Ludla Gennaio 2011 colore:Layout Ludla€¦ · Luigi Dadina Appunti di grammatica storica del...

16
la Ludla 1 “Poca favilla gran fiamma seconda” Dante, Par. I, 34 la Ludla (la Favilla) Periodico dell’Associazione “Istituto Friedrich Schürr” per la valorizzazione del patrimonio dialettale romagnolo Autorizzazione del Tribunale di Ravenna n. 1168 del 18.9.2001 Questo numero è stato realizzato con l’apporto del Comune di Ravenna Società Editrice «Il Ponte Vecchio» Anno XV • Gennaio 2011 • n. 1 SOMMARIO Quale futuro per il teatro romagnolo in dialetto? Nevio Spadoni Luigi Antonio Mazzoni Paolo Parmiani Luigi Dadina Appunti di grammatica storica del dialetto romagnolo - XLIV Rubrica di Gilberto Casadio Parole in controluce Rubrica di Addis Sante Meleti Marino Monti - Stasón di Paolo Borghi E’ mêlcanton di Pietro Barberini Ona dmenga d’agost de’ 1863 di Pier Giorgio Bartoli Rinnovo quota sociale 2011 Lorenzo Scarponi - La Fèsta di Paolo Borghi p. 2 p. 4 p. 6 p. 8 p. 10 p. 11 p. 12 p. 14 p. 15 p. 15 p. 16 Domenica 14 novembre 2010 si è svolta presso il ristorante La Campa- za di Fosso Ghiaia la terza edizione della Fësta dla Ludla dedicata al teatro in dialetto, un argomento che accomuna molte realtà della Romagna. Il convegno si è aperto in mattinata con i saluti del Presidente Gian- franco Camerani cui è seguita la tavola rotonda su “Quale futuro per il teatro romagnolo in dialetto?” con i relatori Luigi Dadina, Luigi Antonio Mazzoni, Paolo Parmiani e Nevio Spadoni. Alle relazioni viene dato ampio spazio nelle pagine seguenti per informare quanti non hanno potuto partecipare a questa occasione straordinaria di dibattito su un tema, il teatro in dialetto, che finora non ha avuto forse abbastanza attenzione e possibilità di confronto fra gli addetti ai lavori. È seguito poi il pranzo e nel pomeriggio “gli attori alla ribalta” hanno piacevolmente intrattenuto il pubblico presente con esempi della propria abilità teatrale. Una festa quindi molto positiva resa possibile grazie anche al sostegno della Fondazione Cassa di Risparmio di Ravenna, da sempre attenta al nostro impegno nel campo della cultura e della tradizione. La Fësta dla Ludla Gennaio 2011 Fosso Ghiaia, 14 novembre 2010, Fësta dla Ludla. Da sinistra: Gianfranco Camera- ni, presidente della Schürr, Carla Fabbri, segretaria del convegno e i relatori Nevio Spadoni, Luigi Dadina, Paolo Parmiani, Luigi Antonio Mazzoni.

Transcript of Ludla Gennaio 2011 colore:Layout Ludla€¦ · Luigi Dadina Appunti di grammatica storica del...

Page 1: Ludla Gennaio 2011 colore:Layout Ludla€¦ · Luigi Dadina Appunti di grammatica storica del dialetto romagnolo - XLIV Rubrica di Gilberto Casadio Parole in controluce Rubrica di

la Ludla 1

“Poca favilla gran fiamma seconda”Dante, Par. I, 34

la Ludla(la Favilla)

Periodico dell’Associazione “Istituto Friedrich Schürr”per la valorizzazione del patrimonio dialettale romagnolo

Autorizzazione del Tribunale di Ravenna n. 1168 del 18.9.2001

Questo numero è stato realizzato con l’apporto del Comune di Ravenna

Società Editrice «Il Ponte Vecchio» Anno XV • Gennaio 2011 • n. 1

SOMMARIO

Quale futuro per il teatro romagnolo in dialetto? Nevio SpadoniLuigi Antonio MazzoniPaolo ParmianiLuigi Dadina

Appunti di grammatica storicadel dialetto romagnolo - XLIVRubrica di Gilberto Casadio

Parole in controluceRubrica di Addis Sante Meleti

Marino Monti - Stasóndi Paolo Borghi

E’ mêlcantondi Pietro Barberini

Ona dmenga d’agost de’ 1863di Pier Giorgio Bartoli

Rinnovo quota sociale 2011

Lorenzo Scarponi - La Fèstadi Paolo Borghi

p. 2p. 4p. 6p. 8

p. 10

p. 11

p. 12

p. 14

p. 15

p. 15

p. 16

Domenica 14 novembre 2010 si è svolta presso il ristorante La Campa-za di Fosso Ghiaia la terza edizione della Fësta dla Ludla dedicata alteatro in dialetto, un argomento che accomuna molte realtà dellaRomagna. Il convegno si è aperto in mattinata con i saluti del Presidente Gian-franco Camerani cui è seguita la tavola rotonda su “Quale futuro peril teatro romagnolo in dialetto?” con i relatori Luigi Dadina, LuigiAntonio Mazzoni, Paolo Parmiani e Nevio Spadoni. Alle relazioniviene dato ampio spazio nelle pagine seguenti per informare quantinon hanno potuto partecipare a questa occasione straordinaria didibattito su un tema, il teatro in dialetto, che finora non ha avutoforse abbastanza attenzione e possibilità di confronto fra gli addetti ailavori. È seguito poi il pranzo e nel pomeriggio “gli attori alla ribalta”hanno piacevolmente intrattenuto il pubblico presente con esempidella propria abilità teatrale.Una festa quindi molto positiva resa possibile grazie anche al sostegnodella Fondazione Cassa di Risparmio di Ravenna, da sempre attenta alnostro impegno nel campo della cultura e della tradizione.

La Fësta dla Ludla

Gennaio 2011

Fosso Ghiaia, 14 novembre 2010, Fësta dla Ludla. Da sinistra: Gianfranco Camera-ni, presidente della Schürr, Carla Fabbri, segretaria del convegno e i relatori NevioSpadoni, Luigi Dadina, Paolo Parmiani, Luigi Antonio Mazzoni.

Page 2: Ludla Gennaio 2011 colore:Layout Ludla€¦ · Luigi Dadina Appunti di grammatica storica del dialetto romagnolo - XLIV Rubrica di Gilberto Casadio Parole in controluce Rubrica di

la Ludla2

Mi sia consentito partire dalla miatestimonianza che è quella di una per-sona cresciuta nel dialetto, essendonato in un paese della campagnaromagnola, dialetto che ho parlatocome prima lingua fin dagli anni cin-quanta, e che tuttora vivifica il dialogoper una più schietta comunicazione.Il dialetto mi ha catturato fin da pic-colo e già da adolescente ho misuratola mia esperienza di scrittura conquella di personaggi già avviati nellostudio e nel fare poetico. Cito i nomidi Strocchi, Ercolani, Carioli. Poi ègiunto in età matura il giorno in cuiho lasciato la campagna, il cui dialet-to mi era stato trasmesso dai nonni edai genitori contadini, e quel paesag-gio che già aveva suggestionato primadi me poeti e scrittori di grande statu-ra: Pascoli, Moretti, Serra, Serantini,in lingua, ma anche i vari Stecchetti,Spallicci, Neri, Lino ed Enzo Guerra,fino ai poeti del secondo Novecentoda Tonino Guerra, Nino Pedretti,Raffaello Baldini fino ad oggi.Ho lasciato la campagna, per viverein città dove l’insegnamento mi chia-mava, a Ravenna, bella nella sua artee nella sua storia. E proprio nellacittà, in questa che era ‘città delsilenzio’ come Hermann Hesse l’ave-va definita (“Se tu l’attraversi e osser-vi, le vie tristi e umide sono mute daun millennio e ovunque crescemuschio ed erba”), mi si è fattoimpellente il bisogno di comunicazio-

ne, un disperato bisogno.Di qui il coraggio di rendere pubbli-che le mie esperienze poetiche e dicamminare su quel solco. Già leprime raccolte mi hanno consentitodi guardare con chiarezza la miaidentità e quella degli altri. Quandoil bisogno nasce dalla carne a voltelacerata e sanguinante, quando lafantasia poi trasfigura le cose nonappena esse scompaiono, è necessitàscrivere per difendere - come dicevauna filosofa, Maria Zambrano - lasolitudine in cui ci si trova salvandole parole dalla loro esistenza momen-tanea e transitoria e condurle versociò che è durevole. Testi come Par sucont, Al voi, Par tot i virs, A caval dagliór, E’ côr int j oc, hanno segnatol’esperienza della prima fase del miolavoro poetico, fino a pochi anni fa..In seguito, è uscita la raccolta ditutte le mie opere in poesia messeinsieme con Cal parol fati in ca con

un saggio introduttivodi Ezio Raimondi,comprendente unasezione inedita I sgra-fegn. Ultimamente èuscita l’ultima raccol-ta, con un ritorno alframmento, alla misu-ra epigrammatica conUn zil fent. Ma già lamisura breve, epigram-matica dei primi testi,aveva ceduto il posto apoemetti sospesi travisionarietà e descritti-vità, con un linguaggiolirico-narrativo, comequalcuno, mi pareopportunamente, harilevato.

Mi riferisco soprattutto a quelli con-tenuti in A caval dagli ór (A cavallodelle ore), Ravenna, Longo editore,1991 che considero propedeutici ailavori teatrali.Negli anni 90 è uscita poi l’AntologiaLe radici e il sogno, Poeti dialettali delsecondo novecento in Romagna (Faenza,Moby Dick, 1996), curata da LucianoBenini Sforza e dal sottoscritto. Quiperò il dialetto veniva affrontato suun piano storico e critico.

***Poiché non si parte dal teatro, ma alteatro ci si arriva, così attraversol’esperienza del fare poesia, i cvel i vad’su pe’ (le cose vengono di loro piede,naturalmente), è nata la collaborazio-ne con Ravenna Teatro e in particolarecon l’attrice Ermanna Montanari ecol regista Marco Martinelli. Erman-na viene dai miei stessi luoghi; lei èinfatti di Campiano, a pochi chilome-tri dal mio paese di origine, e il dialet-to è lo stesso, come uguale è la visce-ralità della gente, con quel pizzico difollia che è stata tante volte tratteggia-ta in riferimento ai romagnoli, ancheda Guerra, Baldini, Pedretti, Galli.Nasceva così Lus (Luce), monologoscritto su una figura di donna real-mente vissuta in Romagna a cavallodei due secoli (fine ottocento, inizidel novecento), storia di Bêlda, guari-trice, sciamano che si carica addossoi mali degli altri, figura presente nelleMemorie e tradizioni di Romagna diEraldo Baldini. A mia memoria nelteatro romagnolo il monologo è inu-suale se non nuovo, a giudicareanche dalle commedie tradizionaliche ancora simpaticamente vengonorappresentate.

Gennaio 2011

Quale futuro per il teatro romagnolo in dialetto?

Intervento di

Nevio Spadoni

Page 3: Ludla Gennaio 2011 colore:Layout Ludla€¦ · Luigi Dadina Appunti di grammatica storica del dialetto romagnolo - XLIV Rubrica di Gilberto Casadio Parole in controluce Rubrica di

la Ludla 3

La protagonista di Lus ovvero LaBêlda dalla parola tagliente, quasi pie-tra, - e mentre scrivevo già me la raffi-guravo scagliata in scena dalla vocepolitonale di Ermanna - è stata il frut-to di un intreccio di volontà e diesperienze dove io ho dato la parolaall’attrice che me l’ha ispirata. Testoquesto, scritto appositamente per lei,cucito su misura. In seguito è uscitoPerhindérion, trittico peregrinante sutesto di Martinelli e del sottoscritto,testo che ha segnato con La Pérsa,contadina analfabeta che attorno al1100 profetizza l’arrivo dell’immaginedella Madonna Greca sulle rive del-l’Adriatico dopo la conciliazione diRavenna con Roma, il mio secondolavoro. Diverso invece per tantiaspetti, è L’isola di Alcina che fa partedel progetto “Cantiere Orlando.”Sullo sfondo dell’Orlando Furioso,viene narrata una storia tutta roma-gnola di due sorelle, Marisa e Giorgi-na, innamorate e poi lasciate dallostesso cavaliere, un forestiero, capita-to per caso in quel paese. Le sorelle,custodi di un canile, invischiate in unincantamento di trappole amorose,istupidiscono, ognuna in una propriamancata corrispondenza tra immagi-ne e sostanza, come nella magia. “EAlcina stia nella sua pena” dice Ario-sto nel X canto al verso 58, e da quiinizia il suo delirio. Si deve a Erman-na la plasticità della figura sulla scenae quindi il successo della pièce.Alcina è un essere pietrificato nellasua pena, e anche questo, come Lus,è un lamento e una maledizione. Lalingua stessa muta sembiante, daquella ariostesca passa a un dialettoduro, selvatico. L’attrice infatti lainterpreta con voce incaponita, aci-dula, sprezzante, ma anche con tonilirici. L’isola di Alcina è un lavoro nato ‘inprogress’, che diveniva sulla scena.La scenografia si avvaleva di forti sug-gestioni musicali e iconografiche, conriferimento non solo all’opera dell’ar-tista americana Kim Dingle (bamboladal volto malefico che esce da unmuro come se venisse da un tempoaltro), ma anche di scene di DossoDossi ispirate alla fantasia ariostesca.Sono presenti anche riferimenti alCasorati, più freddo, geometrico,

quasi metafisico, e accenti espressio-nistici che ricordano Otto Dix e lanuova oggettività tedesca. Un dram-ma quindi, quasi un montaggio, frut-to di un lavoro sinergetico, osmotico,che grazie al pluristilismo del dialettoha permesso una gamma di tonalitàdiverse: invettiva, ironia, visionarietà,liricità.Nel 2003 poi, per “Ravenna Festival”nasceva il melologo dedicato a GallaPlacidia, imperatrice del V secolo,archetipo e metafora del femminilenella sua complessità, espressa ancheattraverso il plurilinguismo, pur conla prevalenza del dialetto. Nel perso-naggio infatti convivono mondogreco, romano, cristiano e barbaro.Elemento nuovo questo, rispetto altradizionale teatro romagnolo. Iltesto, interpretato da Elena Bucci,con la sua stessa regia e la musica diLuigi Ceccarelli, veniva rappresenta-to nella Basilica di San Vitale.Per “Ravenna Festival”, con la regiadi Elena Bucci sono stati rappresenta-ti altri lavori, scritti parte in italiano eparte in dialetto: Francesca Da Rimininella interpretazione di Chiara Muti,Lord Byron e Teresa interpretato daChiara Muti ed Elena Bucci conmusiche di Luigi Ceccarelli. Sempreper “Ravenna Festival” una reinter-pretazione de La Pérsa è stata esegui-ta da Daniela Piccari nel 2008 conmusiche originali di Luciano Titi.

***A conclusione di queste note mi sem-bra di poter affermare, anche sullascorta di quello che diceva RaffaelloBaldini, che entrambi abbiamo datoal teatro romagnolo una svolta sia sulpiano dei contenuti sia su quellodella forma rispetto al teatro purrispettabile e spesso di grande livellodi coloro che ci hanno preceduto.Come non ricordare infatti operecome La broja di Bruno Gondoni oLa burdela incajeda di Bruno Mare-scalchi o Al Tatar di Eugenio Guber-ti, o E’ post dri l’irola di Icilio Missiro-li, per fare solo qualche nome!Elementi di questa nostra novitàrispetto alle tradizionali filodramma-tiche sono la scelta del monologo,l’uso del plurilinguismo, il ricorso aduna metrica rigorosa. con una scelta

lessicale attenta e propria e con unasintassi dagli alti valori ritmici e musi-cali, con il coraggio di spingerci oltrela dimensione dei luoghi comuni evi-tando così l’errore di chi li spacciaper poesia in dialetto.Il teatro viene ad essere quindi carne,corpo vivo sul quale gli autori scrivo-no le loro visioni. Bando quindi adimbarazzi o ad equivoci, ma operescritte per personaggi ben definiti,abiti cuciti e scolpiti su corpi partico-lari. Le parole allora possono diventa-re pietre scagliate, scalpelli, fantasmi,soffi. Il testo poi nel teatro contem-poraneo diventa motivo d’incontro eanche di scontro nel senso che purnel rispetto dello scritto, il teatro,(regista e attori) ha una sua autono-mia. di rappresentazione. Ecco lasfida che ci porta al teatro vero di unGoldoni o di un Pirandello e, ci sipassi il paragone, ad un Terenziodella Roma repubblicana: “Nulla diciò che è umano mi è alieno”. E vengo alla domanda del Convegno:Quale futuro per il teatro romagnoloin dialetto?Spero che il dialetto continui ad esse-re curato. Ciò premesso, credo dipoter affermare che avrà un futuroperché tanti giovani l’hanno riscoper-to. Mi riferisco anche all’accoglienzariscontrata qui e altrove nelle rappre-sentazioni di lavori quali Lus e Alci-na. Recentemente infatti Alcina èstata rappresentata a Limoges e Ber-lino, precedentemente anche a NewYork, per citare solo alcuni luoghi.Questo per quanto mi riguarda.Aggiungo poi che il grande Raffael-lo Baldini è stato portato in scenada Ivano Marescotti e con recite disuccesso da Giuseppe Bellosi.Conosco e apprezzo i lavori dei Par-miani, di Mariangela Gualtieri delTeatro della Valdoca di Cesena, edaltre fertili esperienze anche caba-rettistiche come quelle di Nadiani.Interessanti sono i recenti lavori diFrancesco Gabellini, come Detectorinterpretato da Marescotti, e altrimessi in scena dal Teatro del Maredi Riccione. Tutto fa sperare, e ancora una voltami auguro che questo nostro dialettocome lingua di poesia e di teatro vadaavanti e lontano.

Gennaio 2011

Page 4: Ludla Gennaio 2011 colore:Layout Ludla€¦ · Luigi Dadina Appunti di grammatica storica del dialetto romagnolo - XLIV Rubrica di Gilberto Casadio Parole in controluce Rubrica di

la Ludla4

Cvel ch’a degh adës e vêl par chi ch’fateatar in dialet sol par pasiõ e brisulnẽca par amstìr. Chi ch’l’adrova e’dialet pr’ amstir l’à tota un’êtra stô-ria. E vô pu dì che in Rumagna i s’cõta int la põta dal dida d’una mãn iprufesiunèsta ch’i adrova e’ dialet inti su spetêcul, e sora la põta dal didaad cl’êtra, cvi che invezi i sfruta sol lacadẽza e magari qualche frase fatta.Dõca: “Quale futuro per il teatroromagnolo in dialetto?” Det acsè e pêch’ u i seia un teatar rumagnõl in dia-let e magari nẽca un teatar rumagnôlin itagliã. A n’ cred che chi ch’l’à screte’ tetul e pinsès a cvest, a cred inveziche vlès che incù a dscuresum de “tea-tar in dialet rumagnôl”. Fêr e’ cãmbi‘d post tra al do parôl u n’è un cam-biamẽt da pôch e l’è indispensabilepar capì ad chè ch’a sẽ drì a dscorar. Sobit dop a so andê a gvardê int e’“Dizionario del teatro” ad Zanichelli.La vos “teatro in dialetto romagnolo”la n’ gnè. A m’l’aspiteva. Cvel ch’ a n’m’aspiteva brisul l’è che u n’ gnègnãca la vos “teatro in dialetto” o“teatro dialettale”. U s’ dscor ad tea-tro popolare, teatro meccanico, tea-tro da camera, teatro di strada, didat-tico, politico e via ‘d ste pas par cva-rãnta e piò mud ad fê teatar mo inciõ‘d cvist l’è: “teatro in dialetto”.A so avanzê sbadzê. Csa vôl pu dì ch’u n’gnè? A vôl di che e’ teatar in dia-let e cõta acsè pôch ch’ u n’è gnãcaint un vucabulêri che dscor propi solde teatar? E’ teatar in dialet - al so bẽ -

l’è impurtãt. In tot Itaglia u i sràdomèla cumpagnei; e môv unpoblich ad zintnera ad mèla parsón;ch’ al pẽga! E pu u m’ vẽ fat ad pinsê che forsi e’teatar in dialet u n’ seia brisul unmõd ad fê teatar; det in itagliã: nonsia un genere di teatro. Difati u n’gnè gnãca e’ teatar in franzes, e’ tea-tar in ingles, e’ teatar in spagnôl… S’adscurẽ de teatar franzes de ‘600, a inscurẽ no parchè i ciacareva in franzésma per le sue caratteristiche dramma-turgiche, i suoi autori, le sue implica-zioni sociali. Acsè l’è pr’e’ teataringlés de ‘500 o pr’ e’ spagnôl del“Siglo de oro”.Alora l’è ciêr. La lingua utilizzata inuno spettacolo teatrale di per sé nonconnota un genere di teatro. Tãnt evera ch’a rezitẽ cume gnit Molière tra-dot in itagliã, dal vôlt nẽca in ruma-gnôl, e u n’s’ vẽ zert’ int la mẽt ad fêrun Shakespeare in ingles de zecvzènt.

Ecco spieghê e’ parchè “tea-tar in dialet” u n’ putevaresar int e’ vucabulêri. Asera me che, acsè sora pin-sir, a m’ sera cardù che:“teatar in dialet” e fos unmôd ad fê teatar - cum ch’ai ò za det -, a m’sera cardùche recitare in dialetto fon-dasse un genere di teatro ase stante. A sera caschê pr’un mumẽt nel grande equi-voco che impedisce a tantoteatro in dialetto di affran-carsi dalla condizione - perusare un benevolo eufemi-smo - di prodotto teatraleminore. E alora? Alora, par rasunêsul suo futuro e bsogna ch’a

mitegna sobit a post i du incvilẽ dlaciopa “teatar - dialet” e ch’a i dasegna- a õn e a cl’êtar - l’impurtãza ch’i’à.Acsè a òc, u m’ pê che “teatar” evègna prèma dla lengva, che seia e’piò impurtãt dla ciopa. Difati u s’ fateatar nẽca sẽza parôl. Le lingue pas-sano e il teatro resta: pinsẽ a e’ teatarin grech antigh o a cvel in latẽ: lingueora morte mo alora aciupêdi cun e’teatar. E pu dop: “dialet”; usato dalteatro per descrivere certe condizioni,per localizzare determinati avveni-menti, per famigliarizzare situazioniche aspirano all’universale.Quanto detto non nega l’importanzadella lingua nel far teatro; mo a n’putë dêr a e’ dialet un’ impurtãza cheint e’ teatar u n’à e u n’putrà mai avé.Cvest par dì che non possiamo ador-nare “l’inconsistenza drammaturgi-ca” ad dialet e credar che seia a bastadscoral par fê de teatar. Voglio direche non possiamo fare teatro improv-visando una drammaturgia su unoschema approssimativo di teatroall’italiana dell’ottocento e rivestirladi dialetto: scambiando l’abito per ilmonaco, la parte per il tutto, lo stru-mento per il fine. Fê teatar in dialet la n’è una mindgè-na salvavita, fê teatar in dialet la n’èuna lez de stêt che s’ta n’ la rispët itmet in galera, u n’è gnãca un dogmadi Santa Romana Chiesa la cui inos-servanza ci attiri scomuniche e fulmi-ni celesti. Insomma, u n’ gnè inciõch’ u s’ obliga ad fê de teatar in dia-let. A sẽ no ch’al dlizẽ. Liberamente.Ma facendolo assumiamo dei doveri:vers ala zẽt ch’la pêga, int e’cunfrõtad cagl’ êtri cumpagnei; mo piò adtot i dvir a i mitèn insẽ vers e’ dialet.Tot a sẽ prõt a zurer e’ nostar grãnd

Quale futuro per il teatro romagnolo in dialetto?

Intervento di

Luigi Antonio Mazzoni

Gennaio 2011

Page 5: Ludla Gennaio 2011 colore:Layout Ludla€¦ · Luigi Dadina Appunti di grammatica storica del dialetto romagnolo - XLIV Rubrica di Gilberto Casadio Parole in controluce Rubrica di

la Ludla 5

amor par la lengva dla nostra mãma,dla nostra Rumãgna. A sẽ prõt a zurêch’a fasẽ teatar in dialet propi parmustrêr a tot ste grãnd amor. Paro - apêrt e’ fat ch’a n’ò mai incuntrê inciõch’ u m’epa det che rezita in itagliãpar amor dla lengva e dl’Itaglia - an’ariv a capì: parchè chi ch’fa teatarin itagliã, e va a scôla, e e’ stugia(corsi, stage, laboratori, seminari…) echi ch’al fa in dialet a scôla u n’ gniva par gnit?Una arsposta ala cnos za. U s’ dis:“Non faccio teatro impegnato, amo ilmio dialetto, e faccio teatro per diver-tirmi e per far ridere il pubblico.”Naturalmente su queste affermazionisono possibili tutta una serie di con-siderazioni: far ridere non significadisimpegno, far divertire non signifi-ca necessariamente far ridere, eccete-ra. Mo se e’ dialet e fos una dona eme a i dges “Ti amo, mo a n’ vojimpignêm, a stëgh con te par divar-tim e par fê ridar la zẽt!” li cum alaturèbla? A io ò propi fed ch’la m’mandareb a fêm fê… un bungabunga! Ma e’ dialet u n’ pò arspondare deve sorbirsi queste vacue dichiara-zioni d’amore.Me a cred che fêr un pas cun fun-damẽt, per un futuro più importantede teatar in rumagnôl e’ seia capì - efê capì a chi ch’al fa - che prema ‘d totbsogna imparê ad fê teatar. Oggigior-no non ci si può improvvisare attori,registi, tecnici. Chi ch’fa teatar in dia-let - propi parchè e’ fa teatar - l’à dasavé cun pò fê ‘d mãch ad cunfruntêscun tot cl’êtar teatar e non deve cede-re alla tentazione di acquattarsi alriparo della lingua per evitare questoconfronto.Forsi i zuvan i sreb piò dispunebil astugiê, magari e’ fat l’è ch’ i n’sa bri-sul e’ dialet! E dialet, magari, i ne sa, parò me a socunvẽt - e a i ò avù piò d’ona cunfer-ma - che s’ u s’fa teatar da bõ u s’atro-va nẽca di zuvan che magari i l’impê-ra, e’ dialet, par fê teatar. Magari in’l’impêra brisul tãnt bẽ, mo semparmej che gnit! E l’è l’onich môd parinsignê e’ rumagnôl a teatar!A savẽ tot cvent che e’ teatar in dialete durarà intãt ch’ u i sarà un cvicadõche e’ dialet u l’ scurarà e un cvica-dõn êtar che ãca sol u l’ capirà. Mo a

n’ savẽ cvãnt ch’e durarà. Ad sicur asavẽ che e’ dialet e cambiarà. Se vnesa e’ mond mi nunẽ a cred ch’e srebscadalizê da e’ mi dialet. E s’a pute-sum arturner a e’ mond - a dscor parcvi dla mi etê in so - tra zincvant’en,forsi a sresum scandalizé nẽca nõ parcome u l’ dscor i nostr’anvud (sempars’a gli avẽn insignê!)Viviamo immersi nel mondo dellacomunicazione e tutti ormai sappia-mo, nẽca cvi ch’i n’ à fat di studi sorala lengva, che la trasmissione di unmessaggio tra un emittente e un rice-vente avviene attraverso un canale esi realizza all’ interno di un codice. Ateatro - per semplicità - immaginiamoche “emittente” siano gli attori e“ricevente” il pubblico (in realtà lacomunicazione a teatro è circolare,anche dalla platea giungono messag-gi agli attori) e che vi sia un fascio dicodici (verbale, gestuale, luminoso,sonoro, visivo, emotivo, etc.) ch’ iviaza avãti e indrì da e’ pêlch ala pla-tea, servendo la comunicazioneinstaurata tra attori e spettatori. Lalingua è solo uno di questi codici.Nel nostro genere di teatro: il piùimportante. La visione teatrale passaattraverso la lingua. Ma perché fun-zioni, la lingua - a teatro - deve passa-re inosservata. Deve essere come ilvetro di una finestra, sul quale ilnostro sguardo non si sofferma, mapassa per vedere oltre. Lo spettatoreche non capisce il senso di una frase,che è costretto a ragionare sul suosignificato, si trova nella stessa situa-zione di chi vorrebbe guardare attra-verso una finestra ma un vetro opacocostringe la sua vista e gli impedisceuna chiara visione. E’ teatar, se vô campê trãm ala zẽt, l’ècustrèt a dscorar cun la lengva ad toti dè, che - materia viva - la cãmbia dèpar dè insẽn ala sucietê ch’la ladscor.Purtroppo la parlata romagnola si èimpoverita enormemente. Quellalingua essenziale, con poca o nullaletteratura, poco incline a parlaredell’astratto - in rumagnôl, pr’esẽpi,al savẽ tot, u n’ gnè brisul al parôlpar di: “Ti amo” a e’ masum u s’pòdì: “A t’voj bẽ” o sinò “Ta m’ pis unamasa”; il dialetto non parla di se stes-so in dialetto. Nei convegni dialetta-

li, negli incontri che si fanno per lasalvaguardia del dialetto se ne parlasempre con un’altra lingua: l’ itagliã- quella lingua, a dgeva, non ha segui-to passo passo l’evoluzione dellasocietà e in teatar, incudè, s’ u s’ vôafruntê zerti situaziõ e bsogna parforza adruvê sempar piò spes nẽcal’itagliã. Se analizziamo qualchecopione che tratti temi attuali lo tro-viamo zeppo di neologismi, di tradu-zioni a braccio dall’italiano al dialet-to. Troviamo sempre più frequente-mente dialoghi misti con passaggirapidi dall’uno all’altro idioma eviceversa. I giovani che fanno teatroin dialetto sempre più frequente-mente semplificano moltissimo lapronuncia. Ad esempio le doppievocali ê, ë, ô, ö, diventano semplici ele nasali tendono a sparire.Mo ël giost ciamêr incora teatar indialet un teatar ch’l’armès-cia sèmparpiò tãnt e’ dialet cun l’itagliã? A neso. Ma in tot i chés a i ò fed ch’ u n’gni seia alternativa. A i ò za det chee’ teatar e viv dè par dè u n’ pò dsco-rar che cun la lengva ch’la viv dè pardè. La lingua di noi romagnoli è solol’italiano? No! Ël sol e’ dialet? Gnãca.Agli è tot do insẽ. Da e’ dialet piòstrèt all’italiano più sofisticato.Attraverso una gamma pressochéinfinita di possibili lingue interme-die, che includono neologismi,espressioni di altre lingue, sgond alsituaziõ, i persunëg e le epoche ch’ us’ vô metr’in sèna. Sta ad autori, regi-sti, attori, calibrare la lingua secondodella loro sensibilità, cercare e trova-re un proprio linguaggio all’internodi tutte queste possibilità.Ecco: cvest l’è tot cvel ch’a cred ch’aputẽ fê cun e’ teatar par dêr una mãa e’ nostar dialet. E’ teatar u n’pòtnil da cõt, non può conservare unaparlata, e u n’p’ò insignêla ala zẽt. E’teatar u n’pò cambiê e’ distẽ de dia-let; distẽ ch’ u s’è zughê e u s’ zugada tot êtar cãt. Finché il dialetto saràuna lingua sufficientemente viva, ilteatro potrà valorizzarlo utilizzando-lo. Nuietar, õman e don ad teatar, as’avẽ da preocupê prèma ‘d tot ad fẽde teatar ad cvalitê e se fasènd deteatar ad cvalitê a druvarẽ nẽca e’nostar dialet a i farê ’d sicur un bõsarvèzi!

Gennaio 2011

Page 6: Ludla Gennaio 2011 colore:Layout Ludla€¦ · Luigi Dadina Appunti di grammatica storica del dialetto romagnolo - XLIV Rubrica di Gilberto Casadio Parole in controluce Rubrica di

la Ludla6

Di fronte al quesito: “Quale futuro peril teatro romagnolo in dialetto?” reagiscoquasi istintivamente ponendomipiuttosto un’altra domanda: “E per-ché siamo qui, noi, oggi, a doman-darcelo?”È altresì evidente che un interrogati-vo di questo genere sottende il giusti-ficato timore (o per alcuni la male-detta speranza) che questo futuronon esista proprio. O che sia, in ognicaso, fortemente minacciato.Molti addirittura, confessiamolo,non vedono l’ora di assistere, conun malcelato senso di liberazione,alla morte del teatro in dialettoromagnolo.Nei confronti di una tanto incom-bente tragedia tuttavia io sorrido. Ela risposta più immediata che trovoin me è tutto sommato consolante,incoraggiante: il nostro teatro nonmorirà.Almeno fino a quando ci sarà chi,come noi, come voi, avvertirà l’insopprimibile desiderio di conti-nuare a raccontare. E a raccontarsi.Raccontare storie da vedere, da ascol-tare, da toccare, da annusare, dagustare.Storie per la scena e non per la carta.

Storie più agite che pensate, storiedi fatica e di stupore, di risate e dipianto.A me sono sempre piaciute le storie.Le storie non mi hanno mai spaven-tato, nemmeno quando parlavano dilupi mannari o di orchi cattivi. Pro-prio perché erano storie. In perfettoequilibrio fra verità e finzione. E le storie mi facevano sentire libero.Avvolgevano le mie emozioni.Poi d’ improvviso le lasciavano vola-re via.Erano teatro. Il mio teatro. E sognavoda bambino che mi riuscisse un gior-no di raccontare a tutti quelle storie,rendendole vive, su di una scena

vera. Con gli occhi, le orecchie ed ilcuore. Sì, era teatro.E sarebbe stato difficile spegnerlo.Forse per questo riaffiora in me ancheoggi la voglia di raccontarvene una.Una storia che parla di un bambinocome… noi, un bambino che si chia-mava… ch’ il ciaméva Paiózz… parchè l’era grând coma una paja.Paiózz e staséva in cà cun e su babb e lasu mâma. Un gn’ amanchéva pröpi gnìt:l’ aveva néch e su ôrt drì da cà, cun unzrìs che e daséva al zrìs a la su stasôn…Mo Paiózz u n’ era cuntènt, parchè evléva andêr a stêr int e pöst piò bël demónd… e lò un savéva indóv. Un dè Paiózz e ciapè l’óss e us mitè inviàz.Par zarchêr e pöst che e fóss e piò bël demónd.Camëna che te camëna, e cavalè i mônt,e travarsè e mêr piò luntân… U s’ incan-tè pr’ un pô a guardêr i sìd piò bél, mo un’ era mai cuntënt. U n’ era mai bôn d’atruvêl, e pöst che e fóss e piò bëll demond. Una matëna, che Paiózz l’eradvintù ormai vëcc a fôrza d’ zirandlê, us’ atruvè int un ôrt che un n’ aveva maivést di piò béll.E ui era un zrìs ch’ u si andéva a la vétae da la sò un s’ avdéva quési gnìt, moquél ch’ u s’ avdéva l’ era pröpi e pöst piòbël de mónd.Paiózz l’ era arivê int l’ ôrt drì da cà su.Un viaggio lungo e breve, quello diPaiózz, ch’ u s’ era tôlt d’ in cà pr’ arivêins l’ óss.Senz’ altro un viaggio breve nellospazio, oppure lungo nel tempo. Masicuramente un viaggio profondo,intenso, intimo ed unico. E comun-que un viaggio. Che racconta un po’la fatica di vivere, e un altro po’ lasemplice magìa della vita.

Quale futuro per il teatro romagnolo in dialetto?

Intervento di

Paolo Parmiani

Gennaio 2011

Page 7: Ludla Gennaio 2011 colore:Layout Ludla€¦ · Luigi Dadina Appunti di grammatica storica del dialetto romagnolo - XLIV Rubrica di Gilberto Casadio Parole in controluce Rubrica di

la Ludla 7

Paiózz è il viaggio. Paiózz è in fondo ilmio teatro. Fare teatro è per me parti-re, per un viaggio dentro e fuori dinoi. Dal particolare all’universale.È toccare le corde di un’emozioneche si fa gesto, parola, dialetto (che ègesto e parola insieme ). Io non so se il teatro romagnolo èancora vivo. Non so neppure se ecome è ancora vivo il mio dialetto.Non so nemmeno se è ancora vivo ilteatro. Non importa. Finché avrò lasensazione di un viaggio che mi pro-voca, che mi accende, che alimentala memoria, avranno un futuro ilmio teatro ed il mio dialetto.Paiózz parte in cerca di un futuro cheritroverà invece nel passato. Ma nonne uscirà sconfitto. Ne uscirà piutto-sto rigenerato. Perché libero.Io credo che il teatro in dialetto, inqualunque dialetto o in qualunquelingua sconfitta dal mondo, continue-rà a vivere se saprà essere vero viaggio,cioè vero teatro, e se saprà parlare unalingua vera, ancora libera.Per questo mi piacerebbe, oggi odomani, un teatro in dialetto cheavesse un senso solamente se in dia-letto.Vorrei cioè che quella parola, quelsuono, quel gesto avessero un signifi-cato per uno spettatore di oggi, o didomani, solamente perché in dialettoNon importa in quale dialetto. O inquale altra lingua sconfitta delmondo.Potrebbe essere un obiettivo interes-sante. Interessante per tutti, inten-diamoci, non solo per chi il dialettolo capisce ancora, lo parla, lo pensa,ma per tutti. Perché ognuno ha unachiave da usare per aprire una serra-tura, fra le tante, delle emozioni cheil teatro regala.Quel teatro, che pur vivendo solo nelpresente, in quel momento, è capacedi farti rinascere nel passato, oppurecavalcare il futuro, commuoverenella finzione, appassionare nelgioco, divertire.Attenti però: l’ emozione è una cosaseria. Non è una stupida risata che siesaurisce un secondo dopo la battu-ta, ma è quel pensiero complice cheti porti a casa, anche e soprattuttodopo lo spettacolo.Conosco purtroppo un teatro in dia-

letto inesorabilmente chiuso in uncampanilismo triste e sterile.Conosco purtroppo anche un teatrodi accademia in dialetto dove ci si cro-giola nel piacere di sentirsi privilegia-ti, quasi unici, grazie alla possibilità,concessa a pochi solamente, di com-prendere il significato di quella paro-la o di quel modo di dire.Conosco purtroppo un teatro in dia-letto che tenta pateticamente unaggancio al presente attraverso unorripilante ricorso ad innovazionilinguistiche del tipo: “Evidentemënt l’è auspicàbil truvê e mëzz par prevédar eiputizzê un cumitêt, cioè un evënt checomunqve e póssa assecundê agli esigënzdi söci...” (Mio Dio, l’ ho sentito vera-mente, e vi giuro che ho tentato disuperare il trauma imponendomi,per due settimane, di parlare - e pen-sare - solo in italiano).Conosco purtroppo un teatro in dia-letto improvvisato e banale, dovetrame e personaggi inconsistenti sitrascinano sulla scena fra battuteimbecilli scaturite da dialoghi noiosie ripetitivi all’ inverosimile.Questo teatro, che purtroppo cono-sco, spero proprio che non ce l’ab-bia, un futuro.L’oggi e il domani del dialetto stan-no nel raccontare cosa c’ è, per noie per tutti, dietro il suono del dialet-to. Raccontarlo ed aprirlo almondo. Non ripiegarlo in se stesso,ma regalargli un respiro nuovo. Oforse antico. Come è sempre nuovoed antico ad un tempo il raccontarela fatica del vivere, ma anche lamagìa della vita. Senza parafrasi nétraduzione. Ma solo poesia. Chediviene universale. Perché arriva alcuore del mondo. Che magari nonne comprende il significato, ma l’emozione sì.Ecco perché mi piacerebbe che ilteatro in dialetto potesse essere soloin dialetto. Ho la presunzione dipensare che lo spartiacque fra ciòche è teatro in dialetto e ciò chenon lo è non sia affatto l’ uso o ilnon uso del dialetto, ma la suainconvertibilità, la sua poetica intra-ducibilità.Perché non si traduce l’ emozione.Voi tutti sapete bene che ciò che initaliano ha bisogno spesso di peri-

frasi per essere spiegato può trovareinvece nel dialetto una strada estre-mamente diretta, sintetica ed effica-ce di essere raccontato. Una stradapiù vicina all’ essenza delle cose.Una strada più vicina a ciò che èverbo, azione.Voi tutti sapete bene che il dialettoè più rapido di gesto che di ragiona-mento.Voi tutti sapete bene quanto teatroci sia nella natura più intima deldialetto.C’è chi insinua che il dialetto èmorto, che al massimo può trovaresolamente nell’ arte dei nostri piùcelebrati poeti un autorevole riscat-to. Verissimo, oppure no. È mortaquella civiltà contadina che lo ali-mentava, è morta quella dimensio-ne sociale che lo giustificava. Ma ildialetto non è morto. È semplicemente addormentato.Nella più profonda intimità dellenostre radici. Che non muoiono.Che non possono morire. Altrimen-ti morirebbe il desiderio di libertàdell’ uomo.Bisogna farne rivivere il suono.Quel suono trattenuto e prepotenteche sa vibrare di alta poesia e dicalda schiettezza.Bisogna farne rivivere il gesto. Quelgesto che non si accompagna al pen-siero, ma all’azione.Quel gesto che parla in dialetto, cheimpreca in dialetto, che ride in dia-letto, che in dialetto piange.Bisogna farne rivivere la teatralità.La teatralità vera.Se Paiózz, dopo quel lungo viaggiofatto anche di fatiche e di speranze,si fosse nuovamente chiuso in casa,deluso e sconfitto per non aver tro-vato il posto più bello del mondo, ilsuo teatro, il suo dialetto, sarebberomorti per sempre. Ma se Paiózz,dopo quel lungo viaggio fatto anchedi fatiche e di speranze, ha potutoinvece ritrovare nell’ orto dietrocasa il senso vero della sua libertà,allora il suo teatro, il suo dialettonon sono ancora morti.E non moriranno mai.Almeno fino a quando Paiózz sen-tirà dentro di sé la voglia irrefre-nabile di raccontare a tutti la suastoria.

Gennaio 2011

Page 8: Ludla Gennaio 2011 colore:Layout Ludla€¦ · Luigi Dadina Appunti di grammatica storica del dialetto romagnolo - XLIV Rubrica di Gilberto Casadio Parole in controluce Rubrica di

la Ludla8 Gennaio 2011

Laggiù nel crepuscolo la pianura diRomagna. O donna sognata, donna ado-rata, donna forte, profilo nobilitato di unricordo di immobilità bizantina, in lineedolci e potenti testa nobile e mitica dora-ta dell’enigma delle sfingi: occhi crepusco-lari in paesaggi di torri là sognati sullerive della guerreggiata pianura, sulle rivedei fiumi bevuti dalla terra avida là dovesi perde il grido di Francesca: dalla miafanciullezza una voce liturgica risuonavain preghiera lenta e commossa: e tu daquel ritmo sacro sorgevi, già inquieto divaste pianure, di lontani e miracolosidestini: risveglia la mia speranza sull’infi-nito della pianura o del mare sentendoaleggiare un soffio di grazia: nobiltà car-nale e dorata, profondità dorata degliocchi: guerriera, amante, mistica, benignadi nobiltà umana antica Romagna.Dino Campana, Canti Orfici, LaVerna.

Innanzi tutto voglio ringraziarvi peravermi invitato. Devo anche dirvi chesubito dopo aver ricevuto l’invito misono chiesto con che coraggio avreiparlato di teatro romagnolo in dialet-to. Non assisto da diversi anni a rap-

presentazioni di teatro in dialetto, diteatro dialettale romagnolo, di com-medie in dialetto, di teatro amatoria-le romagnolo. Le definizioni che hoappena elencato le ho tratte da diver-si siti dove si presentano e propongo-no stagioni teatrali interamente dedi-cate a rappresentazioni in linguaromagnola. È comodo e semplicevenire a contatto con il ricchissimomondo del teatro dialettale attraversola rete, internet, il computer. E ancheparadossale. Ho riascoltato la voce divecchi narratori, ho confrontato ledeclinazioni dei verbi tra il dialetto

imolese e quello forlivese, ho visitatoi siti di molte compagnie sofferman-domi sulle foto di scena, sull’elencodei premi.Ho poi assistito a due spettacoli pre-sentati nella rassegna “Ritroviamocial Rasi”. Dopo questi frettolosi tenta-tivi la mia cultura sul tema era miglio-rata di poco. Sono ripartito dal titolodell’incontro di questa mattina nelquale, a differenza dei titoli delle ras-segne teatrali, c’è un rovesciamento,un sottosopra, un’inversione, da cuiho preso spunto. Teatro. Romagnolo. In dialetto. IlTeatro delle Albe ha rappresentato emesso in vita, cinque lavori integral-mente in dialetto romagnolo. Eppuresiamo definiti, ci definiamo, teatro diricerca... nuovo teatro... sperimenta-zione.Certo. Eppure. A metà degli anniottanta dedicammo una serata d’ono-re a Mario Parmiani, grande attoredel nostro teatro dialettale, al TeatroGoldoni di Bagnacavallo che alloraavevamo in gestione. Eppure gestiva-mo la prima stagione teatrale intera-mente dedicata alla ricerca. Assiemea Parmiani, Leo De Berardinis, laSocietas Raffaello Sanzio, la Valdoca,Marco Paolini...Quando sul finire degli anni settanta,primi anni ottanta decidemmo difare teatro, di essere e vivere di teatro,rimanendo a Ravenna, molti ci prese-ro per pazzi. Quella scelta era fatta dipresunzione e necessità. Oggi la chia-merei testarda convinzione di nonvoler andar via, percezione netta dinon poter perdere la propria lingua,per poter essere teatro di carne, diterra. Allora come oggi crediamo chenon si possano annacquare, nascon-

Quale futuro per il teatro romagnolo in dialetto?

Intervento di

Luigi Dadina

Page 9: Ludla Gennaio 2011 colore:Layout Ludla€¦ · Luigi Dadina Appunti di grammatica storica del dialetto romagnolo - XLIV Rubrica di Gilberto Casadio Parole in controluce Rubrica di

la Ludla 9Gennaio 2011

dere, mistificare, le proprie origini, lapropria lingua, se si vuole parlare almondo. Ci spostavamo per conoscere i mae-stri, vedere i loro lavori, partecipare ailaboratori che tenevano, mettendociin relazione con una intera generazio-ne teatrale che come noi muoveva iprimi passi. C’era necessità di fuggire dalla provin-cia sonnolenta e dai suoi riti cultura-li. Sentivamo la necessità di costruireuna relazione nuova, artistica, con latradizione culturale, con ciò che rima-neva di essa, ma anche con il dialetto,col suo intimo risuonare dentro dinoi che doveva farsi lingua scenica.Apparteniamo a una generazioneche se da una parte ha dovuto assiste-re alla scomparsa (o quasi) del pro-prio dialetto, come è accaduto per lagran parte dell’Italia, qui in Roma-gna ha avuto la fortuna di assisterealla nascita, all’evolversi, all’affer-marsi di una scuola poetica in linguaromagnola di straordinaria impor-tanza, decisiva nell’innovare e inven-tare il panorama poetico nazionale.Inutile elencare i nomi. Questa rina-scita, particolare e spiazzante delnostro dialetto è stata per noi esem-pio e motivo di confronto.

Grazie alla capacità di confrontarsicon la poesia del mondo, i nostripoeti hanno potuto scrivere una poe-sia radicalmente romagnola capace diparlare a chiunque. Allora il nostro tentativo è stato quel-lo di creare un teatro che potesseattingere anche alla cultura dialettale,usare e sporcare il dialetto, non perconservare una tradizione, ma perdire cose nuove, partendo da unintreccio di carne e vita e cultura.Noi abbiamo riscoperto la Romagnaanche attraverso l’incontro con l’Afri-ca. Per me la scoperta, la ri-scopertadel Fuler, il raccontatore di fiabe dellanostra tradizione è scaturita anche dalcorpo a corpo con i miei compagniattori africani, dai loro racconti suiGriot, i detentori della tradizioneorale dell’Africa sub-sahariana.Ermanna Montanari ci ha portato indote la sua lingua madre, il dialetto diCampiano. Noi l’abbiamo fatto scon-trare e incontrare con altre lingue:prima fra tutte il wolof, la lingua piùdiffusa in Senegal. Oggi la Romagna felix del teatro diricerca, è conosciuta in tutta Europa.La ricchezza di gruppi e situazioniviene presa ad esempio in Italia.Questa situazione io credo vi riguardi

da vicino. È anche parte della vostrastoria.Quello che voi rappresentate, chesiete, deve oggi trovare il modo permettersi in relazione con il complessoe articolato mondo del teatro di ricer-ca romagnolo contemporaneo.Lasciatemi concludere questo inter-vento ricordandovi che a pochi chilo-metri da qui, a Lido Adriano, la fra-zione del comune di Ravenna con ilmaggior numero di giovani, si parla-no 55 lingue. È dalla reinvenzionedelle nostre radici, dalla nostra evostra capacità inventiva, dalla schiet-tezza e vivacità del confronto che forseriusciremo a raccontare loro le nostrestorie in dialetto, e questo avverrà sesaremo capaci di ascoltarli. Coscientiche la nostra lingua, il nostro teatro,come tutte le lingue e come tutti i tea-tri, nascono e si rigenerano dall’in-contro e dallo scontro con altri popo-li. Siamo forse nella paradossale situa-zione in cui la nostra lingua madre, inparte morta, possa, reinventandosi,diventare strumento per creare con-fronto e dialogo proprio perchè incar-nata in un territorio, più che lo sbia-dito italiano televisivo, impoverito disignificati e di termini, oggi semprepiù intriso di pregiudizio.

Page 10: Ludla Gennaio 2011 colore:Layout Ludla€¦ · Luigi Dadina Appunti di grammatica storica del dialetto romagnolo - XLIV Rubrica di Gilberto Casadio Parole in controluce Rubrica di

la Ludla10

[continua dal numero precedente]

L’avverbio

La desinenza in -a

La presenza in romagnolo (come del resto in italiano) diavverbi di uso comune con la terminazione in -a ha fattosì che anche altre forme avverbiali abbiano per analogiaacquisito questa desinenza non etimologica.Così sulla base di sóra (‹SUPRA ‘sopra’), incóra (‹HANC HORA

‘a quest’ora’), alóra (‹AD ILLA HORA ‘a quell’ora’) abbiamo:sota ‘sotto’, avluntira ‘volentieri’, nenca ‘anche’, gnanca‘neanche’, fura ‘fuori’ ecc.

La desinenza in -on

Alcuni avverbi, esprimenti una particolare postura delcorpo o, più in generale, un comportamento o atteggia-mento fisico, si formano con il suffisso -on, che corrispon-de all’italiano -oni (bocconi, cavalcioni, carponi, tento-ni…). Come in italiano questi avverbi sono spesso raffor-zati dalla preposizione a. Esempi: a gnargaton ‘a carponi’,a spinduclon ‘a penzoloni’, a taston ‘a tentoni’, a vajon ‘ingiro’ ecc.

Locuzioni avverbiali

L’avverbio è spesso reso con espressioni formate da sostan-tivi (o più raramente da aggettivi) retti da preposizione. Esempi: ad nöt ‘di notte’, d’arnôv ‘nuovamente’, ad côrsa‘di corsa’, ad böta ‘di colpo, all’improvviso’, in câmbi ‘incambio’, in freza (in prisia) ‘in fretta’ ecc.

Avverbi di luogo

Qui, qua, lì, là

Dall’espressione latina ECCU HIC ‘ecco qui’ abbiamo què(cvè) ‘qui’, rafforzato con a: a què, scritto anche aquè (acvè).Da ECCU HAC ‘ecco qua’ abbiamo invece qua (cva) ‘qua’, aqua, aquà (acvà).Similmente dal latino ILLIC ‘lì’ e ILLAC ‘là’ abbiamo rispet-tivamente lè ‘lì’, a lè (alè, ilè, vilè) e là ‘là’, a là (alà, ilà, vilà).

Ci (vi)

L’italiano ci (o vi), particella atona usata in posizione pro-tonica o postonica, è reso in romagnolo con i, dal latino

IBI ‘ivi, in quel luogo’. Questa i nella catena parlata quan-do segue o precede una vocale assume la pronuncia pala-talizzata: j.Esempi: u n j è incion ‘non c’è nessuno’ (letteralmente‘*egli non ivi è nessuno’); a n i végh ‘non ci vado’; e’ bðu-gnareb andêj (‹*andê i) ‘bisognerebbe andarci’.Non bisogna confondere questo i ‘ci’ con i ‘gli, le’ o con i‘loro’: A j végh ‘ci vado’, a j degh ‘gli (le) dico’; a j vegh ‘livedo’. È da questa confusione che nascono dialettismicome ‘io ci dico’.

Dove

In latino il concetto era espresso da UBI ‘dove’, in seguitorafforzato con la preposizione DE: DE UBI ‘d’ove › dove’. Ilromagnolo rafforza ulteriomente l’espressione con in: indov ‘dove’: in dov a sit? ‘dove sei?’. ‘Donde’ (‘da dove’) èreso con d’in dov: d’in dov a vent? ‘donde vieni?’

In nessun luogo

In italiano antico esisteva ovelle ‘in qualche luogo’ dal lati-no UBI VELLES ‘dove vorresti’. Da un’espressione simileviene il dialetto invél (indvél) usato solo in frase negativa: un s trôva invél ‘non si trova da nessuna parte’.Etimologicamente bisognerà risalire ad un IN DE UBI VEL-LES ‘in dove vorresti’. Da VELLES dovremmo aspettarci dalpunto di vista dei passaggi fonetici una e aperta *invël enon invél: la “chiusura” della e si spiegherà con l’influssolasciato dalla caduta della vicina i di UBI.

[continua nel prossimo numero]

Appunti

di grammatica storica

del dialetto romagnolo

XLIV

di Gilberto Casadio

Gennaio 2011

Page 11: Ludla Gennaio 2011 colore:Layout Ludla€¦ · Luigi Dadina Appunti di grammatica storica del dialetto romagnolo - XLIV Rubrica di Gilberto Casadio Parole in controluce Rubrica di

la Ludla 11Gennaio 2011

carióla: in ital. carriòla; dimin. del lat.currus o carrus, voce d’origine celtica, dacui derivano anche currere (côr ‘corre-re’) e il tardo *carricare, con la doppia rche s’è persa per strada: in dial. carghé.I Cinesi l’avrebbero inventata tre seco-li prima di Cristo, ma in Occidentesolo dopo un millennio Isidoro di Sivi-glia accenna ad un vehiculum unìus rotae(veicolo ad una ruota), che però atteseparecchi altri secoli prima d’esser pre-sente presso ogni casa colonica.1

Nel XIV sec. a Rimini si registra *broa-tius, da una voce dialettale simile a bro-uette che in Francia è ancor oggi la car-riola. Tuttavia ancora nel XVII sec. ilfrancese du Cange, Gloss., scriveva:“BROETA: Pro birota, vehiculum duashabens rotas, Galli brouette… 1251”(‘birota’, veicolo che ha due ruote: iFrancesi [la chiamano] brouette…).Dal lat. bìrota deriva pure *biròtiumcioè baròz: c’è da supporre quindi chebrouette e broatius – ancor più tra ’200e ’300 – fossero di baruzen alþìr a dorodi, trainati o spinti da un uomo.Tra il carretto a due ruote e la carrio-la – oltre al più antico cesto portatosulle spalle o sul capo ancor oggi inmolte zone del terzo mondo – si feceuso pure d’una cassetta o d’un piana-

le con le stanghe e coi ‘piedi’, portatoda due lavoratori a mo’ di barella oportantina2, finché non si ebbe l’ideadi sostituirne uno con una ruota: illavoro sarebbe risultato più produtti-vo, quando però il nuovo strumentoavesse raggiunto forma e dimensionifunzionali grazie ad adattamentiempirici che richiesero dell’altrotempo. Il lento diffondersi del vehicu-lum unìus rotae coincise coi grandilavori compiuti alla fine del medioe-vo: cattedrali, fortificazioni, ponti,canali, argini di fiumi pensili, ecc.3 Daquel momento si videro sfilare carrio-le e scarriolanti (scariulent) che eranocoloni raccolti anche da luoghidistanti, ancora tenuti a prestazionigratuite da ‘servi della gleba’: purtrop-po, non per tutti il medioevo era fini-to.4 Poi come braccianti salariati gli‘scarriolanti’ continuarono a lavorarefino ai primi decenni del ’900: moltidi loro, romagnoli, lavorarono anchenegli scavi di Ostia antica. Ma, nelfrattempo, in Occidente la carriolacomparve presso ogni casa colonicadove per la sua semplicità di costruzio-ne sembrò esistita da sempre.

Note

1. A leggere bene quel che scrive Lampri-dio nella Historia Augusta del III sec. d. C.non si desume affatto – come qualcunovorrebbe – che anche il padillum in cuil’imperatore Eliogabalo si faceva trasporta-re da quattro belle donne fosse un veicu-lum unìus rotae. L’idea del padillum come‘pianale’ – su ruote o su stanghe – che ilGeorges dà come diminutivo d’un impre-cisato padone[m], ne suggerisce il possibileetimo. Il termine può derivare dal lat. pavi-re (=stendere, pavimentare), un etimo pre-sente pure in pavéra/pavira come ‘piano’delle sedie impavirédi. E fors’anche badìl‘badile’. I verbi lat. pavire (stendere, pavi-mentare) e pavère (aver paura, spaventarsi)forse in origine erano tutt’uno: ancor oggichi è spaventato, almeno per metafora, indial. l’è a tera, u s’ bota þó.2. P. Sella, Gloss. lat.-emil., riporta perCesena (1359) la voce ‘barella’: … pro feren-dis lapidibus… (per portare sassi). Negliscoscesi sentieri delle vigne di montagnasi portava a casa il mosto pestato sul postocon e’ caratél: una botte lunga e strettaprovvista di stanghe. Sempre il Sella regi-stra ancora per Ravenna (1304) zueria:

«unam zappam, unum badile et unam zue-riam… pro remondando domum (par mundèla ca) … et exportando lutum (…e purté viae’ lòz)»: il notaio dà una veste latina al dia-letto dei presenti. La ‘barella’ era dettazueria perché, come un ‘giogo’ (þóg o þóv),accoppiava due lavoratori. Da ‘barella’,usata fino a tempi recenti nelle ‘valli’della bassa, dove la carriola si sarebbeimpantanata, derivano il verbo ðbarlè(per ‘rovesciare’, ‘scaricare’) e l’agg.imbarlé (= ‘non in piano’, ‘sghembo’). 3. L’inglese Storia della tecnologia vol. II, acura di Ch. Singer, Torino, s. d., mostraalcune antiche incisioni tra cui: a) a pag.17 e a pag. 605 alcune carriole tratte dalDe Re Metallica (1556) dell’ingegnereminerario tedesco Giorgio Bauer, dettoAgricola; b) a pag. 651, in un illustrazio-ne forse più antica – secc. XIII-XIV? –sono presenti entrambi i mezzi di lavoro:su una rampa la barella carica di mattonitrasportata da due operai e, in piano, lacarriola: questa però ha ancora quattropiedini, quando ne bastano due, quasi aconferma della filiazione diretta della car-riola dalla barella. La presenza del sovra-no e di due dignitari in un angolo fa pen-sare a un lavoro importante (cattedrale,fortificazione, argine?) 4. Per fornire un esempio, dai verbalidella comunità di Civitella per il 1599risulta che il Cardinal Legato di Ravennaaveva imposto alle varie comunità dellaLegazione d’inviare nel periodo estivo ipropri contadini a scavar canali nel ‘Portodel Cesenatico’ (distante da Civitella piùdi 60 km). La comunità s’appellò ad unvecchio privilegio papale che l’esonerava;ma alla fine per il rifiuto dovette pagareuna penale. In un’altra pagina dello stes-so verbale, dall’inchiostro quasi tutto sva-nito, risulta nel 1578 un’ugual imposizio-ne per certi fossi di Ravenna. A questomodo furono fatti pure gli argini deifiumi pensili. Non solo: ancora nel 1762alcuni coloni di Civitella ‘comandati’ anorma degli Statuti vigenti fino al 1797 –con tre assenti giustificati dal medico –riattarono la strada verso Cusercoli. Intale circostanza, l’unica ben documenta-ta, la paga fu una ‘propina’ di nome e difatto: erano i sold de’ bé. In dial. prupé-na – dal greco pro (a favore) e pino (iobevo): quindi ‘bevuta’ – fino a 50-60 annifa almeno lungo il Bidente era in uso trai più vecchi, talora come metafora dilegnate promesse.

Rubrica curatada Addis Sante Meleti

da Civitella

Page 12: Ludla Gennaio 2011 colore:Layout Ludla€¦ · Luigi Dadina Appunti di grammatica storica del dialetto romagnolo - XLIV Rubrica di Gilberto Casadio Parole in controluce Rubrica di

la Ludla12 Gennaio 2011

Quando ci si accinge alla lettura di unaraccolta di poesie, per interpretare cor-rettamente il carattere distintivo e laconcreta entità dell’autore occorre rifar-si ad una chiave di lettura del suo ope-rato, ed è realistico, allo stesso modo,considerare che assai sovente questachiave non è univoca, bensì legata nel-l'intimo alla personalità ed all’indoledel lettore, alla sua formazione, allostato d'animo del momento insomma,ad una infinità di variabili fortuite ecoinvolgenti che, nel loro insieme, sonoquelle che rendono la poesia così pre-ziosa ed insostituibile per tutti coloroche le si accostano d’impulso, scevri dadiffidenze e preconcetti.Nel caso di Marino Monti una di que-ste fondamentali chiavi di lettura, forsela più imprescindibile, è quella dellacoerenza, un nesso che caratterizza tuttala sua produzione letteraria ed in prati-ca l’intero suo percorso di poeta e diuomo.Nel trasformarsi incontenibile di unacomunità e di un’epoca, in un periodoinquieto e frenetico come quello incorso, che s’affanna da tempo nellaricerca di nuovi modelli ed ideali chevadano a sostituire quelli che ci si staabbandonando alle spalle, l’intera pro-duzione poetica di Marino Monti sem-bra voler documentare l’unicità e l’inso-stituibilità delle consuetudini, in sostan-za il compendio di tutte le esperienze edi valori su cui, più con ragione che atorto, ha fatto assegnamento la societàfino a ieri, primi fra tutti quelli connes-si al suolo, alle colture, alla terra… laterra cui ci si sente di appartenere.È, quella di Monti, e quest’ultimo libro,se ce ne fosse bisogno è in grado didarne coinvolgente conferma, una poe-sia introversa e recondita, ritmata daicicli tenaci ed immutabili della natura,

gli stessi che disciplinano da sempre ilgiorno e la notte, l’alternanza delle sta-gioni, il consumarsi insieme fattivo edinane del tempo.Proprio a questo proposito vi sonoparole cui l'estro del poeta sembra esse-re particolarmente legato, lemmi che siripetono, si rincorrono nei testi comein un appuntamento da cui l'autoresembra trarre una significativa parte delsuo impulso narrativo, della sua ispira-zione. Ed è tutto un rinnovarsi fra lepagine di giorni e sere, luci e ombre,voci e silenzi, tutto un invischiarsi nelleragnatele di un tempo che si dipanaaccanito alle spalle dell’uomo…

Un ragne’ stèndla rêda,in chi fil d’arzentu s’ingavâgnai s-cen.1

… recandosi appresso un senso di sban-damento e in primo luogo di inutilità,che trova conforto solo nel concederealla terra ed unicamente alla terra lafacoltà affrancatrice di operare da tra-mite fra il passato ed il presente, in ciòsconfessando e rendendo dunque nonnecessario, qualsiasi altro dissimile esoverchio tentativo di analisi del pro-blema.

La tërala sa d’un savorvëcch’l’ariva in ca,ch’e’ cusese’ temp andécun cvél d’incù.2

La corposità intrinseca del dialetto siadegua senza remore in Marino Monti

Marino Monti

Stasón

di Paolo BorghiMarino Monti, classe1946, è nativo di San

Zeno di Galeata eormai da tempo risiede

e vive a Forlì.Abituale frequentatoredei trebbi poetici dellaPiè, nel corso dei quali

interpretava,apprezzato, le proprie

poesie, a partire dal1998 ha pubblicato conla Casa editrice imolese

“La Mandragora”quattro raccolte diliriche in dialetto

romagnolo, succedutesicon regolarità a tre anni

di distanza l’unadall’altra.

La prima è stata E’ batl’ora de temp, cui

hanno fatto seguito nel2001 A l’ombra di

dè, nel 2004 L’ânmadla tëra ed infine, nel

2007, Int e’ rispir dlaséra.

Quest’ultima silloge:Stasón, è datata

all’agosto del 2010 ed èstata pubblicata per itipi della casa editrice

“Piergiorgio Pazzinistampatore editore”, diVilla Verrucchio, nella

collana “Parolenell’ombra” diretta da

Ennio Grassi.

Page 13: Ludla Gennaio 2011 colore:Layout Ludla€¦ · Luigi Dadina Appunti di grammatica storica del dialetto romagnolo - XLIV Rubrica di Gilberto Casadio Parole in controluce Rubrica di

la Ludla 13Gennaio 2011

al suo intento più palese: quello diesternare in modo schietto ed imme-diato gli impulsi, le sensazioni e leconsapevolezze di un se stesso e diuna società rurale ancora legati nelprofondo ai propri luoghi d’estrazio-ne, ed a ben identificati percorsi divita, del resto mai sconfessati.E tutto questo in lui si converte inpoesia e da questa si impongono,intatti, i valori da lui conferiti allarealtà che lo attornia, facendo delleproprie pagine qualcosa di differentedalla semplice conseguenza ultimadelle sue considerazioni e del suo pen-siero. Esse divengono, anzi, per l’au-tore una necessità reale, un’urgenzache non acconsente a dilazioni: inconcreto il medesimo impulso a farsisentire che ha …un campanil \ ch’e’pôrta int la \ faldé \ la su campâna.3

Anche se troppi poeti dialettali ten-dono ancor oggi ad abbandonarsi inmodo compulsivo all’onda del ricor-do, occorre pur sempre considerareche, da subito dopo l’accesso alla vitaconsapevole, gran parte dell’esistenzadell'uomo è in relazione ad esso, e adesso s’accompagna e da esso è guida-ta e spesso condizionata.È dunque congruente e razionale che ilpercorso della memoria appartenga a

molte pagine di questa raccolta, addi-rittura si potrebbe affermare che taleprocesso induca, da tempo, una parteinsopprimibile della poesia di MarinoMonti, ne consegue che nel suo abban-donarsi alla dolce melanconia dellareminiscenza ci sia partecipazione,tenerezza, complice intesa e proprio intutto questo essa seguita a conservareuna sua pertinente ragion d’essere.Forse non è affatto una circostanzaaccidentale che negli idiomi prove-nienti dal latino (e tale è, per inciso,il dialetto romagnolo) nel definire iltempo atmosferico e quello cronolo-gico venga adoperato il medesimovocabolo, e c’è razionalità nell’asser-zione, poiché si tratta per entrambi isignificati di elementi che l’uomo èdestinato a subire inerme per tutta ladurata della sua realtà terrena, nonessendo in grado di esercitare su diloro alcun genere di controllo. Il concetto può essere consolidatodalla contingenza che sole o neve,pioggia e vento sono avvinti fra lorodal correre e dal consumarsi delle sta-gioni ma mentre queste si rigeneranoun anno dopo l’altro, al contrario lavita umana è destinata a consumarsisenza alcuna possibilità materiale dirinnovamento o di riscatto mondano.

A colmare le vessazioni di questotempo incoercibile ed ambiguo nonmeno che dominatore ed incomben-te è adatto solo il poeta, e non invirtù di un desiderio utopico bensìgrazie ad una certezza che egli coltivain se stesso e ripropone conseguentea noi lettori, la convinzione nel segui-to dell’esistenza in qualcosa che tra-scende la morte, un dono che, solo, èin grado di farci comprendere conquale spirito Marino Monti sia ingrado di scrivere versi come:

E’ vae’ sonch’e’ strenzla golach’l’è un piasécmandèrad murì.4

Note

1. Un ragno \ stende la rete, \ in quei filid’argento \ si aggrovigliano \ gli uomini. 2. La terra \ sa di un sapore \ vecchio \ chegiunge in casa \ che unisce \ il tempo passa-to \ al presente.3. …un campanile \ che porta nel \ grembo\ la sua campana.4. Va il sonno \ che stringe la gola \ che è unpiacere \ chiedere \ di morire.

STASÓN

Insdéint e’ cantôndla caguardéral foi che e’ vente’ spéca.Al vola,al pasa.L’è tótcvél che una stasónla t’lasa.

Stagione - Seduto \ nell’angolo \ della casa \ guarda-re \ le foglie che il vento \ stacca.\ Volano,\ passano.\ Ètutto \ quello che una \ stagione \ ti lascia.

Page 14: Ludla Gennaio 2011 colore:Layout Ludla€¦ · Luigi Dadina Appunti di grammatica storica del dialetto romagnolo - XLIV Rubrica di Gilberto Casadio Parole in controluce Rubrica di

la Ludla14 Gennaio 2011

Argomento di conversazione pereccellenza, del tempo si parla semprepiù spesso, in relazione alle previsio-ni televisive e via internet.Tutti a parlare di onda anticiclonicae fronti perturbati in quota... Pecca-to molti non sappiano capire checambierà il tempo (e’ temp) dallapuzza di fogna, dal vento o da cometramonta il sole: “e’ va þò mêl”.Accade così che le tante informazio-ni e le previsioni dei siti web, faccia-no diventare tutti esperti: eppure siconfonde la curena, vento caldo disud-ovest, che spira sulla Romagnacon raffiche talvolta violente, con loscirocco (e’ siroch) regolare vento chearieggia il litorale e ‘viene’ da sud-estquando il tempo è ‘buono’. Nessuno poi parla del maestro,vento di nord-ovest, e’ sarnér: il ventoserenaro.A tal proposito cito un passo delParadiso di Dante, canto XXVIII...come rimane splendido e sereno /l’emisfero dell’aere, quando soffia /Borea da quella guancia ond’è più leno(79-81).Passata la burrasca, il maestraleavrebbe asciugato i campi, i chemp, alpréð e, verso la centuriazione cesena-te, i cantir.

Attorno al Dismano questo ventoviene chiamato anche vintgen, venti-cello che è benaugurante anche nelnome!“E’ ven sò e’ temp” diceva mia nonna,aggiungendo: “u s’ è fat scur int e’ can-ton”. Ciò detto guardava verso nord-ovest che, per dove abitavo io, aBagnacavallo, era un punto verso laPieve di San Pietro in Silvis, la Pì. Làsi addensavano nubi scure e minac-ciose, che avanzavano ingigantendo-si in un turbinio di vento...E’ mêlcanton non perdonava e dopopoco, giù acqua a catinelle, grandi-

ne, tuoni e saette! Quelli che nel linguaggio dei bollet-tini sono “fenomeni temporaleschianche violenti”.La saetta (saeta) che era cadutadavanti alla celletta, mi affascinavaparticolarmente: aveva lasciato unodore forte di zolfo ed ozono, pochidanni ma una bella botta e tanticommenti al forno e per la strada.In campagna, si guardava con preoc-cupazione a e’ mêlcanton se si avvici-nava il raccolto del grano, se si eratagliato il fieno cun la fëra o se sidovevano svallare (ðvalêr) le barba-bietole. Il contadino oltre alla grandine (latimpësta) temeva la pioggia che per lecaratteristiche produttive di allora,avrebbe creato gravi danni. In deter-minati periodi, nei mesi autunnali,terminati tutti i raccolti e dopo averseminato, occhi attenti scrutavano anord-ovest in cerca di qualcheammasso nuvoloso: se fosse piovutociò avrebbe favorito la germinazionedel seme. In questo caso e’ mêlcantonveniva quasi invocato!Anche in epoca di ‘gps’ e ‘GoogleEarth’ non andiamo al di là dei luo-ghi comuni: ora le paure sonoannunciate e vengono vissute‘prima’. Le previsioni però, tanto più precisesiano, fanno vivere nell’attesa, masparisce l’emozione, il racconto colo-rito e soggettivo, da vivere in diretta,come una volta, sentendo la porbiache ti frusta le ginocchia nude e ilsuo odore sprigionato dalle primegocce di pioggia.

E’ mêlcanton

di Pietro Barberini

Page 15: Ludla Gennaio 2011 colore:Layout Ludla€¦ · Luigi Dadina Appunti di grammatica storica del dialetto romagnolo - XLIV Rubrica di Gilberto Casadio Parole in controluce Rubrica di

la Ludla 15

I vintrì d’agost de’ 1863 l’éra onadmenga, e a Ravèna u i fo la cerimö-gna par e’ prèm viaþ de’ vapór parCastël Bulgnéð. I òspit d’unór j éra e’prenzip Eugenio ad Carignano e e’generêl Enrico Cialdini doca adGaeta, ch’l’éra clu che e’ Re l’avévamandê in Basitaglia par scunfèþar ibrighent e par cuntrastêr i garibal-den.L’avéva da ësar un dè ad fësta e ad tri-pudi, ma la gazzarra dei gaudenti fu tur-bata da una inaspettata e tumultuosadimostrazione, còma i scrivet i giurnél«Il Diritto» e «L’Unità Italiana», ùrgande’ pinsir democratich e de’ mêlcun-tent dla Rumâgna, incóra tresta par ifët ad Gambàrie. Forsi a v’arcurdarìche in che sid dl’Aspromont un ânprèma, par ësar precis e’ 29 d’agost1862, Garibaldi e’ fo frì e fat parðunirda i suldé savujêrd.Par cla fësta agl’autoritê al-s tnévad’apstêr 1300 òman dla GvêrgiaNaziunêla, mo i-s praðantè sulamentin 152, quéði tot vec, parchè la piòpêrt di þùvan j éra schëp la matenaprëst par nö avé a ch’in fê cun la ceri-mögna; parò, prèma, j aveva tapizê alstrê, indo’ che i ùspit j avéva da pasê,cun di fujet cun scret: Roma o morte,

Viva Garibaldi, Viva i martiri del-l’Aspromonte.Cla giurnêda la-s concludè a e’ teàtarAlighieri cun la cumegia «La fortunain prigione» presentêda da la cumpa-gnì “Silvano e Fabbri”, ma nonostanteil teatro fosse seminato di guardie, nonmancarono lunghi e clamorosi evviva alGrande Esule Genovese e al Martire del-l’Aspromonte, e grida fragorose e insisten-ti che ebbero termine solo quando il Prin-cipe abbandonò il palco del Governo.Tot sti fët i faðè cveði pasê in ðgòndpiân una gran nuvitê: par la prèmavôlta e’ teàtar, invezi che cun i lom aöli, l’era iluminé con la luce del Gaz,

ch’l’avnéva da e’ gaþömetro ad PôrtaSré costruì l’ân prèma. Intignamôdcveicadon e’ scrivè: «...un splendór e’fa int la scena, che fa un lom, dentr’e’teàtar, ogni fiâma par vintquàtar».A prupôsit ad lom a öli, “Il Regola-mento Generale, ossia discipline per l’in-terno dei teatri”, fat da GiuseppeBenelli ad Ravèna int e’ 1855, e’ pre-vidéva, fena a e’ dè prema, che l’Illu-minatore dovrà adoperare olio dellamigliore qualità, proibitogli di valersid’olio graveolente, e sarà responsabile deidanni che potessero avvenire specialmen-te dal versamento dell’olio sugli spettato-ri e su qualsiasi individuo ed oggetto.

Gennaio 2011

Burdel, e’ Lion ad Reviati u v’aviða che l’è óra ad paghê’ la cvöta de’2011, che st’ân l’è carsuda a 15 ìvar…Se pu a vli dvintê “Socio Sostenitore” a putì paghê immânch 30 ìvar e avrìnenca on di nòstar lìvar, come a javen þa det int la Ludla de’ méð d’utóbar.A putì druvêr e’ bulten dla pösta o avnì a la Séd ch’l’è mej; acsè a faðendo ciàcar… I dè j è sèmpar cvi: e’ mért döp-mëþ-dè (dal tre in avânti), laþuiba döp-mëþ-dè (döp al cvàtar), e’ vènar matena (döp al nôv).

A putì andê nenca a la bânca e cvist j è i nòmar:Unicredit, ag. S.Pietro in Campiano (RA):IT 26 Y020 0813 1760 0000 3192 658Banca Popolare, ag. Punta Marina Terme (RA)IT 05 L056 4013 1110 0000 0005 520Cassa Risparmio, ag. Santo Stefano (RA):IT 72 J062 7013 172C C072 0003 912

Se invéci a javì þa paghê - e j è parec cvi ch’i l’à þà fat! - nó a-v ringrazienben tânt...

Ona dmenga d’agost de’ 1863

di Pier Giorgio Bartoli

Rinnovo quotasociale 2011

Page 16: Ludla Gennaio 2011 colore:Layout Ludla€¦ · Luigi Dadina Appunti di grammatica storica del dialetto romagnolo - XLIV Rubrica di Gilberto Casadio Parole in controluce Rubrica di

la Ludla16

«la Ludla», periodico dell’Associazione Istituto Friedrich Schürr, distribuito gratuitamente ai sociPubblicato dalla Società Editrice «Il Ponte Vecchio» • Stampa: «il Papiro», Cesena

Direttore responsabile: Pietro Barberini • Direttore editoriale: Gilberto CasadioRedazione: Paolo Borghi, Gianfranco Camerani, Giuliano Giuliani, Omero Mazzesi

Segretaria di redazione: Carla Fabbri

La responsabilità delle affermazioni contenute negli articoli firmati va ascritta ai singoli collaboratori

Indirizzi: Associazione Istituto Friedrich Schürr e Redazione de «la Ludla», Via Cella, 488 •48125 Santo Stefano (RA)Telefono e fax: 0544. 562066 •E-mail: [email protected] • Sito internet: www.argaza.it

Conto corrente postale: 11895299 intestato all’Associazione “Istituto Friedrich Schürr”Poste Italiane s.p.a. Spedizione in abbonamento postale. D. L. 353/2003 convertito in legge il 27-02-2004 Legge n. 46 art. 1, comma 2 D C B - Ravenna

Gennaio 2011

La Fèsta

Lusi toti zòisi,scarani tachèdi mè mur.I sunadur chi fà al provi.L’aroiva zenta, guasi tota t’una volta.Chitara, urganèt, viulòin...us bala ad countenui,senza mai farmès:saltarel, manfròini... una giga.E’ temp e’ vòula.I balaroin i s’n’un và un dri ma cl’èlt.L’arvènza e’ sòlit groupèt ch’un smitareb mai.Quant chi scapa,insen sl’aligri,e’ pèr ch’j s’porta vi aènca la lusa.La fèsta la s’è smorta.Da sèch... un laèmp, un balòin:sla porta la s’è zirata par guardèm.

In un precedente numero della Ludla (Novembre 2009)s’è parlato un po’ affrettatamente di una ipotetica inade-guatezza del dialetto romagnolo nell’accostarsi alla poesiad’amore. La frettolosa quanto superficiale considerazionetraeva supporto dalla disamina di un linguaggio nel qualespicca l’assenza (sarebbe intrigante appurare se esclusiva-mente romagnola), del verbo amare rimpiazzato, si sotto-lineava, da un assai meno compromettente a-t voi ben sen-z’altro più evasivo ed ambiguo.Per esimersi da una così sommaria asserzione sarebbestato sufficiente sfruttare un attimo di pausa, per gettareuno sguardo spoglio di pregiudizi a quanto scritto da tantipoeti romagnoli sul tema in oggetto: dalle pagine strug-genti di Nevio Spadoni, a quelle a volte sconsolate a voltebeffardamente evocative di Raffaello Baldini, dai ricordiscanzonati di Miro Gori, a quelli intimi accorati e toccan-

ti di Baldassari, per non dire poi della gioiosità disinibitadi Pedrelli, o dell’anticonformismo di Galli. E sarebbe agevole proseguire a lungo nella disamina per-ché l’amore è per la poesia e per l’uomo (ed in questo laRomagna non fa eccezione) qualcosa di imprescindibile,un impulso categorico anche per noi che abbiamo tenta-to di esorcizzarlo, esprimendoci in un dialetto nel quale alverbo amare è stata imposta la caparbia mordacchia del-l’ostracismo.Per fare ammenda torniamo sull’argomento con questapoesia nella quale il bellariese Lorenzo Scarponi (unifor-mandosi ad una per niente sconfessata “romagnolità”) ciparla, pur senza mai menzionarlo, delle implicazioniusualmente coniugate dal verbo amare, riservando soloagli ultimi due versi il compito di palesarcele con quellasingola occhiata lanciata all’ultimo istante dalla porta: sol-tanto un laèmp… un baloin, ma pur sempre in grado disuscitare nel destinatario di quell’irripetibile sguardo,tutte le suggestioni e i turbamenti che affliggono e rapi-scono, assillano e allettano, inquietano e seducono findalle origini del tempo la relazione, o meglio il reciprocopatto d’intesa, che unifica l’uomo e la donna.

Paolo Borghi

Lorenzo Scarponi

La Fèsta

La festa Luci tutte accese, / sedie attaccate alle pareti. // I suonatori provanogli strumenti. // Arriva gente quasi tutta assieme. // Chitarra, organetto, violi-no... / si balla di continuo, / senza mai fermarsi: saltarelli, manfrine... una giga. //Il tempo vola. // I ballerini se ne vanno uno dietro all'altro. // Rimane il solitogruppetto che non smetterebbe mai. // Quando escono, / assieme all'allegria, /sembra che si portino via anche la luce. // La festa si è spenta. // All'improvvi-so... un bagliore, una luce: / sulla porta si è girata per guardarmi.