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la Ludla 1 “Poca favilla gran fiamma seconda” Dante, Par. I, 34 la Ludla (la Favilla) Periodico dell’Associazione “Istituto Friedrich Schürr” per la valorizzazione del patrimonio dialettale romagnolo Autorizzazione del Tribunale di Ravenna n. 1168 del 18.9.2001 Questo numero è stato realizzato con l’apporto del Comune di Ravenna Società Editrice «Il Ponte Vecchio» Anno XVI • Giugno 2012 • n. 5 SOMMARIO Confronto sulla grafia - V Marcello Maioli - Angelo Minguzzi Due sonetti sulla Battaglia di Ravenna di Mauro Mazzotti Un americano alla corte del Passatore di Renato Cortesi Eletti i nuovi organi direttivi della Schürr Par chêð di Rosalia Casadei Illustrazione di Giuliano Giuliani Aggiunte e correzioni al Vocabolario etimologico romagnolo - III Rubrica di Gilberto Casadio Parole in controluce Rubrica di Addis Sante Meleti Mario Gurioli - Fët dla mi tëra di Bas-ciân Un dè d’utóbar di Sergio Celetti Stal puiðì agli à vent... I scriv a la Ludla Tonino Guerra - Dove vanno a finire le parole? di Paolo Borghi p. 2 p. 5 p. 6 p. 7 p. 8 p. 10 p. 11 p. 12 p. 13 p. 14 p. 15 p. 16 Sabato 19 maggio si sono ritrovati nel giardino della casa del poeta cervese Tolmino Baldassari, a Cannuzzo, amici e lettori per ricor- darlo a due anni dalla sua scomparsa (1927-2010). Il pomeriggio, organizzato dalla Biblioteca comunale di Cervia “Maria Goia”, si è aperto con l’esecuzione di brani di Bach, Haydn e Piazzolla, affidati al violino e alla chitarra delle giovani musiciste cervesi Francesca e Lucia Romagnoli, studentesse della Scuola comunale “G. Rossini” di Cervia. Un “omaggio impossibile” a Tol- mino da parte di un altro grande poeta romagnolo, Giovanni Pasco- li, è stato evocato dalla voce recitante dell’attrice Lelia Serra. L’omaggio poetico a Tolmino è stato offerto da Giuseppe Bellosi, studioso di letteratura dialettale e poeta, oltre che impeccabile e partecipe lettore. Bellosi ha delineato una sua personale antologia della produzione di Baldassari, attraverso le prime raccolte, i com- ponimenti dedicati alla moglie Giuliana, per terminare con alcuni passi dal poemetto “La néva”. Un affettuoso omaggio a Tonino Guerra, altro grande poeta romagnolo recentemente scomparso, che di Tolmino era amico ed estimatore, ha concluso le letture poetiche. Hanno portato una testimonianza ai numerosi convenuti il critico e poeta Gianfranco Lauretano, curatore dell'antologia di Baldassari “L'ombra dei discorsi”, la Soprintendente regionale per i beni librari dell'IBC, Rosaria Campioni che ha letto un brano sulla lettu- ra, tratta dall’autobiografia di Tolmino “Qualcosa di una vita”: in chiusura un saluto e un ringraziamento alla famiglia Baldassari a nome dell’Amministrazio- ne comunale da parte del- l’assessore alla cultura Alberto Donati. Continua a pag. 4 Ricordo di Tolmino a Cannuzzo di Brunella Garavini Giugno 2012

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la Ludla 1

“Poca favilla gran fiamma seconda”Dante, Par. I, 34

la Ludla(la Favilla)

Periodico dell’Associazione “Istituto Friedrich Schürr”per la valorizzazione del patrimonio dialettale romagnolo

Autorizzazione del Tribunale di Ravenna n. 1168 del 18.9.2001

Questo numero è stato realizzato con l’apporto del Comune di Ravenna

Società Editrice «Il Ponte Vecchio» Anno XVI • Giugno 2012 • n. 5

SOMMARIO

Confronto sulla grafia - VMarcello Maioli - Angelo Minguzzi

Due sonetti sulla Battaglia diRavennadi Mauro Mazzotti

Un americano alla corte del Passatoredi Renato Cortesi

Eletti i nuovi organi direttividella Schürr

Par chêðdi Rosalia CasadeiIllustrazione di Giuliano Giuliani

Aggiunte e correzioni al Vocabolarioetimologico romagnolo - IIIRubrica di Gilberto Casadio

Parole in controluceRubrica di Addis Sante Meleti

Mario Gurioli - Fët dla mi tëradi Bas-ciân

Un dè d’utóbardi Sergio Celetti

Stal puiðì agli à vent...

I scriv a la Ludla

Tonino Guerra - Dove vanno afinire le parole?di Paolo Borghi

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Sabato 19 maggio si sono ritrovati nel giardino della casa del poetacervese Tolmino Baldassari, a Cannuzzo, amici e lettori per ricor-darlo a due anni dalla sua scomparsa (1927-2010). Il pomeriggio, organizzato dalla Biblioteca comunale di Cervia“Maria Goia”, si è aperto con l’esecuzione di brani di Bach, Haydne Piazzolla, affidati al violino e alla chitarra delle giovani musicistecervesi Francesca e Lucia Romagnoli, studentesse della Scuolacomunale “G. Rossini” di Cervia. Un “omaggio impossibile” a Tol-mino da parte di un altro grande poeta romagnolo, Giovanni Pasco-li, è stato evocato dalla voce recitante dell’attrice Lelia Serra. L’omaggio poetico a Tolmino è stato offerto da Giuseppe Bellosi,studioso di letteratura dialettale e poeta, oltre che impeccabile epartecipe lettore. Bellosi ha delineato una sua personale antologiadella produzione di Baldassari, attraverso le prime raccolte, i com-ponimenti dedicati alla moglie Giuliana, per terminare con alcunipassi dal poemetto “La néva”. Un affettuoso omaggio a ToninoGuerra, altro grande poeta romagnolo recentemente scomparso, chedi Tolmino era amico ed estimatore, ha concluso le letture poetiche.Hanno portato una testimonianza ai numerosi convenuti il criticoe poeta Gianfranco Lauretano, curatore dell'antologia di Baldassari

“L'ombra dei discorsi”, laSoprintendente regionaleper i beni librari dell'IBC,Rosaria Campioni che haletto un brano sulla lettu-ra, tratta dall’autobiografiadi Tolmino “Qualcosa diuna vita”: in chiusura unsaluto e un ringraziamentoalla famiglia Baldassari anome dell’Amministrazio-ne comunale da parte del-l’assessore alla culturaAlberto Donati.

Continua a pag. 4

Ricordo di Tolmino a Cannuzzo

di Brunella Garavini

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Quando Valentino Rossi vinse per laseconda volta il campionato mondia-le, esibì in mondovisione unamaglietta con su scritto “Do volt cam-pion de mond”. Tecnicamente sareb-be marchigiano, perché lui è di Tavul-lia (PS o PU), ma io che sono di Salu-decio sento la frase come romagnolaperché l’avrei scritta nello stessomodo. Dovendola pronunciare io, ledue prime o suonerebbero come la odi ‘poco’, la terza come la o di ‘cam-pione’ e l’ultima come la prima o di‘mondo’. Da come si sta sviluppando la tema-tica dell’ortografia, tendente a diffe-renziare i suoni delle vocali, quellafrase andrebbe scritta, ipoteticamen-te, “Dò vòlt campión de mônd”. Manello spostarsi dall’estremo sud-estdella Romagna verso Rimini, e poiproseguendo lungo la costa versoRavenna fino a Comacchio, e lungola Via Emilia verso Cesena, Forlì,Faenza e Imola, quelle o vengonopronunciate in maniera semprediversa, spostandosi - immagino -verso la a oppure verso la e o assu-mendo un suono nasale. Ed allora inun certo luogo scriveremo campiòn,in un altro campión, in un altro anco-ra campiön e forse anche campiøn ecampiõn. E che dire di Amarcord? Noncredo che in tutta la Romagna la sipronunci come a Rimini. In certiposti si dovrà scrivere Amarcörd ed inaltri Amarcõrd. Non avremo quindi un’ortografiaromagnola, ma una diversa ortografiaper ogni città e villaggio, se non perogni parrocchia. C’è di più: qualcunoscrive döp-meždè. So che vuol dire‘dopo mezzogiorno’ e che l’ultima e èquella di caffè, ne sono sicuro. Ma laž come la devo pronunciare? Io cono-sco la zeta di ‘zanzara’ e la zeta di‘pazienza’, è una di queste o unadiversa? Non parliamo poi della o chein tutta la Romagna viene pronuncia-ta in infiniti modi diversi. Se conoscoil dialetto di chi scrive so come si pro-nuncia la parola anche senza l’uso disegni particolari. Se non conoscoquel dialetto, i segni particolari sullelettere non mi illuminano per nientee diventano inutili. In verità dovreb-bero illuminarmi, ma come si fa sape-re e a ricordare come si pronunciano

à, á, â, ã, ä, å, ā, ă, æ, è, é, ê, ë, ì, í, î,ï, ò, ó, ô, õ, ö, ø, ù, ú, û, ü, ć, ĉ, č, ecc.?Una cosa del genere accade nei tra-duttori dal russo: scrivono Il’ja A. Il’fe Čechov. Io, che non conosco ilrusso, leggo ‘Ilia Ilf’ e ‘Cecov’. Oforse quegli apostrofi, quella c stranae quell’h dicono qualcosa che iodovrei sapere e che invece non so?Av salùt ma tut.

Marcello Maioli

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Suddividerò il mio intervento in dueparti.Mi pare che al punto in dove chesiamo arrivati si possa dire che l’an-nuncio/appello sulla Ludla di ottobre2011 è stato oggetto di due interpre-tazioni:• chi ha capito che c’era da rifinireun lavoro di limatura per dare l’impri-matur definitivo… che c’eravamo vici-no. E io l’ho interpretato così e daròil mio contributo.• chi ha rimesso in discussione lapossibilità/necessità di raggiungerequesto obbiettivo. Il non avere indi-cato una traccia precisa da parte dellaLudla ha lasciato spazio anche a que-sta interpretazione. Parte 1Non partiamo da zero; se siamo quivuol dire che riconosciamo allaSchürr/Ludla il ruolo di coordinatoredell’iniziativa. Così davo per scontatoche si dovesse completare un discorsoriprendendolo da dove era rimastocon la Schürr/Ludla, che aveva pro-dotto nel 1998 le “Norme di grafiaromagnola seguite dalla redazione della

Ludla”, centrate sul dialetto delleVille Unite, che riprendevano, permeglio puntualizzare, alcuni argo-menti trattati nel novembre del 1986nelle “Regole fondamentali di grafiaromagnola” (Ed. Girasole di Ravenna)elaborate da un gruppo di illustri stu-diosi. L’avevo interpretato così perché misembrava che la Schürr/Ludla ci cre-desse, prova ne sia il fatto che vi siatteneva; poi aveva mantenuto vival’attenzione sull’argomento pubbli-cando gli articoli sulle ricerche lingui-stiche di Vitali e Pioggia; poi le avevaadottate, generando quella che hodefinito, improvvidamente, “confu-sione”, per la quale ho circostanziatoal buon Vitali, privatamente.Invece ci siamo incagliati, o rischia-mo di incagliarci, negli scogli fattiaffiorare da alcuni interventi, conargomentazioni varie, spesso in nomedella “semplificazione” (“non creia-mo confusione, siamo sempre andatibene così …”); ma, attenzione, accan-to a rispettabilissime proposte medi-tate e sofferte e di riconversionerispetto a precedenti posizioni, cisono spicciative sentenze da parte dialtri che non riuscendo a saltare pertentare di raggiungere l’uva diconoche è inutile, perché tanto era acerba.A proposito di “confusione/semplifi-cazione” non giochiamo con gli equi-voci.Una cosa è auspicare/raccomanda-re/cercare di usare “pochi segni”. Eallora bisognerà accordarsi sul signifi-cato di “pochi”: - quelli indicati nei lavori fin qui pub-blicati? Ossia, per quanto è nelle mieconoscenze, nel 1977 da Pelliciardi,

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Confronto sulla grafia

V

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la Ludla 3Giugno 2012

nel 1986 da AA.VV., nel 1998 dallaredazione della Ludla, nel 2003 daPonseggi- quelli, frutto del lavoro diVitali/Pioggia? (Vitali, L’ortografiaromagnola, 2008; articoli vari, Ludla,2011; Vitali, Ludla, 3/2012)- nessuno? E, in questo caso, il lettoredovrebbe decidere da solo anche dovemettere l’accento tonico? E in basealla sua cultura “romagnola”? Ma, seè giovane e ha sempre parlato solo initaliano, come ha potuto formarsiquesta cultura?Altra cosa invece è imporre se e quan-ti segni usare o non usarli.In merito alle finalità del lavoro checi attende, lascio ad altri le dotte dis-sertazioni su letteratura / dialettolo-gia / glottologia / grafia / trascrizio-ne fonetica, in relazione alle quali simodificherebbero le finalità e di con-seguenza le norme di grafia. Confes-so che faccio anche fatica a seguirli,ma mi consolo con la presunzione dipensare che non sia lì il nucleo delproblema; e che posso anche fare ameno di interessarmene.E allora dobbiamo decidere se voglia-mo seminare nel solco tracciato dallaSchürr/Ludla oppure richiuderlo edire che abbiamo scherzato. Io prefe-risco seminarci qualcosa in quel solcoe aspettare di vedere i frutti.Fondamentale, ed è ciò che mi interes-sa soprattutto, è che venga salvaguar-dato un principio di libertà sul quan-ti segni si possano mettere. Per esserepiù precisi: se uno li vuole mettereanche su tutte le vocali sulle qualicade l’accento tonico, per indicareuna precisa pronuncia, come se aves-se preso le parole da un dizionario,che lo possa fare e nessuno possaimpedirglielo a priori. Se uno è con-vinto in questo modo di contribuiremeglio a tutelare la lingua romagnolae di fare un miglior servizio al lettore,soprattutto se giovane e non-dialetto-fono, proponendogli subito la corret-ta pronuncia, che lo possa fare.

Parte 2Chiarito questo, almeno per quantomi riguarda, allora ne consegue chel’obiettivo logico e coerente diventa:definire in maniera concordata e ine-quivocabile quali segni mettere, asso-

ciando ad ogni segno una ben preci-sa pronuncia.I problemi, che in parte ho già citatonel mio precedente scritto, si pongo-no per:1. Le vocali “e, o”2. Le nasali: in varia misura, per levocali “e, o, a, i”3. Le consonanti con doppia pronun-cia, sonora/sorda: “s, z, c, g”4. Il suono corrispondente all’italia-no “sc” di sciatore5. La “r” terminale dei verbi all’infini-to6. Le consonanti doppie7. La “q” e la “c”E tutto questo utilizzando il word pro-cessor, che tutti i giovani sono abitua-ti ad usare. Come pure conoscono odovrebbero conoscere l’italiano, contutte le sue regole, comprese quelledella dizione.E, per il nostro fine, benché siaimportante sotto l’aspetto culturale /storico / etimologico, ci è poco utileil rivendicare l’originalità del roma-gnolo, ossia la derivazione diretta dallatino e dal greco, con le successivecontaminazioni celtiche o di tantealtre parlate a seconda della estensio-ne, nel tempo e nello spazio, delledenominazioni militari che hannocalpestato la nostra terra; ci è piùutile l’umiltà di tenere conto dell’esi-stenza di una lingua strutturata e dif-fusa da più di sette secoli. Pertanto:1. Per le vocali “e” ed “o” concordosulle Norme di grafia romagnola seguitedalla redazione della Ludla. Quattroaccenti: éèëê óòöô; purché venganousati a proposito, non come nel Bur-sôn di Bagnacavallo o nella Canèna diRussi. E questa è una questione siste-mata.2. Più complicata è quella delle nasa-li. Da dove cominciamo per semplifi-carla? Mi può trovare consenziente la pro-posta di uniformare sotto lo stessosegno (es. la tilde) la scelta grafica perle tre vocali “a, e, o” e, giacché cisiamo, mettiamoci pure la “i”, cheprecedono le consonanti “n/m”.[anche se, ma lo dico tra robusteparentesi quadre, per la “i” proprionon ne avverto la necessità - ché alloscopo basterebbe “ì”-; e per la “o”

tante volte non ho le orecchie tantoraffinate da riuscire a percepire unadifferenziazione di pronuncia rispet-to alla “ó” acuta].Ma mi sembra un errore la soluzionebasata su di un solo segno messosulle vocali, eliminando di scrivere leconsonanti “n, m”. Mi sembra piùproduttiva una soluzione che coinvol-ga contemporaneamente la vocale ela consonante (n, m), in quanto ilcorrispondente suono nasale tieneconto dell’influenza della consonan-te, anche se momentaneamente aves-simo deciso di sotterrarla. Ma primao poi riemergerebbe: es. cãta o cãñta?rappresentano la terza persona delpresente indicativo di un verbo chegià all’infinito cantê’ o cantêr e in altritempi e persone ha la sua brava “n”:cantì, cantéva, cantarò, cantarèb, cantès,cantènd etc. E allora chi glielo va aspiegare ai giovani e ai non-dialettofo-ni la portata intellettuale di averedeciso di ignorarla? Siccome siamo abituati, e soprattuttoi giovani lo sono, alle parole italiane,dove le “n, m” sono presenti, faccia-mo un più bel servizio a questi letto-ri se scriviamo “n, m” anche in roma-gnolo. Personalmente, nonostante labuona volontà, non mi viene sponta-neo pensare che e’ cã e’ cãpa significhiche ‘il cane sta bene’. Ma potremmoanche voler comunicare che e’ cãn e’cãpa, dove la “n” si pronuncia, perchécosì fa comodo al poeta. E da dove èsaltata fuori questa “n”? Dal ‘cane’italiano! Mi sembra più razionaleallora mettere la “n” anche se non lasi deve pronunciare, aggiungendo unsegno per avvertire di non pronun-ciarla, che potrebbe essere, appunto,un’altra tilde. Allora scriverei e’ cãñ e’cãmpa o e’ cãn e’ cãmpa; così campa ilcane e anche il poeta, e di questoinformiamo anche il lettore; che poiquesti sia contento di saperlo o no,può essere questione di opinioni. 3. Usare lo stesso segno per indicarela pronuncia sonora / dolce rispettoa quella sorda / dura di s, z, c, g; emesso sopra la lettera, così: čČ ğĞ šŠ

žŽ, anziché un puntino sotto (dove lometteremmo con la “g”?). Per i suonisordi/duri, bastano “c, g”, senza biso-gno di scomodare la “h” per scrivere“ch, gh”.

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la Ludla4 Giugno 2012

4. Sc, s-c? E se stabilissimo che, inromagnolo, non esiste la pronuncia“sc” di sciatore? Se vogliamo daredello “scemo” a un romagnolo, non èa basta che sia insimunì per essere inregola? E quando scriviamo “sc” indi-chiamo che si devono pronunciaredue distinte consonanti, senza biso-gno di separarle con un trattino. Mase si reputa che sia meglio mettere iltrattino, mettiamoglielo pure.5. Situazione abbastanza affine aquella della “n” terminale nelle nasa-li è quella della “r” terminale deiverbi all’infinito. Se vogliamo che la“r” si pronunci, la scriviamo: andêr acà, dove la “r” si pronuncia perché èseguita da una vocale. Se non si devepronunciare, ne segnaliamo la man-canza con un apostrofo: andê’ vèja(diverso da andê vèja ‘andato via’).Rimangono poi un paio di question-cine che si possono aggiungere:a) Ci scostiamo dall’italiano nellapronuncia delle doppie. Possiamopermetterci di non scriverle, inromagnolo? Un gat + un gat fanno dughëtt? E sono di meno se scriviamodu ghët? E se fossero sette, quante tdovremmo mettere? Non basta sëtghët? Perché allora a Russi scrivonoFira di Sett Dulur?b) Cvèst, cvèl, cvêdar, cvadéran, acvèanziché quèst, quèl, quêdar, quadéran,aquè.Altre questioni sono più di naturagrammaticale / sintattica, e auspicoche vengano affrontate da chi è piùferrato di me in materia. Mi permet-to di assegnargli il compito di stabili-re come scrivere l’articolo determina-tivo maschile, la terza persona singo-

lare maschile dei verbi e la congiun-zione “e”.Considerazioni finaliSi potrebbe obiettare, e lo soanch’io, che questa proposta ha illimite di essere riferita prevalente-mente - e volutamente - alle parlatedella Romagna Centro Occidentale.Ma nella Ludla di ottobre 2011, holetto, in riferimento al dialetto delleVille Unite: “Quelle regole avevanoed hanno tuttora, a nostro parere,una solida validità e sono in grado direndere con sufficiente chiarezza levarie parlate romagnole”. Allora:nelle parlate di altre zone questisuoni non ci sono? Se ci sono, ci sitrova d’accordo e si stabilisce comescriverli. E anche se non ci sono tuttiquesti, ma ce ne sono anche deglialtri e non si può pensare di cogliere“tutte” le sfumature esistenti, si trat-terà di fare, come con i numeri deci-mali, degli “arrotondamenti”, defi-nendo quali intervalli di variabilitàdi pronunce possono essere rappre-sentati dagli stessi segni che abbiamofin qui fissato e quali invece hannobisogno di segni appositi; da definiree da aggiungere, per le rispettive par-late dove ricorrono.C’è chi propone, in alternativa, unatteggiamento più “democratico”[anarchico?!], ossia: niente segni,ognuno poi pronuncia come gli pare.Il mio contributo invece mi sembrache si concretizzi in una propostaragionevole, che si rifà ad altre prece-denti, come ho accennato, e cheandrebbero utilizzate, sul piano meto-dologico, come punto di partenza perulteriori elaborazioni, sviluppo e

completamento. I Bolognesi chehanno fatto le regole per il Bulgnåis -e se ne vantano di averle fatte! - saran-no partiti da qualcosa di esistente!Fin qui ci eravamo arrivati, ossia a fis-sare dei segni; se non basta, bisogne-rà metterne degli altri, ma non can-celliamo questi.Poi, ma mi ripeterei, che sia salva-guardata la libertà individuale di usar-li o non usarli; ma, se si usano, siusino questi.ConclusioniChiudo con uno spunto di riflessio-ne: se gli “uomini di buona volontà”abdicano oggi nell’affrontare la que-stione della grafia, non ci si meraviglise la stessa “pigrizia” subentrerà aproposito di altre questioni cheattengono di più alla grammatica /sintassi (metto tutto in un calderone,per ammettere la mia ignoranza inmateria). Senza questi tentativi diintervento allora sì che sarà inevita-bile la scomparsa del romagnolo. Per-sonalmente non me la sento di sen-tirmi corresponsabile di questo tristeepilogo.Permettetemi una facezia: chi mi sadire cosa potrebbe significare questafrase “non e non e non”? Non lo crede-rete e richiederebbe troppo spazioper spiegarlo, ma potremmo trovarce-la come frutto degli scervellamenti (ocon il trattino s-c? toh, anche in italia-no?) che hanno partorito alcune dellenorme/regole proposte in letteraturae/o qualcuno dei contributi finoraapparsi in questa rubrica.Me a la vèg acsè. A sòja stê cêr?

Zižaróñ(Angelo Minguzzi - Masiera)

Ricordo di Tolmino a Cannuzzo

Segue dalla primaGli ospiti si sono poi spostati nell’an-golo del giardino predisposto per lamerenda: tutti hanno contribuitoportando una “ligaza”, ma sono statisoprattutto gli ospitali familiari diTolmino a contribuire con generositàalla festosa riuscita dell’incontro con-viviale.Si è rinnovato così, per la terza volta

dalla sua scomparsa, l’appuntamen-to per ricordare Tolmino attraverso lalettura e per tenere vivo il dialogocon la sua comunità con il grandepoeta cervese che, nel 2008 con untestamento olografo, decise di donarei suoi libri alla Biblioteca comunaledi Cervia: nel cuore della Bibliotecainfatti si stanno allestendo spazi estrutture per accogliere i numerosi eimportanti libri di Tolmino.

Cannuzzo. Uno scorciodella bibliotecadi Tolmino Bal-dassari, i cuivolumi - comeda disposizionetestamentaria -saranno a brevetrasferiti allaBibliotecaComunale diCervia.

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la Ludla 5Giugno 2012

La batàia d’Ravèna

Da pu ch’j aveva squèrt ’gli êrom da fughla guëra l’èra mei dla chirurgì:in tot du i chéð apèna ðmes e’ þugh u j armastéva sól i murt da splì.

Parò mazês a màchina u ngn’è sugh: i lavur fët a mân — com a s’pöl dì? — i da piò gost. Dmandil pu nench a un cugh: la mnëstra compra l’è una schivarì.

Se tórna al mura alóra e’ fo un sflaþël ad pal d’canon par ðbuðanêr i furt, int la campâgna e’ zuzidè un mazël

nench cun al spêd, al lânz, i pugnél curt. E chi puch ch’i rinsè a salvê la pël i travarséva e’ fion stamþend i murt.

La battaglia di Ravenna Da quando avevano inventato le armida fuoco / la guerra era meglio della chirurgia: / in entrambi i casi,finito il gioco, / restavano solo i morti da seppellire. // Però adammazzarsi in serie non c’è sugo: / il lavoro manuale — come si puòdire? — / dà più soddisfazione. Domandatelo pur anche a un cuoco: /la minestra prodotta industrialmente è una schifezza. // Se alloraattorno alle mura fu un flagello / di cannonate per sfondare le fortifi-cazioni, / nella campagna successe un macello // anche con le spade,le lance, gli stocchi. / Quei pochi che riuscirono a salvare la pelle /attraversavano il fiume [Ronco] calpestando i morti.

Per intendere il sonetto seguente occorre citare leparole con le quali Francesco Guicciardini, nel deci-mo libro della sua Storia d’Italia, descrive la morte diGastone di Foix, puntualizzando come di morte felicis-sima si trattasse in quanto è desiderabile il morire a chi ènel colmo della maggiore prosperità: “Ma non potendocomportare Fois che quella fanteria spagnuola se neandasse, quasi come vincitrice, (...) andò furiosamente

ad assaltargli con una squadra di cavalli, percotendonegli ultimi; da' quali attorniato e gittato da cavallo o,come alcuni dicono, essendogli caduto mentre com-batteva il cavallo addosso, ferito d'una lancia in unofianco fu ammazzato: e se, come si crede, è desiderabi-le il morire a chi è nel colmo della maggiore prosperi-tà, morte certo felicissima, morendo acquistata già sìgloriosa vittoria.”

Gaston u s’ môr da la cuntinteza

I dið ch’l’andes icè: Gaston dla Fòia quând ch’e’ vest i spagnul ch’j andéva vi i n’fo piò bon d’tartnél tâñta la vòia ch’l’avéva d’muntê in sëla par dêi dri.

Coiòmbri: la fazenda la s’imbròia parchè i spagnul, ch’j è incóra bèn insprì, il bota þo pu il mena peþ d’na spòia che quând ch’il lasa andêr e’ pê instinclì.

U l’tulè so d’in tëra e’ su atendent e par fêi un pô d’côr e’ cminzè a dì: «Tni böta che imbacont a j aven vent

(pugiv a me s’a n’si piò bon d’stê in pi);a vinzen la batàia: a siv cuntent?»«S’a so cuntent? Sit mat?! U m’pê d’murì!».

Gastone muore dalla felicità Dicono che andasse così: Gasto-ne di Foix / quando vide gli spagnoli allontanarsi [dal campo di bat-taglia] / non furono più capaci di trattenerlo tanta era la voglia / cheaveva di salire in sella per incalzarli. // Caspita: la faccenda s’imbro-glia / perché gli spagnoli che sono ancora molto combattivi / lo atter-rano, lo menano peggio di una sfoglia / che quando lo lasciano anda-re sembra stecchito. // Lo sollevò da terra il suo attendente / e per far-gli coraggio cominciò a dire: / «Resistete che ad ogni buon conto abbia-mo vinto // (appoggiatevi a me se non siete più capace di reggervi inpiedi); / vinciamo la battaglia: siete contento?» / «Se sono contento?Scherzi?! Da... morire!».

Due sonetti

sulla Battaglia

di Ravenna

di Mauro Mazzotti

In occasione del cinquecentesimo anniversario dellabattaglia di Ravenna, avvenuta l’11 aprile del 1512(giorno di Pasqua) fra le truppe francesi, guidate daGastone di Foix, e quelle della Lega Santa, si sonosvolte varie commemorazioni e sono stati pubblicatidiversi libri su quel sanguinoso scontro che avvenne

sulla destra del fiume Ronco a poche miglia di distanzada dove oggi ha sede la nostra associazione.

Anche per questo vogliamo ricordare quell’avvenimento(del quale la Ludla ha già parlato in un articolo di

Anselmo Calvetti, “Furia Franzéða, ritirêda Spagnôla”,novembre 2000, p. 10) attraverso due sonetti di

Mauro Mazzotti, ripresi dalla sua Ravèna e al sustôri (Ravenna, 1994). E se a qualcuno la vena

poetica del nostro sembrerà troppo leggera di fronte aquella immane strage, chiediamo venia fin da ora.

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la Ludla6

Su questa rivista si è già fatto notareche ad occuparsi del dialetto roma-gnolo non furono solo italiani; oltrea Friedrich Schürr sono stati ricorda-ti anche Meyer-Lübke, Douglas Bar-tlett Gregor e Adolf Mussafia.Un personaggio meno noto è Char-les Godfrey Leland, nato a Filadelfianel 1824, che dopo diverse peripeziesi stabilì a Firenze nel 1886, e da lì sispinse fino ai piccoli paesi dell’Ap-pennino tosco-romagnolo studiandole popolazioni locali.Bisogna subito chiarire che Lelandnon era un linguista e non si occupòdello studio del dialetto romagnolo,ma ci piace associare il suo nome aquello degli altri studiosi perché(come ricorda egli stesso nelle suememorie) fu spinto ad avvicinarsi airomagnoli in quanto attratto dal“suono melodioso” della loro parlata(utilizzò proprio i termini inglesi“sounded melodiously”); in partico-lare ricorda una frase che lo colpìparticolarmente per la sua musicali-tà: Ma guerda la Rusena a fazeda a lafinestra.Non so cosa faccia scattare in noiquella molla che scopre musicalità inuna frase piuttosto che in un’altraquando ascoltiamo una lingua chenon è la nostra, ma che esista è unfatto indubitabile; personalmentericordo una collega di lavoro, residen-te a Ravenna ma spagnola di nascita,a cui piaceva particolarmente l’allocu-zione dialettale un’s guerda (quandoera usata con riferimento a una perso-na), e affermava che in tutta la linguaspagnola non esisteva una frase che,già dal suono, esprimesse quell’ironiail cui concetto era poi così ben chiari-to dalla parte verbale.Che Leland non fosse un linguista losi deduce anche dall’errore nella frasecitata (riportata così come si trova nelsuo libro), ma bisogna dire che vissein un periodo in cui non erano anco-ra state gettate le basi dell’ortografia edella grammatica romagnola, e che ilsuo lavoro era destinato ad un pub-blico di cultura anglosassone. Lelandsi occupava infatti di etnografia eantropologia (per approfondire sirimanda alle sue opere ed eventual-

mente a studi sul suo lavoro)1; neisuoi testi inseriva spesso frasi in cuitermini inglesi erano frammisti adaltri italiani e romagnoli, questi ulti-mi sempre zeppi di errori; era inna-morato di un mondo il cui linguag-gio non comprendeva a fondo, comeil personaggio di Mark Twain di quellibro il cui titolo [Un americano allacorte di Re Artù, n.d.r.] ci è piaciutoparafrasare per questo articolo.Nelle sue peregrinazioni in Romagnastudiò ritornelli e cantilene riporta-tegli da sedicenti fattucchiere, cheegli ritenne il residuo di culti pagani.Espresse queste teorie in Etruscan-Roman Remains in Popular Tradition enel più tardo Aradia, or the Gospel ofthe Witches2.Le sue teorie sono discutibili, fruttodella sua propensione a credere a chi

era attratto dalle ricompense indenaro per chi gli portava informa-zioni, e del suo carattere idealista(socialista, aveva combattuto nellaComune di Parigi), per cui mitizzavala vita dei contadini; soprattutto nelsecondo dei libri citati emerge unafigura di “medicona” più simile aduna ribelle che a una contadina.Ma per quanto criticabile bisognadire che il suo lavoro non è mai statostudiato a fondo; eppure Leland uti-lizzò una metodica di indagine cheaveva illustri predecessori, comeMarcellus Burdigalensis, medico del-l’imperatore Onorio3, o Ovidio, Vir-gilio, Plinio, vedendovi in ciò unaconferma della validità del suo meto-do. Autori come Michelet4 avevanogià espresso il concetto della poten-zialità rivoluzionaria delle “medico-ne di villaggio”, e altri autori farannopoi notare la persistenza fino ainostri giorni di retaggi di culti agra-ri5; per quanto riguarda specificata-mente la Romagna lo stesso De Nar-dis ricorda che nella cultura dei con-tadini romagnoli c’era una certa fedenei “sacri ammaestramenti dei codicidelle streghe”6. Probabilmente l’insuccesso del suolavoro fu, in parte, dovuto al fattoche Leland si inimicò il mondo acca-demico americano per il suo com-portamento anticonformista, e quel-lo italiano praticamente lo ignorò,forse perché poco conosciuto, forseperché trattava argomenti che evi-denziavano differenze regionali inun momento in cui era invece piùpagante occuparsi della creazione di

Giugno 2012

Un americano alla corte

del Passatore

di Renato Cortesi

Charles Godfrey Leland (Philadelphia 1824 - Firenze 1903)

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la Ludla 7

una cultura nazionale unitaria, forseperché sosteneva tesi non gradite alcattolicesimo.Fino al 1980 i suoi lavori rimaseroabbastanza sconosciuti e utilizzatiesclusivamente da persone dell’ambi-to magico-esoterico statunitense,erede dell’occultismo ottocentesco,che ne esaltarono unicamente laparte più sensazionalistica e tralascia-rono quella antropologica che ne eral’elemento fondamentale; finì peressere considerato l’uomo che forni-va una legittimazione pseudoscienti-fica a quel mondo che ruota attornoallo studio della magia, in particola-re dal mondo del “wicca” americano(quelle donne che si considerano lestreghe moderne).Oggi che certi pregiudizi non hannopiù senso rimane il fatto che il suolavoro è un documento etnografico

importante, che ci illustra un mondorurale che è scomparso da moltianni, e quindi dovrebbe essere mag-giormente indagato. E se anche ciònon portasse a grandi risultati in ter-mini di accresciute conoscenze sullacultura romagnola rimane un fattoestremamente interessante, come hafatto notare molto acutamente qual-cuno7: come abbiano potuto, alcunetradizioni romagnole legate almondo agricolo, influire così forte-mente in quel fenomeno sociale didimensioni veramente rilevanti che èstato il mondo dell’occultismo e del-l’esoterismo americano, dalle filoso-fie neopagane (o pseudo religiose)“wicca” fino alle correnti “new age”.Leland morì a Firenze nel 1903.

Note

1. Cortesi, R.: La Romagna-Toscana di fine

ottocento negli scritti di Charles GodfreyLeland, Atti del Convegno della Societàdi Studi Romagnoli, Capaccio di SantaSofia, 17 settembre 2004.2. Di questo testo, pubblicato da DavidNutt a Londra nel 1899, esistono alme-no tre traduzioni in italiano : Aradia, ilVangelo delle streghe, Ed. Librarie F. Spi-nardi, Torino 1994; Aradia, o il Vangelodelle streghe, L.S. Olschki, Firenze 1999; Ilvangelo delle streghe, Stampa Alternativa,Viterbo 2001.3. Grimm, J.: Über Marcellus Burdigalen-sis, Berlino 1849 4. Michelet, J.: La Strega, Einaudi, Tori-no 1980.5. Si pensi, in particolare, agli studi diCarlo Ginzburg e di Magareth Murray.6. De Nardis, L.: La Piê , XXIII, anno1954, pagg. 65, 66.7. Eraldo Baldini, conversazione perso-nale.

Giugno 2012

Martedì 22 maggio si è insediato ilnuovo Comitato direttivo dellanostra Associazione eletto nel corsodell’assemblea generale dei soci del21 aprile scorso. Il Comitato, al quale spetta il com-pito di reggere la Schürr nei prossi-mi tre anni, è composto da 13 mem-bri: Giovanni Assirelli, GiuseppeBellosi, Rosalba Benedetti, VandaBudini, Gilberto Casadio, FrancoFabris, Carla Fabbri, Valter Fabbri,Giovanni Galli, Cristina Ghirardi-ni, Sauro Mambelli, GiovannaMorigi, Loretta Olivucci. Nel corso della seduta sono statinominati alla carica di presidenteCristina Ghirardini, a quella di vice-presidente Giuseppe Bellosi e CarlaFabbri, a quella di segretario Gio-vanni Galli. Tutte le nomine sonoavvenute all’unanimità.Il Comitato ha poi deciso di asse-gnare i vari settori di attività dell’As-

sociazione a singoli responsabili,dotati di autonomia operativa pur-ché nell’àmbito degli indirizzi edelle delibere fissate dal Comitatostesso. Questi responsabili di setto-re, non necessariamente facentiparte del Direttivo, potranno avva-lersi di collaboratori, dando vitacosì a veri e propri gruppi di lavoro.A questi potranno fare capo i sociper quanto concerne quesiti, sugge-rimenti, offerte di collaborazione equant’altro. Gli incarichi sonoattualmente ancora in fase di asse-

gnazione e ne daremo conto prossi-mamente.Il Comitato ha inoltre deliberatoche, a partire da questo numero,venga allegato alla Ludla un fogliovolante di notizie riguardanti l’atti-vità della Schürr, in quanto nonsempre possono trovare spazio nellarivista le notizie riguardanti i nume-rosi interventi dell’Associazione edei suoi membri effettuati nell’àm-bito dell’assolvimento dei compitistatutari. Il Notiziario sarà anche la sede percomunicare ai soci gli incontri, leattività e i programmi futuri, anchese – visto che le date di uscita dellaLudla per svariati motivi non pos-sono essere sempre tempestive – èbene che i soci consultino sempreil nostro sito (www.argaza.it) e, senon l’hanno ancora fatto, chieda-no di essere iscritti alla nostra mai-ling list.

Eletti i nuovi organi direttivi della Schürr

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la Ludla8 Giugno 2012

Al se-t ch’i-n s’era mai vèst prèma? E’fat l’è curioð, parchè tót du j era néde i staðeva int e’ stes paeð znìn, indóche tót is cnunseva amânch ad vèsta.Mo lujitar du i-n s’era mai incuntrégnânca par ðbaj. E’ parchè, babina, a-n te so propi dì.L’era e’ prèm ad mêrz, la dmengaprema dla Segavêcia, e int la piaza demarchê u jera þa i baracon cun al gio-stri: la sfilêda cun i chêr mascaré il’avreb fata la þuiba e la dmenga dop,ch’ jera propi i dè dla Segavêcia. T’é da savê che cvela dla Segavêcial’era una fêsta grânda par tót, speci priþùvan, l’era la grânda ucaðion ch’itneva da stê da un ân a cl’êtar, l’erarompar la vergna dal dmenghi dopmêþdè pasêdi a e’ cino dla ròca o a fêun þir int e’ viêl dla stazion. Parchè a imi temp, u-n gn’era miga tot i divarti-ment ch’avì vujitar þùvan e’ dè d’incù!E a-n voi dì la solita diðmarì – ch’ u-sstaðeva mej cvand ch’u-s staðeva peþ,parchè me a m’arcord incora bén lamiðeria e la fadiga ch’a faðema - mo meun pê ch’a fosum pio cuntent ch’n’èvujitar. Mo sé, sta bona… a cont e’ fate a las stê i paragon, sinò a cminzen aragnè. Com a dit? U-s ciâma “conflit-to generazionale”? Mo va pu là! Dónca, la nostra burdlèta la javevacvatorg èn, la n’aveva e’ filarén e la sucumpâgna dla dmenga l’era la Marì.Cun i baracon in piaza, la saveva daun pêz coma pasè cla dmenga che l’è.U n’è, pu, che li la-s divartès ‘na grânmasa int al machinìni ch’al s’incôza aciapê di spatës, o int e’ calcinculo partruvês e’ stómat sot-sora. Parò u-j pia-ðeva muntê int la roda panurâmica egvardê e’ mond da là so pr’êria: laputeva avdé i tèt dal ca, la stéða dichèmp, pu al muntâgni e, s’la ðbasevaj’ôc, sòta ad li al parsoni znìni znìni,ch’al pareva dal furmighini. L’era unspetacul ch’la puteva avdé sol dó-trèvôlt a l’ân a e’ mumént dla Segaveciae, par sfrutê a e’ màsum l’ucaðion, lazarcheva ad rapê so cvând ch’u j eramânca cheica e i þir i dureva pió tânt.Mo uj piaðeva nènca ad truvês da basint e’ mêþ dla þénta. I þùvan jera tot alè: i mës-c, par fês d’avdé, i faðeva pióde su sòlit i zèmbul, intânt c’al femni,faðènd cont ad gninta mo ðbarlucèndin cva e in là, al spasigeva so e þo cune’ stidìn dla festa e al schêrpi cun e’

tach, i cavèl lavê ad frèsch e e’ rusèt,mès al piò dal vôlti fura ad ca par nófês avdê daj genitori. Uj piaðeva tnìdrì ch’al mòsi chi faðeva i mês-c par fêcolp cun la burdëla ch’j aveva aducê:i pió i faðèva i galèt, du-trì i ðburon,par no scórar pu ad cvi chi faðèva ipataca da fat. A e’ tirasègn chicadonu jarmiteva un moc ad bajoch, parzarchê ad vènzar un pec, un cvël dagnint che dal vôlti l’era propi una ciu-sté, da rigalê a la ragaza ch’laj piaðeva.U jera pu nenca ad cvi ch’i vleva fêd’avdé d’êsar di macisti: cun al mânindrénta i gvantón da pugilato e cunl’imbês-cia ad on che spaca e’ mond,i tireva a tóta câna di pogn da stèndarun bo a un sachitàz tachè a onamachina ch’la jimðureva la fôrza. Achfadigaza e fata s-cioma! Me, adês, an’u-m so spiaghê, mo u jera nénca dipacèr par dimustrê d’êsar curagiùð, enénca avðén a cvi u s’aramaseva unmôc ad þùvnót, pin ad vója ad fê d’av-dé ach raza ad fegat ch’j aveva. E alburdèli, tóti tirêdi e lostri com a t’òdet prema, al-s farmeva, al guardeva,al ridaceva. Se on u-j dgeva cvël, alstaðeva a e’ zugh se u-j piaðeva, sinò agli daðeva cumié s’a gl’jera sfazêdi o,s’a-n s’ariðgheva, al s’atacheva alcóstal d’un fradël o d’un cuðén par fêcont d’êsar þa impignêdi. U-j piaðeva guardê stal rèzit, e intântla pinseva che tra ‘na ciopa ad èn e’sarèb avnù nénca e’ su tùran: uninvid a fê un þir int al machinini o, sei cvèl i fos sté piò seri, int e’ tùnel d’jurùr, indò che a e’ lóm de’ bur e tra i

strid dal ragazi par ‘na pavura piofénta che vera, uj sareb putù scapè‘na brazadina o adiritura un baðì.Cla dmènga la Marì la parevach’l’aves al vëspar int al mudând, deþa ch’la þireva da tót i chent, da unbaracon a clêtar sénza farmês in vel.“Csa zìrcat, Marì? L’è un’óra ch’aþirén coma dagli ôchi!” Mo la Marì la-n daðeva sègn d’inteða. A un zertpont la-j faðè: ”Dai, andèma dalmachinìni ch’al s’incôza!” “Mo s’a-jsèma pôch fa e t’ci vluda andê visènza fê gnânca un þir!”. La su cumpa-gna la faðèp urecia da marcânt e traspatês e caicon agl’jarivè a destina-zion; pu la butèp un’ucêda in þir e, inprìsia, la s’avièp a la casa dgènd “Dai,tulèma i getoni, c’a faðèn un þir!” Lialora la magnè la fója: la su amiga lajaveva aducê cvel ch’la zarcheva!“Mônta so, ch’a gvid me!” laj faðèrapènd so e, apena partidi, la-s mitè aðgavdì al machinini cun la sviltèza ela preciðiôn ad on che sa fê e’ suamstìr. Mo cvânt ch’al s’imbatèp intona þala, indò ch’u jera du bastardlótsui sèdg-disët èn, invezi ad ðgavdila, laMarì la jandep incontra fin ad incuzi-la e pu, cun dal grând sbacarêdi, lafaðè di grân salùt ai du ch’jera indren-ta. Ció, la n’i mulè pió! La j andevadrì, la-j tajeva la strê, la j incantuneva,la-j blucheva: insoma, la javeva ciapêl’iniziatìva li, cla ðbèra! Ormaj l’eracêr che a la Marì u jintereseva on didu dla machinina þala. Li, ad premabòta, la-s vargugnè pr’e’ môd sfazê dlasu cumpâgna e la sarèb scapêda vi ad

Par chêÝ

di Rosalia Casadeinel dialetto di Forlimpopoli

Illustrazione di Giuliano Giuliani

Racconto segnalato alla sesta edizione del concorso di prosa dialettale “e’ Fat”

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la Ludla 9Giugno 2012

fuga s’la aves putù. Pu uj saltè la móscaa e’ nêð, pr’e’ fat ‘d duvè tnì e’ mòcula la Marì sénza êsar aviðeda. La pinse-va propi ad cojsla apena scalêda þo.Cvând che i þir i fop fnì e i fop ðmun-tè tot cvatar, la Marì la faðè al preðenta-zion e li la capè che cvel che piaðeva ala su cumpâgna l’era Luciano. “Stabon!” la pinsè, parchè a li uj parevamej cl’êtar, ch’u-s ciameva Francesco. I-s mitè a spasigê tot insèn e i-s ðlunta-nèp un pô a la vôlta da la piaza pina adþènta e ad armor, la Marì cun Lucianodavânti e lì ad drìda cun Francesco,che u s’in faðeva un grân chêð ad noavéla mai vèsta prèma, tânt che adprema bota l’aveva pinsé ch’la fos ‘nafrustira. Nènca li la-n l’aveva mai vèstlo e forsi Francesco l’armanzè un pômêl cvând che li la jé dès: ció, e’ su bal’era stê sèndich de paeð pr’un pez e tót

i cnunseva sia ló che e’ su fiôl. Adês, us’era andê propi ad imbatar int ona depaeð ch’la-n saveva chi ch’l’era lo! A li un’i parèp e’ chêð ad dì che la su famejala jera d’un’êtra ideja in fat ad pulèticae che in ca su u-s scureva pôch de su bae che pôch ch’u-s dgeva u n’era fatpròpi ad cumplimént. E’ tèmp e’ vulè e la duvèva andês a ca. T’avré capì ch’j aveva una grân vojatot du d’avdés d’arnôv. I saveva che laþuiba dopmeþdè i sarèb stê incora alè, int la piaza di baracon, e pu int lapiaza grânda par la sfilêda di chêrmascaré, a rimpis i cavèl ad curièndulcun la sperânza ad ciapê un cvêlchfigh sech o una caramêla, tiré da cvich’jera sora i chêr. Mo par no lasê fêincora a e’ chêð, che e’ su dvé u l’ave-va þa fat, i decidèt ad truvês dalmachinini ch’al s’incôza.

La s’andèp a ca in bicicleta vulènd,cuntènta com uj pareva ad nó êsarmaj stêda, sperènd che e’ temp e’pasès int un balèn fin a la þuiba. La-n duvè tnì da stê la þuiba. E’ mìr-cul a meþdè, intânt ch’la s’andeva aca in biciclèta, la sintè arivê on chefis-ceva. E’ côr uj faðè ‘na cavariôla:ch’la canzuneta la l’aveva sintidapareci vôlti la dmènga prèma, cvândch’la jera int al machinini cun laMarì e la javeva cnunsù Francesco.Mo u-n puteva êsar lo, u-n putevasavê che li la faðeva cla strê par andêsa ca e propi a cl’óra! La-n faðèp intemp a vultês che Francesco l’era dacânt a li. Che birichén de chêð u jave-va mes d’arnôv i zampèt! “Ciao. Aj faðeva i cont ad truvêt” edès lò. La jarmanzè com un alòch ela-n dès gninta: par furtóna che e’

fred u javeva þa fat al gôtirosi e acsè u-n s’avdeva e’fugh ch’uj munteva int lafaza. “A vleva di-t… se tet’vu vnì cun me…” e’cunti-nuè Francesco, un po’impacê. Chêlma. Un cam-pânlìn ad alèrum u s’armis-cè a la cuntintèza. Uj turnèla vóða e la dgè “Cun tecumó?”. Adës l’era lo adêsar propi in imbaràz: “Avoi dì… se me e te… se te…se t’vu vnì cum me int algiòstri… se me… me at pòsfilê drì…” “Cvèst sé!” e fopl’arspòsta ad li, ch’uj scapèda ridar par la cuntinteza,mo nench pr’e’ fat che lo us’era ingarbujê cun al parô-li e e’ pandajeva. “A sópròpi cuntént! Alora a s’av-dén dmân.” E’ vultè la bici-clèta ad pëla batuda e u-sðluntanèp fis-cènd incorapió fôrt. La jarivè a ca ch’uj ridevanènca e’ cul e la intrèp int lacuðena suridènta, cun j’ôcch’jarluðeva. Ad avdela acsècunténta, la su mama lapinsè che fos parchè la javevafat i turtèl: i piaðeva acsè tânta la su babina!Com a dit? T’vu savê se cheFrancesco a s’era me e ch’laburdleta la tu nóna?

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la Ludla10 Giugno 2012

arpól, s.m. ‘pollone’, germoglio chenasce dal ramo o dalle radici di unapianta.• Sostantivo derivato, a suffisso zero,dal lat. pullare ‘germogliare’ con ilprefisso re-. [REW 6818]

batibój, s.m. ‘tafferuglio’ (Morri).‘Tafferuglio, rissa, confusione, disor-dine’ (Quondamatteo).• Voce diffusa nei dialetti settentrio-nali e presente anche in lingua (batti-buglio), composta con l’imperativo delverbo battere e *buglio, da bullīre ‘bol-lire, muoversi, agitarsi’. V. ðbuglion.

cavrèta2, s.f. ‘beccaccino’, uccellodella famiglia degli scolopacidi.• Letteralmente ‘capretta’, per via, aquanto pare, del suo muoversi agile esaltellante.

còcla2, s.m. ‘scricciolo’, uccello dellafamiglia dei trogloditidi.• Da còcla1 ‘noce’, perché ne ricordale dimensioni e il colore.

cumpens, s.m. ‘ripieno’ per cappel-letti o ravioli (Ercolani). Cumpast(Quondamatteo).• Cumpens può essere da *compensu,participio del latino compendĕre, lette-ralmente “pesare assieme, equilibra-re”, e riferirsi al fatto che il ripienodei cappelletti viene equamente divi-so e distribuito su ogni quadretto disfoglia. Molto più suggestivo, tutta-via, pensare alla derivazione da un

latino *compinsu, participio di *com-pinsĕre ‘pestare assieme (nel morta-io)’. Cumpast è, come l’italiano com-posto, da composĭtu, participio di com-ponĕre ‘mettere insieme varie parti’.

malipê(r), v.i. ‘stentare’. Attestato aFusignano (Ercolani, Quondamat-teo). Malibê: ‘menar vita infelice’(Morri), ‘stare in grande disagio’(Mattioli). Il Mattioli registra anchemalipê, con il significato in sensotransitivo di ‘guastare’ e intransitivodi ‘guastarsi’, nonché l’aggettivo mali-pê ‘guasto, malconcio’ e i sostantivimalép ‘danno’ e malìb ‘gran disagio’.Quest’ultimo è riportato anche dalMorri.• Voce composta dall’avverbio latinomale ‘male, malamente’ e dal verbohabēre, che già nel latino classico, spe-

cie in combinazione con gli avverbi,aveva il significato di ‘stare, essere,trovarsi’. [REW 3958]

mursê(r), v.t. ‘mordere, morsicare’.• Denominale del sostantivo lat.morsu ‘morso’, a sua volta dal partici-pio di mordĕre ‘mordere’.

parcântula, s.f. ‘tiritera, lunga predi-ca’ (Ercolani). Parcàntuva ‘filastrocca,cantilena’ (Morri).• Lat. tardo cant(ic)ŭla ‘specie di reci-tativo cantato’ con il prefisso per-.[REW 1617]

pélza, s.f. ‘pece’.• Lat. tardo pĭcŭla ‘piccola quantitàdi pece’, diminutivo di pĭce ‘pece’. Ildialetto presuppone una forma meta-tetica *pĭlc(i)a.

trâma, prep. ‘in mezzo’.• Composto da intra ‘in, dentro’+medio ‘mezzo’ col suffisso -a degliavverbi. Cfr. ma.

ðbuglion, s.m. ‘momento di massimacalca in una ressa, generalmente dipersone’, più in generale ‘culmine’.Buglion ‘cumbrugliume [sic]’ (MorriManuale). Bugliona, s.f. ‘Buglione.Confusione, mescolanza, accozzagliadi gente e di cosa. Subbuglio’ (Ercola-ni).• Deverbali, con suffisso accrescitivo,del lat. bullīre ‘bollire’ attraverso ilsenso traslato di ‘muoversi, agitarsi,tracimare’. Da confrontare con vociitaliane come ‘guazzabuglio’, ‘subbu-glio’, ‘battibuglio’ ecc. V. batibój.

Aggiunte e correzioni

al Vocabolario etimologico

romagnolo - III

di Gilberto Casadio

La cocla. Particolare di un disegno di N. Poli, dal Dizionario Ornitologico Romagnolo di G. Lazzeri

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la Ludla 11Giugno 2012

fòs: in ital. fosso, torrente. Il sinonimoturent, meno usato benché già pre-sente in lat., sembra essere un calcosull’italiano.1

Anche fòsa ‘fossa, come sostantivo trat-to dal lat. fòdere, ‘scavare’, già fodsa nelCorpus Inscriptionum.2 Fòsa e fusèta alfemm. oggi si riservano più spesso agliscassi artificiali. Anche fògna e fugnònhanno la stessa origine, passando perfòdina e *fodnia3. Dimin.: fusaden,fusadél. Sinonimo di fòs era anche ré(rio, dal lat. ripa), ormai solo toponimoprediale, oppure presente nei cognomiValderé o Treré (tres o trans+rivu[m]).Tra i proverbi: par fè un fòs ui vó dorivi (il torto non è mai d’uno solo). Mi si perdoni se ora mi dilungo sualcuni toponimi civitellesi, ma dueaffluenti del fiume Bidente4 – tre,aggiungendo Voltra ‘Voltre’ – hannonomi d’origine latina: Suèð (=Suàsia)con s iniziale sorda, era [Fossa] suasia‘fossa del maiale’ e Sulpéra derivato daFossaluparia, cioè ‘del lupo’5. In un’areatanto ristretta due nomi di animali, illupo e il lat. sus, ‘porco’ o ‘cinghiale’che sia: forse erano animali totemici dichi mise piede qui per primo, oppurefurono i primi incontrati sul luogoindicato dagli dei e sacrificati6. La

caduta di fos-, cioè della sillaba inizialein Sulpéra, si ritrova pure verso Acqua-partita sopra San Piero in Bagno doveil ‘Fossatone’ in dial. è diventato iSatón, un vocabolo nuovo, del tuttoprivo di senso proprio.Infine a Voltre (dal lat. vultur‘avvoltoio’), dove una lapide di duemi-la anni fa murata su un edificio dellapiazzetta ricorda un proprietario ‘sassi-nate’, dal crinale alle cui spalle c’èSarsina scende il torrentello ‘Sàsina’,Sèðna in dial.: c’è da supporre che inorigine fos ad Sèðna significasse ‘cheviene dalla parte di Sàssina’, l’anticonome della città umbra, con la doppia-ss- non ancora dissimilata, cioè mutatain -rs-. Note

1. Il verbo lat. torrére significa ‘arrostire’,‘seccare’: in ital. si usano ‘zona torrida’,‘estate torrida’, ecc. Già in lat. anche alfosso, impetuoso solo dopo abbondantipiogge, si attribuiva il nome di torrente[m],come fa Virgilio, Eneide VII 567: fragosus /dat sonitum saxis et torto vortice torrens ‘il tor-rente risuona fragoroso per i sassi e il vor-tice contorto’: ‘torrente’ perché si seccadurante la calura estiva. Eppure, a dispettodi Virgilio morto da due millenni, il Devo-to, Avviam., vuol ricorrere all’incrocio tra‘torrente’ e ‘corrente’. A torrére si rifà puretera (terra) – che è secca – rispetto all’o-ceano che la circonda, tréz ‘terriccio’ e te-raza ‘terrazza’. E poi, per addolcire labocca, da torrére deriva e’ turon (il torrone)che si ottiene dal miele posto sul fuoco: iltermine forse viene dal Meridione. Deveavere la stessa origine (per il caldo torridodei suoi luoghi, per la pelle più scura, ecc.),anche ‘terrone’ per ‘meridionale’.2. Il verbo lat. fòdere significava anche ‘zap-pare’. Columella, De Re Rust. XI: Vineae,quae sunt palatae et ligatae, recte iam fodiun-tur… (A ragione già si zappano le vigne chesono state impalate e legate…). Il frammen-to illustra la pratica millennaria d’impalè elighì al vidi. Il concetto è ribadito pocodopo: ut vitis paletur et càpite tenus adligetur(affinché s’impali la vite e la si leghi finoalla testa). C’è da dire che, almeno nelmedio Bidente, la propaggine si chiamaancora capluda o capluta – caveluta aRavenna nel sec. XVI (Sella, GLE) – cioè‘[testa] capelluta’ da ‘tosare’, lasciando solodue o tre gemme: þèmmi oppure oc’ (ocu-los in Virgilio, Georg. II, 73).3. L’Ercolani, Voc., riporta come proprio

dell’area cesenate fodga per ‘talpa’, chepresuppone un lat. popolare *fòdica dafòdere; ma a Civitella è topazéga. 4. Il Bidente muta spesso nome: alle sor-genti ‘Viti’, poi ‘Bidente’, ‘Ronco’ da Mel-dola in giù, forse già fuso alla foce colMontone, con l’Utens (o Vitens?), come lochiama Plinio. Si aggiunga anche ilmedievale ‘Acquedotto’, poiché da Mel-dola partiva l’acquedotto traianeo, ripara-to da Teoderico, che forniva d’acquaRavenna. Ma ‘Bidente’ era Bedese[m], chepar essere un nome pre-latino, inteso poicome Bi-dens, ‘a due denti’, per un’anticafalsa etimologia. Anzi – a parte Acquedot-to e Ronco, le cui rive furono ridotte acoltivo con la runca, ronca: vedi ancheRuncadél – alla fine Bedes, Bidens, Vites,Vitens, Utens sembrano varianti di un’uni-ca voce in bocca a popoli di lingue diverse:Umbri, Celti, Latini, Etruschi (quest’ulti-mi hanno lasciato tracce proprio a Voltre),quasi a ricordare l’amalgama dei varipopoli che si bagnarono in queste acque. 5. Per [Fossa] Suasia chi giunse qui due mil-lenni fa usava ancora un latino ormaiarcaico che conservava l’antica -s- intervo-calica, già mutata in -r- a Roma. Si trattavad’un fenomeno fonetico detto rotacismoper il quale nel latino più antico si era giàdetto flose[m] per ‘fiore’, honose[m] per‘onore’, e così via: perciò, altrove l’arcaico*suasia sparirà a vantaggio dell’agg. suaria(‘di maiale’). Ancor oggi vi confluisce e’ fòsad Purcaiól. Forse il sus era … una scrofacoi piccoli, un segno augurale di feconditàinviato dagli dèi propizi.6. Tutto ciò fa pensare al ver sacrum, alla‘primavera sacra’, un’antica solenne ceri-monia già pre-romana, in cui un gruppo digiovani lasciava il luogo natio non più ingrado di sostentare la popolazione cresciu-ta di numero, alla ricerca d’una nuovapatria. Il gruppo si portava dietro lingua,usanze, riti e, talora, il toponimo: si pensiai Mevaniates che partiti da Bevagna inUmbria fondarono Mevanìola (Pianetto diGaleata). Ancora Plinio, Nat. Hist. III 113,cita accoppiati Mevaniates e Mevaniolenses,benché ormai distanti nello spazio e neltempo. Nel ver sacrum, i migranti inizia-vano la nuova vita con un sacrificio sulluogo d’arrivo indicato dagli dei che nelegittimavano il possesso. Questi idrònimiche rinviano al lupo (Fossaluparia), alcinghiale (Suasia), all’avvoltoio (Voltre)sono oggi l’unica traccia del rito che diedeinizio alla colonizzazione della zona.

Rubrica curatada Addis Sante Meleti

da Civitella

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la Ludla12 Giugno 2012

Fët dal mi tëra (Faenza, Tempo allibro, 2011), l’ultimo lavoro di MarioGurioli, rappresenta una sorta dicontinuazione di Fët d’una vôlta, pub-blicato quattro anni fa. Qui, come là,l’autore ci presenta una serie di rac-conti di vita contadina della Roma-gna, caratterizzati dalla presenza dipersonaggi, luoghi e situazioni fra ilcomico ed il realistico: in ogni caso,sempre estremamente coinvolgentiper il lettore. “Ogni riferimento afatti, persone o cose in questo libro èpuramente casuale” avverte pruden-temente l’editore, ma chi conosce iluoghi e ricorda i tempi nei quali agi-scono i personaggi protagonisti deiracconti non può fare a meno di rico-noscere caratteristiche, comporta-menti, modi di pensare e di agire dipersone che ha avuto modo di cono-scere ai tempi dell’infanzia e della gio-ventù. Sono quindi racconti chehanno tutti il sapore dei fët avéra.Gurioli scrive con uno stile ampia-mente colorito di stilemi dialettali,una lingua che possiamo ben chiama-re – sulla scorta del titolo di un recen-te libro di Valeria Miniati – italiano diRomagna. Ma quando egli abbandonala veste del narratore per dar voce aisuoi personaggi, questi ultimi –com’è ovvio e giusto che sia – si espri-mono rigorosamente in dialetto.Di questo stile narrativo diamo quiun breve saggio, che siamo certi varràpiù di pagine e pagine di recensione,riproducendo la parte finale del rac-conto E’ frê zucõ.

[...] Un anno che dai poderi dellabassa in convento ci tornava con labaròza quasi vuota, per via che i con-tadini potevano dar poco, che labrina prima e la tempesta poi sierano portate via il più del raccolto,frê Nuzẽt si spinse su verso la collina,che di danni non ce ne aveva avuti.Anche se ci aveva più da faticare perquelle stradacce su in salita, sullabaròza a sera il risultato c’era.Quel giorno aveva preso verso laSamoggia e di case ne aveva già passa-te tante, soddisfatto per quel granoche palata su palata finiva nei sac-chetti e pensava alla festa che avreb-bero fatto nel convento a vedere final-mente l’abbondanza dopo i giorni di

grande carestia. Montefortino l’avevagià lasciato ed era sceso giù verso laFrancesca, la casa sulla strada primadel curvone, che ci venne da dire colsomaro: «Acvè an farmẽ brisa, che i ècumunèsta e i prit e i fré i ni pö avdé!».L’anno prima c’era capitato che men-tre era fermo sulla strada a far dueparole con un anziano che rimonda-va la siepe di maruga col falcetto, arri-vassero i suoi figli imbestialiti, chetirando giù i Santi e le Madonne ciavevano ordinato col forcale di cavar-si di lì e la zerca di andarla a fare poida un’altra parte. Il vecchietto ciaveva sussurrato: «Andì puret, i mi fiuli è cumunèsta! L’è stê la gvëra, e la Cisain la pö piò avdé!».Pensando all’anno prima, la casa sel’era lasciata già alle spalle che dallasiepe ci arrivò una voce: «Ehi, frê zucõ,da nõ t’an é miga vultê, torna indrì ch’ai avẽ de grã da dêt». Lui quella voce se

la ricordava, fermò il somaro pensan-do «E adës csa fëghi?», ma dal dubbioce lo cavò l’altro, affacciato alla siepecon la falce in spalla.«Öia da vnì mè a fêt dê d’indrì cun clabaròza?».Frè Nuzẽt girò il somaro e svoltò sul-l’aia che il giovanotto di prima c’eragià arrivato e parlava fitto fitto col fra-tello che era appena uscito dalla stal-la. «Tè spëta acvè ch’a turnẽ sòbit», e ilpovero frate, che stava sulle spine, livide prender l’uscio della casa. Torna-rono fuori con un sacco di grano daun quintale e lo buttarono sulla barò-za, che sussultò insieme col somaro.«E par cvëst t’é da ringraziê e’ nöstar bab,che tri mis fa, prẽma d’murì, u s’ha fatprumètar che a t’l’arèsum dê».Frè Nuzẽt, che non ci pareva vero,pensando al vecchio e a quel cheaveva detto, rimase lì come allocchito.«Ohi, frê zucõ, a t’èl avnù la nõna? Adësche t’é avù e tu avé, ciàpa mo sò, che acvèan t’avlẽ avdé piò!».Lui si risvegliò come da un sogno e ciallungò un santino. «T’at e’ pu tnì, chenõ a l’avẽ za e’ sãt ch’us prutèz: l’è e’ sãtdi cumunèsta, cvèl che l’ha i bëfi!».Riportato il somaro sulla strada, frèNuzẽt si amollò giù verso Faenza,che per quel giorno la zerca l’avevafatta abasta. Al convento ci si fecerointorno, come sempre, i frati, curio-si di sapere come era andata. Nelvedere l’abbondanza e quel sacco daun quintale pieno fino all’orlo, unconfratello alzò le braccia gridando:«Sia benedetto il cielo, quale santoabbiamo da ringraziare?». E frêNuzẽt: «E’ sãt di cumunèsta, cvèl chel’ha i bëfi!».

Mario Gurioli

Fët dla mi tëra

di Bas-ciân

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la Ludla 13Giugno 2012

J élbar de’ þarden i lasa caschê þa alpremi foj.L’êria la jè incóra dólza in sti dèd’utóbar e cmè tot al maten e’ vëc l’èalè in ðdé in cla banchena.Cun la su giaca griða a quadret e sem-pra cun la zigareta fra al didal.Stamatena l’è þa quela dal zencv ch’u-s foma, l’avreb da calê, a dì la veritèe’ sareb mej ch’e’ ðmites.La Bice, la su moj, la dgéva sèmparche tot cal zigaret al l’avreb purtêsotatëra e invezi, quand ch’u-s dið e’disten, la jè môrta prema li, li ch’lan’avéva mai fumê.E’ pensa a la su Bice e l’è alè in clabanchena da un’óra e mëþ, e’ ðguêrdpérs int e’ vujt e la zigareta sempra traal didal.“A-v sintì ben?”E’ dmânda una dona curióða cun labórsa dal speða pina ad vardura.“Me sè ch’a-m sent ben, parchè an’avreb da sintim ben?”“A jho avù l’impresion ch’a-n staðesuvben parchè a si acsè pàlid e pu l’èqueði do ór ch’a si aquè, alóra a-m sodeta, e’ va a fnì ch’u-n sta ben.”“E invezi a stagh ben, e a so quech’aspët.”“A dgirì ch’a so curióða, mo chi spitiv?”

“Aspët e basta.”“Vo a-m dgì che a-n savì chi ch’a staðìaspitend?”“Quând ch’l’arivarà a-l scuprirò,avdiv, la þenta j ha pérs la voja d’aspi-tê… a javresuv da pruvê tot quent… a-v mitì a lè e aspitì… e adës scuðim moa so impignê... a jho da aspitê.”La sgnóra la va vì scusend la tësta epinsend che e’ vëc l’ha da ësar un pôfura ad squêdar.E’ pasa incóra un’óra, al foj al ven þopiân cun un vent alþir che u li pôrtaun pô in qua e in là.

U s’è avért un pô e’ zil e e’ sól e’mânda un sprai ad luð.E’ vëc l’è sempra a lè ch’l’aspëta e alzigareti agli è dvintêdi öt.U s’avðena ‘na dona e la-s met in ðdéad fiânch a lo:“E’ pê ch’l’arturna e’ sól, mo me ajho tôlt so l’umbrëla, u-n-s sa mai, ‘s’adit a jho fat ben, véra?”“Mo te, chi sit?”“A so quela t’aspitivta... a vit la þentala pasa tota la vita a scapê, coma cheme a n’aves la pazenzia d’andêj dri, teinvezi ta-t ci farmê a spitem…t’é capìchi ch’a so me, véra?”E’ vëc u la gvêrda e a dì la varitê e’véd ‘na duneta nurmêla, cun i cavelbiench lighé ad di drì, un caputin bluðmalvì e ‘na bursitina fura ad môda;la putreb ësar una ad cal tânti donche cla matena agli è pasêdi cun labórsa dla speða.“Sè a jho capì… a créd d’avé capì...mo a m’aspitéva, cum òja da dì, am’aspitéva… a voj dì che ta-n sì comach’a carden tot…”“U j mancareb ch’a þires incóra cunla caparlaza nigra e la fêlza… e’ sarebsól dla scena e gnint’êtar e pu al sét,ta n’i cardaré mo u-m pijð ad cunfon-dum un pô tra i viv…”La fa ‘na riðadina tirêda e pu la s’êlza:“Adës bðogna ch’andema, parchè lastrê la jè longa, un bël pô longa.”“Sè, me a-t vegn drì, mo ta-l sé, me aso vëc, e’ pö dês ch’a jepa dificultê atnì e’ tu pas e a putreb vanzêr indrì.”“ Nö-t preocupê… me a so pazinta parnatura… a t’aspët, tranqvel, ch’at’aspët.”

Un dè d’utóbar

Testo e xilografia di Sergio Celetti

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la Ludla14 Giugno 2012

1o Concorso Internazionale di Poesia Inedita “Il Tiburtino”

Villalba di Guidonia - Roma

AdêÝi spjanlér

di Maria Piolanti Baldassarri

E’ ghina þa e’ lom scurins e’ sc-jân a vajon da par lò:pin ad lens, óc adumbré,‘na cavala d’èn adòs,spjanlér sènza prìsiastamþénd ðbjavidi foj‘nt e’ viôl vðén e’ pjazêl,vujoð sól d’ciàcar ben detida cal voð ‘d chi burdlètchi dà urècia a tot.

Basta ‘na bêva d’ frólad alþirê la not,‘na ðmarèja cun e’ surìðch’l’apeja sflèþan ‘nt e’ côre l’è sòbit micèzia. E’ ðgvècia, vilà, ðghèt d’ lona e u j rid mo j ócc ad luz chi levda scavèz d’ gudèja e i sbroja pinsir bartènpr’ un êtar dmân piò bon.

Lento ciabattare Scivola ancora1’imbrunire / sul vagabondo uomo solita-rio:/ pieno di affanni, occhi appannati, /fardello di anni addosso, / lento ciabattare /calpestando sbiadite foglie / nel viottolo vici-no al piazzale, / desideroso soltanto di affa-bili parole / da quelle voci di giovanotti /aperti al dialogo con tutti. // È sufficienteun attimo / ad alleggerire la notte, / un non-nulla sorridente / che accenda scintille nelcuore / ed è subito amicizia. // Sbircia,lassù, falcetto lunare / e gli sorridono lumino-si gli occhi / che lievitano scampoli di gioia /e disperdono grìgi pensieri / per un altromigliore domani.

XX Concorso di Poesia dialettale

‘Giustiniano Villa’ - S. Clemente (RN)

Zirudella vincitrice

E’ Poeta

di Franco Ponseggi

A þiréva par Ravènapr’i mi aféri una matèna,cõtr’e’ zẽtar, stra e’ Cumõe la þöna dla staziõ.Tot fisê int i mi pinsir,nẽch parchè a sò furastir,vest ch’a m séva aðluntanê,a zircheva la mi strê,e, þirend avãti e indrì,a la fẽn a m sò ðmarì.A un zért põt a sẽt: “Eilà,te che t pës, férmat a cvà.”A m’afirm, a gvérd in þir,mo u n gn’è anciõ ch’e’seja a tir.A n’ò incóra fat un métar,che stavôlta a m sẽt ripétar:“Ei, poéta, a degh a te!Férma e’ pas e vèn a cve.”A m’afirm in che mumẽtpröpi dnẽz a un munumẽt,una spezia d ‘na ciðẽnache l’à dnẽz una cadẽnae in latẽ sóra e’ purtõ,a vegh cêra un’iscriziõ:Tómba d Dante. A sò curióð,a m’abðẽn e a sẽt la vóð:“A sò me, a sò Alighiéri,vèn avãti!”. “Mo ins e’ séri?Ël un schérz o a dit da bõ?Ch’a m la fëgh int i bragõ!E s l’è véra, tröp unór!Me poéta? Gnãch scritór!A fëgh sól dal zirudël,röb da rìdar, l’è pôch cvël”.A cve a sẽt una riðêdae pu u i caza una bujêda:“Së, poéta di faðul!T’an t n’adé ch’a t cëp pr’e’cul?A sò me poeta vero,cun Virgilio e cun Omero,grandi vati, ch’i è i mi mèstar,cun Orazio, grãnd artèstar,cun Ovidio e cun Lucano,tot e’ rëst, … seconda mano!”A sintil a ciacarê,nẽch s’a m séva un pô calmê,in sta strãna situaziõme a staðéva ins e’ purtõcun incóra un pô d paura,un pe dẽtar e un pe fura.E faðèndm’un pô d curağarspundè a ste parsunağ:

“I l sa tot che t fos e’ sëste che te t ciachër unëst.E par stêr in argumẽt,chi étar zẽcv, s t’am i presẽt,nẽca me pu a putreb dì,che int e’ mëþ a tot vó sì,sẽza vlév manchê d rispët,a sreb sèmpar cvel di sët!”La riðêda ch’u i scapè!E ridènd pu l’arspundè:“Gvêrda ach raza d’un sugët,lësa pérdar, vat a lët!”Dop un pô, cvãnd ch’e’ sta zet,me pu alóra a n’aprufete pu a j fëgh: “O gran Poéta,de nöst dì te t ci e’ proféta,scuða tãnt se me a m parmet,mo a sintì tot cvel t’é detme pareč a m maravej:la tu tëra l’è e’ þarmejdl’Itagliã, mo al tu parôlagli è sčeti in Rumagnôl!Mo te pẽsa, a e’ tu paéðint l’Ötzènt un Milanéð,cun mudãn e calzitẽ,canutira, seč, cadẽ,l’à ciap so, e pu l’è andêa fê in Arno la bughê!E te t purt i tu bragõa lavêr int e’ Lamõ?!”“T’é raðõn, e’ mi burdël,mo, ’s’a vut, in ste stradël,in do ch’l’è ste munumẽt,sèmpr’e’ pasa tãnta þẽt,tot i dè, tot’ al matèn,e me ascult da sëtzènt èn!Tãnt che ormai de rumagnõla cnos toti al su parõle a l ciachër, cvãnd ch’u m cunvẽ,cvéði mej de fiurentẽ!Che sta lèngva, in varitê,l’è d’antica nubiltê,ed incóra, s t’ascult bẽ,l’à la bleza de latẽ!E pu a vlẽ sperê ch’la dura,parchè prëst a jò paurach’u s farà tot un imbrojd toti al lèngv, un ingarboj,àrab, ros, franzéð, ingléð,una röba in ste paéð,ch’la farà baiêr i chẽ,a la faza de latẽ.Ste paéð dove il “si” suönach’u l pruteþa la Madöna!Se l’è e’ sàbat, l’è uichènde l’amante l’è e’ boifrènd,la sunêda l’è l’aifai,papijõn agli è al parpai.

Stal puiðì agli à vent...

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la Ludla 15Giugno 2012

Una nêv l’e dvẽta un iote pu i bòmber j è giubot,magnê in prisia l’è fastfude pu e’ susi l’è pes crud.U n s pô dì s t’é bðögn de cës,la tualèt u s dið adës,fêr e’ pöta u s dið ch’l’è dèndi,rësar d môda pu l’è trèndi,rësar ghéi pu… lasẽ stêch’a n’avreb esagerê.E pu basta, ch’a fines,che sinò pu e’ dvẽta un … stres!”[…]E’ fines e pu e’ sta zet,e me alóra a n’aprufet:“Chêvm’una curiuðitê,parò dim la varitê:di poéti ch’u j’è incù,cus’in dit, a t’ëi piaðù?”U m’è pêrs un pô narvóðcvãnd ch’l’à arspöst :“A sò famóðpar al ströf, al mi terzẽn,cun al rim ch’al fa cadẽn,par la mètrica, i sunet….al n’è miga barþelet!Incudè, röba da mët,e’ poéta l’è un sugëtche a caðaz in prisia e’ scriv,ch’l’è una röba ch’la fa schiv.U n gn’è rima, métr’ o amðura,l’è una röba ch’ fa paura,di virs lòngh e dj’ étar curt,

sẽza régul, zop e sturt,tot un scrìvar sgangarê,... e i va a capo cvãnd ch’u i pê.A t’a’ degh fura di dẽt:j’è una masa d dilincvẽt!”

E’ duréva pu a imprechê,azidẽt a vuluntê,cun di mùtl’ e cun di tõch’l’éra un cvël da fê impresiõ.A sintil zighê acsè fôrta cadè cumpãgn a un môrt.Cvãnd che dop a m fo ripréð,a m drizè, ch’a séva stéð,e pu a i dgè: “Sta’ chêlm’ un pô,

ch’a n’avreb t’ariva d côe a là so, ’s’a pöi pinsê?!E pu te t ci eðagerê:i poéti ch’u j’è incù,ta l’é det, i n t’e piaðù,mo j’è brév, e a t’a’ voj dì,in Rumãgna avẽ Þvanì,che l’à scret dal puiðejch’agli è in toti al librareje tantèsum l’è famóð.U n sra mo che t ci gilóð?E pu, dgẽ la varitê,te t ci nẽch un põ anticvê,zérti vôlt te t ci un pô péð,un pô lòngh in tot i chéðe zirtõ, spézia i studẽt,i t’in mãnda dj’ azidẽt!Fôrsi fôrsi e’ sreb piò bëls t’aves fat dal zirudël!”A n putè piò cuntinuê,parchè u s’éra cuntrariê,cun di zigh e cun dal bötch’e’ paréva e’ taramöt!L’éra un cvël da fê impresiõ,cun di strelgh e cun di tõch’u m paréva ch’e’ tarmestòmba, altêr e crucifes.E me … via!, e par scapê,cun la prisia andè a cuzêcun la tësta int e’ rastël.E a m’aviè ch’a vdéva al stël!

Franco d Sabadẽ

Leggo su la Ludla di marzo 2012 lainterpretazione etimologica di galaver-na di Gilberto Casadio. Mi chiedo senon possa essere tenuta anche in con-siderazione per il biancore lattiginosodei rami e del suolo una derivazionedalla radice del greco ‘latte’ (gála,gálaktos) magari coniugato con ilrichiamato, anche da Casadio, hiberna.

Giancarlo B. - Cesena.

Galaverna è voce presente anche nellalingua nazionale e l’ho inserita nel mio

Vocabolario etimologico solo in quan-to sentita dai parlanti romagnolo comevoce dialettale. Nelle “Aggiunte e corre-zioni” a pagina 10 della Ludla dello scor-so marzo l’ho ripresentata unicamente alfine di aggiungervi una citazione da unracconto di Alfredo Oriani.Galaverna, come afferma anche il Dizio-nario Etimologico della Lingua Italia-na di Cortelazzo-Zolli, è «Voce dichiaratadi oscure origini e spiegazione». Nel mioVocabolario dopo aver premesso «Originediscussa», ho riportato dubitativamenteuna delle spiegazioni meno inverosimili.Quanto alla possibilità di una derivazio-ne dal greco gála, gálaktos, nulla daeccepire dal punto di vista semantico,mentre grosse difficoltà si presentano daquello fonetico, in quanto questo terminegreco non è passato in latino né ha avutoesiti popolari nelle lingue romanze. Esi-stono solo alcuni termini dotti di forma-

zione relativamente recente con il prefis-soide galatto- (galattosio, galattofo-ro…). Da tenere sempre presente, inoltre,che i termini derivati dalle lingue classi-che sono formati non sul nominativo, masul tema dei casi obliqui. In questo casonon gala-, ma (come visto sopra) galact-.Questo vale anche per il latino (traslitte-rato dal greco) galaxías ‘via lattea’,‘galassia’, che è variante di galaktías conil passaggio di -t- a -s- (assibilazione).Anche qui, infatti, la radice non è gala-,ma galakt- con il suffisso -ìa. Quelladella derivazione dai casi obliqui è una“regola” con ben poche eccezioni, che ingenere si contano sulle dita di una mano:in italiano abbiamo in pratica solouomo, moglie, sarto, ladro, prete.Nel caso di galaverna derivata da gála,gálaktos avremmo dovuto attenderci un*galataverna.

Gilberto Casadio

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la Ludla16

«la Ludla», periodico dell’Associazione Istituto Friedrich Schürr, distribuito gratuitamente ai sociPubblicato dalla Società Editrice «Il Ponte Vecchio» • Stampa: «il Papiro», Cesena

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Giugno 2012

La poesia non è mai stata oggetto di cospicuo e agevole uti-lizzo, né determinante cardine del sapere e certo, pur par-tecipandovi da sempre, mai è stata in grado di modificarein modo sintomatico il corso degli eventi: al massimo puòessere definita come suo inerme testimone e custode. Il mondo, si sa, è restio a concedere spazio a ciò che non èconcretamente usufruibile e le parole della poesia, benchéassorte eppure complici, appartate e tuttavia coinvolgentinon sono considerate tali malgrado, a ben vedere, possie-dano singolari livelli di efficacia che necessitano comun-que della mediazione specifica e partecipe del lettore.In mancanza di questa, allorché ci si trova dinanzi a versidel tipo: “cosa sono e dove vanno a finire le parole?”, il piùdelle volte la problematicità e l’universalità dell’interroga-

tivo è facile che vengano fraintese, fomentando replicheprettamente soggettive e di una pochezza sconcertante,forse in grado di soddisfare un convenzionale bisogno dicomprendere disinteressandosi, tuttavia, del problemaessenziale.Per facilitare la diatriba bisognerebbe che le parole, qualiesito di uno stato di transizione tra l’uomo primigenio equello cognitivo, ancor prima che per essere pronunciate,fossero concepite per essere intese senza equivoci, cosache raramente succede.Qui il discorso inizierebbe a farsi complesso, e la pagina16 non è il luogo idoneo a trattarlo compiutamente. Ciòche preme rimarcare, piuttosto, sono le implicazioni insi-te nella poesia di questo mese reperibile, assieme a pochealtre sempre in Romagnolo, fra le pagine di un libro1 peril resto tutto e rigorosamente in italiano. E giusto i versi di Du vet? sono in grado di far luce sullaragione per la quale l’autore appaia così emotivamentevincolato nella scrittura poetica, al nostro linguaggio e aquella inestimabile eredità di parole dialettali accumulatedentro di sé fin dall’infanzia. Sì, Tonino, quelle parolesono finite proprio dove dovevano!

Paolo Borghi

1. Tonino Guerra, Il Polverone, Bompiani, 1978.

Tonino Guerra

Dove vanno a finire le parole?

Dove vai? La prima parola che ho sentito \ nella mia vita \ è stata: “Dove vai?” \ Eravamo in un camerone io e la miamamma \ seduti su dei sacchi \ di granoturco.\\ Allora io avevo un anno in tutto \ e non sapevo \ che cos’erano le parole \e dove andavano a finire.

Du vet?

La proima parola ch’a i ò santoitla mi voitala è stè: “Du vet?”A semi t’un camaroun me e la mi madisdai soura dal baliad furmantoun.

Aloura me a i avéva un an in tote a n’e’ savévas’è cl’era al parolie in do ch’a gli andéva a finoi.