“Poca favilla gran fiamma seconda” la Ludla

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la Ludla 1 “Poca favilla gran fiamma seconda” Dante, Par. I, 34 la Ludla (la Favilla) Periodico dell’Associazione “Istituto Friedrich Schürr” per la valorizzazione del patrimonio dialettale romagnolo Autorizzazione del Tribunale di Ravenna n. 1168 del 18.9.2001 Questo numero è stato realizzato con l’apporto del Comune di Ravenna Società Editrice «Il Ponte Vecchio» Anno XV • Giugno 2011 • n. 6 SOMMARIO I ‘zirudellari’ del Lunêri di Smém- bar. I - Arturo Monti detto Artu- ro de Butigõ di Giuliano Bettoli I suoni e le lettere dei dialetti romagnoli. III - Il territorio del “Rubicone” di Davide Pioggia Ridere per non piangere di Giovanni Nadiani E’ stètich Racconto di Mauro Mazzotti illustrato da Giuliano Giuliani E’ francbol Racconto di Rino Salvi Appunti di grammatica storica del dialetto romagnolo - XLIX Rubrica di Gilberto Casadio Parole in controluce Rubrica di Addis Sante Meleti Franco Dell’Amore - Storia della musica da ballo romagnola di Paolo Borghi Ambarabaciccicoccò - I di Vanda Budini Stal puiðì agli à vent... il 14° con- corso “Aldo Spallicci” Pr’i piò znen Rubrica di Rosalba Benedetti Albino d’ Sintinël - A-n vegh l’óra di Paolo Borghi p. 2 p. 4 p. 6 p. 8 p. 9 p. 10 p. 11 p. 12 p. 13 p. 14 p. 15 p. 16 Come consuetudine ormai acquisita, la Schürr organizza nel mese di luglio le “Serate estive” dedicate alla musica e alla cultura romagno- la: quest’anno saranno tre gli eventi in programma nel giardino della nostra sede a Santo Stefano di Ravenna con protagonisti Giuseppe Bellosi, Giovanni Nadiani, Nevio Spadoni, Gabriele Zelli, Radu, Teddi e Vlad Iftode. Nelle passate edizioni la partecipazione del pubblico è stata calorosa e ci ha confortato a proseguire di anno in anno nel proporre autori, attori e musicisti, che con la loro competenza, la passione e lo studio fanno sì che sempre più persone colgano la ricchezza di una parlata che, a dispetto di coloro che la dichiarano in via d’estinzione, riesce ancora ad emozionare e, perché no, anche a divertire. In genere sul nostro periodico diamo conto, ovviamente a posterio- ri, della riuscita delle manifestazioni organizzate dalla nostra Associa- zione; stavolta da queste pagine, come caldamente ci suggeriscono soci ed amici, intendiamo informare per tempo coloro che vorranno godere dello spettacolo e del successivo momento conviviale in ognu- na delle serate. Pertanto alleghiamo a questo numero il calendario dettagliato degli appuntamenti di luglio e per i più distratti ricordiamo che possono trovare sul nostro sito www.argaza.it cliccando sul calendario, oltre agli altri eventi della Romagna, tutte le informazioni riguardanti il nostro programma estivo. Le serate estive della Schürr Giugno 2011

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“Poca favilla gran fiamma seconda”Dante, Par. I, 34

la Ludla(la Favilla)

Periodico dell’Associazione “Istituto Friedrich Schürr”per la valorizzazione del patrimonio dialettale romagnolo

Autorizzazione del Tribunale di Ravenna n. 1168 del 18.9.2001

Questo numero è stato realizzato con l’apporto del Comune di Ravenna

Società Editrice «Il Ponte Vecchio» Anno XV • Giugno 2011 • n. 6

SOMMARIO

I ‘zirudellari’ del Lunêri di Smém-bar. I - Arturo Monti detto Artu-ro de Butigõdi Giuliano Bettoli

I suoni e le lettere dei dialettiromagnoli. III - Il territorio del“Rubicone”di Davide Pioggia

Ridere per non piangeredi Giovanni Nadiani

E’ stètichRacconto di Mauro Mazzottiillustrato da Giuliano Giuliani

E’ francbolRacconto di Rino Salvi

Appunti di grammatica storicadel dialetto romagnolo - XLIXRubrica di Gilberto Casadio

Parole in controluceRubrica di Addis Sante Meleti

Franco Dell’Amore - Storia dellamusica da ballo romagnola di Paolo Borghi

Ambarabaciccicoccò - Idi Vanda Budini

Stal puiðì agli à vent... il 14° con-corso “Aldo Spallicci”

Pr’i piò znenRubrica di Rosalba Benedetti

Albino d’ Sintinël - A-n vegh l’óradi Paolo Borghi

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Come consuetudine ormai acquisita, la Schürr organizza nel mese diluglio le “Serate estive” dedicate alla musica e alla cultura romagno-la: quest’anno saranno tre gli eventi in programma nel giardino dellanostra sede a Santo Stefano di Ravenna con protagonisti GiuseppeBellosi, Giovanni Nadiani, Nevio Spadoni, Gabriele Zelli, Radu,Teddi e Vlad Iftode.Nelle passate edizioni la partecipazione del pubblico è stata calorosae ci ha confortato a proseguire di anno in anno nel proporre autori,attori e musicisti, che con la loro competenza, la passione e lo studiofanno sì che sempre più persone colgano la ricchezza di una parlatache, a dispetto di coloro che la dichiarano in via d’estinzione, riesceancora ad emozionare e, perché no, anche a divertire. In genere sul nostro periodico diamo conto, ovviamente a posterio-ri, della riuscita delle manifestazioni organizzate dalla nostra Associa-zione; stavolta da queste pagine, come caldamente ci suggerisconosoci ed amici, intendiamo informare per tempo coloro che vorrannogodere dello spettacolo e del successivo momento conviviale in ognu-na delle serate.Pertanto alleghiamo a questo numero il calendario dettagliato degliappuntamenti di luglio e per i più distratti ricordiamo che possonotrovare sul nostro sito www.argaza.it cliccando sul calendario, oltreagli altri eventi della Romagna, tutte le informazioni riguardanti ilnostro programma estivo.

Le serate estive della Schürr

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Lo sapete tutti: e’ Lunêri di Smémbar dà fuori a Faenza,ininterrottamente, dal 1845 ed era - ed è - diffusissimo intutta la Romagna. Forse è il più vecchio lunario d’Italia(tra i “tuttora in vita”).Ebbene una delle caratteristiche del nostro lunêri è lalunga zirudëla che, a cominciare dal 1847, occupa la partesuperiore del “lunario”, attorno a una grande vignettacentrale.Non ho controllato le varie annate: avrei dovuto consul-tare tutta la raccolta nella collezione Piancastelli. Per sta-volta mi fido di alcune pubblicazioni, in base alle qualirisulta che i “zirudellari” del “lunario” che si sono succe-duti in questi 167 anni sono stati undici: Angelo Tarta-gni, Vittorio Tartagni (figlio del precedente), ClaudioAlbonetti, Giuseppe Gheba, Pietro Peroni, don AntonioDrudi parroco di Oriolo dei Fichi, Arturo Monti, Anto-nio Rossi (che scrisse - ma in italiano - nel 1942, 1943 e1944), Ugo Piazza (per il solo 1945), ancora ArturoMonti, poi Tomaso Piazza dal 1949 e, finalmente, un(in)distinto signore che, dal 2005 ad oggi, si firma con lopseudonimo di Gino ‘d Grapëla.Se ò vita a campare, cercherò di parlare di ciascuno diquesti zirudellari e, magari, di precisarvi se l’elenco è esat-to, nonché di indicarvi il numero preciso delle zirudelledi ciascun ‘zirudellaro’ apparse sul lunario...Stavolta mi accontento di Arturo Monti (Faenza 1874,ivi 1964) che ho conosciuto personalmente. Un gran beltipo. Scrisse la sua prima zirudella del Lunêri di Smèmbar

nel 1898, l’ultima nel 1948, quando passò il testimone aMasì Piazza. Dovrebbe aver scritto 47 zirudelle per illunario.Un gran bel tipo, vi ho detto. Era nato a Faenza-città,poco di là dal Lamone, ma dall’età di due anni e pertutto il resto della sua vita visse nel Borgo Durbecco (diqua dall’acqua) e si ritenne sempre e solo un “borghi-giano”.I Monti avevano il soprannome Lucò, ma lui fu sempredetto Arturo de Butigõ, perché gestì nel Borgo, un negoziodove vendeva un po’ di tutto e quindi era designato dalpopolino come e’ butigõ.Fu un uomo di spettacolo nato, mezzo menestrello emezzo show-man. Bambino, ha una bellissima voce dacontralto, unita a una originale, popolaresca e vivacissi-ma vis comica, che lo porta, dopo gli “a solo” in chiesa enelle accademie scolastiche, a esibirsi sui palcoscenicidelle parrocchie e del primo oratorio salesiano che, nel1881 è sorto nel Borgo Durbecco. È quindi tra i primis-simi attori della mia filodrammatica, oggi intitolata adAngelo Pietro Bertón.A 15 anni - adesso ha una calda voce da baritono - cantaal teatro Comunale di Faenza in un’opera lirica: “Il pic-colo Haydn” di Soffredini. Nel 1894, al Circolo Cattoli-co di Faenza, declama la sua prima zirudella che gli pro-cura - come trovo scritto - un successo “delirante”.Da allora non ci sono a Faenza “occasioni conviviali”nelle quali il nostro Arturo non ne sia l’anima. È quindi ovvio che venga chiamato a scrivere anche lazirudella del lunario: la prima nel 1898.Prendendo le musiche da opere famose, o adattando lorosue parole, scrive due operette: prima la “Zibaldoneide”e poi “La molto traviata”. Quest’ultima replicatissima.(Purtroppo questi testi sono andati perduti). Nel 1920, per l’inaugurazione del teatro della RiunioneTorricelli il maestro Ino Savini - giovanissimo - dirigePipelè di De Ferrari: Arturo Monti ne è il protagonista.Due anni dopo è ancora il protagonista - come bassocomico - dell’opera “Le educande di Sorrento” di Usi-glio, sempre diretta da Savini.

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I ‘zirudellari’ del

Lunêri di SmémbarI - Arturo Monti

detto Arturo de Butigõ

di Giuliano Bettoli

Un ritratto all’acquerello di Arturo Monti, detto Arturo de’ Butigõ(Faenza 1874 - 1964).Il Monti scrisse le þirudële del Lunêri di Smémbar dal 1898 al1948 (con l’eccezione del periodo 1942-1945). Nel 1949 il suo testi-mone fu preso da Tomaso (Masì) Piazza che lo terrà fino al 2004.

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Sa a memoria le tante zirudelle scrit-te. Solo a 75 anni, su richiesta diqualche amico, lentamente ne tra-scrive 275 in un gran librone, ogginella Biblioteca Manfrediana diFaenza.Il maestro Ino Savini, per fortuna,usando una apparecchiatura perdischi dilettantistici, ne ha registra-te poco più di una decina - forse lepiù significative - dalla viva voce diArturo.Sono quelle che ho pubblicato nelsettembre del 1981 nel n. 13 della

rivista Radio 2001 Romagna, più alcu-ne altre tratte dal famoso “librone”manoscritto. Sei di queste sono stateinserite, successivamente, nel volu-metto Puisèi ‘d Fẽza - 100 poesie scelteda Giuliano Bettoli e Luigi AntonioMazzoni, Stefano Casanova Editore,Faenza, 2002.Quando nel 1916 in teatro a Faenza,Arturo recitò Petegulèz, una lungazirudella - quasi un atto unico in dia-letto con molti personaggi - il famosoagiografo faentino monsignor Fran-cesco Lanzoni scrisse fra l’altro: “Le

poesie di Arturo Monti si distaccanodalle poesie di tutti gli altri poetiromagnoli perché egli sa rendere conmolta efficacia e colore la psicologiadella gente della sua terra”.Sottoscrivo, per quel che conto io, ilgiudizio del grande studioso, eaggiungo che questa zirudella, cometutte le sue altre, quand’erano recita-te da un attore nato come lui (dove-vate vederne la faccia impassibile esentirne la voce plebea e tagliente)diventavano dei veri e propri quadridi vita popolare.

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Come saggio dell’opera di Arturo Montipubblichiamo qui tre frammenti dell’ulti-ma þirudëla per il Lunêri di Smémbardel 1948. L’aumento dei prezzi dei gene-ri alimentari di prima necessità e i ritar-di nell’opera di ricostruzione a tre annidalla fine della guerra sono i motivi prin-cipali della þirudëla che si chiude con unottimistico pronostico per l’anno immi-nente, in parte scalfito dallo scetticismodegli ultimi due versi.

E nost pôpul us lamentach’l’è tropp lônga sta pulenta,ch’l’è trì énn ch’aj andé drìmo a sém sempar da chi pi!U j’è i lédar ch’j’era prèma,marchê négar ch’l’è un dilèmmano acsè fazil da sbrujê...Mo ch’un s pòssa eliminê??Tott i génar i crèss a òcc: ott dis frénch par dò canòcc,sêrda, inguèll, sgómbar, sardônj’è dvinté tropp chér par nô!St’vó un pô d’pèss da fê e’ brudètt,crèss da zent e piò papètt1;ogni tânt t’arèss la voja d’spapacêt ‘na bëla sfoja, mo quand t’sent e’ prézi ch’l’àt’vôlt e’ cul e... gamba a cà,e ins e’ post d’magnê e’ pèss t’mâgn zuctén, patêt a lèss, maranzân o pavarôn, fasulén, chi è néch piò bôn!Par la fruta an in dscurén: du trì frénch pr’un turladén2,una pesga quénds franchì,

un grapp d’óva un maranghì!S’t’vé par tôr un gómbar o un mlòn…it fa avnìr un zabajòn3![...]U j’è tânt d’che quëll da fê: cà, palëzz ch’i fa pietê; t’vi, vultend j’ócc vers e’ zil, chi muzgôn di campanil... in è quist tott quent lavur ch’fa magnêr i muradur, vidrér, fëbar, faligném?? Dônc miténsi cun impégn ch’avlé avdé zitê e campâgna e’ piò bëli sid dla Rumâgna.[...]Cari Smémbri, gnit paura

a j’én tôlt nénch st’ânn la msurae in avnì, vita tranquèlal’an s’amânca: la Sibèllal’am avrèbb prunustichêch’a j’avén pôch d’aspatêparchè e srà ste Quarantòttche farà finir al lòtte uj sra sol int’la naziônde’ benèssar, pêz e uniôn.Mo u j’è ôn framëzz i Smémbarche strid: “Pucc!! daglia ad intendar!”

Note

1. Moneta pontificia. Qui vale ‘lira’.2. Varietà di prugna.3. Svenimento.

La grande vignetta attorno alla quale si dipanava la þirudëla del 1948 aveva come tema l’alle-goria della pace fra gli uomini e le nazioni, fonte di benessere e prosperità.

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Nella seconda parte di questa esposi-zione ho illustrato il repertorio dellevocali del santarcangiolese. Questodialetto presenta notevoli affinità conaltri dialetti che alcuni chiamano“dialetti dei quattro dittonghi” e chesi parlano in gran parte del territoriobagnato dal fiume Uso e dai corsid’acqua che si contendono l’identitàdell’antico “Rubicone” (Rubicone-Fiumicino, Urgòun-Pisciatello, Rigos-sa). Allontanandoci da Santarcangelopotremmo fermarci a Savignano, poia San Mauro Pascoli eccetera, ma poi-ché lo spazio a mia disposizione èlimitato preferisco mostrare che que-sti dialetti si inoltrano fino a pochichilometri da Cesena. A questo scopofaremo tappa a Case Missiroli, unafrazione di Cesena situata lungo laVia Emilia, al confine con i comunidi Longiano e Gambettola.A Case Missiroli ho intervistato lasignora Laura Donini (che gli amici ei famigliari chiamano Altea). Durantel’intervista, mentre mi ripeteva in dia-letto le parole e le brevi frasi che io leproponevo in italiano, le ho chiestoogni tanto di dirmi come avrebbescritto alcune di queste parole e, inparticolare, come avrebbe espressograficamente certe differenze. Adesempio nel dialetto della signoraDonini si sente bene la differenza fra«lui corre» e «il cuore», o fra «la botte»e «la botta», ma la differenza fraqueste coppie di parole – comeavviene anche per il santarcan-giolese – sta solo nella lunghezzadella vocale, ovvero nell’allunga-mento della consonante chesegue la vocale breve, per cui erocurioso di sapere come avrebbeespresso graficamente questa dif-ferenza. La signora mi ha rispo-sto che, pur rendendosi contoche in dialetto non ci sono veree proprie consonanti doppiecome in italiano, per alcuneparole era tentata di scriveredelle consonanti doppie. Veden-do quali erano le parole per lequali percepiva questa “tentazio-ne”, mi sono reso conto cheGianni Fucci aveva eletto a crite-rio ortografico una percezioneche la signora avvertiva altrettan-to chiaramente, e per verificare la

mia impressione le ho sottopostol’elenco delle parole e delle frasi cheavevo già sottoposto a Fucci, chieden-dole di scrivere la consonante doppiatutte le volte che sentiva la “tentazio-ne” di farlo, e solo in quei casi.Nella tabella in fondo all’articoloriporto le trascrizioni della signoraDonini, che ho copiato tali quali,limitandomi, al solito, ad aggiungerel’accento sulle vocali a, u e i, che lasignora – seguendo l’esempio di moltiautori romagnoli – scrive solitamentesenza accento, anche quando si pro-nunciano accentate. Ho ancheaggiunto fra parentesi la possibilità discrivere ch e gh quando si hanno isuoni “duri” (velari) alla fine della

parola. In realtà la signora Donini miha detto che preferisce scrivere sem-plicemente c e g, scelta che io condivi-do ampiamente (come si può evinceredai testi in dialetto da me curati negliultimi anni) e che trova un solidosostegno nell’Ortografia RomagnolaComune (ORC) messa a punto daDaniele Vitali.Confrontando questa tabella conquella scritta da Fucci si può vedereche la corrispondenza fra il dialetto diSantarcangelo e quello di Case Missi-roli è straordinaria. Se ci atteniamoalla semplice trascrizione, che attestala percezione che i parlanti hanno delproprio dialetto, vediamo che al postodei suoni vocalici che Fucci scrive êi,

éu e ài compaiono i dittonghi éi,óu e èi. Questo, peraltro, non cisorprende più di tanto, perchéanche attorno a Santarcangelo sihanno spesso variazioni delle com-ponenti di questi suoni. Ad esem-pio nei dialetti santarcangiolesirustici al posto di ài compare òi,ma tutti questi parlanti si intendo-no perfettamente fra di loro, per-ché tutte le varianti di questo dit-tongo hanno in comune unaprima vocale aperta: a secondadelle zone e dei parlanti quellaprima vocale aperta può avere piùuna coloritura della a, o della ò, oanche della è, ma il dittongo vienecomunque riconosciuto quandola vocale è aperta. Analogamenteil “dittongo” che c’è in «filo» e«amico» si riconosce per opposi-zione perché inizia con un suonovocalico più chiuso, che Fucci scri-

I suoni e le lettere

dei dialetti romagnoli

III - Il territorio del “Rubicone”

di Davide Pioggia

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Allegoria del Rubicone. Particolare di un’incisione del rimi-nese Alessandro Bornaccini.

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ve ê (scelta che ha delle buone giusti-ficazioni, come illustrerò in futurocon l’aiuto di Daniele Vitali) e che lasignora Donini scrive é.Un’altra differenza importante è chenel dialetto di Case Missiroli viene amancare l’opposizione che nel dialet-to santarcangiolese consente di distin-guere «la sala» da «la sella» (anche «lapala» e la «la pelle» sarebbero uguali,ma la signora mi ha spiegato che nelsuo dialetto di solito non si usa il ter-mine corrispondente all’italiano«pala»). In tutte queste parole a CaseMissiroli si ha una è aperta e lunga,che potremmo scrivere èè, adottandol’ortografia provvisoria che avevoadottato per scrivere isolatamente levocali del santarcangiolese. Invece ilsantarcangiolese in «pala» e «sala» hauna vocale particolare, che Fucci scri-ve ancora ê, e che consente di distin-guere queste parole da «pelle» e«sella». Questa vocale particolare èanch’essa un dittongo, tant’è che Giu-liana Rocchi e altri santarcangiolesiscriverebbero piuttosto oe. Essa scom-pare rapidamente quando ci si allon-tana da Santarcangelo, sia muovendo-si verso Cesena sia muovendosi versoRimini. La ritroviamo però sulle colli-ne della valle dell’Uso e del “Rubico-

ne”; ad esempio a Montiano abbiamoin queste parole una vocale che gliautori di quella zona scrivono spessocol dittongo ae. Tenuto conto di que-sta distribuzione, si potrebbe dire cheil dialetto di Santarcangelo ha conser-vato un’opposizione che si mantienenei dialetti più conservativi della col-lina ed è generalmente scomparsa neltratto della Via Emilia che va da Rimi-ni a Cesena. Questa singolarità trovaforse una spiegazione quando si con-sideri che il centro storico di Santar-cangelo, pur essendo a ridosso dellaVia Emilia, si trova sulla testa del cri-nale che scende fra l’Uso e il Marec-chia. Inoltre fin dall’età imperiale lastrada che passa per Santarcangelo fuuna deviazione del percorso principa-le della Via Emilia, che passava perSan Vito, e solo nel XVIII secolo lastrada che passa per Santarcangelodivenne (o tornò a essere) il percorsoprincipale.La straordinaria corrispondenza fra ildialetto di Case Missiroli e quello diSantarcangelo ci fa capire che essiderivano probabilmente da un mede-simo dialetto, un “antenato comune”,dopodiché col tempo alcuni suonivocalici si sono un poco modificati inun senso o nell’altro, e nel caso del

dialetto di Case Missiroli si è ancheavuta la fusione di due di questi suoni(uniti dalla freccia nella tabella sotto-stante), che tuttavia rimangono distin-ti nei dialetti che si parlano a pochichilometri di distanza, sulle colline.Dopo aver sottolineato adeguatamen-te la straordinaria affinità, è opportu-no dire qualcosa anche sulle differen-ze. Come si vede, i dittonghi di CaseMissiroli sono più “semplici”. Usan-do un linguaggio tecnico potremmoosservare che essi sono costituiti dallasuccessione di due suoni che sonoentrambi anteriori o entrambi poste-riori (cioè si articolano col dorso dellalingua che, pur spostandosi, restanella parte anteriore o posterioredella bocca). Ma anche senza adden-trarci in queste considerazioni specia-listiche, basterà osservare che chiascolta per la prima volta il dialetto diSantarcangelo resta piuttosto colpitodai suoi suoni caratteristici, mentre idittonghi di Case Missiroli, che puresono chiaramente percepibili, risulta-no per così dire “smussati”, e ancheper questa ragione si può dire che ildialetto di Case Missiroli è un dialet-to intermedio fra quello di Santarcan-gelo e quello di Cesena, di cui parlerònella prossima parte.

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Vocalismo non nasale del dialetto di Case Missiroli

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Temi ricorrenti nell’attuale dibattitoattorno alle potenzialità ovvero pro-blematicità di un Nuovo Teatro ine/o col Romagnolo vertono, tra l’al-tro, sul fatto se addirittura l’identitàlinguistica romagnola sia prevalente-mente comica e quale sia l’eventualecontributo dato a ciò dallo statoattuale della lingua; e ancora sullaquestione se un teatro dialettale oparadialettale, diciamo così, «colto»,«professionale», debba limitarsi allamessa in scena di letture di testi poe-tici o di monologhi o se non possaesplorare la complessità di una «vera»drammaturgia (si veda, tra l’altro, ilquestionario stilato dal poeta e dram-maturgo riminese Francesco Gabelli-ni in occasione del convegno «Baracae Buraten», tenutosi a Coriano (Rn)nell’aprile scorso. Ovviamente, dietro a tali questioni,che qui si affronteranno succinta-mente a partire da considerazioni eesperienze prettamente personali,senza alcun valore generale, vi è – perrestare ai due casi più eclatanti, e nonme ne vogliano gli altri – l’ormai ven-tennale successo, colto e «popolare» aun tempo, della grandissima opera diRaffaello Baldini (monologhi tragico-mici) e relativi ben noti interpreti(Ivano Marescotti, Fabio De Luigi,Giuseppe Bellosi ecc.); e la grandeaffermazione degli originali testi(monologhi e melologhi) di ricercalinguistica e sonora nel circuitonazionale, internazionale e festivalie-ro «off» di Nevio Spadoni soprattut-to, benché non solo, con gli esponen-ti del rinomato e pluripremiato Tea-tro delle Albe di Ravenna.Perché il monologo o il flusso d’inco-scienza drammatizzato ecc.?In molti casi per diversi degli autoriromagnoli in attività l’optare per que-sti generi, probabilmente, è stata ed èuna scelta naturale, rientrante appie-no nella loro poetica e nel respirodella loro voce (alcuni sostengonoche ciò sia dovuto al fatto di proveni-re dalla poesia lirica). Anche se poi sivanno ad analizzare i testi, in nonpoche occasioni ci si trova di fronte aopere dalla forte impronta «dialogi-ca», «polifonica» (per usare categoriebachtiniane). Può darsi però che talescelta naturale sia dovuta semplice-

mente all’opportunità presentatasi diuna collaborazione con determinatiattori o compagnie o per dati eventidisposti a produrre la realizzazionedell’opera. E con questo si tocca laquestione della scelta obbligata:quanti e quali sono effettivamente lepossibilità per un autore, che sfrutti aun certo livello letterario-artisticol’espressività del romagnolo, di arri-vare a una produzione di una pièceteatrale «esplorando la complessità diuna vera drammaturgia» da partedegli enti teatrali pubblici con la rela-tiva distribuzione capillare? In sostan-za: inesistenti. Anche quandoegli/ella arrivasse, rischiando in pro-prio, alla produzione di uno spettaco-lo con un gruppo teatrale professioni-sta, ma indipendente, chi lo farebbecircolare quello spettacolo? Il nostroEmilia Romagna Teatro Fondazione?I grandi cartelli guidati da gestori didozzine di teatri comunali? Mi si fac-cia il piacere! Il discorso è già statofatto in altra occasione [La Ludla, n.5, maggio 2011, p. 2. n.d.r.] e nonintendo tornarci sopra. Solo questo:se mi viene da scrivere un monologoo qualcosa del genere (falso dialogoecc.) posso avere almeno la speranzadi poterlo recitare personalmente inqualche lettura o evento pubblico,così si trova costretto a ragionare l’au-tore. Dategli gli strumenti e vi pro-durrà anche una drammaturgia com-plessa e articolata in e col romagnolo.In Romagna oggi ci sono, come nonmai, le forze scritturali per questo: i«buraten», e anche i «burattinai» cisono; manca la «baraca».

Per quanto riguarda l’identità lingui-stica del romagnolo e se essa sia pri-mariamente comica, qui ci vorrebbeun libro per cercare di rispondere.Per il momento bastino queste sinte-tiche considerazioni. Qualsiasi lin-gua, anche la più sconfitta, se è anco-ra attraversata dalla carne e dalla vitaè in grado a livello espressivo (non sidice a livello dei domini tecnici eastratti) di registri alti e bassi, di tonidrammatici, tragici, ovvero ironici ecomici; dipende sempre da chi la usae da chi la interpreta sulla scena.Senz’altro per il romagnolo vige, inparticolare nel settore del teatro ama-toriale, quasi sempre (sottolineo:quasi sempre; si danno anche casi dicompagnie dalla comicità brava eintelligente) la regola della comicitàdella commedia o della farsa costiquel che costi pur di soddisfare leattese e le pretese di un certo tipo dipubblico (pagante). In sostanza, èinvalsa la regola tradizionale di cui siavvalgono anche le ben più potenti edanarose trasmissioni televisive con icosiddetti «comici», che nulla hannoa che spartire col concetto, per esem-pio di «cabaret» come lo si intendeall’estero e come lo impersonavanocerti artisti italiani di rivista: in quasitutte le culture europee si distinguetra la comicità spicciola di consumo,il «comedy», e quella colta, intelligen-te, dirompente e socialmente sferzan-te, che nulla risparmia allo spettato-re, il «cabaret» o «Kabarett», appunto.La legge dell’Auditel (e dell’Audicumé-gia), da cui non si scappa, è una comi-cità basata spesso sulla beceraggine,

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Ridere per non piangere

di Giovanni Nadianiillustrazione di Giuliano Giuliani

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sul facile stereotipo, anche linguisti-co, che tra l’altro vede in auge nonpochi esponenti romagnoli, quellidella «mezza gamba di gnocca» (allaCevoli&Giacobazzi per intenderci).Ma questa comicità, in realtà, ha bena poco a che spartire col comico. Intanto sia detto che non esiste unadefinizione specifica e vincolante di«comico»; esiste soltanto tutta unaserie di teorie che attraversano l’inte-ra civiltà occidentale senza arrivare aconclusioni stringenti e condivise;del resto questo è un concetto suscet-tibile di continue variazioni a secon-da del clima culturale di un determi-nato paese in una determinata epoca.Personalmente, non sono affatto con-trario all’uso di un certo tipo di comi-cità, se vogliamo alla Beckett (si pensialla sua trilogia romanzesca, ai classi-ci «Finale di partita» e «AspettandoGodot»); là dove il comico tenta dirappresentare la condizione dell’uo-mo rispetto all’ordine dell’universo,cioè la sua comica discrepanza rispet-to a questo incommensurabile miste-ro. Insomma, oggi che la banalecomicità si trova dappertutto – e nonfa quasi più ridere – si capisce qualeabissale distanza vi sia tra l’idea del

comico pensato non solo come gene-re letterario o teatrale, bensì comeforma sovversiva assoluta e messa inmora delle forme razionali, e la comi-cità quale mezzo per far cassetta o,peggio ancora, come sistema consola-torio di un’intera società frettolosa esmarrita.E così mi sono ritrovato a dar vocedialettale a tanti personaggi sghembi– e qui vengo alla lingua – a volte tea-trali, altre volte cabarettistici. Perso-naggi che dicono «io», che fannoridere il pubblico per la loro incom-mensurabilità rispetto agli eventi –in realtà il pubblico, senza accorger-sene, ride di quel povero «io», nonsapendo di ridere di sé stesso. E quista il trucco, l’unico che mi concedo:troppo facile e ormai – da decenni,invero – insopportabilmente sconta-to cercare di far sorridere un pubbli-co assuefatto e sonnecchiante pren-dendo di mira (scentrata per altro) ilsolito politicame grande o piccolo;oppure costruendo macchiette ste-reotipate di cui gronda ogni canaletelevisivo-internettiano, come i pre-sunti “comici” che vanno per la mag-giore, dalle piazze digitali alle grigliesalsicciose e sgabanazzate delle onni-

presenti sagre. Troppo facile e insul-so. Il tentativo è quello di ridicolizza-re il «bassoimperismo» che dominal’animo e l’agire, le opere quotidianedi tutti i bipedi parlanti di questelande, nessuno escluso, me compre-so. Allo scopo mi servo dello scontrolinguistico tra ciò che resta del dialet-to sconfitto e i linguaggi (non esclu-sivamente lingue) degli immaginarivincenti: il mio «io», già usando lasola lingua estenuata, è sconfitto inpartenza, ma tanto più riesce a dire,ancora una volta, che il re che è inciascuno di noi, che ci è stato incul-cato – anche linguisticamente – ènudo. E, coi tempi che corrono, scu-sate se è poco. La comicità come presa di coscienza?Semplice moralismo? Oppure unapossibilità, tra le tante, per unNuovo Teatro Romagnolo che facciaincontrare l’audience (per usare untermine in neoitaliano) «colta», chevolutamente ha rimosso la propria«grezza» dialettalità di cui vergognar-si, con l’audience «popolare» degliancora-parlanti e, sperabilmente,con quella da conquistare dei piùgiovani «orecchianti»? Domande, trale tante, aperte.

Giugno 2011

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la Ludla8 Giugno 2011

E’ geömetra S. l’éra stètich… mo no stètich pôchesia…pröpi stètich a la grânda… Lo, nurmalment, l’éra bon d’an-dê avânti nenca una stmâna, dið dè, senza andê da côrp…Una vôlta i dið ch’ e’ fos arivê a e’ récord d’dissët dè, e ch’u s’ fos vest, coma ch’u la cuntéva lo, “d’andêr a e’ vðdêl afêm s-ciuturê par sotavì!”. La fazenda donca l’éra séria e latnéva in aprension tot e’ bórgh Sa’ Röch.

La matena prëst, apéna ch’ u s’arvéva al butégh, tot i zarché-va infurmazion a propôðit d’agli ùtom nôvi… I piò discrit,par rispët de’ su turment, j andéva int e’ scórs tulendla dala luntâna (“Geömetro... com’ a vala… incu?); mo u gn’éranenca ad qui, i piò ðber, ch’i scuréva piò s-cet; mo sèmparsota metafora: “E alóra geömetro… avegna avù famì stanöt!?”

Mo u ngn’éra pu bðogn ad þirêi tânt d’atórna parchè u japinséva lo – cun ‘na faza sèmpar piò rinfignêda e suferen-ta ch’ e’ paréva l’areclam de’ callifugo Ceccarelli, quel ch’u’s’avdéva int e’ giurnêl – a mètar in piaza tot i su guëi… Ealóra cun tot qui ch’ i j ðbatéva in pët e’ tachéva prema cunla diéta (un brôd alþir d’vardura, al progn cöti, e int e’ mëþnenca una ciöpa d’ Falqui...) e pu cun tot i tramèscul (i cli-stéri cun l’àqua chêlda, cun la vaðelina, cun e’ bicarbunêtðbatù int la ciêra d’ôv… adiritura una vôlta nenca cun l’ôlidla machina da cuðì d’ su moi… ch’ l’éra pu la su operatricecul-turale) e pu la série d’tot i tentativ aburtì: (quel dla meþa-nöt, quel dal do, quel dal quàtar… e incóra int al si ch’ u jéra pröpi pêrs ch’ e’ ðmaðès… falso allarme: u s’éra arsôlt tot

sól cun una grâñ löfa, coma ch’ u la ciaméva lo ch’ l’éra bènzivil)… E e’ paréva pröpi d’avdél, e’ pôr geömetra, a còraravânti indrì int e’ gabinet… cun i bragon de’ pigiama caléint i pi… a caichê coma un adanê… ch’l’avéva nenca fatmètar so do manigli int la muraia, d’qua de’ d’là de’ vàter…par fêi piò fôrza…

E nenca quând ch’ l’avnéva int la butéga de’ mi bab, par calquàtar ciàcar… l’atenzion l’éra sèmpar cuncentrêda sóra toti ðmaðament dla pânza… ch’ u s’afarméva a mëþ dla parôla,l’alzéva una mân coma par dì “alt, nö faðì armór…” e u s’mitéva in urècia, tot ðblanzê sóra una gâmba, a cul arvet(ritirato), che tot i tartnéva e’ rispir… e dal vôlt l’éra nenca

bon d’taiêt e’ scórs a mëþ par scapê vi d’córsa a ca(tabëch: stavôlta a i sen!)… senza che incion, vestala gravitê de’ chêð, u s’ n’ufindes… Ânzi par lo e’vigéva un statut speciêl che e’ putéva nenca scur-þê in libartê… senza fê cont ad môvar la scarânacoma tot chiétar…

E pu finalment l’arivéva nenca che dè dla libéra-zion… che la nôva la i curéva d’davânti e la faðévasòbit e’ þir ad tot e’ bórgh coma una sfleþna: da labutéga de’ calzulêr la rimbalzéva a quela d’Aldo e’sêrt… a e’ negôzi d’ Gâmbi l’urluþêr… a la cante-na dla Maria “de’ ven”… a e’ magaþen d’ Tiglio“dal garnël”…: “U l’à fata, u l’à fata!!…”. E icèquând che lo l’arivéva triunfânt int e’ bórgh tot jéra þa ilè pront a cumplimentês… A n’ so sicur mou m’ pê che queicadon dal vôlt u i strinþes prinse-na la mân… E u s’j arduðéva un traplet d’þentd’atórna… E lo tot sudisfat int e’ mëþ ch’ e’ cunté-va tot i particulér de’ fat e de’... fattuale… Mopröpi tot… senza lasê gnint a l’imaginazion: e’vulom, e’ péð, la fórma, e’ culór, la cunsistenza,l’udór…

Par una ciöpa d’dè l’éra fësta grânda int e’ bórgh,tot j éra piò sulivé e e’ geömetra e’ paréva adiritu-ra ch’l’aves vent un téran a e’ löt… Pu, döp a triquàtar dè, e’ cminzéva d’arnôv a inscuris int lafaza… a mètar so la sòlita ghegna d’suferenza…coma quel ch’ a là dl’areclam de’ callifugo…

E’ stètich

Racconto di Mauro Mazzottinel dialetto di Ravenna

illustrato da Giuliano Giuliani

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la Ludla 9Giugno 2011

«Al savói cói ch’u j’éra pròima sòtae’ pàunt dla fòssa?» a i faz ma chi dóintænt ch’a parècc.«Cói ch’u j’éra?» l’a m dmànda la mima cla sta finénd ad stié la pida sé s-ciadéur.«U j’éra la Nives dè furnær e Vre-glio, e’ fiùl ’d Ligàza»«S’èl chi féva da st’àura chi dó?» u mfa e’ mi ba cuntinvénd a sbusané lapida, sàura la tègia, sna furzòina.«I zcuròiva pianìn, da fét, da fét eogni tænt Vreglio u i déva un basìne pu mè a dégh che la Nives la avòi-va cæld parchè la éra tóta sbrazùlæ-da!»«Ma tè i t’à vést?»«No ma, j’avòiva un da fæ!»«Bionda a mèt sò ancàura mé fugh oé basta acsè?» é dóis e’ mi ba intæntche cæva la pida da la tègia.«É basta, tænt cvèsta l’è l’éutma, tò!»e la gl’a slònga.«Vin a magnæ adès, intænt ch’l’a scus, sinò u s giàza tót.»«Mò parché u n i va ’d cæsa, e sarébænca piò còmdi, sa tótt ch’l’umiditàtla fòsa i farà i bót cmè al patædi!» edóis intænt ch’u s fa un casàun siradécc.«L’a n vó la ma dla Nives, da cvàntch’la à vést Vreglio si gins e i stivaléttad pèla zala sé tachìn, u i fa schiv, laà dét che ad fnócc la i n’à sa tl’ort.»«Mò s’èl ch’u j’òintra, l’é la móda’mericæna, e pu mè a dégh che laNives la s n’u n saréb incórta nò? s’un’é ligétmi!»«Ligétmi o no, e’ fur-nær l’à dét che s u l’in-càuntra tònda e’ fàur-ni u i spàca la faza.»Ció i mi stasòira i fa dizchéurs ch’a ni capéssgnént, l’è mèi ch’avaga a lèt va là.

«Chisà sl’è ’nnu cæsae’ furnær da l’uspi-dæl?» la dmanda e dèdop ma la Sintìna lami ma intænt ch’la ito al miséuri per ’narebècca [giacca di lana].«I l’à mand a cæsagvàsi sóbti» la j’ar-spònd «u n’éra gnént,snò dò tre macadéuri,

Vreglio piutòst, l’è scap vi dòp e’fat.»«Mò cum’è ch’l’è suzèst?»«L’è suzèst che e’ ba dla Nives laincauntri Vreglio tl’ustarì ’d Brusa-rùl, proima a gl’uciædi, pu al paroli,pu i spintéun, pu i scaplótt, pu ipógn, e Manghìn, purét u gl’àciàpi.»«Mò vut che sia?!» la dóis la mi ma «eadèss, cla póri Nives... e’ ba tóttzacæd e e’ muràus ch’l’è scap vi!»«Veramént, la furnæra la m’à déttpianzénd ch’la n gn’è gnénca li macæsa.»«Oooh! j’è scap vi insén...» la ciòza lami ma gvasi pianzénd.«Ch’u s ch’la da ès l’amàur!» e la Sin-tina la s séuga, sé dàurs dla mæna, iguzléun ma j’ócc.

«Mò s’èl chi fat da piénz acsè, i tajæla zvòla?» e dóis e mi ba antrénd adcæsa.La mi ma l’al gværda cmè che fos ’namérda, la Sintina la va vi sbaténd e’chéul.

L’è pass du o tri an da sté fat, mèadès a sò grandìn, a faz al médi aSatarcanzli e u m’à ciap la pasiàun difrancból, a vagh a ròmp al scàtli matótt; ormài il sa, i m làsa al bósti emè ma cæsa, s un pó d’acva cælda, ai stach e’ francbòl. A i n’ò armidiéparécc di bél mò, e’ piò bèl di tótt um l’à dæ la furnæra, l’éra tacædm’una cartulòina dl’Argentina e uj’éra scrét: “Saluti e baci da Nives,Vreglio e dal vostro nipotino Dome-nico”.

E’ francbol

Racconto di Rino Salvinel dialetto di Poggio Berni

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la Ludla10 Giugno 2011

[continua dal numero precedente]

IN- ‘in, dentro’Anche in è prefisso molto comune. Come in italiano,davanti a consonante labiale (p, b, m) la -n si assimila in -m: im-. In conferisce al verbo a cui viene premesso unsignificato di moto a luogo, dall’esterno all’interno. Es.:instichê(r) ‘conficcare, introdurre’; insachê(r) ‘insaccare’;infaflê(r) ‘impastricciare’; immalghê(r) ‘impelagare’ ecc. Ha quindi grosso modo lo stesso significato di ad-; anzi inromagnolo, come in altri dialetti, spesso si usa al posto diquest’ultimo, diversamente da quanto avviene nel tosca-no e nella lingua nazionale. Es.: indurmintês ‘addormentar-si; infunghê(r) ‘affumicare’; innigri(r) ‘annerire’; inriþni(r)‘arrugginire’; inþghi(r) ‘ accecare’ ecc.

INTRA ‘in mezzo’In romagnolo, come in italiano, diventa tra-. Es.: trami-schê(r) ‘armeggiare, lavoricchiare’ (da un latino *intramiscu-lare, derivato da miscere ‘mescolare’); tracanton ‘angoliera’;tramëz ‘tramezzo’.

RE- ‘all’indietro, di nuovo’Prefisso molto comune che in dialetto assume la forma ar-dovuta alla caduta della vocale e in posizione pretonica edal successivo inserimento in posizione iniziale (pròtesi)della vocale d’appoggio a-. Es.: lat. REBULLIRE › ital. ribolli-re › romagn. arbuli(r). E così: ardùðar ‘ridurre’; arfê(r) ‘rifa-re’, arfiadê(r) ‘rifiatare’, arnuvê(r) ‘rinnovare’, arsulê(r)‘risuolare’, arvultê(r) ‘rivoltare’ ecc.

I suffissi

-ACEU › -az ‘-accio’In origine questo suffisso indicava appartenenza e relazio-ne e serviva per formare, a partire da sostantivi, degliaggettivi poi diventati a loro volta dei nomi .Es.: malgaz ‘stelo di granoturco’ (da MÈLICA ‘saggina’), sdaz‘setaccio’ (da SAETA ‘setola’); tramaz ‘setaccio per granaglie’(da ‘trama’); pajaz ‘pagliericcio’ (da PALIA ‘paglia’); buvaza‘sterco di bue’ (da BOVE ‘bue’); birinaza ‘rospo’ (da biren‘tacchino’ al quale assomiglia per il colore); navàz ‘grandecassone di legno per il trasporto dell’uva’ (da NAVE); guaza

‘rugiada’ (da AQUA); pavaraza ‘specie di arsella’ (da PÌPERE

‘pepe’) ecc.In formazioni più recenti -ACEU si lega a sostantivi alteran-done il significato in senso accrescitivo-peggiorativo; avolte rende il concetto di ‘non più buono, che non si usapiù’. Es.: bascianaz ‘uomo grande e grosso’ (da ‘San Seba-stiano’), bucaza ‘boccaccia’, casaza ‘casa vecchia, lasciatafianco della nuova costruzione come deposito attrezzi’,camaraza ‘stanza usata come ripostiglio’ ecc.Si vedano anche i microtoponimi Castlaz ‘Castellaccio,grande castello’ (mentre, come vedremo, -ione significa ‘pic-colo’: Cas-cion ‘Castiglione, piccolo castello’), Canalaz‘grosso canale’, Viaþa ‘viaccia’ strada lunga e larga (la zsonora si spiega con l’influsso paretimologico di ‘viaggio’).

-ÀCULU › -ac ‘-acchio’ / -aj ‘-aglio’Questo suffisso latino presenta un doppio esito: -ac(forma indigena) e -aj (forma giunta attraverso il francese).La prima forma ha in origine significato diminutivo,anche se oggi questa accezione non è sempre riconoscibi-le, come in mnacia ‘cornacchia’ (da *MONÀCULA, incrociodel latino MONÈDULA ‘tàccola, gazza’ con CORNÀCULA

‘cornacchia’) o þarbàc ‘sterpo, pollone’ (da *GERBÀCULU,derivato a sua volta da un tema mediterraneo *gerb- signi-ficante ‘terreno incolto’ ovvero dal lat. ACERBU ‘acerbo’,nel senso di ‘immaturo’ come lo sono i germogli).

[continua nel prossimo numero]

Appunti

di grammatica storica

del dialetto romagnoloXLIX

di Gilberto Casadio

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la Ludla 11Giugno 2011

rumbrìgol e gnèscul (in pianura, talvol-ta dittongato): in ital. lombrico, in lat.lumbricus. Il diz. Cortelazzo-Zolli ritieneil termine latino «d’origini oscure»; ilDevoto, Avviam., aggiunge: «con soleconnessioni celtiche» e nient’altro1. Giàsi era accostato il nome lumbricus all’ag-gettivo lat. lubricus (=lubrico, viscido,molliccio, scivoloso) quasi a sottolinear-ne la caratteristica più repellente. Inalternativa, Plinio, Nat. Hist. XXX 18,usò anche vermis terrenus (di terra). Erauna precisazione opportuna poiché nellinguaggio quotidiano, pre-scientifico,nemmeno gl’istruiti facevano distinzio-ni troppo sottili tra anèllidi e larve d’in-setti vari come quelli del grano, dellegno, della carne, ecc.2

Tuttavia la voce collinare rumbrìgol giàa Forlì lascia il posto a gnèscul di cuil’Ercolani, Voc., cerca l’etimo in basili-sculus nel senso di ‘serpentello’; basilissoper ‘serpe’ è in uso in alcuni dial. vene-ti. Ma in questa proposta restano pocochiare la caduta totale di due sillabe(più ‘aferesi’ di così…!) e l’imprevistacomparsa del digramma gn. Inoltre quae là si presentano diverse varianti dignèscul come vèscul, vèscuv, e i com-posti badavèscul, ma[n]davèscuv, ecc.,vecchie forse quanto lo stesso dialetto e

pronte pure a suggerire altri etimi sucui discutere3. Tuttavia, partendo pro-prio da vèscul, si può supporre che l’eti-mo sia viscum, visti gli esiti volgari diviscum in vésc’ o ‘vischio’, e invis-cìs o‘invischiarsi’, formatisi sia in dial. chein ital. sul diminutivo *visculum o uiscu-lum: in fondo quella d’esser viscidi è lapiù evidente caratteristica dei lombri-chi che vivono nella terra ricca dihumus. *Visculum, per *viscidus, proba-bilmente circolò accoppiato anche auermen dando origine a uermen uiscu-lum; infine, caduto malamente vermenche potrebbe aver lasciato per stradapure la n finale, si sarebbe passati a*n+uisculum, quindi a gnéscul4. È sem-pre un’ipotesi, ma forse più convincen-te di altre. Modi di dire: a vanghé la tera grasa udà fora i rumbrìgol [o i gnéscul]; tut’arduðré da la disperaziòn a magnétera e rumbrìgol [o i gnéscul]; taié onin du cumpagn un rumbrìgol; u s’arfàcumpagna i rumbrìgol (che ricreano laparte tagliata); u scapa via cumpagn a‘na galena ch’ la i ha trov un bel rum-brìgol da magné (e che non vuol con-dividere con le altre); int e’ côr dré airumbrigol, la galena la s’è impichìdaint la maþèdga mòla; ecc. E, per quan-to non c’entri, non trattandosi di lom-brichi per le attuali conoscenze, dàidl’àj [aglio] che burdél s’l’ha i rumbrì-gol int la pânza.

Note

1. Per altro non segnalate dall’Oxford LatinDiction., come invece talvolta succede peraltre voci. Se è d’origine celtica, lumbricusentrò presto in lat.; Plauto, Aulularia 629-30: I foras, lumbrice, qui sub terra erepsistimodo, / qui modo nusquam comparebas; nunccum compares, peris (Vieni fuori, lombrico,che finora hai strisciato sottoterra, che fino-ra non comparivi da nessuna parte; ora checompari, ti faccio sparire!). L’avaro, peren-nemente in ansia, paragona al lombriconascosto sotto terra un vicino ch’u pè ch’ubèda a no fès avdé, par scuprì indó chech’l’ ha piat [‘appiattito’, cioè ‘nascosto’] lapignata di maranghìn, come la chiamava-no i vecchi di poche generazioni fa. 2. Figurava tra i vermi anche la ‘larva dilocusta’: lat. tardo bruchu[m], dal gr. brôukos,in dial., in senso più generico, bruð(=bruco), per la quale il diz. Cortelazzo-Zollirichiama pure «il possibile influsso del sino-

nimo lat. eruca (svoltosi in ruga…)». Tutta-via un’erronea etimologia popolare associaper la loro voracità i bruð a bruðé (brucia-re): int un meþ dé, i bruð i ha bruðé tot lafoja ad ste por albarìn. Vermis e lumbricuscompaiono pure in un distico della ScuolaMedica Salernitana (XII sec.): Mentiturmenta, si sit repellere lenta / ventris lumbricosstomachi vermesque nocivos (è menta mentitri-ce [poco efficace], se sia lenta a cacciar via ilombrichi del ventre e i vermi nocivi dellostomaco). Era perciò lumbricus anche latenia (e’ verum sulitèri).3. Alla latina il colore dell’abito vescovileera rubricus (‘rosso’) che suonava simile alubricus e lumbricus. Si passò in qualcheluogo da vèscul a vèscuv, anche per i nomicomposti ma[n]davescuv o badavescuv,forse indotti da un’etimologia popolare cheassociava il lombrico al colore sanguigno –non a caso ‘vermiglio’ – dell’abito vescovile:magari con l’idea che il vescovo stesse benecome un lombrico nella terra grassa, pro-prio come i potenti e poco amati vescovi-conti d’investitura imperiale, grandi deten-tori di terre ai tempi degli Ottoni e d’Enri-co IV; oppure poco dopo al tempo deimovimenti pauperistici, com’erano i Patari-ni o gli Umiliati, tra i secoli XIII e XIV. Il ‘vermiglio’ – vermeil in franc., *verminius –nel tardo latino era un colorante ricavatodalla coccinella ed era avvertito collegatocome etimo anche popolare a vermen. Inol-tre, un altro colore rubricus come il rossopaonazzo era riservato alle vesti degli altiecclesiastici. Forse nate agli inizi come meta-fore denigratorie, le varianti ma[n]davescuvo badavescuv poi in qualche zona si stempe-rarono rimutando la finale in l.4. La distinzione grafica tra u e v ha soloquattro secoli. Infine, insieme a verminosuse a verminare, il latino classico affiancava ilneutro vermen al masch. vermis non deltutto sinonimi; in particolare il neutroplur. vermina indicava la massa dei vermi odelle larve d’insetti in frenetico movimen-to su una carogna insepolta o su ciò cheimputridiva (verminèi ‘verminaio’), oltreche il ‘formicolio’ delle membra fermetroppo a lungo. Ma nel Medioevo (cfr. DuCange, Gloss.) vermen e vermis erano dicerto interscambiabili. Il ‘formicolio’ (giàverminari in lat.) trae invece il nome dal lat.formica (furmiga, furmighina o furmig-lina). Si usano pure infurmighì o infur-mig-lì (verbo anche riflessivo): a stè ferumtent u m’ s’infurmigla al gambi, ch’a’nsent pió d’avéli.

Rubrica curatada Addis Sante Meleti

da Civitella

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la Ludla12 Giugno 2011

Il fenomeno cosiddetto del “liscio”ha scovato nell’ambito della provin-cia Romagnola un luogo indubbia-mente propizio in cui svilupparsi,suscitando nella gente un interesseed una presa nei suoi confronti chehanno contribuito non poco a fare,proprio del nostro circondario, il suoprecipuo luogo d’elezione e di svilup-po. Da qui, in tempi relativamentespediti, ha poi finito per dilagare amacchia d’olio ben al di là dellostretto ipotizzabile, contribuendocon ciò ad esportare oltre i pretticonfini territoriali, qualcosa dellaRomagna, del suo specifico modo diintendere e di scendere a patti conl’esistenza nonché, almeno in parte,qualcosa del proprio idioma e dun-que della propria distintiva cultura.Al giorno d’oggi è ormai indubbioche si vada assistendo ovunque adun generalizzato abbandono delleparlate locali, in altre parole dei lin-guaggi d’origine che ci appartengonoe alle quali, in una maniera o nell’al-tra, siamo debitori della nostra for-mazione ed in senso lato anche dellenostre consuetudini ed espe-rienze. Questo sta avvenen-do in forma particolare neiriguardi di un dialetto roma-gnolo che, fino a pochi annior sono, veniva insensata-mente boicottato come uninutile fardello che impedi-va, o quanto meno ostacola-va nei giovani in età scolare,l’acquisizione di un italianomeritevole, vale a dire emen-dato da tutti quegli erroriche si sosteneva essere diprovenienza dialettale, men-tre dipendevano più facil-mente da pure e semplicicarenze di insegnamento. Adesso, quando forse è trop-po tardi per tentare di porviqualunque rimedio scongiu-randone l’estinzione, non lasi pensa più allo stessomodo ed è per questo chenon si può che esprimereogni riconoscenza neiriguardi di tutto quello che,più o meno consciamente,ha contribuito e contribui-sce a far sì che la scomparsa

del nostro vernacolo venga se nonaltro prorogata nel tempo.Tutto ciò per argomentare come il“liscio”, forse anche al di là dei pro-pri intenti, dia comunque un suo fat-tivo contributo al conseguimento ditali propositi, diffondendo in manie-ra spontanea fra la gente qualcheconnaturata, autentica traccia delnostro dialetto, ispirando ed accre-scendo nei suoi confronti, anche aldi là degli angusti confini regionali,

un’attenzione ed una simpatia che èfuori luogo non definire dire incon-futabili. È abbastanza consueto, infatti, snida-re nei repertori delle varie orchestretesti rivelativamente composti in unRomagnolo accattivante quantodenso di significati e capace, dun-que, di far leva su un numero virtual-mente elevato di potenziali ed ignarifruitori.

Non è proprio un caso, diconseguenza, che l’estenso-re di “Storia della musicada ballo romagnola 1870 -1980” abbia avvertito lanecessità di documentarenel sostanzioso volume, lasintomatica collaborazioneconcretizzatasi alcuni annior sono fra alcune figure dispicco della poesia dialetta-le romagnola ed il liscio.In rappresentanza di tutticome non menzionare, apuro titolo d’esempio, inomi di due fra gli autorilocali più popolari edapprezzati: sto riferendomiai cesenati Cino Pedrelli eWalter Galli che, pur soli,sarebbero sempre in gradodi testimoniare, dall’altodella loro inconfutabilecapacità ed esperienza, unincontro fra due realtà indefinitiva assai compatibilifra loro, incontro che, forseanche nel presente, sarebbemeritevole quanto prima diessere imitato e ripreso.

Franco Dell’Amore

Storia della musica da balloromagnola 1870 - 1980

di Paolo Borghi

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la Ludla 13Giugno 2011

Per il secondo anno consecutivo hopartecipato, con il ruolo di consulen-te e coordinatrice, ad una ricercaeffettuata sul campo da un gruppo digenitori e di insegnanti della scuola atempo pieno ‘R. Campagnoni’, dellalocalità di S. Pietro in Campiano, incomune di Ravenna. Occorre pre-mettere al racconto delle avventurerecenti dei genitori-animatori che lascuola sopra citata è portatrice ederede di notevoli tradizioni di ricerca,delle quali la maggior parte di questigenitori, da fanciulli-scolari, sonostati i protagonisti. Le loro attività diraccolta di materiali etnografici e dimateriali archeologici, iniziate dallascuola negli anni ’60 del secolo scor-so, hanno dato origine al MuseoDidattico del Territorio. Il Museo collabora ormai da undecennio, per mezzo dei propri esper-ti di laboratorio, con un cospicuonumero di Istituti Scolastici delComune di Ravenna (con il patroci-nio dell’Istituto Friedrich Schürr perquanto attiene i laboratori di etno-grafia) . Tale doverosa premessa costi-tuisce una delle motivazioni che hafavorito la formazione di un gruppodi lavoro, che si propone di dare unsupporto alle attività degli attualiinsegnanti del plesso. Il tema della ricerca dell’anno scola-stico 2009-2010 aveva come titolo“La Scuola Pubblica a S. Pietro inCampiano”; una storia che è iniziatanel 1861, con la conseguita unitàd’Italia. Condivisa la scelta con imaestri, si sono individuati i settorid’intervento. La ricerca negli archividella città è stata affidata ai genitori.Essi hanno ritrovato una vasta docu-mentazione concernente l’organizza-zione delle Scuole Comunali nelravennate, nonché numerosi riferi-menti alla scuola locale: l’elencazionedei primi arredi, le note di costume edelle condizioni economiche deglialunni della campagna, le tradizionilegate alle attività stagionali delmondo agricolo che coinvolgevano ibambini, le difficoltà, ai tempi ritenu-te quasi insormontabili, incontratedai maestri nell’approccio al bilingui-smo romagnolo-italiano e nel passag-gio dalle unità di misura in uso inRomagna al sistema decimale. Con-

temporaneamente a tale ricerca d’ar-chivio, gli insegnanti avviavano attra-verso gli alunni una ricerca delledocumentazioni anche fotografichedelle attività svolte dalla scuola in unsecolo e mezzo di vita, dei documen-ti scolastici quali le vecchie pagelle, ilibri ed i quaderni. Inoltre, con ilcoordinamento dei genitori del grup-po, attuavano il recupero di ogni tipodi corredo degli scolari : dalle cannet-te, ai pennini, agli astucci, alle cartel-le... fino agli inchiostri, appositamen-te prodotti dal laboratorio di Tinturenaturali del Museo Didattico locale.A conclusione dell’anno scolastico laricerca si è concretizzata in unamostra aperta al pubblico (con vastapartecipazione di cittadini ed autori-tà) ed in una conferenza di presenta-zione. Il lavoro è stato divulgato neisuoi contenuti essenziali da un qua-derno-guida ai ventotto pannelli didocumenti esposti, con il prestigioso

patrocinio dell’Istituzione BibliotecaClassense.Durante l’anno scolastico 2010-2011il gruppo ha voluto affrontare unatematica più complessa, perché privadell’appoggio di documenti istituzio-nali, più legata al costume, aventecome tema i giochi ed i giocattoli deibambini, nel periodo delle tre genera-zioni dei bisnonni, dei nonni, deigenitori, escludendo gli ultimi decen-ni di grande consumismo e di giocat-toli elettronici. La ricerca su tale argomento non ènuova in questa scuola, che periodi-camente la ripropone agli alunni,conservando la documentazione,costituita in particolare dai pannellidei grafici conclusivi, ma nell’annoin corso ci siamo indirizzati ad unaricerca volta a verificare anche quan-to resti nelle nostre popolazioni,ormai composte di famiglie delle piùdiverse provenienze, delle filastroc-che giocose spesso dialettali, delleconte in vernacolo che precedevanol’inizio dei giochi di gruppo, insom-ma di tutto quel patrimonio cultura-le che veniva un tempo utilizzato nel-l’educazione famigliare per avviare ilbimbo alle prime conoscenze, aiprimi discernimenti logici, alla socia-lizzazione. Le insegnanti hanno impe-gnato gli alunni nella ricerca e cihanno consegnato fogli e fogli, scrittisia in una lingua italiana popolareche in dialetto romagnolo. Una voltaeliminati i numerosi doppioni, purconservando le versioni variamentedissimili dello stesso pezzo, siamogiunti alla raccolta di circa 160 testi,fra i quali almeno una trentina sonoespressi in vernacolo.

[Continua nel prossimo numero]

Ambarabaciccicoccò - I

di Vanda Budini

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la Ludla14 Giugno 2011

Bruno ZannoniPrimo classificato

Dun

A l’ora dolza d’una tamarið,sóra sta duna ch’la reðest incóra,a guerd e’ mêr e a truv al mi radiðch’an li zarchéva piò da pu d’alóra;da quând, d’istê, a vnéva, da burdël,a cor’r in mëþ a i þonch, insen a e’ vent,a caza d’rozlamérda, stra e’ grasële i chelgatrépul cu’ i su fiùr d’arþent.E còma quésta, zzént muntâgn ad sàbiache vent e aqua i li mitéva insen:la bura la i scarghéva la su ràbiae u li frustéva che vigliach d’garben.Sóra cal dun, in zérca d’aventùrané sól a piómb e gnânca i pi’ bruðé,un gn’éra gnint che u s’faðéss paùraneca se ormài a l’égna da savéche pu la séra… che bruðór cla còta!A i tëmp dal dun, in spiàgia, un’ânma viva:un quêlch cuchêl in zérca d’na pissòta,‘na bêrca a cul in so, sóra la riva.A gl’éra zzent al dun cumpâgn’ a questa,quând che i mi sógn i n’éra miga tént,pu a gl’è gvintêdi tëra da cunquéstae adës j’è armëst, dal dun, sól i rimpiént.

Dune All’ombra dolce di una tamerice, / su questa duna che resi-ste ancora, / guardo il mare e trovo le mie radici / che non cercavo piàda allora; / da quando, d’estate, venivo, da ragazzo, / a correre inmezzo ai giunchi, assieme al vento, / a caccia scarabei, tra la salicor-nia / e la calcatreppola con i suoi fiori d’argento. / E come questa,cento montagne di sabbia / che vento e pioggia mettevano assieme: /la bora ci scaricava sopra la sua rabbia / e le frustava quel vigliaccodi libeccio. / Sopra quelle dune, in cerca di avventura, / né sole a piom-bo e nemmeno piedi arsi, / non c’era niente che ci facesse paura /anche se ormai l’avremmo dovuto sapere / che poi la sera… che brucio-re quella scottatura! / Ai tempi delle dune, in spiaggia, non un’anima

viva: / qualche gabbiano in cerca di una pissotta, / una barca rove-sciata, sopra la riva. / Erano cento le dune come questa / quando imiei sogni non erano mica tanti, / poi sono diventate terra di conqui-sta / ed ora sono rimasti, delle dune, solo i rimpianti.

Antonio GasperiniSecondo classificato

Ròbi vèci

Ad fóra, dri e’ pórghit,j ha lasé l’anèl int e’ môurs’la córda ad spandlôunpr’e’ nòud dla cavèzam’e’ cavàl de’ “sgnòur” padròunch’u n’tòurna piòa góds la vésta di su cantìr.

Ad dôentra , ‘t la cambaraza,chi piò grénd j ha mucéròbi vèciche mu mè u m’pjisad tné da còuntcmè améigh d’un viazche d’ogni tènt ho vòja d’incuntrèpar scòr dla nòsta aventôura.

E l’è trapli pr’i sórgh,un scaldôen cun e’ prit puzè ma tèra e po’ schèrpi trinchicun i fér sòta la sóla,sacòuni e curpétt s’al pèziint l’armèri d’ójum zantéil.Dachènt, la cardénza sméssache da bas la mésa tazi scòurghi,murtarùl e pgnatôen ad tèra…

Stal puiðì agli à vent...

14° concorso “Aldo Spallicci”organizzato dalla Cooperativa culturale “A. Saffi” di Cervia edall’Associazione culturale Amici dell’Arte “Aldo Ascione” di Cervia

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A lè, e’ témp ch’e’ lôuta a sgvilè vitravérs sradôuri cunsumédi,u s’è farmè a vègia stavólta.

Cose vecchie Fuori, vicino al portico, / hanno lasciato l’anello nelmuro / con la corda a penzoloni / per il nodo della cavezza /del caval-lo del “signor” padrone / che non torna più a godere la vista del suoiterreni. // Dentro, nella cameraccia, / gli adulti hanno ammucchiato/ cose vecchie / che a me piace / conservare / come amici di un viag-gio / che ogni tanto ho voglia di incontrare / per parlare della nostraavventura. // E sono trappole per topi, / uno scaldino col prete appog-giato in terra / e poi scarpe irrigidite / con i ferri sotto la suola, / giac-che e corpetti con le toppe / nell’armadio di olmo gentile. / Accanto,la credenza smessa / che in basso nasconde tazze scorticate, / mortaie pentolini di terra… // Lì il tempo che continua a scivolare via /attraverso serrature consumate, / si è fermato a veglia stavolta.

Marino MontiTerzo classificato

StaÝon

Chi vul chi muda lugh,chi sogn chi lasa l’ómbraj’è rispir d’un nidch’e’ sta par fnì.J’è pës d’uvataint i culur dal foj,int l’udór de’ mostch’i s’ðgrâna dè,coma spnëcd’ canidch’i somna la pôca lusde’ sól.Int l’urël dla finëstrauna mân la lasa brìðul ad pânprema ad srês in cainðdé sóra una scrâna.

Stagioni Quei voli che cambiano luogo, / quei sogni che lascianol’ombra / sono il respiro / di un nido / che sta per finire. / Sono passiovattati / nei colori delle foglie, / nell’odore del mosto / che sgranano/ i giorni, / come pennacchi / di canneti /che seminano quella pocaluce / del sole. / Sull’orlo di una finestra / una mano / lascia bricio-le di pane / prima di chiudersi in casa / seduta su una sedia.

la Ludla 15Giugno 2011

Le madri sono sempre state premuro-se e attente alle necessità dei figli; frale tante sollecitudini materne si evi-denzia anche quella di facilitare ilsonno dei più piccoli con nenie ecantilene: le ninne nanne.Esse sono “quasi certamente i più

antichi elaborati della poesia popola-re … alcune hanno percorso lunghiitinerari, altre si sono fermate in areepiù ristrette, ma tutte hanno subìto,attraverso i tempi, varianti ed adatta-menti locali e linguistici”.1

Quando, indagando nelle classi incui opero, chiedo che tipo di ninnenanne si sentono nelle case dei ragaz-zi che hanno dei fratellini minori,apprendo che da nonne o bisnonne(ce ne sono delle giovani!) si ascolta-no quelle del passato, spesso in dia-letto, mentre le mamme canticchianofilastrocche in lingua italiana o, piùfrequentemente… gingles (musichette)della pubblicità televisiva!Decisamente le ninne nanne delnostro folklore sono numerose e bel-lissime: in esse le mamme esprimonole loro speranze sul futuro del neona-to, le loro frustrazioni, le lamentele,illoro amore, nel senso più lato dellaparola.Le ninne nanne sono uno spaccato

della vita sociale dei tempi che furo-no; ma la loro musicalità è tuttoraapprezzabile e il loro contenuto puòaiutare i ragazzi in età scolare a farsiuna idea del passato.Sogni d’oro!

Ninan ninan cunténta,bab e’ rid e mâma sténta;bab e’ rid in qua e in là,mâma sténta a ster a ca;bab e’ rid a l’ustareja,mâma sténta par la veja;bab e’ rid int e’ mulén,mâma sténta cun e’ babén;bab e’ rid a là vajon,2

mâma sténta int e’ canton;mâma sténta, à da stintê,l’à e’ baben da cundilê.3

Note

1. L. Ercolani, Mamme e bambini, Edizio-ni del Girasole, Ravenna, 1975, p. 1212. Là in giro, a zonzo3. L. Ercolani, op. cit., p. 128

Pr’i piòznen

Rubrica a cura di Rosalba Benedetti

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la Ludla16

«la Ludla», periodico dell’Associazione Istituto Friedrich Schürr, distribuito gratuitamente ai sociPubblicato dalla Società Editrice «Il Ponte Vecchio» • Stampa: «il Papiro», Cesena

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Giugno 2011

A n vegh l'óra

Coma ch’e’ câmbia e’ mònd:e’ mi sângvu s’éra abituê a la puletica fêlsa,a la television mêrza,a i giurnél buðédar.

U s’éra abituê nenca al nustrèni,e mi sangv u li supurtéva ben:mo al nôvi nöu n li supôrta piò!

A n vegh l'órach’e’ pasa st’instêda,u j’è trop zanzêli-tigre.

Anche se parrebbe soltanto ieri, risale ormai al febbra-io del 2005 la prima e sino ad oggi esclusiva circostan-za nella quale, a pagina sedici della Ludla, sono stateproposte due concise ma sintomatiche poesie di Albinod’ Sintinël. Sei anni trascorsi in un istante che, forseproprio per questo, sarebbero in grado di consentirel’illazione che l’unica, fugace comparsa di Albino fosseassimilabile ad una delle numerose meteore così diffu-

se in poesia, tanto promettenti quanto destinate ad unoblio imprescindibile per successiva mancanza di vena.Di lui poco conoscevamo allora ed, eccetto quanto tra-spare dal materiale che in un secondo tempo ha presopiù o meno parsimoniosamente ad inviarci, non moltodi più sappiamo allo stato attuale. Da lungo, poi, nonabbiamo sue nuove, resta il fatto che, a distanza dianni, la peculiarità dei suoi versi pervasi di sarcasmo,riflessioni e malinconie è sempre in grado di smentirein modo efficace la suddetta congettura. Le sue paginepermangono coinvolgenti, significative ed in durevole,singolare sintonia con una contemporaneità non pro-prio esaltante che, a spregio di ogni buon senso, anco-ra non dà alcun cenno di abdicazione.Ne dà testimonianza questa ironica A-n vegh l’óra in cui,dopo un avvio sconsolatamente attuale che parrebbe vo-lerci condurre da tutt’altra parte, l’autore finisce perpuntare, inatteso, un dito irridente su quello che è dive-nuto da qualche anno il persecutorio supplizio dellenostre estati.

Paolo Borghi

Albino d’ Sintinël

A-n vegh l’óra

Non vedo l’ora Come cambia il mondo:\ il mio sangue \ s’era abituato alla politica falsa,\ alla televisione marcia,\ ai giornali bugiardi.\\S’era abituato anche alle nostrane,\ il mio sangue le sopportava bene:\ ma le nuove no \ non le sopporta!\ Non vedo l’ora \ che passi quest’esta-te, \ ci sono troppe zanzare tigre.