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la Ludla 1 “Poca favilla gran fiamma seconda” Dante, Par. I, 34 la Ludla (la Favilla) Periodico dell’Associazione “Istituto Friedrich Schürr” per la valorizzazione del patrimonio dialettale romagnolo Autorizzazione del Tribunale di Ravenna n. 1168 del 18.9.2001 Questo numero è stato realizzato con l’apporto del Comune di Ravenna Società Editrice «Il Ponte Vecchio» Anno XXI • Giugno 2017 • n. 5 (178°) SOMMARIO Röb d’incudè: E’ ðmaneþ de’ fitness - E’ cunzert di Silvia Togni Sola me ne vo... Illustrazione e testo di Sergio Celetti I scriv a la Ludla E’ gal ch’e’ va a Roma a fês Pêpa di Rosalba Benedetti Romagnoli di una volta - Lumaren di Edie Apriletti Zanzela di Francesco Gobbi Frédo di Franco Ponseggi Illustrazione di Giuliano Giuliani Il romagnolo “modi Gilberto Casadio Parole in controluce: fadiga Rubrica di Addis Sante Meleti Stal puiðì agli à vent Pr i piò znen Adriano Cicognani - La partenza di Paolo Borghi p. 4 p. 5 p. 5 p. 6 p. 7 p. 7 p. 8 p. 10 p. 11 p. 12 p. 14 p. 16 Parte prima Comprendere le tradizioni non è mai stata cosa facile. Ce lo insegna bene la storia, che con grande difficoltà, con ricerche continue, meti- colose ed estenuanti, da sempre cerca di verificare e comprendere le ragioni di ogni espressione ed evento umano. Inoltre ognuno di noi crede che tradizionale sia ciò che giunge dal più recente passato, o da ciò che conosciamo come tale, o che ci sembra essere tale, perché tra- mandatoci come tradizione di famiglia, o come espressione della col- lettività in cui viviamo la nostra quotidianità, ma ciò che noi oggi viviamo come tradizione è il frutto di tradizioni, sì antiche, ma che si sono tramutate lentamente, di generazione in generazione e che sono giunte a noi completamente trasformate, edulcorate e (aspetto peggio- re) svuotate del loro significato e delle funzioni antropologiche ad esse intrinseche. Ciò è avvenuto anche per le cante romagnole. Sul finire dell’800 il patrimonio culturale legato a tutto quell’enorme bacino musicale orale, proprio della musica popolare anonima, alla mercè delle trasformazioni socio-politiche e culturali dell’Italia di que- gli anni e in particolare in corso nella nostra Regione, stava perdendo- si nelle memorie degli ultimi inconsapevoli Orfei-cantori, nonne e popolani e rischiava di andare perduto per sempre. Avvenne dunque, nei primi anni del Novecento, che personaggi di grande levatura culturale, innamorati della propria terra e delle proprie origi- ni, abbiano deciso insieme, con un pre- ciso intento di recupero e di salvaguar- dia del patrimonio locale, di “rimettere in onore le tradizioni spente o vicine a spegnersi” 1 con il dichiarato obiettivo di “far conoscere la Romagna ai romagno- li”; queste le intenzioni espresse nel primo numero della rivista “Il Plaustro” pubblicato il 4 ottobre 1911 a firma dei fondatori della stessa. Continua a pag.2 Giugno 2017 Folklore e folklorizzazione del canto romagnolo di Alessandra Bassetti

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la Ludla 1

“Poca favilla gran fiamma seconda”Dante, Par. I, 34

la Ludla(la Favilla)

Periodico dell’Associazione “Istituto Friedrich Schürr”per la valorizzazione del patrimonio dialettale romagnolo

Autorizzazione del Tribunale di Ravenna n. 1168 del 18.9.2001

Questo numero è stato realizzato con l’apporto del Comune di Ravenna

Società Editrice «Il Ponte Vecchio» Anno XXI • Giugno 2017 • n. 5 (178°)

SOMMARIO

Röb d’incudè:E’ ðmaneþ de’ fitness - E’ cunzertdi Silvia Togni

Sola me ne vo...Illustrazione e testo di Sergio Celetti

I scriv a la Ludla

E’ gal ch’e’ va a Roma a fês Pêpadi Rosalba Benedetti

Romagnoli di una volta - Lumarendi Edie Apriletti

Zanzeladi Francesco Gobbi

Frédodi Franco PonseggiIllustrazione di Giuliano Giuliani

Il romagnolo “mo”di Gilberto Casadio

Parole in controluce: fadigaRubrica di Addis Sante Meleti

Stal puiðì agli à vent

Pr i piò znen

Adriano Cicognani - La partenzadi Paolo Borghi

p. 4

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p. 16

Parte primaComprendere le tradizioni non è mai stata cosa facile. Ce lo insegnabene la storia, che con grande difficoltà, con ricerche continue, meti-colose ed estenuanti, da sempre cerca di verificare e comprendere leragioni di ogni espressione ed evento umano. Inoltre ognuno di noicrede che tradizionale sia ciò che giunge dal più recente passato, o daciò che conosciamo come tale, o che ci sembra essere tale, perché tra-mandatoci come tradizione di famiglia, o come espressione della col-lettività in cui viviamo la nostra quotidianità, ma ciò che noi oggiviviamo come tradizione è il frutto di tradizioni, sì antiche, ma che sisono tramutate lentamente, di generazione in generazione e che sonogiunte a noi completamente trasformate, edulcorate e (aspetto peggio-re) svuotate del loro significato e delle funzioni antropologiche ad esseintrinseche. Ciò è avvenuto anche per le cante romagnole. Sul finire dell’800 il patrimonio culturale legato a tutto quell’enormebacino musicale orale, proprio della musica popolare anonima, allamercè delle trasformazioni socio-politiche e culturali dell’Italia di que-gli anni e in particolare in corso nella nostra Regione, stava perdendo-si nelle memorie degli ultimi inconsapevoli Orfei-cantori, nonne epopolani e rischiava di andare perduto per sempre. Avvenne dunque, nei primi anni del Novecento, che personaggi di

grande levatura culturale, innamoratidella propria terra e delle proprie origi-ni, abbiano deciso insieme, con un pre-ciso intento di recupero e di salvaguar-dia del patrimonio locale, di “rimetterein onore le tradizioni spente o vicine aspegnersi”1 con il dichiarato obiettivo di“far conoscere la Romagna ai romagno-li”; queste le intenzioni espresse nelprimo numero della rivista “Il Plaustro”pubblicato il 4 ottobre 1911 a firma deifondatori della stessa.

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Giugno 2017

Folklore e folklorizzazionedel canto romagnolo

di Alessandra Bassetti

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la Ludla2 Giugno 2017

Folklore e folklorizzazione delcanto romagnolo

Segue dalla primaPrese il via allora un vero e propriomovimento culturale regionale grazieall’instancabile opera di Aldo Spal-licci e, per l’aspetto musicale, diFrancesco Balilla Pratella, che portòalla fondazione delle riviste locali piùimportanti, atte alla meticolosa rac-colta di informazioni e di materialifolklorici: “Il Plaustro” (1911-1914) e“La Piê” (1920-1933). Ad esse colla-borarono tutti coloro che ritenevanofondamentale “identificare e salva-guardare quei tratti della “romagnoli-tà”, che - come dicevamo- schiacciatidai cambiamenti sociali e culturali inatto”, rischiavano di andare perduti“mettendo a rischio l’identità stessadel popolo romagnolo”2.Aldo Spallicci - medico, letterato eSenatore della Repubblica - acuta-mente annota, nel numero uno de“La Piê” del 1920, che “il canto chesopravvive è frutto quasi esclusivodella tradizione orale. Perché dagran tempo il popolo non crea piùnuovi canti” e quindi egli afferma divolere osare e la sua intenzione,“compito, più arduo che mai” è didare “il canto al nostro popolo”.È così che si comincerà a crearecanti capaci di ridare nuova linfaallo “stato d’anima” del popoloromagnolo, “ormai smarrito”3. Lo stesso Pratella - compositore,etnomusicologo e fondatore insie-me a Luigi Russolo della musicaFuturista - dichiara apertamente lesue intenzioni, informandoci chequeste cante nuove “nascono sullostile dei canti autentici, conservan-done il carattere della melodia, lafreschezza, l’espressione, lo schemaformale […], ma con l’utilizzo dimelodie nuove, armonizzazioni epolifonie moderne, con ampi e ardi-ti svolgimenti formali”. Esse saran-no, “non copie o imitazioni rimo-dernate, ma un’evoluzione dellestesse”, dunque “figlie legittime,giovani, vive, fresche e moderne […],che per raffinatezza ed elevatezza, siporranno nel superiore piano del-l’arte musicale italiana moderna dispirito popolare”4.Le parole chiave dunque, proferite

da Spallicci e da Pratella, ci condu-cono finalmente ora, dopo questabreve introduzione, a meglio com-prendere che ciò che noi oggi consi-deriamo tradizionale, risulta essereinvece un’invenzione prodotta appo-sitamente a tavolino per colmare uninevitabile e spiacevole processo diperdita culturale.Le “nuove” cante entrarono così afar parte del patrimonio culturalepopolare immediatamente, graziealla vivace e suggestiva attività cano-ra locale effettuata dalle Cameratedei Canterini romagnoli a partire daquella di Forlì (1910) e di Lugo(1920). Ben presto il popolo feceproprie le cante di Pratella e di Mar-tuzzi, perché esse, nell’immaginariocomune, riuscivano a prendere ilposto di quelle precedenti che,

ahimè, avevano esaurito il potereevocativo caratteristico e la loro fun-zione legata prevalentemente ad unmondo agreste e contadino cheandava velocemente scomparendo etrasformandosi.In quello stesso periodo (1924) “LaMajé” di Cesare Martuzzi entrò a farparte della piccola sezione dedicataai canti dell’Emilia nel Canzoniere delpopolo italiano - compilato da AchilleSchinelli negli anni Venti ad usodelle scuole elementari, per i corsiintegrativi e per gli istituti magistrali- in cui non si fa cenno all’autore,assimilando quella canta ad altribrani di tradizione orale.L’anno seguente (1925) il regime

fascista fondò l’O.N.D. (OperaNazionale Dopolavoro), organizzatasecondo una capillare diffusione sulterritorio, con il fine esplicito di isti-tuzionalizzare e “far rivivere le tipi-che manifestazioni popolari, deca-dute o da più tempo trascurate, rie-vocandole nello spirito stesso delpopolo”5 e allo stesso tempo di for-mare un’identità unitaria nazionale,gestire il consenso collettivo e con-trastare le conflittualità che poteva-no nascere dalla libera espressionedei singoli. Avvio, per mano di Pra-tella - che al Regime era alquantoallineato - di “un’arte corale volgare,fiorita dalla locuzione popolare, eperciò italianissima, immanente epermanente, rinnovatrice feconda”6

di un canto riconoscibile comeromagnolo7.

Aspetti analiticiMa vediamo ora di cercare di farechiarezza fra i diversi caratteri diquesti due stili musicali. Comincia-mo con il Canto popolare di tradi-zione orale (ovvero “Cante dellaVecchia Romagna”)8. Esse sonoautentiche melodie popolari, anno-tate fedelmente, che si cantavano aduna sola voce (canto monodico) o almassimo erano condotte a due voci.Sono melodie puramente vocali enon v’è traccia di accompagnamentostrumentale. Esse sono anonime, siaper la parte musicale sia per il testo;non vi è limitazione di suoni o ditonalità utilizzate. L’emissione voca-le necessaria era semplice, sponta-

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la Ludla 3Giugno 2017

nea, spinta verso l’alto, il respirostesso regolava la durata del periodometrico e musicale che era libera-mente espresso. Nella modalità diquesto canto vi erano fiorettaturevocali tipiche del canto libero detta-te dalla bravura del cantante. Lostile espressivo delle cante di tradi-zione orale era di carattere robusto eimprovvisato, esse venivano traman-date oralmente e di conseguenzarisultavano diverse - a volte in pochielementi (es: ritmo, variazioni dellalinea melodica, testo) - anche in areegeografiche molto vicine. Il contenu-to dei testi era sovente ereditato odiscendente da una origine regiona-le più o meno comune alle zone geo-grafiche confinanti, ma abbiamoanche visto che alcune forme sonogiunte in Romagna addirittura dallaFrancia del XVI secolo. Ad esempio,del brano “Così mangiò la sposa” -canto enumerativo di nozze, confunzione rituale e propiziatoria - “sitrovano riferimenti in una elabora-zione polifonica (canto a più voci)del compositore fiammingo rinasci-mentale Jacob Obrecht, morto a Fer-rara nel 1505 e anche nei codici n.

95 e n. 96 di Cortona (sec. XVI)”9. I temi e i significati erano dunquecomuni a zone geografiche anchemolto distanti, ma erano maggior-mente ruralizzati e con accezioni piùlocali o connotazioni peculiari deifatti o delle genti del luogo di arrivo.Gli argomenti dei “canti importati”- migrati da un luogo all’altro dopolunghi “vagabondaggi” - subivano leconseguenze di azioni di deteriora-mento, variazione e corruzione,dovute al tempo e alle persone. Infi-ne un’attenzione particolare va dataal fatto che la lingua utilizzata eral’italiano. Sicuramente scorretto,imbastardito, dialettizzato, pieno dierrori, ma funzionale agli usi dellapopolazione locale e ai significatisociali intrinseci. Notiamo inoltreche in dialetto - inteso e vissutocome lingua madre - rimanevanosolo le ninne nanne, le dirindine e icanti legati all’infanzia che eranodeterminanti per l’acquisizione lin-guistica autoctona e che costituiva-no la forma di socializzazione prima-ria almeno fino ai primi decenni delNovecento.

Continua nel prossimo numero

Note

1. Spaldo [A. Spallicci]: La Majè, “IlPlaustro” 4 giugno 1912.2. Venturi Susanna: I Cantarê, i Can-terini romagnoli di Russi dagli anni Tren-ta a oggi - Nota Geos CD Book 302,Udine 2016, p.33.3. Pratella F. B.: Piccola storia delCanto popolare e dei canterini di Roma-gna. 4. Pratella F.B.: Romagna intima, Offi-cina grafica dei Ferretti, seconda edi-zione, Lugo 1934.5. Beretta E.: Musica costumi e danzepopolari attraverso l’Opera NazionaleDopolavoro, relazione del 30 ottobre1929, Roma. 6. G. De Victoria, Consenso e culturadi massa nell’Italia fascista, Bari, Later-za, 1981.7. Venturi S., Op. cit.8. Carioli B.: Cante e canterini diRomagna, Ed. del Girasole, 1978.9. Gori G.: Se dormi svegliati, Panoz-zo, 2011.

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la Ludla4 Giugno 2017

E’ Ýmaneþ de’ fitness

Oggi per tenersi in forma bisognafare fitness, pare non vi siano altrimodi. In realtà, oltre 2000 anni fa, ildetto Mens sana in corpore sano nonfaceva che ribadire il sempiternoconcetto dell’effetto benefico delmovimento fisico, ma in un’altra lin-gua ormai (ahimè) ignota ai più. Ormai avrete capito che dire le cosein inglese ha tutta un’altra valenza,che sembra perfino più efficace. Chisi esprime in inglese, spesso più omeno dubbio, oscilla tra e’ pataca ee’ ðburon, ma questo oggi fa trendy!Dunque, da domani tutti in sala fit-ness, a fê ginastica.

Per prima cosa bisogna trovare unpersonal trainer che sceglierà il vostroworkout.Magari si partirà con un po’ di squat-ting per riscaldare le gambe e, met-tendosi gattoni, seguirà lo stretchingper la schiena. Attenzione a non faremooning! Per questo, indossate sem-pre un abbigliamento adeguato:scarpe da running e t-shirt per bodybuilding. Infine un po’ di relax inposizione prona o supina. Prima diandare via ricordate di passare dalbar tender, che c’è sempre una certamovida, e di prendere un bel reinte-gratore salino.

* * *E se a n’avì capì un azident, andiv azarchê un istrutor ch’u v fëga fê de’muviment. E se pu a n e’ s-ciuðì gnintcoma me, mitiv a gujìna, pu a gnarga-ton a fê di stirament, mo staðì atent ano fê d’avdé e’ cul se a si vstì a la

Giuda boja. U j vô al schêrp da còrare una maja stila e tirata. Pu mitiv apânza in þò e in sò e staðì un pô d’ap-stê prema d’bé un bël biviron a e’ bar,ch’u j’è sèmpar un grân ðdazz adþent.

E’ cunzert

Ieri sera c’era il concerto di unafamosa boy band: c’era il sold out giàalle cinque del pomeriggio. Perragioni di sicurezza agli ingressic’erano dei check point con i bodyguard e c’era scompiglio perché tuttidovevano aprire borse e zaini. Tra uno snack e un drink, finalmente ècalato il buio e lo show è cominciato.

Era un concerto heavy metal e tutti iteenagers facevano delle gran fotocon gli smartphone. Ad un certopunto han fatto una pogata tra lafolla e sono intervenuti quella dellasecurity; poi i membri della bandsono andati nel backstage mentre unvocalist si è messo a incitare i presen-ti che urlavano come matti. Il con-certo si è concluso dopo l’una neldown generale.

* * *Air sera u j era e’ cunzert d’un gropad burdel chi è famus dimondi: u jera zà e’ pinon al zenq de’ dopmëz-dè. Par stê sicur, i aveva mes di grânbis-cion a cuntrulê a l’intrêda e tot javeva un grân smanez a arvì al borse i zainet. Tot i d’beva e i smagnazeva; a fôrzad’dej u s’è fat bur e i ha cminzê asunê.La musica l’era pésa e tot i tabacheti faseva dal futugrafi a rota d’còl cuni telefunin. A un zert pont i j a fat un grând sdazstramëz a la zent e j è avnu qui dlasicureza, e pu döp, quând chi burdëlch’i suneva j è andé a pusês, on inse’ pêlch u s’è mes a bacajê e tot ch’irugeva coma di mët. E’ cunzert l’è finì a e’ böt pasê e j eratot strëch sbudlé.

Röb d’incudè

di Silvia Togni

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la Ludla 5Giugno 2017

Êlta, seca, ‘na faza sempra tirêda,dura, la javrà avù ‘na zinqvantenad’enn. La jera stêda, sòbit dop a la gvëra,l’infarmira de’ dutor de’ paeð e benprest e’ cminzè a þirê la ciacra che frai du u j fos qualquël ad piò de’ rapôrtad lavor. Mo dop a sët enn e’ dutorl’acitè ‘na cundota luntân e li la‘vanzè, ad colp, senza lavor e senzainamurê.La s srè in ca e int un mutìðum arsin-tì cun e’ mond intir, la scapeva solpar fê che pô ad speða e par andê a fêdal puntur a dj amalé.A javrò avù dið enn che a j’andeva inca tot i dè cun int la saca ‘na scatla adpuntur par curê ‘na dibuleza cronica.A travarseva dal stânzi pini ad ritrët,cun di mòbil elt, scur, int l’êria unudor ad naftalina e ad ciuð.Arivê int la câmbra da lët la m dgevacun ‘na voð seca ch’la tajeva l’êria:– Stèndat ad travers e cun i pi adfura, si no t’am spurch la cverta.La prepareva la sirenga, la rumpeva lafiêla, la tireva sò e’ lèquid e la faðevascapê l’êria.A ste pont a ðmiteva ad guardêla eafundeva la faza int e’ cusen mèntarche lì la cminzeva a sfarghem la ciapacun e’ cuton bagnê ad spìrit.A sera règid cmè un buraten ad legn

mèntar che li cun un colp sech l’afun-deva l’êgh int la chêrna viva e e’ rëstu l faðeva e’ lèquid che l’andeva þòpar la gâmba cmè fër infughì.A la fen un masag par môd ad dì e am tireva sò, a m’imptuneva i calzonmèntar che lì la m’aspiteva inpazintae la m’acumpgneva a la pôrta.Int e’ pianet a m’afarmeva a masagêmla ciapa par stèndar e’ lèquid e parcalmê un pô e’ brusòr.Puntualment, d’in dentra, u s sintivapartì e’ gramòfono e l’ariveva ‘navëcia canzuneta:

“Sola me ne vo per la cittàpasso tra la folla che non sache non vede il mio dolorecercando te sognando te che più non ho…”

Sola me ne vo...

Illustrazione e testo di Sergio Celetti

Ricordiamo Gianni Quondamatteoa 25 anni dalla morteScrittore, storico, giornalista, parti-giano e politico romagnolo, GianniQuondamatteo (1910-1992) è stato,tra l’altro, un grandissimo cultore delnostro dialetto, con un piede a Rimi-ni, dov’era nato, e uno a Riccionedove è stato il primo Sindaco nelDopoguerra ed in seguito Presidentedell’Azienda di Soggiorno.

Scrittore, giornalista, pubblicista,negli ultimi mesi della guerra avevacollaborato con la Radio dell’Otta-va Armata. Autore di libri che hanno fattoepoca come I mangiari di Romagna,Tremila modi di dire in Romagna,Romagna civiltà, Cento anni di poesiadialettale romagnola, Dizionario gastro-nomico romagnolo, I luneri rumagnol, Eviaz e il Dizionario Romagnolo (ragio-nato), un’opera poderosa in duevolumi frutto di una minuziosaricerca durata più di vent’anni, nellacui realizzazione e diffusione hoavuto l’onore di essere fra i suoi col-laboratori.Insieme abbiamo cercato le sfumatu-

re, le variazioni di borgo in borgo,ascoltato i racconti degli anziani, daipescatori ai contadini, dai vecchipreti di campagna ai mestieranti eartigiani di vecchie tradizioni.Per la diffusione ci siamo affidati atrasmissioni serali dell’allora diffu-sissima Telerimini nonché a confe-renze sia in città che nell’entroterra,accompagnati dal compianto poetaValderico Vittorio Mazzotti (Malèt)di Torre Pedrera.A personaggi come Gianni Quonda-matteo dobbiamo moltissimo perquanto riguarda la nostra storia, lenostre radici, le nostre tradizioni.Non dimentichiamoli!

Edmo Vandi

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la Ludla6 Giugno 2017

L’era un cuntaden ch’l’avéva un gal,bêl, braghir, che toti al galen agliandéva drì.Un dè e’ raspéva drì a e’ pajer, a vdése e’ truvéva una quelca garnéla adgrân; a e’ pöst dla garnëla e’ truvè unaletra che la dgéva che e’ duvéva andêra Roma a fês Pêpa.Lò, braghir com ch’l’éra, u n i pêravéra e u l va a dì cun tot al galen.– Mo parchè, mo parchè? – al s’arac-mandéva ló toti inamurêdi e disperê-di par ste fat. Gnint da fê.– A n degh gnint cun e’ patron e admatena a m’avej.U s’aveja par la strê tot impitì, ste gala-don da la smenta e u s’incontra unagalena che la j dið:– Mo indò’ a vét?– I m’à scret che a jò d’andê a Romaa fêm Pêpa.– Alora me a vegn a fêm galena Pape-sa.– Ven pu, basta t’camena ad drì dame.E i va.Quând che i à fat un pô ad strê i s’in-contra un’ôca, bëla grasa, ch’la dið:– Indò’ andiv vujétar, in viaþ ad nòz?– No, me a vegh a Roma a fêm Pêpa.– Me, a fêm galena Papesa.– Oh! Lasì ch’a vegna nenca me a fêmôca Badesa!– Ven pu, basta t’camena ad drì danó!I va avânti tot impitì e u j ven incon-tra un bël biren che u j fa la stesadmânda.– E alora, se a m’avlì, me a vegn a fêmbiren Imperator.– Basta che t’camena ad drì da tot!Camena, camena, u s fa sera drè a

una muntâgna, ló j è strëch e j à un pôpavura.– Int un puler - dìð - a n i puten andê,sinò i s ciapa!I ved un lumin da luntân, i va e itrôva una caðina cun al luð apiêdi.E’ gal e’ guêrda da la finëstra e e’ dið:– U n j è incion, adës a pruven aintrê.La pôrta la jè sól apugêda e ló, …den-tra!E’ gal u s met sora la têvla, la galenasota la têvla, l’ôca sota e’ camen e e’biren ad drì da la pôrta.Quând ch’e’ scòca la meþanöt u s sentun grân tarapatler [fracasso]: l’éra la cade’ Lóv e l’éra e’ Lóv ch’e’ turnéva a

ca! L’éva fâm, che int e’ bosch u navéva truvê gnint da magnê.– Oh! Ach udor ad s-ciân e ad s-cia-nen: par quânt ch’u n j è, par quântch’a n sbranarò!A sintì sta vuðlaza i nostr’amigh i perdla tësta.E’ gal:– Chicchirichì me…La galena:– Co co co me…L’ôca:– Qua qua qua…E’ biren:– Toc toc glu …Alora tot quent i fnè in boca a e’ Lóv,che u s i magnè tot.

E’ gal ch’e’ va a Roma a fês Pêpa

di Rosalba Benedetti

Fiaba raccolta dalla viva vocedi Viottes Gualdi di San

Pietro in Vincoli, verso la finedegli anni ’70.

Rimanda alla fôla raccoltada Edda Lippi in Streta la

foja, lêrga la veja… Cesena,Il Ponte Vecchio,

2007, ma l’inizio ed il finalesono diversi.

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la Ludla 7Giugno 2017

Si chiamava Primo, ma l’abbiamosempre chiamato Lumaren, così, tuttoattaccato. Probabilmente, risalendoall’etimologia del soprannome, dove-va essere L’umaren, l’omarino, perchéera un omino piccolo e un po’ cicciot-tello, l’aria giuliva che gli veniva forseda qualche bicchiere di sangiovese chelo rendeva allegro e compagnone,senza essere però mai indisponente.Era il marito della zi’ Miglia, sorellaprimogenita di mio nonno Celso; ilvino gli era sempre piaciuto e spessevolte, la sera, ritornava dall’osteria unpo’ brillo e incerto nel ritrovare lastrada di casa. La zia Miglia lo rimpro-verava, e lui, che in fondo era unbuon uomo, prometteva che sì, avreb-be smesso di bere.Un giorno doveva scendere da Polen-ta a Forlimpopoli.Lungo la strada c’erano parecchieosterie e la tentazione era forte... maaveva promesso. Così passava oltre, ecoerente coi buoni propositi, si dice-va:– Sta fort, Primo, che se s’t’an bi inst’ustari chi que, st’etra t’an bi dubicir!E, giunto alla seconda osteria, si gode-va il giusto premio per la stoica rinun-cia.Prima di arrivare a Forlimpopoli leosterie erano frequenti, e possiamo

immaginare in che stato fosse quandoarrivò a destinazione, se ci arrivò... Non avevano avuto figli, lui e la zia, equando furono vecchi e in difficilicondizioni economiche, il nonnoCelso e la nonna Pasquina li preserocon loro, sistemandoli in due stanzet-te al pianterreno della casetta doveabitavano anche loro. La zia Migliaera molto affezionata al nonno, a E’Cin, al più piccolo dei cinque fratelli,ed era da lui ricambiata. Partecipavano alla vita di famiglia,alle mangiate che qualche volta inonni organizzavano e a cui prende-vano parte tutti i figli con i relativicongiunti. Non di rado eravamo in25, 26 persone! In una di queste ricorrenze, ricordoche Lumaren, già un po’ rubizzo peraver bevuto abbastanza, si alzò inpiedi e levando il bicchiere, fra la sor-presa di noi tutti, declamò una di

quelle zirudèli della tradizione roma-gnola. Non ricordo di che cosa parlas-se, ma so che era lunghissima e che furecitata con voce chiara e senza inter-ruzioni. Stemmo tutti ad ascoltarloattenti, in silenzio, e quando finì, glie-ne chiedemmo ancora, e così sco-primmo che alcune le aveva compostelui.Lo rivedo come fosse ora, piccoletto,tondetto, il viso colorito e un po’ fan-ciullesco, che due baffi non riusciva-no a rendere più serioso, un cappellomarrone scolorito dal sole, un corpet-to un po’ consunto e il classico fazzo-lettino rosso annodato al collo, e michiedo quanta gente è sparita così,senza lasciare una traccia, chiudendoil libro della sua vita in silenzio, e chepure potrebbe, se fosse sfogliato, con-tenere tante storie interessanti, comele zirudèli di Lumaren che nessunoconosce più.

Romagnoli di una volta

Lumaren

di Edie Apriletti

... ch’u t’avnes un azident propi int’ecòl de pia ... ad scador ... um toca puzend la lusa ... in du ch’la s’sarà cazè-da adès ... la sarà gounfa de mi sangvt’é vojia la javrà la musarola ... lasciupes ... a vut ch’a n la vegga invell,

a jò ènca imbianchè ch’l’è poch, las’avreb da vdei ... orca ad scadour ...st’ann burdel l’è stè un suplizi cuncal zanzèli ... ma cm’a farala acsèznina a savè in du ch’a guèrd, amasès int i culur piò scur ... la n vamiga int e biench ... la l sa ... la l sache s’a la vegh a fagh un mazili ... zàch’a jò un bsogn ad durmì che mai ...me a n capes, nun avam dal testigrandi e in parec i jè di quaiun e lou

al jà dal tistini ... tot occ ... ma cm’afali ad avé tot stal malizi ... pèta pèta... gnint, l’è una macina, boja ... adèsa m met sotta i lanzul a voj avdè cm’afarala a bichem ancoura ... sol ch’l’èun chèld ch’a s-ciòp ... eeeeeh adpazinzia ch’u i vo ... ecco, adès e pasaènca e camion dla mundezza ... u ista un quert d’oura ... mo va là ...ormai a so sveg cme un grell, s’afarò??? ... tò!!! A m met a scriv ...

Zanzela

di Francesco Gobbi

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la Ludla8 Giugno 2017

L’éra vëč. O almãnc acsè u-mparéva a me, ch’a séva þóvan. A-m l’arcurd da cvãnd ch’a séva untabac, alóra e’ putéva avé’ stãn-t’èn. Parò, a chi ch’u-j dgéva ch’-l’éra vëč, lo l’arspundéva ch’un’éra “vëč”, l’éra “grãnd”. Tot i-l cnuséva còma Frédo,Frédo d Bucaza, a l’anagrafeAlfredo …. Emaldi, s’a m’arcurdbẽn. E’ staðéva a Maðira, int unacaðitẽna basa a mãn dreta apènaþo da la rata, par la strê che da e’põnt par andê a Fuðgnãn la vacõntr’ a la Ruseta, dri a l’êrþande’ Senio. L’éra un avcet mêgar, cun i cavelche da e’ négar j’andéva sèmparpiò cõntr’e’ biãnc. Int j’ùltum ènl’avéva tnu du bafiõn biẽnc ch’-j’arivéva cvéði agl’ureč. E’ faðévae’ canzulêr, mo e’ faðéva nẽnctènt étar amstir. L’éra bõn d fêrun pô d’ignacôsa. A-m l’arcurdcvãnd ch’avẽn mes so la ré sóra ala strê : l’è vnu cun i þirlẽn, u j’àfisé a un tundẽn d fër, ch’l’avévainfilê int al maj da un cô dla ré,e pu l’à cmẽnz a tirê int la côrda,infèna che la ré l’è stêda bëla tirê-da. Nõ a l’avẽn fisêda a i paladẽne a la fẽn l’è avnù un bël lavór.E’ staðéva da par lo. La ca l’avévala pêrt dnẽnz piò êlta, cun unaschêla estérna ch’l’andéva a e’prèm piãn. In sta pêrt ch’a cve uj’avéva un incvilẽn. Lo e’ staðéva int la pêrt d dri, piòbasa, ch’l’avéva da dnẽnz unaspézia d’una verãnda cvérta da irèm d’una vida.Cvesta, d’istê, la faðéva da pöst dlavór e da salöt. A cve u-s truvévatot un grop d’anziẽn, ch’i n’avévaêtar da fê che dal ciàcar. J’éra totpscadur, e i-s paséva e’ tẽmp ininfinidi discusiõn, sóra cla vôltach’j’avéva ciap tot chi buratel, otot chi zìval, o cla spìgula ch’l’ératãnt grãnda, ch’la-n staðéva intl’ingusẽn.L’éra sèmpar alégar, a-n l’ò maivest trest, o instizì, o d cativumór. E’ tartajéva, e instãnt ch’l’aspité-va che la parôla la saltes fura,

l’avéva un môd d rìdar sota ibëfi, ch’u-n s capéva mai s’e’ scar-zes o s’e’ dges da bõn. A-n l’òmai vest bravê’ cun anciõn, l’an-déva d’acôrd cun tot. Cun tot,fura che cun su moj.Së, parchè l’è véra ch’e’ staðévada par lo, mo l’avéva una moj edal fiôli þa grãndi, ch’al staðévaint una bêla ca a Fuðgnãn. Côsach’u-j fos o ch’u-j fos stê stra d lóu-n s’è mai savù, o almãnc me a-n l’ò mai savù. A sò che u j’andé-va spes, cun la su bicicleta, e acrid ch’u n’i faðes manchê gnit.A chi ch’u-j cmandéva quelc cvël,cun che su môd d fê’, l’arspun-déva che cun su moj l’andévad’acôrd, i-n bravéva mai, vest chestra d ló u j’éra e’ fiõn. Mi pê u j’andéva spes, e dal vôlta j’andéva nẽnca me. E a-j purti-mia al schêrp da amaðê. “Dmãnagli è prônti”, e’ dgéva. E cvãndch’andimia a tuli, al n’éra maiprõnti: “A … a … jò det dmãn!”.E u n’éra e’ chêð d mètas a discù-tar, par lo l’éra un “dmãn” ch’u-n dvintéva mai “incù”, e u-s laridéva sota i bëfi.A m’arcurd che una vôlta a sòandê dẽntar in ca. Int e’ curidur,apèna dẽntar da l’os, in faza uj’éra la schêla par andê’ d cióra ea mãn dreta u j’éra una cãmbracun e’ sufet bas, che dẽntar uj’éra e’ finimònd: la faðéva dabutéga, da salöt, da cuðẽna, daðgombraröba. Insöma a lè e’ lavu-réva, e’ cuðinéva, e’ magnéva, u-j

tnéva tot i su arnið. A-n sò s’e’durmes nẽnca a lè la nöt, mo dsicur e’ dopmaþdè, int una pul-trõna tota liða e sfònda, u-j faðévaun palug. In cal do masarej tarlê-di dri a la muraja u j’éra un pôd’ignacôsa. Int e’ mëþ dla cãmbrau j’éra una têvla vëcia pina dschêrp, tuður, puntirul, artëj dsôla, cupartõn da bicicleta e intun cantõn, ch’l’avéva libarêdaðènd so tot e’ rëst, u j’éra e’piat in do’ ch’l’avéva magnê.E a prupôsit, e’ su magnê l’érapôca röba: un pô d vardura de’su ôrt e un cvelc pisulẽn. E’ pesu-j piaðéva d ciapêl e nẽnca dmagnêl. L’avéva un blanzẽn int e’fiõn, impët a ca su. U n’ avévabðögn d muntêl e ðmuntêl, u-ltnéva fes a lè, sèmpar prõnt.Cvãnd ch’u s’abðinéva e’ maþdèo la zẽna, e’ travarséva la strê,l’andéva so par e’ sintirẽn infènains l’êrþan, che a lè pët l’è êltcòma una ca, e pu l’andéva þo alà abðẽn a l’acva, in do’ ch’u s’érafat una pustaziõn còmuda int lariva. U-s mitéva in ðdé, e’ tirévaso una ciöpa d vôlt e’ blanzẽn eu-s purtéva a ca una þèmna dpisulẽn.Dal vôlt, cvãnd ch’andimia a e’mêr a pischê, a s’a’ tulimia dri,parchè lo u n’avéva la màchina.Andimia int e’ canêl a Casal Bor-setti o a Lido degli Estensi. Afaðimia la strê ch’la pasa da Cun-vintël, Savêrna e Mindariôl.Alóra l’éra incóra giarêda e pina

Frédo

di Franco PonseggiDialetto di Masiera di BagnacavalloIllustrazione di Giuliano Giuliani

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la Ludla 9

d buð. Mi pê l’avéva una blãnza dcvàtar métar. A carghimia ins e’pôrtabagaj j’érc e i pél e impini-mia la màchina cun dal côrd,l’ingusẽn, di tirẽnt e di bidõn parmeti e’ pes, che al piò tãnti vôltj’armastéva vut. A s’avjimia lamatèna prëst, par pischê apènach’u-s faðéva lòm, o cõntr’a séra,par pischê cvãnd ch’u-s faðévabur. Mo e’ riðultêt u-n cambiéva:tira tira e sèmpar acva. Dal vôlt uj’éra da danês un pô parchè uj’éra tröpa curẽnt ch’la purtévaveja la blãnza, e alóra bðugnévalighêj di tirẽnt; dal vôlt la ré las’impinéva cun cla vardura d

mêr, e e’ bðugnéva sèmpar cojlacun l’ingusẽn; cvéði sèmpar uj’éra da fês magnê dal zinzêl,nẽnc cun Autan e þampirõn. Cvãnd ch’e’ capitéva la cumbina-ziõn d ciapêr un cvelc pes, l’érauna fësta! s’l’éra pu grös, alóra a-s mitimia tot in muvimẽnt: õn atni so la blãnza, õn cun l’ingusẽna zirchê d mètal dẽntar, õn prõntcun e’ bidõn. Mo nẽnc cvãndch’a-n ciapimia gnit a-s gudimialistes. Frédo l’avéva sèmpar i sufët da cuntê, al su batudi darìdar, al su buðej strambalêdi, e e’tẽmp e’ paséva in cumpagneja,cun un cvelc panẽn cun la mur-

tdëla e la böcia de’ vẽn.L’è môrt ch’l’è þa tãnt tẽmp, mome a n’ò e’ ricôrd d cvand ch’l’èmôrt, nè de’ funerêl. Fôrsi l’è stêin chj’ èn ch’a séva a Bulögna al’Universitê e a ca a-j séva pôc.Int e’ mi ricôrd Frédo l’è sparì ebasta.Tot’ al vôlt ch’a pës da lè a-m vulta guardê la su ca. L’è cambiêda, il’à ristruturêda, u-n gn’è piò laverãnda cvérta da la vida. Mo me a cuntènuv a vdél a lè, inðdé a l’ôra cun i su tribarul, cune’ su grumbiêl d sôla, ch’l’amêðauna schêrpa o una cãmbra d’ariada bicicleta.

Giugno 2017

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la Ludla10 Giugno 2017

Il romagnolo mo, che ha una plura-lità di significati e funzioni (inquanto può essere avverbio, con-giunzione ed esclamazione) ha unastoria un po’ complessa. All’origine abbiamo il latinoMODU(M) ‘misura’ che, nel corso deisecoli, ha subìto vari mutamenti disignificato:a) Dal senso di ‘misura’, MODU(M) èpassato facilmente a quello di ‘limi-te’ (oltre il quale non può andare la“giusta misura”) e poi, in senso figu-rato, a ‘maniera corretta di compor-tarsi’ e più in generale a ‘sistema dicomportamento’, cioè all’italianomodo e al romagnolo môd. Fê a sumôd ‘Fare a proprio modo’, Intigna-môd ‘In ogni modo’ ecc. Môd non c’entra nulla con mo senon per l’origine comune daMODU(M) latino. Mentre môd hasubìto passaggi fonetici “regolari”,mo è il risultato di una apòcope,cioè del troncamento della sillabafinale della parola, come è avvenutoin altre occasioni come ca da CASA opô da PAUCU(M).b) MODO, ablativo di MODU(M),aveva già in latino assunto il valoredi avverbio quantitativo (‘a misura’,‘con giusta misura’, ‘con correttolimite’) per poi passare al significatotemporale di ‘al momento giusto’,‘adesso’, ‘ora’: in romagnolo mo. Emo cs’a faðegna? ‘E adesso che cosafacciamo?’ Andiv mo a lët! ‘Ora anda-te a letto!’. Con ulteriore slittamen-to di significato si passa a ‘pure’. Dimo quel che u t pê! ‘Di’ pure (lett.adesso) quel che ti pare!’Questo mo ‘ora’, nonostante si trovipiù volte in Dante, è sempre statoconsiderato voce antica e regionalee perciò confinato nell’àmbito deidialettismi. D’altra parte si sa che,nonostante l’Alighieri sia considera-to il padre della lingua italiana, iveri modelli da seguire furonoPetrarca e Boccaccio. Quest’ultimoin realtà nel suo Decameron usa mo‘ora’, sebbene una volta sola e met-tendolo in bocca ad una scioccadonna veneziana.c) Il mo ‘ora’ in alcuni dialetti del-l’Italia settentrionale - come il bolo-gnese, il modenese e il romagnolo -ha sviluppato una sfumatura avver-

sativa e, trasformatosi da avverbioin congiunzione, ha preso il signifi-cato del ‘ma’ italiano. Pôch, moavluntira ‘Poco, ma volentieri’; E’gosta un pô, mo l’è pròpi bël! ‘Costa unpo’, ma è proprio bello!’; Me a l save-va, mo a n l’ò det a incion ‘Io lo sape-vo, ma non l’ho detto a nessuno’.d) Infine mo ha assunto anche valo-re esclamativo, come del resto l’ita-liano ‘ma’ (si possono scrivererispettivamente anche moh e ‘mah’).Esprime, ad esempio, dubbio: –Cs’ël stê st’armor? – Mo! ‘– Che cos’èstato questo rumore? – Mah!’. Spes-so è rafforzato con ‘che’: mochè‘macchè’. In questo caso ha il valoredi una decisa negazione: – A t sitarcurdê ad cumprêr e’ pân? – Mochè!‘Ti sei ricordato di compare il pane?– Macché!’.

***Abbiamo detto al punto c) che allacongiunzione avversativa italiana‘ma’ corrisponde il romagnolo mo.In realtà alcuni autori usano maanche in dialetto: si tratta peròquasi certamente di un prestitodalla lingua nazionale.Infatti, se consultiamo i testi antichi(La Commedia nuova di Piero France-sco da Faenza, La Batistonata delGabbusio, il Pvlon matt) troviamosolo mo, nelle sue varie accezioni, enon c’è traccia di ‘ma’.Esaminiamo ora i principali vocabo-lari romagnoli.Il Morri nel testo del suo vocabola-rio del 1840 riporta solo mó, mentrenell’Appendice e nel Manuale domesti-

co del 1863 registra il modo di direMa… ma un côran e lo traduce colribobolo toscano Ma… ma le cornadel Pazienza, che passavano le nuvole,mutuato dalla commedia La mogliein calzoni (1727) del senese JacopoNelli. Ma è anche nella sua versionein romagnolo del Vangelo di S. Mat-teo: si sa però che quella traduzioneè in un romagnolo aulico e lettera-rio pieno di italianismi del tuttoestranei al dialetto parlato.Il Mattioli (1879) registra sorpren-dentemente solo ma, definendolouna congiunzione “che serve neldiscorso a distinguere, eccettuare ocontrariare”.La prima edizione dell’Ercolani(1960) presenta solo il mo congiun-zione: Mo, cong. Ma. Meti di mo(Alla lett. «metterci dei ma»), Mani-festare incertezza, titubanza; nonvolersi impegnare. Tergiversare.Nelle edizioni successive (l’ultima èdel 2002) appare anche il mo avver-bio con numerosi esempi.Il Quondamatteo (1982), in areaorientale, registra solamente il mocon il significato di ‘ma’, presentan-do però solo esempi di frasi esorta-tive o esclamative come Mo sa vòtche sia! ‘Ma è cosa da nulla!’ o Movalà, mo lasa andè, mo sta bon! ‘Lasciaperdere!’Il Masotti (1996) è l’unico che pre-senti, oltre al mo congiuzione eavverbio, anche il mo esclamativocome lemma a parte, scritto moh:Móh inter. Boh. Esprime dubbio,incredulità, incertezza, disprezzo.

Il romagnolo “mo”

di Gilberto Casadio

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la Ludla 11Giugno 2017

fadiga: in italiano e nei dialetti si re-gistrano varie voci derivate dal latinofatigare, fatim+àgere. Fatis era un anti-co sostantivo di cui sopravvivevanosolo due forme avverbiali fatim e affa-tim, ‘a sazietà’ ed anche ‘oltremisura’1. Il dial. usa più spesso fadigache il verbo fadighì, come nelle ‘frasifatte’: mazès da la fadiga (non capitaa tutti!); no fèglia pió da la fadiga; fé’na fadiga dl’os-cia; èss sfat da la fadi-ga;2 insignìt a te l’è ’na fadiga persa;l’è fadiga stè a e’ mond. E per un’a-gonia lunga e straziante: a que l’è fadi-ga a nas, l’è fadiga a campè, l’è fadi-ga a murì.3

Si aggiungano pure i volgari sfadiga,sfadighé e sfadigòn: ui sa ad sfadiga acavès d’int e’ let; u i sa sfadiga frughìint e’ burslen. Infine riferendosi poiad attività proprie dei tempi andati,un vecchietto ripeteva rassegnato: aque oramai l’è piò la fadiga de’ góst.4

L’idea di ‘fatica’ era espressa in latinoanche con labore[m], da cui lavór‘lavoro’, per lungo tempo il solo duroservile. La voce deriva da un’unicaradice di due verbi lat. labare ‘trabal-lare’ e ‘vacillare’ fino a ‘cadere’, e labideponente, ‘scivolare’. Anche lavór

indicava perciò lo ‘sforzo’, la ‘faticache può anche stroncare’; non il‘prodotto’ per il quale si ricorreva alneutro opus. Il plur. opera finì poiusato anche come femm. sing. finen-do due millenni dopo per indicarepure l’uomo o la donna che prestassela propria opera a giornata e poi lastessa giornata di lavoro.5 Infine, perqualcuno lavurè si trasformò inðlavuracé: u ðlavuracia ióst6 che tentch’ l’è sa (‘che basta’, dal lat. satis:‘assai’) a no murì a penza stila (difame), oppure a ðlavuracé on u ’n s’a-maza, ma gnenca u s’ingrasa. Qual-cuno poi si riduce impegno e fatica esi giustifica in anticipo: par quel ch’acièp, a fèz enca tròp.Al prodotto, cioè all’opus, nel dial.più antico corrispondeva lavurér,‘lavoriero’ rinvenuto in una cartacivitellese del 1720 circa, ma cheavevo sentito ripetere da piccolo per i‘lavori malfatti’: mó ’s’èl ste lavurér!7

Infine, correva il detto, in un ital.casereccio per dar peso al concetto:“l’operaio che lavora, la miseria lodivora”, seguito da un amaro corol-lario: sol chi ’n ha gnint da fè, l’hae’ temp ad pinsé com u s’ fa a fè dibaióc.8

Note1. Plauto, Poen. 534: ubi bibas, edas de alienoquantum velis usque ad fatim (dove tu possabere, mangiare dell’altrui quanto vuoi,‘fino a stancarti’), magari ‘fino a scop-piare’: [a] pat ad s-ciupé. S-ciupè da lafadiga non fu solo un modo di dire. L’ag-giunta del verbo àgere a fatim – fatim+agere– dà origine a ‘faticare’; così come cas-tum+àgere = render casto (castighì);mitem+àgere = rendere mite; litem+àgere =‘litigare’; purum+àgere poi pur[i]gare ren-dere puro e quindi purghì ‘far penitenza’,da completarsi int e’ Purgatóri.2. Petronio, Satyr. XXII: … donec et cursufatigatus et sudore iam madens accedo anicu-lam quandam…(finché affaticato per lacorsa e madido di sudore, mi avvicino aduna vecchietta).3. Qui riemerge postumo l’originario lat.fatis; quindi, da fatìscere ‘andare in malo-ra’ proprio di un ‘edificio fatiscente’. 4. Non conosceva la frase di S. Agostino,Conf. VIII 7: Da mihi castitatem et conti-nentiam, sed noli modo (Dammi castità econtinenza, ma senza fretta). Così il vec-

chietto, che non aveva chiesto proroghe,stava al mondo per dimostrare che tuttoprima o poi finisce: ma lasìi tiré eméncagli utmi bòti. A sua volta, gost derivadal lat. gustus che aveva varie accezioni:‘gusto’, ‘sapore’, ‘assaggio’, ‘antipasto’.Modi di dire: no avè incion gost, riferitosia a persona che a cosa; dè gost ‘daresoddifazione’, ‘far contento’: u dà gost (ou tô e’ gost) a vdél a magné; u dà gost avdél a balè; u dà gost a sintil dì tot al sudismarìi; u tô e’ gost a campè; (cui s’af-fianca u tô l’umór a e’ pen) e, ancora: uðgosta a vdè tot stal rubazi de’ dé d’incó(il franc. ha d’aujourd’hui).5. Locuzioni: A veg a óvra; oppure, a quéui vó tre óvri (o òvar). A fè l’óvra erachiamato e’ brazent o casent. Óvra haóvar come plur.; óvri è la variantebidentina. Si chiamano óvri al plur.anche le leve e i rotismi d’un orologio, diuna serratura, ecc.6. A Civitella, fuori non so, in ‘frasi fatte’gióst convive col più antico ióst: ióstvo…, l’è ióst meþdé…,ecc.; s’aggiungaIóða, e’ me Signór! accanto a Geðó, e’ miSignór!7. Il du Cange (XVIII sec.), Gloss., ripor-ta: LABORERIUM, Italis ‘lavoriero’: opus agri-colturae, vel quodvis aliud. (…per gli Italiani‘lavoriero’: opera di agricoltura o d’altro).Sotto la voce ‘cerata’ figura laborerium deseta (Parma. XV sec. P. Sella, GLE).8. Ed andava ancora bene, se nonostantela fatica, non si era colpiti da ’na miseriach’la t’ sfoja agli òs[i], oppure ch’ la tchéva la péla: espressionì che rinvianoanche a dei poveri diavoli, condannati ailavori forzati, con la pelle a brandelli peri colpi di sferza: ardót a péla e òss: ossaatque pellis sum (Plauto, Capt. 135); senon a scheletri riarsi dal sole e sbattoc-chiati dal vento come il dantesco Manfre-di. A Galeata, chissà perché, la miseria lasfoja agli urècci.Schensafadiga ‘scansafatica’ e scansè‘scansare’ per i più deriverebbero dalverbo lat. campsare col prefisso ex-, chesarebbe passato dal gergo marinaresco di‘doppiare’ a ‘passare oltre’, ecc. Ma per-ché non invece da scandere (‘salire’,‘saltare’ di un gradino) come scansia,schéla, scalen, scansiòn? L’imperativo‘schénset’ detto con malagrazia intìma difar posto a chi può o crede di far meglio.Scansìa è un mobile aperto a più ripianidisposti come i gradini d’una scala, sucui riporre libri ed oggetti.

Rubrica curatada Addis Sante Meleti

da Civitella

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la Ludla12 Giugno 2017

Concorso di poesia dialettale e zirudela romagnoladedicato al poeta Giustiniano Villa - XXV edizione

San Clemente - Sant’Andrea in Casale (RN)

E’ pò daesdi Marcella Gasperoni - Bellaria

Prima classificata nella Sezione poesia

A t’ò zòerch par maròenat agl’j òndi gròsi de’ màert al pèdghi de’ sabiàon…A t’ò zòerch tla belèza d’un òebatla léona ròssat un ròefli ‘d vènt…E’ pó dàes t’cia t’è daifòinch’è sàelta a la furae’ pó dàes t’cia t’e’ vàol d’un marangàonad stréss a l’aquao e’ pó dàes t’ciae’ tamaróesgh fiuróidninz ad mè… sal brazi vérti.

Può darsi

Ti ho cercato sulla spiaggia / nelle onde grosse del mare / nelleorme della sabbia… / Ti ho cercato / nella bellezza di un’alba/ nella luna rossa / in una folata di vento… / Può darsi tu siaun delfino / che salta in mezzo al mare / può darsi tu sia nel

volo di un cormorano / a pelo d’acqua / o può darsi tu sia / latamerice in fiore / davanti a me… a braccia aperte.

Ómbar ad paröldi Marino Monti - Forlì

Secondo classificato nella Sezione poesia

Ch’l’armunì dl’ êria,che rispir d’un mumént,che singiòt ad parölch’u s’infila int e’ zét, l’è e’ piânzar di ricurd,d’un basterd pighé cun l’apissora un cvaderan.Tra al prê d’una câmbrau s’acend una lus,la sera,gnit…l’è sôlómbar ad paröl.

Ombre di paroleQuell’armonia nell’aria, / quel respiro di un momento, / quelsinghiozzo di parole / che penetra nel silenzio, / è il lacrimaredei ricordi / di un bambino / chino con la matita / su un qua-derno. / Tra le pietre di una stanza / si accende una luce, / lasera, / niente… / sono solo / ombre di parole.

Seiza rispirdi Lucia Baldini - Lugo ( Ravenna )

Terza classificata nella Sezione poesia

A prel seiza rispir ins la tu giostra malëda, a n m’arcurd miga coma ch’a iò fat a muntë so.A stëg ataca a ste fër veac impazì d sgiavler,ch’u m sbat e u m armuleina cun i su scusou.La mi boca carpëda la cmanda cumpasiou.I ziga cun e culor i mi murlou, i t goufia la rabia, t fè prilë piò fôrt l’inferan in do ta m’é incantounë.Int una mà un nod cun la rezna dla giostra,in t l’ëtra un maz d’umiliaziou. A voi smuntë,mo la tu viuleiza seiza rispir la scriv la mi vita.

Senza respiroGiro forsennatamente senza respiro sulla tua giostra malata, /non ricordo come ho fatto a salirci. / Sto attaccata a questo ferrovecchio impazzito di follia, / che mi sbatte e mi fa vorticare coni suoi scossoni. / La mia bocca screpolata chiede compassione. /Urlano col colore i miei lividi, ti gonfiano l’ira, / fai girare piùforte l’inferno in cui mi hai cacciata. / In una mano un nodocon la ruggine della giostra, / nell’altra un mazzo di umiliazio-ni. Voglio scendere, / ma la tua violenza senza respiro scrive lamia vita.

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13la Ludla Giugno 2017

E’ masaggdi Francesco “Checco” Guidi

Serravalle (San Marino)Zirudela Vincitrice

St’an, t’el dé de cumplean,a te pòst di sòlit pàn…‘na gravàta, ‘na camisa,una tuta, una divisa, u m’è ‘rvat un biglitinche am so dét: “Ciò l’è piò znin…eeh la crisi la c fa nirquel che è còunta l’è e’ pensjir!”

Po’ a lègg incuriusid:e cuntèn un bèl invidpri un masàgg “rigenerènt”ch’ut fa nuv a t’un istènt.Am so dét: “Ciò, perché nà…pri una volta an murirà”.E ho ciàp l’apuntamènttot curiòus e tot pimpènt.

E a intri una matoinat’una zòna dla Fiuroinaat sta “Casa di bellezza”pri pruvè un po’ l’ebbrezza.Us presenta una giuvnòta,bèla in cherna e un po’ “tuslota”sa dli mèni tènti gràndipri capicc “alla Morandi”.

La m cumpàgna tnà stanzèta,

at sòtfànd… ‘na musichèta, poca luce… a tl’èria incénsch’a l’arsint adés ch’ai pèns.E la m dis: “Non stia a disagio…lei si metta a proprio agio… Qui si deve sentir benee scordar tutte le pene!”

Po’ la m zcàr pién sata vousa,cum ch’la fos la mi murousae la m fa: “Se proprio vuole,c’è lo slip professionale…lei lo indossi, se lo metta,ma con calma… non c’è fretta;vado un attimo di làe fra poco torno qua!”

Ji ho vést cla bursitina,mo cridim… cum ch’la éra znina…vut che drointa cu straciulu si pòsa mèta e’ cul?”E difàti, gira e prélal’è ‘na plastica ch’la sguéla,s’a masèva da una pèrta,u scapèva tot da clèlta.

Tira so e tira giòa la fin am so dét: “Ciò,s l’è la móda j i a m’adàt,an voi méga dvantè màt?!”Am so stois soura u litin,li la tàca s’un vusin…“Si rilàssi, lasci fare,

non potrà che migliorare”.

Prima am mèt un po’ in panzèta,ho decis ch’ai darò rèta…po’ l’am dis: “Ora supino”e am gir pianin pianino…la m’angg tot sa tènta cura, ch’a so prount pri na fritura!La pastròcia un po’ da bàs…A ciud j ucc e un po’ am rilàs.

Po’ a sint che drì d’e’ culla to so furs un straciule la l pògia a lé pièn pièn pròpia soura … i ragujem;la l sistema sla su calmacumè quand us cruv ‘na salma.Mo sta zèt che chè fagotu n’è dvènt gnèca “bazòt”sinà pensa che figurasa cli robi toti ad fura!

Quand la ha fnì, tota cumpidala m’ha fàt “bàca da rida”“Si rivesta, abbiam finito…Spero che le sia servito!”Pocapì… “Si si, sto meglio,già mi sento un po’ più sveglio;tornerò sicuramenteper curare corpo … e mente”

Poina quéla la è sparidau m’è scàp sopti da rida…eva mès didrì davènti!èeh … sa stèva un po’ piò tènti:dri de cul guasi un cusoine davènti snà un curdloinche s’ai pèns a la bonòuraat sigur la ridrà ancoura!!!(furs pri e’ fàt ch’a so invurnid…o prì u “rob” acsé gricid?)

Fàto sta che … al giur sa Crést,da cli pèrt in m’ha piò vést!Mo st’eltr’an am so cunvint,a j èl degh m’i mi paraint“Se am vli propji fè un umàgglasè pèrda s’i masagg…an voi fè un’ ènta figura… rigalém una cintura”!

Il concorso “Giustiniano Villa” com-prendeva anche una sezione dedicataalle “zirudelle dantesche” nella quale èrisultato vincitore il testo di FrancoPonseggi. Per mancanza di spazio lopubblicheremo nel prossimo numerodella Ludla.

Page 14: Dante, I, 34 la Ludla · 2019. 10. 24. · popolo italiano- compilato da Achille Schinelli negli anni Venti ad uso delle scuole elementari, per i corsi integrativi e per gli istituti

la Ludla14 Giugno 2017

Pr i piòznen

Sotto la foto dei varitipi di frutta trovateil nome in italiano.Aggiungete quello indialetto, facendovieventualmente aiuta-re da un compagno oda un adulto.

A cura di Radames Garoia

Page 15: Dante, I, 34 la Ludla · 2019. 10. 24. · popolo italiano- compilato da Achille Schinelli negli anni Venti ad uso delle scuole elementari, per i corsi integrativi e per gli istituti

la Ludla 15Giugno 2017

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la Ludla16

C’è qualcosa dal soggettivo all’astratto che i linguaggi loca-li, definiti subalterni per eccellenza, non siano in grado diinterpretare e dunque di trasmettere al prossimo?O più specificamente, un poeta dei nostri giorni, che perragioni che esulano dai propositi odierni stabilisce, o forsesarebbe meglio dire avverte, la necessità di esternare le pro-prie sensazioni in dialetto, di cosa potrà scrivere senza sen-tirsi inefficace, manchevole o addirittura impedito? Come del resto ogni autore che abbia valutato di palesarsiin una qualsiasi altra delle lingue cosiddette egemoni,anch’egli dovrebbe reputarsi affatto libero poiché, in casocontrario, l’ostacolo rappresentato da quella costrizionerisulterebbe poco compatibile se non altro con l’appellati-vo di poeta, esortandolo dunque a differenti alternativefilologiche.Oggi, in ambito lirico, va imponendosi con coerente fer-mezza l’immagine di un dialetto inteso come strumento dipartecipazione non subalterno in alcun modo all’italiano,

quando, e fino a pochi anni or sono, i pareri in argomentosi presentavano di tutt’altra natura, nel senso che esso veni-va considerato dai più come una parlata modesta, d’usocorrente: idioma da poesia se non di serie “b”, condiziona-ta in ogni caso a tematiche in grado di spaziare soltanto, esenza eccessivo impegno, fra lo scherno e il ricordo, la testi-monianza e il bozzetto, la corporalità e una vagheggiataaccentuazione (recupero?) delle proprie origini. Di conseguenza, e con poche deroghe, i linguaggi materni,dei quali in modo avventato e sbrigativo si era scelto dienfatizzare la sciattezza espressiva, la grossolanità e la man-canza di stile, venivano percepiti come gerghi d’impegnopopolaresco o familiare, carenti e del tutto accessori, alivello impegnato, nei confronti di un italiano imprescin-dibile e dominante.Come già accennato la situazione non è più la medesima,e ne otteniamo ripetuta convalida dall’espressivo numerodi autori i quali, analogamente ad Adriano Cicognani,sono in usuale confidenza col Romagnolo frequentandoloin modo naturale e senza palesare alcuna perplessità alriguardo, anche in contesti un tempo ritenuti inidonei eforestieri alle parlate locali, come l’immagine di quelmondo che si perde in lontananza, fuori dal finestrino,stemperandosi nella malinconia del ricordo…

Paolo Borghi

La partenza

C’sa zìrcat pucun chi du òcc svujéa là,fura d’ e’ finistren…

Intent che e’ mòndut pasa ad dnènz e us pérd luntàn.

T’armést a lé,cun e’ nes spatagnè int e’ védare e’ braz che e’ liva so la màn par salutè un ricòrd.

La partenza Che cerchi, poi,\ con quei due occhi irresoluti \ laggiù \ fuori dal finestrino…\\ Intanto che il mondo \ ti passa innanzi \ e siperde lontano.\\ Resti lì,\ col naso spiaccicato al vetro \ e il braccio \ che tira sù la mano \ per salutare un ricordo.

«la Ludla», periodico dell’Associazione Istituto Friedrich Schürr, distribuito gratuitamente ai sociPubblicato dalla Società Editrice «Il Ponte Vecchio», Cesena • Stampa: «il Papiro», Cesena

Direttore responsabile: Pietro Barberini • Direttore editoriale: Gilberto CasadioRedazione: Paolo Borghi, Roberto Gentilini, Giuliano Giuliani, Addis Sante Meleti

Segretaria di redazione: Veronica Focaccia Errani

La responsabilità delle affermazioni contenute negli articoli firmati va ascritta ai singoli collaboratori

Indirizzi: Associazione Istituto Friedrich Schürr e Redazione de «la Ludla», Via Cella, 488 •48125 Santo Stefano (RA)Telefono e fax: 0544.562066 •E-mail: [email protected] • Sito internet: www.dialettoromagnolo.it

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Giugno 2017

Adriano Cicognani

La partenza