questi e ciò chescopre accadergli nel profondo in conseguenza della lorolettura.Da qui l'esigenza individuale di avvalersene, interpretan-

do e facendo proprio anche tutto ciò che essi non diconoespressamente ma spesso soltanto di riflesso; un processodi identificazione e decodifica che può discordare inmaniera concreta da quella di altri soggetti, in ragionedelle specifiche individualità e percettività emotive insitein ciascuno di loro.Dalle poche, singolari poesie che ha voluto inviarci il ric-cionese Enzo Travaglini, non è stato facile estrapolarneuna che suffragasse, magari solo in parte, quanto sovraaccennato e questo perché tutte, in una maniera o nell'al-tra, vi si adeguano, non foss'altro che per la condivisariluttanza nei confronti di qualsiasi approccio frettolosoed epidermico.Nella poesia di questa Pagina sedici, ad esempio, ci siimbatte in una sorta di proiezione onirica che, muovendodalla sabbia, ci scorta dalle sue montagne di provenienzaal ruolo che essa ricopre quando, attaccata sotto i piedi,da fugace fonte di fastidio evolve ad ispiratrice di ricordo.E nel mezzo noi e i nostri giochi infantili sulla spiaggia, laspiaggia di un tempo ormai vago nella memoria il quale,proprio come la sabbia di una clessidra, ci scivola addos-so imperturbabile, rimarcando il suo scorrere e colmando-ci delle sue impronte.

Paolo Borghi

Enzo Travaglini

Totta cla sabia

Totta cla sabia

Ta l sént, e’ vent, cum e’ suspira ? L’è la vosa dla muntagna: lia, sa cla nostalgia dla mareina. E’ fiom e’ prumet, e un garnel dri ma cl’èltla muntagna la cameina. Inveci i burdel i corr, i s’arugla tla sabia, i gira, i prella, i vò fè e’ bagn... Noun a guardam drénta un arlògdu ch’e’ temp e’ lasa e’ segn. Noun da mareina arturnam indrì sa totta cla sabia tacheda mi pi.

Tutta quella sabbia Lo senti, il vento, come sospira?\ È la voce della montagna:\ lei, che ha nostalgia del mare.\ Il fiume promette,\ eun granello dopo l'altro \ la montagna s'incammina. \ Invece i bambini corrono, si rotolano nella sabbia,\ sono smaniosi di fare il bagno...\ Noiguardiamo in un orologio \ dove il tempo ha lasciato il segno.\ Noi dalla spiaggia torniamo indietro \ con tutta quella sabbia attaccata ai piedi.