Marzo 2012 Colore:Layout Ludla - Il dialetto romagnolo in ...

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la Ludla 1 “Poca favilla gran fiamma seconda” Dante, Par. I, 34 la Ludla (la Favilla) Periodico dell’Associazione “Istituto Friedrich Schürr” per la valorizzazione del patrimonio dialettale romagnolo Autorizzazione del Tribunale di Ravenna n. 1168 del 18.9.2001 Questo numero è stato realizzato con l’apporto del Comune di Ravenna Società Editrice «Il Ponte Vecchio» Anno XVI • Marzo 2012 • n. 3 SOMMARIO Confronto sulla grafia - III Daniele Vitali - Paolo Bonaguri Luna Park di Sergio Celetti Pòlice è caduto nella pentola di Maurizio Balestra Al röb al cambia di Paolo Gagliardi Illustrazione di Giuliano Giuliani aNmarcord di Giovanni Nadiani Aggiunte e correzioni al Vocabo- lario etimologico romagnolo - II Rubrica di Gilberto Casadio Parole in controluce Rubrica di Addis Sante Meleti Piccola antologia da “Romagna solatia” di Paolo Toschi Siamo tutte d’un sentimento - Il coro delle mondine di Medicina tra passato e presente di Cristina Ghirardini e Susanna Venturi Stal puiðì agli à vent... I scriv a la Ludla Arnaldo Morelli - E’ vent di Paolo Borghi p. 3 p. 5 p. 6 p. 8 p. 9 p. 10 p. 11 p. 12 p. 13 p. 15 p. 15 p. 16 Giovanni, Zvanì nel dialetto romagnolo di San Mauro di Romagna, suo paese di origine, oggi appunto San Mauro Pascoli, nasce nel 1855 e muore a Bologna nel 1912, ultima sua cattedra universitaria. È il poeta che ha aperto le porte alla modernità, da una profonda inquie- tudine esistenziale. La sua opposizione alla letteratura ottocentesca, di matrice positivistica e scientista, ha le sue radici in una visione del mondo e del progresso disincantata, alla cui base sta la sua vicenda familiare, segnata prima dall’assassinio del padre, poi dalla morte pre- coce della madre e dei fratelli; ne consegue un ambiente di una fami- glia disgregata e segnata dalla povertà. Vicende tutte che hanno pro- fondamente inciso sul suo animo di uomo e di poeta. È così che tro- viamo sempre una sofferta malinconia, un’affettività disturbata e irri- solta, un bisogno di inappaga- ta felicità, sentimenti e sensa- zioni malcelati da un regressus ad infantiam, innocente solo nei suoi pii ricordi e desideri. L’amore per la poesia certa- mente gli è stato trasmesso dalla madre: poesia che scar- dina, disintegrandole, le forme tradizionali. Egli avvia un processo di rinnovamento della poesia italiana di respiro europeo, anticipando così il nostro Novecento, compreso l’ermetismo. Temi e motivi essenziali di questa sua pecu- liare vena poetica li ritrovia- mo nella casa-nido – cui fanno riferimento la siepe, la terra, la pietà, la bontà, i morti della famiglia, figure assenti ma presenti come ossessioni fantasmatiche. Segue a pag. 2 La romagnolità di Giovanni Pascoli di Nevio Spadoni Marzo 2012 Giovanni Pascoli (San Mauro di Romagna, 31 dicembre 1855 – Bologna, 6 aprile 1912)

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la Ludla 1

“Poca favilla gran fiamma seconda”Dante, Par. I, 34

la Ludla(la Favilla)

Periodico dell’Associazione “Istituto Friedrich Schürr”per la valorizzazione del patrimonio dialettale romagnolo

Autorizzazione del Tribunale di Ravenna n. 1168 del 18.9.2001

Questo numero è stato realizzato con l’apporto del Comune di Ravenna

Società Editrice «Il Ponte Vecchio» Anno XVI • Marzo 2012 • n. 3

SOMMARIO

Confronto sulla grafia - IIIDaniele Vitali - Paolo Bonaguri

Luna Parkdi Sergio Celetti

Pòlice è caduto nella pentoladi Maurizio Balestra

Al röb al cambiadi Paolo GagliardiIllustrazione di Giuliano Giuliani

aNmarcorddi Giovanni Nadiani

Aggiunte e correzioni al Vocabo-lario etimologico romagnolo - IIRubrica di Gilberto Casadio

Parole in controluceRubrica di Addis Sante Meleti

Piccola antologia da “Romagnasolatia” di Paolo Toschi

Siamo tutte d’un sentimento - Il coro delle mondine di Medicinatra passato e presentedi Cristina Ghirardini e Susanna Venturi

Stal puiðì agli à vent...

I scriv a la Ludla

Arnaldo Morelli - E’ ventdi Paolo Borghi

p. 3

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Giovanni, Zvanì nel dialetto romagnolo di San Mauro di Romagna,suo paese di origine, oggi appunto San Mauro Pascoli, nasce nel 1855e muore a Bologna nel 1912, ultima sua cattedra universitaria. È ilpoeta che ha aperto le porte alla modernità, da una profonda inquie-tudine esistenziale. La sua opposizione alla letteratura ottocentesca, dimatrice positivistica e scientista, ha le sue radici in una visione delmondo e del progresso disincantata, alla cui base sta la sua vicendafamiliare, segnata prima dall’assassinio del padre, poi dalla morte pre-coce della madre e dei fratelli; ne consegue un ambiente di una fami-glia disgregata e segnata dalla povertà. Vicende tutte che hanno pro-fondamente inciso sul suo animo di uomo e di poeta. È così che tro-viamo sempre una sofferta malinconia, un’affettività disturbata e irri-

solta, un bisogno di inappaga-ta felicità, sentimenti e sensa-zioni malcelati da un regressusad infantiam, innocente solonei suoi pii ricordi e desideri.L’amore per la poesia certa-mente gli è stato trasmessodalla madre: poesia che scar-dina, disintegrandole, leforme tradizionali. Egli avviaun processo di rinnovamentodella poesia italiana di respiroeuropeo, anticipando così ilnostro Novecento, compresol’ermetismo. Temi e motiviessenziali di questa sua pecu-liare vena poetica li ritrovia-mo nella casa-nido – cuifanno riferimento la siepe, laterra, la pietà, la bontà, imorti della famiglia, figureassenti ma presenti comeossessioni fantasmatiche.

Segue a pag. 2

La romagnolità di Giovanni Pascoli

di Nevio Spadoni

Marzo 2012

Giovanni Pascoli (San Mauro di Romagna,31 dicembre 1855 – Bologna, 6 aprile 1912)

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Che il Pascoli sia stato anticipatore dicerte tematiche e di moduli espressivinuovi della poesia in lingua, non gliha impedito di porsi come avanguar-dia di quella in dialetto romagnolo.Come non ritrovare in Aldo Spallicciil solco già da lui tracciato, poi inTonino Guerra e in tanti altri poetidel secondo novecento, temi e motividi un pessimismo che Bàrberi Squa-rotti ha definito più tragico di quelloleopardiano! Tale pessimismo è pre-sente un po’ ovunque, ma si direbbeteorizzato in -quell’atomo opaco delMale - come a saldare in quel X agostotematiche sue con quelle di tutti. Ma,per tornare alla poesia di Romagna,vivo e presente in tante sue liriche èl’amore per la sua terra, simbolo di unanatura primigenia, immune dalla con-taminazione del male dell’uomo, ben-ché anch’essa soggetta al mistero dellimite inscritto in ogni essere e parte-cipe così del dolore del mondo. E lapoetica del fanciullino, pervasa dastupore apparentemente innocente,in realtà scopre, interroga e dice ilmale delle cose. La poesia come rive-lazione di ciò che si cela dietro gliaspetti sensibili - il fanciullo che pian-ge e ride, noi diremmo senza perché,di fronte a cose che sfuggono ai nostrisensi e alla nostra ragione - è il recu-pero del sentimento e della visione,lontani da ogni oratoria, demagogia ofilosofia; lo stesso lessico, Myricae,calco virgiliano, è simbolo della poe-sia delle piccole cose, poesia che nullaha a che fare con quella epica e cele-brativa, pur in altri contesti coltivatadal nostro poeta. Troviamo in questaraccolta una ricchezza di significatisimbolici, di giochi analogici atti acogliere le “corrispondenze” segretedelle cose. Musicalità - anzi “musicali-smo in sordina” come lo ha definitoDiego Valeri -, uso dell’onomatopea,sinestesie, metrica e sintassi spezzate,sono tutti esempi fino allora unicinella tradizione italiana. Innovazionestilistica e sperimentalismo di questaprima raccolta sono gli aspetti cheinseriscono Pascoli in una dimensio-ne culturale e storica europea e fannodi lui una delle grandi voci del Deca-dentismo: parole gergali, assonanzeed allitterazioni, sonorità lessicali,vengono a smantellare la tradizioneperennemente legata al monolingui-smo di matrice petrarchesca.

Myricae si diceva, è la prima raccoltadi poesie, dedicata al padre Ruggero.In essa il mondo contadino dellaterra di Romagna viene evocato conriferimenti a luoghi, piante, animali,anche se assurge ad un significato uni-versale; vita nei campi e condizionecontadina divengono per così direpretesto per un messaggio che il poetavuole trasmetterci e pennellare così - edi veri quadretti agresti spesso si trat-ta - stati d’animo di inquietudine,solitudine, fatica del vivere, e sensodella precarietà del tutto. Basti accen-nare a poesie quali Arano, Novembre,Lavandare, L’assiuolo; ancora, in poesiecome Tuono, insieme a Il temporale e Illampo, riappare una costante figura arasserenare il suo animo, a ricostituireil nido distrutto: la figura rassicurantedella madre, voce che continua a par-largli (Zvanì!), a invitarlo a ricordare, apregare e a vincere lo sconforto e ilmale col bene (La voce). Questo nidogià descritto in X agosto, gioca sulleimmagini parallele della rondine e delpadre, ritorno “al tetto” e “al suonido”. Come poco sopra si accenna-va, il poeta passa dalla tragedia perso-nale e familiare, al dolore cosmicodove immagina le stelle della notte diSan Lorenzo come un pianto del cieloche inonda la terra. Questo nidoverrà poi ricostruito e morbosamentecoltivato con le sorelle Ida e Marianelle successive dimore. Il tema dellamorte, martellante e ossessivo, si uni-sce così a quello dell’eros, un erosperò regredito ai dolci momenti del-

l’infanzia, nel rapporto privilegiatocon la madre.Peculiare è il “culto dei morti”, chetroviamo più definito nelle varie edi-zioni di Myricae, dal quale emerge inquesta specie di poema-romanzo ilviaggio simbolico dal presente al pas-sato. Dall’ascolto delle voci dellanatura, all’ascolto appunto delle vocidei morti. Un gioco di opposizionetra vita e natura, tuttavia buone perLui, se non ci fosse la malvagità del-l’uomo a rovinare le cose. Questoculto dei morti direi che è una carat-teristica peculiare dello spirito roma-gnolo, e lo troviamo in tanta poesiaspecialmente in dialetto. Si è parlato poi tante volte del carattereprofondamente melanconico del roma-gnolo, ma tuttavia passionale e socievo-le, insofferente verso ogni forma diingiustizia sociale e ogni forma di auto-ritarismo. In poche parole il romagno-lo sarebbe un rivoluzionario, ma questitratti, salvo il primo, non li trovo nelPascoli. La sua adesione giovanile alsocialismo divenne poi in età adultapiuttosto blanda, anche se il mondodella povera gente trovò ampio spazionel suo cuore con il rifiuto del sistemaborghese. Va tuttavia detto che ancheda alcune lettere da Barga (L’ora diBarga), emerge un’idea di società dovesi mischiano la conciliazione delle clas-si, l’abolizione dei partiti e aneliti dipace, di libertà, un po’ sentimentali eutopistici: un generico umanitarismo. Questo è Giovanni Pascoli, figlio dellanostra terra (Romagna solatia dolcepaese), come ebbe a scrivere appuntonella poesia Romagna dove definisce ilPassatore (Stefano Pelloni) cortese. MaPascoli è stato anche altro: studiosodei classici fin dai tempi di Urbinopresso gli Scolopi, autore in latino, cri-tico, dantista, esoterista, scettico dalpunto di vista religioso, tanto da esse-re osteggiato da parte clericale e daparte marxista, perché dopo l’espe-rienza del carcere cessò ogni sua mili-tanza. A ragione Cesare Garboli diceche parlare di Pascoli è parlare di ciòche oggi in piena globalizzazione edenazionalizzazione delle masse più cibrucia ancora: il carattere degli italia-ni. Pascoli è il nostro poeta nazionale,Pascoli ci rappresenta. E noi romagno-li siamo orgogliosi di avere avuto unpoeta che ha amato e cantato la suaterra in modo così mirabile.

Marzo 2012

L’incipit di ‘Romagna’ nella edizione illu-strata di ‘Myricae’ (Livorno, Giusti, 1894).

la Ludla 3Marzo 2012

Cari amici della Schürr, avete giàospitato le mie posizioni sulla grafiaromagnola in diverse occasioni (cfr.la Ludla 8 del 2007, l’opuscolo L’orto-grafia romagnola del 2009 e l’articolosul riminese pubblicato con DavidePioggia nel libro Dọ int una völta del2010), tuttavia vorrei rispondere alleosservazioni fatte da altri sulla Ludladi gennaio.

Per cominciare, credo siamo tutti d’ac-cordo che la scrittura dialettale debbaessere la più semplice possibile; cer-chiamo però di non pretendere che losia troppo: il riminese ha 13 vocali, ilravegnano 15, il santarcangiolese 16.Meglio rinunciare ai paragoni conl’italiano, che ne ha solo 7, o col roma-nesco, il cui sistema vocalico è pratica-mente lo stesso (e allora, certo che«Trilussa scrive i suoi sonetti in roma-nesco senza alcun carattere speciale»!).

Siamo poi sicuri che la grafia milanesedel Porta o quella napoletana diEduardo mostrassero davvero la loropronuncia? A loro non interessava faredialettologia, bensì letteratura. E noi,perché vogliamo scrivere il dialetto? Sesi tratta «solo» di fare letteratura, odivertirci, ognuno può anche scriverecome vuole, perché quel che conta è ilrisultato espressivo, o il piacere ricava-to. Però forse vogliamo anche tutelareil dialetto, evidenziarne la dignità dilingua, renderlo comprensibile ainon-dialettofoni (non solo altri italia-ni e stranieri, ma anche giovani roma-gnoli, che magari vorrebbero imparareil dialetto e non ci riescono con solo 5lettere per ben 13 o 16 vocali): in talcaso abbiamo bisogno di una grafiache vada bene per tutte le esigenze, einevitabilmente dev’essere una grafiache rispetta il sistema fonetico, perchéa chi non parla il dialetto non si appli-ca il principio per cui «se riconosco laparola ne ricostruisco nella mia menteanche il suono, e il segno diacritico ol’accento strano è inutile».

Per le vocali nasali sono d’accordocon Franco Ponseggi sul ritorno allelettere tildate (stavolta con anche ã alposto di â), perché anche quello è uncaso in cui i diacritici non farebberoaffatto male, anzi, aiuterebbero i gio-

vani a pronunciare correttamentecerti dialetti romagnoli, e i linguisti avedere la differenza fra i dialetti chehanno e quelli che non hanno vocalinasali, mentre i digrammi di vocalecon n danno l’impressione che siatutto indifferenziato quando invece èben distinto. Succede così in italiano,malgrado il luogo comune per cuil’ortografia rispecchierebbe la pro-nuncia: in mancanza di un’indicazio-ne ortografica, noi distinguiamo «la“o” della botte del vino dalla “o” dellebotte che si prendono», ma piemonte-si, giuliani, calabresi, salentini e sici-liani le pronunciano alla stessa manie-ra; i toscani poi distinguono fra«pesca» nel senso di frutto e di azionedel pescare, mentre noi no, o ancoraal Nord la s di «casa, naso, rosa, vaso»è sempre sonora, al Sud sempre non-sonora, mentre in Toscana è storica-mente sonora in «rosa, vaso» ma non-sonora in «casa, naso»...

Qualcuno avanza giudizi estetici, oidiosincrasie come quella per gliocchiali. A me sembra che, quando sitratta di dare un sistema di scrittura auna lingua, e quindi alla comunitàche la parla, non ci sia posto per i gustipersonali. Si può non amare il punti-no sopra (o sotto) s e z ma, se non lousiamo, come distinguiamo «scuotere»da «scusare», o «zio» da «giglio»? Anco-ra, il trattino sarà forse antiestetico (inbase a quali canoni però?), ma è ilmodo da sempre condiviso di separarei suoni in parole come s-ciöpa, mentreproporre sčöpa a mio parere significauscire dal dominio della grafia perentrare in quello della trascrizioneglottologica, che è altra cosa (anche sela prima s’ispira spesso alla seconda,come nel caso dei puntini su s e z).

Sono state invocate difficoltà tecnicheriguardo ai diacritici, ma anche questesi riducono col tempo: l’ultima versio-ne di Unicode contiene s e z col pun-tino anche nei caratteri «con grazie» enon più soltanto in quelli «solo aste»,per cui adesso si può scrivere in TimesNew Roman con tutti i diacritici senzainstallare componenti aggiuntive. Èstato detto che su Internet, che non hale scorciatoie di Word e richiede rapi-dità d’uso, sarebbe troppo lento mette-re i diacritici. In realtà, basta usare latastiera romagnola del sito www.dialet-tiromagnoli.it e fare un bel copia-incol-la: un sistema analogo è usato dai russiquando non hanno a disposizioneuna tastiera cirillica (cfr. www.translit.ru), e stiamo parlando di 180milioni di persone! E allora, il dialettopuò ben essere aiutato dalla tecnica,come dimostrato da Marcello Maiolicol dizionario sonoro di Saludecio. Sepoi qualcuno fosse troppo pigro perusare certi accorgimenti, potrebbesempre fare come i romeni, che chat-tando scrivono a, a, i, s, t al posto di ă,â, î, ş, ţ, ma non si sognerebbero maidi pubblicare un libro o un giornaledignitoso in questa maniera: e ancheper noi i diacritici non possono essereuna scusa per non chattare, e la chatnon può essere una scusa per abolire idiacritici. Rincaro la dose: il lituanoha 9 lettere con diacritico, il lettone11, il ceco 15 e lo slovacco 17, eppuretutte queste lingue si usano su Inter-net ogni giorno!

Un’ulteriore considerazione: oltre altanto che già si fa (rivista, associazio-ne, pubblicazioni specialistiche, gran-de poesia, teatro, festa del dialetto,interventi nelle scuole, trebbi ecc.),per tutelare e valorizzare i dialetti

Confronto sulla grafia

III

la Ludla4 Marzo 2012

romagnoli servono anche studi glotto-logici, grammatiche, vocabolari, corsidi riapprendimento della lingua,materiale didattico cartaceo, audiovisi-vo e digitale adatto alle diverse genera-zioni, toponomastica bilingue, ricono-scimenti politico-amministrativi ecc.Un lavoro immenso cui dobbiamotutti dare il nostro piccolo contributo.Discutiamo pure di grafia, ma cerchia-mo di non arenarci in discussioni suproblemi già risolti o in via di risolu-zione quando restano da fare tantecose concrete!

Chiudo con una domanda ad AngeloMinguzzi, secondo cui l’anarchia orto-grafica si sarebbe aggravata con «la pre-sentazione dei lavori di Vitali-Pioggia»sulla Ludla. Potrebbe il buon Minguzzicircostanziare l’avventuroso giudizio?

Grazie a tuttiDaniele Vitali

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[…] Mi limito a precisare che levarianti da introdur re per una miglio-re razionalizzazione della scritturadialettale non sono molte e che lapiccola attenzione che la loro applica-zione potrebbe richiedere in un pri -mo tempo, sarebbe ampiamente com-pensata dalla possibilità di una facilelettura e da una più pronta compren-sione del nostro dialetto scritto. […]La mia proposta di semplificazione sibasa su una regola fondamentale:attribui re a ciascun segno diacriticoun solo ed inequivocabile significato.Infatti, per quanto riguarda le vocali:- l’accento grave e l’accento acuto val-gono sempre per indicare i rispettivisuoni aperti e chiusi delle vo cali o ed e;- per le o e per le e semiaperte non siaggiunge al cun accento fonetico, masolo quello tonico quando esse capita-no in sillaba tonica, (l’accento tonicosi identifica con l’accento breve: ˘);- l’accento circonflesso segnala esclu-sivamente i suoni nasali di tutte le cin-que vocali e non viene utiliz zato peraltri significati;- anche nei gruppi fonetici: ûn, ûm,ân, âm, ôn, ôm, ên, êm, în l’accentocirconflesso segnala il suono nasa ledelle vocali;

- la dieresi viene utilizzata solo persuoni dittonga li delle vocali o ed e (oa,ea) dove la vocale a è appena percetti-bile. Siccome però nel dittongo ea la epuò es sere aperta o chiusa, piuttostoche ricorrere ad altri artifici che cree-rebbero confusione, si ritiene utile ag -giungere sulla dieresi l’accento gravenel primo caso e l’accento acuto nelsecondo. (Nell’era dei computers unproblema tipografico di questo generepuò essere facilmente risolto).Per quanto riguarda le consonanti c eg a fine di pa rola pare logico indicarecon ch e gh i suoni duri e semplice-mente con c e g quelli dolci. Infine per le consonanti s e z che pos-sono avere suono sommesso dolce esuono sibilante, è sufficiente aggiun-

gere la cediglia nel primo caso, el’indetermina zione è così eliminatanel modo più semplice. (Analoga-mente a quanto avviene nei vocabola-ri d’ita liano).Come si vede anche nella tabella sot-tostante, le semplificazioni propostetendono a conseguire la massimachiarezza e a fugare ogni pe nosa inde-cisione. Ovviamente, come ho dettoin altra occasione, ognuno è libero discrivere come vuole, ma non sarebbemale se ci si accordasse (meglio tardiche mai) per seguire regole ortografi-che più ragionevoli. Resterebbe inogni modo a ciascuno la libertà discri vere quello che vuole. E la demo-crazia sarebbe salva!

Paolo Bonaguri, Forlì

Proposta di semplificazione di Paolo BonaguriVocalio aperta (accento grave) bò (bue) salòt (salotto)o chiusa (accento acuto) pió (più) só (su)o semiaperta:in sillaba atona (nessun acc.) documênt (documento)in sillaba tonica (acc. tonico) bŏla (bolla) cŏndla (culla)o dittongale (oa) (dieresi) söra (suora) öra (ombra)e aperta (accento grave) pè (piede) parchè (perché)e chiusa (accento acuto) fré (frate) marché (mercato)e finale nell'infinitodi alcuni verbi lavé (lavare) canté (cantare)e semiaperta:in sillaba atona (nessun acc.) depöşit (deposito)in sillaba tonica (acc. tonico) marĕna (marina) farĕna (farina)e dittongale (ea) (dieresi):con suono aperto (+ acc. grave) padëla (padella) canël (cannello)con suono chiuso (+ acc. acuto) pël (palo) canël (canale)

Vocali nasaliA fine di parola con consonante sorda legata alla vocale che la precede(accento circonflesso + legatura). Un, um: bidûn (bidoni), fiûm (fiume); an, am:pân (pane), fâm (fame); on, om: bôn (buono), parfôm (profumo); en, em: pên(pino), insêm (insieme); in: pîn (pieno), znîn (piccino).A fine di parola con consonante pronunciabile normalmente, ma legata allavocale con cui inizia la parola che segue (accento circonflesso, senza legatu-ra): bidûn avirt (bidoni aperti); fiûm in pina (fiume in piena); pân alzĭr (paneleggero); pên umbróş (pino ombroso); pîn ad lat (pieno di latte); ecc.Altri casi della vocale a con suono nasale, all'inizio, all'interno e alla fine diparola: ânma (anima), ân (anno), mâma (mamma), Rumâgna (Romagna),tafâgn (zuffa).

Consonantic dolce a fine di parola: móc (mucchio); dura: cóch (cuculo)g dolce a fine di parola: róg (urlo); dura: fugh (fuoco)s sommessa dolce (cediglia): röşa (rosa); s sibilante aspra: rósa (rossa)z sommessa dolce (cediglia): zugh (gioco); z sibilante sottile: zil (cielo)

` `´ ´

¸

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la Ludla 5Marzo 2012

La jarivè un döp-meþdè ad premavé-ra cun ‘na gran valiða, un vent alþir ui spintacéva i cavel mèntar ch’l’avni-va sò da e’ stradël tra j urt.I mitè par li un lët ad piò int la câm-bra di non, la jéra cambiêda, la scu-réva pôch e la-n ridéva mai.La ramindéva calzet feni da dona inðdé dri la finëstra e d’ogni tânt lafiséva la strê come ch’la jaspites d’av-dé aparì chicadun e pu la-s pirdéva alongh int i su pinsir.Tri èn prema l’éra arivê int e’ paéðun Luna Park e li la s’éra inumurêdad’un mutuciclesta-acröbata, on adchi mët ch’i s’incróða cun i muturint e’ caden dla môrta.Inamurêda mata la javéva fat la vali-ða e la jéra andêda cun lo.Una vita fata ad caruzon sempra inmuviment, un paéð dri cl’êtar, ‘napiaza döp a cl’êtra, fred, acva, möta,fësti e tindon da ðmuntê e armuntê.Int agli urec al canzuneti a totvulòm, i spér de’ tir-a-segn e la vóðruchêda dl’êltparlânt ch’l’arciamévala þenta e in cuntinuazion e’ ròmb dimutur int e’ caden ch’i s’incruðévaon cun cl’êtar.Döp a tri en ad cla vita pruviðôria ladicidè d’arturnês a ca sperend chenenca lo e’ fos dispöst ad lasê chelavór periculóð par afruntêr insen

‘na vita piò trancvela.Ad ögni armór, mutór, màchina ocàmion che fos la jalzéva la tësta cunla sperânza d’avdél arivê.Un dè la javdè pasê un vëc càmiontot malandê cun ad di dri un caru-zon e pu ‘na rulöt e un êtarcàmion... e’ côr u i saltè int la góla...mo quel l’éra e’ Luna Park, e’ suLuna Park! E man i mân che i meþ i paséva la jarcnunséva on par on.La longa caruvâna la pasè tota e lil’avanzè a gvardê la strê vujta... lo un’éra pasê... o la-n l’avéva vest.E pu impruviðament un ròmb e’rimpè l’êria, un ròmb che li la cnun-séva ben e in fònd a la strê i du

mutur cun i mutuciclesta imbraghéint al tuti nigri ad pëla.On e’ faðè un schêrt e u-s butè con-tra mân e e’ daðè gas come par gua-dagnê strê, li l’arcnunsè da la puði-zion un pô göba: l’éra lo!La pinsè che fos andê avânti parþirês int e’ spiaz de’ cinema, parturnê indrì, par turnê da li.La javdè e’ mutór che invezi l’andèdret, l’infilè e’ pont par sparì döp ala curva.L’avanzè un pëz a fisê la strê cun undulôr tremend che u j avniva sò da e’pët e un nôd u i strinþéva la gólacmè ‘na môrsa: tot al su sperânzi, alsu iluðion agli éra sparidi dri a chemutór…

Luna Park

testo e illustrazione diSergio Celetti

la Ludla6

Fra le carte di Cino Pedrelli, di cuirecentemente ho potuto prenderevisione grazie alla figlia Lia, ho trova-to due filastrocche: “Police e Mar-cuncina” e “Fola fuleta” scritte suvecchi fogli di quaderno da OdoardoMongardi, che al momento (sessan-tasei anni fa, precisamente il 5-III-MCMVLI, la data è riportata su unfoglio), frequentava la quarta ele-mentare, nella scuola di Gallisternadi Riolo Terme (il nome e la localitàsono scritte da un’altra mano, forsequella della maestra). Di questeriporto la prima.

Police e la MarcuncinaPolice è caduto nella pentola, la Marcun-cina la pianz. La finestra la dis: “Cos’ etfat Marcuncina”. “Ma ta ne se che Poli-ce è caduto nella pentola? Me a pianz.”“E me ca so la finestra a sbat” L’elbre uidis: “ Ma cos et fat finestra da sbatre?”.“Ma ta ne se che Police è caduto nellapentola, la Marcuncina la pianz e me asbat.” “E me ca so l’elbre am sec.” L’ari-va l’usli cui dis: “Coset tat ce sche?”. L’el-bre ui dis: “Mo ta ne se che Police è cadu-to nella pentola, la Marcuncina lapianz, la finestra la sbat e me ca so l’el-bre am so sche.” “E me ca so l’usli am pele me culazi.” L’ariva la burdela e l’ai dis:“Coset fat usli da plet e to culazi?”. El’usli ui dis: “Mo ta ne se che Police ècaduto nella pentola, la Marcuncina la

pianz, la finestra la sbat, l’elbre u se schee me ca so l’usli am so ple e me culazi.”“E me ca so la burdela a rop l’orza e l’ur-zela.” L’ariva a ca su me, lai dis: “Cosetfat burdela che te rot l’orza e l’urze-la?”.“Mo ta ne se che Police è cadutonella pentola, la Marcuncina la pianz,la finestra la sbat, l’elbre u se sche, l’usliu se ple e su culazi e me ca so la burdelaa io rot l’orza e l’urzela.” “E me ca so tume a feg e pa’ intragnuchè.” L’ariva e fur-ner e ui dis: “Parché et fat e pa intragnu-chè?” E le lai dis: “Mo ta ne se se chePolice è caduto nella pentola, la Marcun-cina la pianz, la finestra la sbat, l’elbre use sche, l’usli u se ple e su culazi, la bur-dela la rot l’orza e l’urzela, e me ca so sume a io fat e pa intragnuchè.” “E me caso e furner a io bruse toti al ter.” La servala va a to e pa a l’ai dis: “Parché furnerte bruse toti al ter?” E lo ui dis: “Mo ta

ne se che Police è caduto nella pentola, laMarcuncina la pianz, la finestra la sbat,l’elbre u se sche, l’usli u se ple e su cula-zi, la burdela la rot l’orza e l’urzela, sume la fat e pa intragnuche, e me ca so efurner a io bruse toti al ter.” “E me ca sola serva a met e cul in tla cunserva.”L’ariva la padrona e l’ai dis: “Parchéserva te mes e cul in tla cunserva?” E lel’ai dis: “Mo ta [ne se] che Police è cadu-to nella pentola, la Marcuncina lapianz, la finestra la sbat, l’elbre u se sche,l’usli u se ple e su culazi, la burdela la rotl’orza e l’urzela, su me la fat e pa intra-gnuche e furner la bruse toti al ter e meca so la serva a io mes e cul in tla cunser-va.” “E me ca so la padrona a met e culin tla pultrona.”(Odoardo Mongardi. Classe IV.Scuola di Gallisterna - Riolo Terme)

Non curiamoci degli errori di trascri-zione: chi scrive è un bambino dinove anni e il testo, anche cosìcom’è, mi sembra comprensibile atutti. La filastrocca, in parte, è in ita-liano, ma non credo sia stato Odoar-do a cercare di tradurla, probabil-mente lui l’ha trascritta così comel’ha sentita recitare.Police, scritto sempre rigorosamentecon la maiuscola è ritenuto, credo,un nome di persona (il fratello diMarcuncina?).Fatta leggere a Davide Pioggia ilmistero di chi fosse Police si è subitorisolto: così come “zemsa” in italianosi traduce in “cimice”, la “polða” nonpoteva essere che “pòlice”.“La pulce e la Marconcina” quindi.Ma la pulce non è anche il personag-gio di una fiaba/filastrocca popolare

Pòlice è caduto nella pentola

di Maurizio Balestra

Marzo 2012

la Ludla 7

tedesca trascritta dai fratelli Grimm?Sì, è proprio lei: Pidocchietto e Pulcet-tina / Läuschen und Flöhchen.“Un pidocchietto e una pulcettina vive-vano insieme e facevano la birra in unguscio d'uovo. Il pidocchietto ci cascòdentro e si scottò. Allora la pulcettina simise a piangere forte. La porticina disse:– Pulcettina, perché‚ piangi?” – Perché‚ Pidocchietto si è scottato...” Una strana filastrocca che deve esse-re molto antica, perché la ritrovia-mo, più o meno mutata, in tuttaEuropa: dalla Sicilia (Il gatto e il topo)alla Germania, sino all’Inghilterra(Topo Titty e topa Tatty / Titty Mouseand tatty Mouse) e alla Norvegia (Ilgallo che cadde in una botte di birra /The Cock som falt inn i Brewing Vat). Cambiano i personaggi ma la situa-zione resta la stessa: qualcuno checade nella pentola e la disperazionedi chi gli sta attorno, persone e ogget-ti, quasi che la natura e il mondointero partecipino a questo dolore. Bambine che piangono, finestre chesbattono, vasi che si rompono, uccel-li che si spiumano… Sonoelementi costanti che ritor-nano in quasi tutte le ver-sioni. Così come in tutte sipuò notare l’assenza di unmessaggio esplicito (di unamorale) e di un vero e pro-prio finale. Nello stessotempo, in tutte si coglieun’atmosfera strana, dolo-rosa e ridicola insieme,come se il mondo di fron-te al dolore e alla mortevenisse a perdere ognisenso, ogni logica. In realtà è ciò che effettiva-mente avviene, dentro dinoi, quando ci troviamoad affrontare un lutto e lafilastrocca sembra avereproprio lo specifico compi-to di prepare i bambini aldolore di fronte alla mortedi una persona cara. Uncompito importante. Equale immagine di mortepiù agghiacciante di quelladi cadere nella pentola?La pentola che bolliva èsempre stata il terroredelle nostre mamme. In

cucina (fino a non molto tempo fa)c’era sempre una pentola che bolliva(si cuocevano i fagioli, si faceva ilbrodo, si bolliva l’acqua per fare ilbucato…), gli spazi erano ristretti espesso, molto spesso, chi aveva ilcompito di badare alla pentola eraproprio una bambina di 10-11 anni(come potrebbe essere la Marcunci-na). In queste condizioni quanti inci-denti. Anche a mia nonna capitò diversare la pentola sul proprio bambi-no di pochi mesi (e’ por Cicin!) chemorì di lì a poco. Di fronte alla morte, e per di piùuna morte come questa, il mondoviene a perdere di senso. Anche inquesto caso i personaggi che compa-iono nella filastrocca, sentita la noti-zia dolorosa, incomiciano a fare cosesciocche, ridicole, nel tentativo diesprimere la propia partecipazioneal dolore della bambina. Il riso èparte del meccanismo della filastroc-ca che ha per fine quello di introdur-re al dolore e di esorcizzarlo altempo stesso.

In alcune versioni della storia tuttofinisce così, con azioni che nonhanno un senso preciso: in Norve-gia, il marito rompe la scopa e lamoglie imbratta tutti i muri di mine-stra, in Sicilia il frate va a dire messanudo, la regina va a setacciare la fari-na ed il re va prendere il caffè. In altre versioni il mondo finisceveramente. Così come si vorrebbeche succedesse di fronte alla mortedi un bambino. E allora gli attorimuoiono tutti: in Germania affogatidall’acqua della fontana:“Be,” disse la fontanina, “e io mi mette-rò a scorrere.” E si mise a scorrere terribil-mente. E nell'acqua annegarono tutti: lafanciullina, la piantina, il concimino, ilcarrettino, lo scopettino, la porticina, lapulcettina, il pidocchietto, tutti quanti.In Inghilterra sotto il crollo della casa:“Oh!” Disse il vecchio “Io allora rotolodalle scale e mi spezzo il collo”, così roto-lò dalla scale e si ruppe il collo. E quan-do il vecchio si ruppe il collo, il grandealbero di noce cadde con un tonfo eschiantò la vecchia panca e la casa, la

casa cadendo colpì la finestrae la finestra picchiò contro laporta e la porta spezzò la vec-chia scopa, e la povera piccolatopina Tatty fu sepolta sottole macerie. In Romagna il finale restasospeso (“E me ca so lapadrona a met e cul in tla pul-trona”) e si può leggere indue modi:1) La padrona si siede per-ché non regge al dolore.2) Alla padrona non inte-ressa nulla di quanto è suc-cesso (lei, la padrona, vivein un altro mondo, chenon è quello delle serve,delle pentole che bollono edelle bambine che badanoalle pentole) e si siedecomodamente come senulla fosse successo. La filastrocca, in questocaso, sarebbe anchel’espressione di una presadi coscienza da parte delleclassi più umili delle pro-prie condizioni di vita edelle differenze sociali esi-stenti.

Marzo 2012

Della favola ‘Police e Marcuncina’ (Nr. 2022 della classificazione Aarne-Thompson-Uther) esistono, come si è detto nel testo, numerose versioni.Qui sopra un’illustrazione di Franco Vignazia per ‘E’ Vdöc e la Polsa’,una versione raccolta da Rosalba Benedetti a San Pietro in Campiano epubblicata in ‘U j éra una vôlta…’ (Ravenna, 2003). Nella pagina precedente un disegno che illustra ‘Pidocchietto e Pulcetti-na’ (Läuschen und Flöhchen) dei fratelli Grimm.

la Ludla8 Marzo 2012

Quand ch’u m’l’à det mi moi, a n’ivléva crédar. “T’scarzaré, t’aré capìmel.” E invézi l’éra propi véra. E’Croazia, quel che pr un pëz l’è sté e’bar di comunèsta, quel indo ch’i s’ar-tróva qui ch’i ten par l’Inter – ch’ut’vegna un cólp – i s’l’è cumpré icinis!Me an so mai sté un gran sugët dabar, mo u j sté un an che in che pösta i sò ’ndé pr un pëz. L’è zuzëst quandch’a faséva al médi, prema de stantapar capìs. E’ docmazdè, dop ch’avimifat i coumpit, me e Bellavista, e’ mivsein d’ca, a s’avdimi int e’ curtil dicapuzein. Atach a la cisa u j éra unacambra cun deintr e’ flipper, e’ cal-ciobalilla e che tavloun vérd. Quandche e’ purtoun l’éra ’sré, alóra u s’tu-chéva d’ciapé so la bicicleta e andéd’có da Via Cento, int e’ vultoun dezircundéri. Deintr e’ Croazia a s’pasi-mi una ciopa d’ór a zughér a bigliérd,stramëz a un gran fom d’zigareta, unanebia ’sota ch’la’s taiéva cun e’ curtël.U n’è pasé dj èn, e me d’alóra in chebar a i sò ’ndé sól una quelca vólta, prun cafè o par fé clazioun. La “Ca dePopul” la ngn’è piò ch’l’è un pëz, checamaruoun i l’à divis cun dal muraid’bucati e d’là da e’ bench j à mésuna televisioun acsè granda chequand tcì a lè ins dé u t’pé d’ësr a e’

cino. Insoma, u n’è piò che pöst. Epu i bigliérd, ch’j éra d’faza a l’os, i jjà purté tcióra. Cun cal pal bienchi erosi u i zuga sól i prufesiunèsta, e quide Croazia i n’è miga di scarpazoun, jà veint di trofei e j à fat nenca i elogiint i giurnél.Bëla surpresa – a dgéva – quela che icinis zet zet i s’è cumpré e’ bar d’drìda ca mi! “Segno dei tempi” u m’à déte’ mi dutór. L’è segn ch’j à i bajoch, aj ò ’rspöst me. Lóu par stal röb j à l’öclongh, s’i dà a nasé l’aféri, l’è la vóltach’t’ai vi ’rivé cun al spórtal pini ’dbaioch schèmbi. E te s’a i vut andér a

dì? Cun la sghisia ch’u j è in zir, t’aicëp so e pu t’ai dì nenca grazie. Sè,parchè int i negózi u s’j è més la mure-ia. “Santa in tri mis int i pais dla basa”u j éra scret int e’ Carlein. U m’pianz e’ cór avdér a Bröz, a e’Ghet o a la Pórta d’Feinza tot chi car-tel indó ch’u j è scret “vendesi”, “affit-tasi”, “chiuso – cessata attività”. Un’darà piò veja i livar Carletto dlaMinerva o Pimpinëla al caramël e alzigaret, Montanari i desch e al lavatrizo Rësta al biciclet da córsa. Cun ló l’èsparì un pëz de mi paés, cun ló u s’è’vié i pinsir di mi èn piò alzìr.

Al röb al cambia

di Paolo Gagliardinel dialetto di Lugo

Racconto segnalato alla sesta edizione del concorso di prosa dialettale “e’ Fat”

Il racconto di Gagliardiin una libera interpretazione diGiuliano Giuliani.

la Ludla 9Marzo 2012

Mo gnench i cino i s’è salvé da starivoluzioun. Int e’ Venturen u j è unabutéga d’mòbil, e’ Giardino l’ègueint un parcheg e deintr a l’Astra ivend la röba vecia. U j è ’rmast sól e’Sa’ Röch, quel di prit d’Sata Mareia,quel indó che me andéva da tabach,dop a la mesa, a vdér al stóri de chenLessi o d’Flipper e’ delfein, chi duanimél piò inteligeint di s-cein. Equand nench e’ Sa’ Röch l’è sré, s’t’atvù pasé do ór, u t’toca d’arivé fèna aFeinza o a Ravèna e srét in chi póstchi va ’d móda adës, acsè znein ch’ut’pé d’ësr int una steia da pol, e comai pol, quand ch’tci ins dé alè indein-tar, t’at met a magnér e’ furmintoun.E’ marché dal bes-ci u n’i è piò, e int

e’ su pöst i jj à mes e’ Globo e l’IperCoop. Indó che i sinsél i vindéva alvach e i bu, adës u j è al machin d’quich’i va a fé la spésa. Nenca la Piaza –e’ mirqual – la n’è piò quela ’d prema,l’è basta fér un zir pr e’ Pavaioun. Avèndar di vstì, dal schérp, dal braghete di calzitein ormai j è ‘rmëst quési sólló, di maruchein, di nìgar e nenca aquè, nenca sta vólta, incóra di cinis.E’ zuzéd alóra che quand ch’tci alàstramëz u t’pé d’ësar te l’ònich giargia-nés. “Romagna solatìa, dolce paese” e’scrivéva Pascoli a e’ su teimp, mo s’e'turnes, piò che in Rumagna, u i par-reb d’ësr in Rumaneia.“La lingua batte dove il dente duole”e’ diréb adës e’ mi dutór. Parchè l’è

véra, vólta e prela, prela e vólta, dopavé fat ste mëz rumanz e’ mi pinsìr l’èturné a lè, a e’ Bar Croazia.Cl’étar dè a séra a ca da par me, u s’èfat mazdè e a j ò pinsé “cun la vojad’cusar ch’a j ò, incù a végh d’có da lastré a ’vdér al nuvité”. “Buongiolnosignole, desidela?” u m’fa e’ baresta, epu cun un suris u m’aslonga e’ foi. An’i pós crédar! U ngn’è nè e’ ris a lacantunésa, nè e’ pol cun agli amandale gnench e’ pórch cun i piviroun. Inte’ menù – quel d’cl’étar mond – u j èi strichét cun l’arveia, al lisegn cun e’ragù e j urcioun cun e’ butìr e lasévia. Nenca a Lugh – ch’a l’saviva – al röbal cambia, ös-cia s’al cambia.

aNmarcord di Giovanni Nadiani

incù a e’ mondpr aiutêr i vec(ëi pu vec chi ch’al sa?)insimunì insabéch’i n’s’arcorda piò gnîntch’j à l’alzheimeri specialèsta j adrovadla musica Mozart Casadeimo nench di fet dal puisèipr avdê se i vecsintend cal parólj è bon d’arcurdês chijcvëlde su mond dla su stôria...

’sta terapia ultimativai la ciâma Alzpoetry

a vói pröpi savê mecvél ch’j adruvarà par mei dutur malê d’alzpoetrycum ch’i farà a druvêcvél ch’a j ò scret meche za adës incionl’è piò bon d’scorard’lezar sta lèngvasminghêda par fôrzada tot…

u i srà sóle’ zet vutdla mi tëstae mea vaioninclanèbia nèbia nebìa nebìanèbianèbinèbiaaaaaad’pa

ls

fa

ti

G. Nadiani

la Ludla10 Marzo 2012

caratèna, s.f. ‘pipa con fornello e por-tacanna in terracotta e canna dilegno, molto diffusa un temposoprattutto fra le masse popolari’. Iltermine è (o meglio, era) diffuso soloin area ravennate e non è di usopopolare in Romagna, anche se vi èuniversalmente noto attraverso iSonetti romagnoli di Olindo Guerrini.• Potrebbe essere – in considerazio-ne del materiale con il quale era fab-bricata – dal lat. creta ‘creta’ con ilsuffisso aggettivale -ina: ‘di creta’ el’anaptissi di -a- fra c- e -r-, come inscarana (v.). Per altre ipotesi (da caran-to ‘sasso’ o da Carinzia, regioneaustriaca) si veda CM, s.v. ciuþòta.È però più probabile che si tratti diun termine deonomastico derivatodal cognome di Frederick Charatan,un russo emigrato in Inghilterra, chenel 1863 aprì a Londra un laboratorioper la fabbricazione di pipe. Le Chara-tan Pipes raggiunsero in pochi anni ungrande successo internazionale diven-tando, nonostante l’elevato prezzo,famose in tutto il mondo per la loroqualità. Caratena dunque intesa come‘piccola Charatan’ al confronto dellusso e della qualità delle pipe inglesi.Un diminutivo scherzoso, nato proba-bilmente in un ristretto ambito difumatori di buon livello sociale (comeOlindo Guerrini) che ben conosceva-no le Charatan originali.

curdëla, s.f. ‘fettuccia, nastro’. Cordel-las de seta negli Statuti di Forlì del1359 (GLE, s.v. cordella).

• Diminutivo del latino chorda, dalgreco chordé, ‘corda (degli strumentimusicali)’.– Oriani: Teneva le mani lunghe e sche-letrite sul manubrio fasciato di una cor-della rossa, guardandosi le scarpine gial-le, dalla punta pelle nera, traforata. (Labicicletta: Il triciclo).

furnaréin, s.m. ‘scarafaggio, bagaroz-zo’ (Quondamatteo).• Letteralmente fornarino, perché ininverno prolifera al caldo neglianfratti delle pareti dei forni e deilocali adiacenti.

*galavérna, s.f. ‘galaverna’, brinataintensa. Anche ‘gelicidio’.• Origine discussa. Pare parola com-posta dalla radice celtica *cal- (daconfrontare con quella del latinocaligine ‘nebbia’) e dall’aggettivohiberna ‘invernale’.

– Oriani: Alcuni grappoli di baccherosse, colti come lì per lì ad una siepe, ledisegnavano le pieghe dell'abito, stirando-lo alle ginocchia e rialzandolo ai fianchiper formare la caduta della coda, dallaquale spuntava la trina di una sottana,diafana e bianca come un merletto digalaverna. (Quartetto: Viola)

marógna, s.f. ‘scoria della lavorazio-ne dei metalli nel crogiolo’, ‘incrosta-zione, sudiciume’.• Da un lat. *matronia derivato damatre ‘madre’ nel senso di ‘matrice’.Termine derivato per metafora dalla‘madre’ dell’aceto, la feccia che serveper inacidire il vino. [REW, 5406]

miron, s.m. ‘filone di pane’. Voceravennate.• Probabile grecismo da moĩra / méros‘parte’, con suffisso accrescitivo -one:‘grosso pezzo’ di pane.

ratatóglia, s.f. ‘accozzaglia di personeo cose’, ‘parapiglia, confusione’.• Dal francese ratatouille ‘intingolo abase di verdure varie’ con passaggiodi significato di tipo metaforico. Lavoce è presente in molti dialetti ita-liani. [CM, s.v. ratatùia]

turchèt, s.m. ‘caffè corretto’ conmistrà, rhum, gin o altro liquore.(Ercolani, Quondamatteo)• «La voce deriva da turco, caffè turco,perché fatto alla moda di quelle genti(…), con la cuccuma nella quale polveredi caffè e acqua bollono allegramentesul fuoco vivo. Tolto dal fuoco il reci-piente, si lascia depositare e poi siversa.» (Quondamatteo, s.v. turchètt).

Aggiunte e correzioni

al Vocabolario etimologico

romagnolo - II

di Gilberto Casadio

Galavérna

la Ludla 11Marzo 2012

martóf: in ital martufo; voce ormai rara,ma registrata fin dai primi dizionariromagnoli; ignorata dall’Ercolani, Voc.,che però riporta martuflaia: «stupidità,(cfr. martufo, stupido)». Il significatoregistrato è di norma quello di ‘stu-pido’, ‘babbeo’, ‘grullo’.1

Un ‘don Martufo’ figura tra i personag-gi minori di due opere buffe napoletane:una di Cimarosa (1783), l’altra di Paisiel-lo (1785), ma è impossibile definirne ilcarattere senza gl’irreperibili libretti.Viene da pensare ad una mascherasecondaria di cui è rimasto appena ilnome, fatta propria dalla Commediadell’Arte e sporadicamente apparsa tra’600 e ’700 anche nei nostri teatriminori. È voce diffusa dall’Abruzzo alleAlpi anche per il Grande Diz. Battagliadove condivide con i dizionari nostraniil significato di ‘sciocco’, con un’interes-sante eccezione: per l’emiliano Riccar-do Bacchelli martóf equivale a «furbo,briccone».2

Sembra perciò che da qualche parte sene mettano in dubbio la stupidità, ladabbenaggine, l’éss stè fatt ad nòta, a e’bur, da de’ lègn dólz con la ðghètta:com u sareb a dì, mess a e’ mond a lazéga. In effetti, anche dalle mie parti,brot martóf, più che la stupidità pura e

semplice, designa la testardaggine silen-ziosa, l’apparente durezza di compren-donio di chi si chiude a riccio a difesaun po’ gretta, ma tenace dei propriinteressi, avvicinandosi al senso del Bac-chelli: u fa l’imbezél par no paghé e’dèzi.3 E di uno, sempre pronto a farquestioni per ogni sciocchezza comecapita tra confinanti, mio padre diceva:che martóf u pè ch’u guérda e’ zél atesta ðvùita e pr intent u ’rmulena,‘rimacina’. Infine il diz. Cortelazzo-Marcato ne fauna voce friulana che deriva da*mort(u)orium per ‘buca da morto’,oppure da mortarium per ‘mortaio’ o‘conca per calce’4; inoltre l’affianca aimilanesi ‘mortaraccio’ (Manzoni,Fermo e Lucia, 1827) e marturel, senzaconvincere appieno. In ogni caso, unvecchio arguto della mia infanzia scan-diva martóf quasi fosse murtè o morta of, anticipando in parte una delleipotesi del Cortelazzo: da mortarium(mortaio) più a óf, già fornito di signifi-cato proprio.5 Con mort a òf intende-va ‘pestato a ufo in un mortaio altrui’:una metafora oscena ed infamante chenel veloce parlar corrente passerebbeinavvertita. Questo è un etimo ‘popo-lare’, di quelli che quasi sempre risul-tano fasulli6; ma è un peccato: presoper buono, martóf indicherebbe il‘finto tonto’ cresciuto a scrocco in unnido altrui, cumpagna e’ cóch.

Note

1. Martóf corre pure nel veneto e nel bolo-gnese insieme a martuflaia (Lepri- Vitali,girer la martuflaia ‘andare a zonzo’); nel fer-rarese martuflaia è ‘adunata di stupidi’.2. Un mollusco, chiamato ‘tartufo di mare’,suggerisce che martóf, ‘martufo’ sia statoconiato su maris tufer, in analogia con tartóf,‘tartufo’, da terrae tufer ‘tubero di terra’.Come ‘maschera secondaria’, potrebb’esserepure un calco sull’ipocrita Tartufo di Molière(1664), la cui trama finì tra i ‘canovacci’ dellaCommedia dell’Arte nostrana. 3. Forse il significato di martóf altrove s’èstemperato prima. Dèzi, ‘dazio’ (dal verbodare) era l’imposta comunale sui consumi,riscossa fino a cinquant’anni fa dal ‘daziere’,e’ daziìr. 4. Fino a sei-sette decenni fa, vicino ad unedificio in costruzione, si scavava una grandebuca in cui la calce viva ‘si spegneva’ con l’ac-qua: i miteva la calzena a murtè. Equipara-

vano la buca al ‘mortaio’ e la calce all’impas-to del pane che fermenta; accostando calceviva e calce spenta, tiravano in ballo permurtè ‘pestare nel mortaio’ la falsa etimolo-gia da ‘morire’; del resto, la calce viva si usavacome disinfettante, anche per le fosse deimorti.5. Già il Meyer Lübke (1911) ne aveva fattouna variante friulana di ‘tartufo’. Circolapure campè a óf. Il diz. Cortelazzo-Zolli rin-via ad un «ricostruito òsco *ad ufar, pari adun lat. *ad uber». È pure l’etimo del lat. offa,‘fetta’, o boccone di pane, di carne, ecc.,nonché dell’avverbio lat. offatim ‘a bocconi’.Plauto, Truc. 621: …quem ego offatim iam iamconcipilabo (… che io ormai spezzetterò a boc-concini). Purtroppo la traduzione nonrende l’onomatopea. Da offetta derivanofètta ‘fétta’ e in tempi di miseria anche fètlae fitlina; quest’ultima voce volevaimpreziosire un boccone piuttosto striminzi-to: – Burdél, vó t ’na bela fitlina ad salàmcon un bel culazìn ad pen [il fondo dellapagnotta]? – Ohi, basta che e’ salàm u s’pòsa avdé! – Purìn, te tu ne sé ch’l’è e’ pena fè la zézza e l’è e’ ven a fè e’ sangv? E’ salàmui dà sol dl’umór!S’è detto che offa condivide l’etimo anchecol lat. ùber, in dial. uvér, uvéra, uvaròn: lamammella gonfia da cui il vitellino si saziaoffatim, a óf: par quent ch’ u pò. Inoltre, icalzoni del figlio più grande passati al piùpiccolo i i fèva l’uvaròn int e’ cavàl, ma parpoch: che in mod enca lu u crès a la svelta,diceva la nonna; e pu, on ch’ l’épa pers i bóu ’n gni bèda. Solo gli sfaccendati avevano iltempo di badare agli affari altrui.6. Le etimologie fasulle talvolta hanno con-tribuito a tener in vita un vocabolo. Queltale, poco più vecchio di mia nonna e cheaveva sempre letto di tutto – quel che capi-va e quel che credeva di capire – si vantavad’essere arrivato ‘in fondo’ alla seconda ele-mentare, la scuola dell’obbligo d’allora.Una volta int e’ café ad Cucóma (era ilsoprannome del proprietario) tenne bancospiegando il toponimo Dovàdola: – Danteu ’rivét a e’ fión e, par pasél, u dgét: ‘Dovevado?’ – ‘Vado là’, ui avnét d’arspònd; eacsé u vnét fora un nom che adés u s’èguastè in Dvèdla. – Era convinto che ildialetto fosse la corruzione dell’italiano (asen tot di tuscanèz imbastardì) e cheDante avesse dato i nomi a tutte le cose d’I-talia, come Dio aveva fatto nel paradiso ter-restre. Ovviamente ignorava l’esistenza di‘guado’ (lat. vadum), da cui deriva ‘Dovà-dola’ (Duo vàdora).

Rubrica curatada Addis Sante Meleti

da Civitella

la Ludla12 Marzo 2012

Amore semplice

La chesa è bianca e la padrona è bela:la va per cà che la per una stèla;gli occhi gli ride e la bocca gli cantala va per cà che la per una santa;gli occhi gli canta e la bocca gli ridela va per cà ch' la per e paradise.

(Marradi)

Quanto sei bella il lunedì mattina, ma sei più bella il martedì seguente; il mercoldì mi sembri una bambina, la giovedì una stela rilucente; il venerdì una rosa fra le spina e il sabato sei bella veramente; la domenica poi, quando ti adorni.tu sei più bella ancor degli altri giorni.

(Ravenna)

Tre “Dispetti”

Giovanotin da la beretta rossa tu pensi ben ch’io non t’ariconossa:tu porti le scarpette a mezzopè, tu cerchi delle donne e nun ce n’è.

(Marradi)

Giovanotin da la beretta bruna di ben tre donne non ne à più nessuna. L’una l’è morta e l’altra l’è malata la più belina la s’è maritata. S’è maritata incontro la marena dove si leva il sole la matena: il sol si leva e la luna tramonta, brameva il vostro cor, l’avroia donca; il sol si leva e la lona va zòbrameva il vostro cor, l’avroia mo?

(Marradi)

Tutti mi dice che son brutta brutta;i’ ò cento scudi che mi fa la muffa,i’ ò tri fradell ch’i fa tremé la tera

se io so’ brutta, passarò par bela;i’ ò tri fradell chi fa tremé il terénes’io so brutta a i ò chi mi vuol bene.

(Marradi)

La donna lombardaAmami me amami meo donna lombarda amami me.– Come voto che faza mia sacra curonaCh’a i’ ò il marì ch’a i’ ò il marì. – Se hai marito fallo morire t’insegnerò t’insegnerò. Va nel giardino del tuo signor padre,che c’è un serpent che c’è un serpent.Prendi la testa di quello serpente Schiacciala ben schiacciala ben. E poi mitìla in una caraffina,dov’è il vin bon dov’è il vin bon. Quand vien a casa il tuo caro maritoDirà: gran sé dirà: gran sé.– Ne voto del bianco, del nero, o del rosso?– Di quel più bon di quel più bon.– Cos’à questo vino ch’è intorbididoCos’à sto vin cos’à sto vin?– È stata la tromba dell’altra sera che l’à intorbidì.Dice un bambino di nove mesi:– Non lo bevi che c’è il veleno,– Bevilo tu, o donna lombarda che c’è il velen, che c’è il velen.– Come voto che faza, mio caro marito,ch’an ò gran sé, ch’an ò gran sé.– O bevi il veleno, o sfrodo la spada, devi morir, devi morir.– Sol per amore di sacra curona lo beverò e morirò.Così si tratta le donne crudeli verso il marì, verso il marì.

(Faenza)

L’incontro alla fontanaLa mi mama l’è vecchierella la matina mi fa levé

la mi manda a la funtanella a tu l’acqua da cusiné. Quando fu a meza strada la s’incontra in un cavalier lui gli disse: «Bona fantina, mi dareste un poco da ber? » – Non ò nè scudela nè bichiere da dar da bere al signor cavalier; se vo’ bere a la brocchetta volentieri gliene darò. Quando l’ebbe mezzo bevuto, cara lei, la ringraziò, la gli disse: Signor cavaliere non à niente da darmi a me?Messe mano a la saccoccia, cento scudi a lei donò: – Dagli, dagli allo tuo babboche gli tenga per marità te. – Il mio babbo è un giocatoretutti tutti gli giocarè.– Dagli dagli alla tua mammache gli tenga per marità te. – La mi mamma fa cantineiatutti tutti gli beveria.‘Na fanciulla di quindici annicento scudi gli tiengo da me…

(Marradi)

La Madonna si pettinaMadunena znena znenala si miteva in sdé ‘ns la scaranena, la si pitneva ben i su cavilen. E passè tre folghi e nandren: ona la i tuss e pan ona la i tuss e ven ona la i tuss la rosa d’ins i spen. La madunena la butè un gran strid e’ sintè e su fiol ‘sal port de paradis; e’ dgè: «Madrena mia, lasìi andé ch’ai ardusrèn al punto de la mort: al port de paradis al srà asrédi, queli dl’ inferan ‘verti spalanchédi.»

(Faenza)

Piccola antologia

da “Romagna solatia”

di Paolo Toschi

Come anticipato nella Ludladello scorso mese, integriamo

l’articolo di presentazione dellanostra ristampa di Romagna

solatia di Paolo Toschi conuna piccola antologia di cantipopolari, scelti fra quelli chefurono raccolti direttamente

dall’Autore a Ravenna,Faenza e Marradi.

la Ludla 13Marzo 2012

Scrivere di mondine oggi può appari-re un esercizio inutile: che cosa direche già non sia stato detto di questefigure ormai divenute mitiche, di vocie di canti che negli anni Settantasono stati oggetto privilegiato di ricer-che e di infinite riproposizioni sul-l’onda di quello straordinario movi-mento culturale che è stato il cosid-detto folk revival? Il rischio di scivolare nell’enfasi retori-ca del “canto di lavoro” o quello diinciampare nel groviglio di stereotipiche nel tempo si sono saldamentestratificati attorno all’idea stessa dimondina e di canto di risaia eranoindubbiamente in agguato. Comequello di cadere nella trappola dellarievocazione “fuori tempo” di unfenomeno vissuto oramai solo comesuggestivo residuo di una gloriosaepopea (quella appunto del folk revi-val). Rischi, però, che di fronte allevoci e ai volti delle donne di Medici-na abbiamo capito valeva la pena cor-rere. Il nostro primo incontro con loro èstato del tutto casuale: ci siamo trova-te ad assistere ad una loro esibizioneal Museo Guatelli, in quell’irripetibile“scrigno di cose” che è la raccoltacreata da Ettore a Ozzano Taro, luogosimbolo della demoantropologia ita-liana. Subito siamo state catturatedalle loro voci e dalla schietta sempli-

cità del loro porgersi. E subito abbia-mo sentito che quel che avevano dadirci non poteva certo esaurirsi inquel primo ascolto. Ma la frequenta-zione delle donne di Medicina e illavoro di ricerca vera e propria sonoiniziate un paio di anni più tardi, nel2007, quando quello stesso coro èstato chiamato a partecipare alla Nottedella taranta di Ambrogio Sparagnaorganizzata da Ravenna Festival. È daquel momento che abbiamo preso aseguirle nei viaggi per i concerti incittà come Roma, Rovigo, Torino, ead incontrarle nelle loro case perascoltare (e registrare) i loro canti e lestorie delle loro vite. Un racconto disuoni e di memorie che ci ha portatea ricostruire la storia del gruppo, nato

attorno alla metà degli anni Settanta,ma anche inevitabilmente ad indaga-re il contesto sociale e lavorativo incui la loro esperienza di vita e di cantoè maturata. Il frutto di questa ricercasi muove così su un doppio versante:quello del racconto storico, scaturitoanche dalle testimonianze direttedelle protagoniste, e quello dell’anali-si del repertorio e dello stile di cantodel coro, nonché del valore simbolicoche il canto assume nel contesto delcoro stesso e della comunità di cuiesso è espressione. Il libro si divide, dunque, in due partiben distinte e al tempo stesso tra lorocomplementari. Nella prima si trac-ciano gli inizi dell’attività del coro,nato nel 1976 in un contesto di acce-sa consapevolezza politica: la scintillaprima è infatti costituita dal trenten-nale della Repubblica e della Costitu-zione da celebrarsi presso il monu-mento alle 128 partigiane cadutenella provincia di Bologna, a VillaSpada. È in quel momento che, adieci anni dalla dismissione delle risa-ie di Medicina, prende corpo il biso-gno di recuperare e salvaguardare unpassato non proprio lontano ma chesta rapidamente scolorendo: il grup-po che si crea per quella prima esibi-zione viene a costituire, grazie a Gio-vanni Parini (una figura chiave nel ter-ritorio, ex partigiano e attivo in quelmondo della cooperazione che nellabassa bolognese ricopre un ruolo fon-damentale), il motore di una capillarericerca sul territorio e in particolaresul canto popolare ben oltre lo stereo-tipato repertorio di risaia. Un biso-gno generalizzato in quegli anni, ma a

Siamo tutte d’un sentimentoIl coro delle mondine di Medicina tra passato e presente

diCristina Ghirardini e Susanna Venturi

Al volume di C. Ghirardini e S. Venturi“Siamo tutte d’un sentimento. Il coro dellemondine di Medicina tra passato e presen-te” (Udine, 2011) sono allegati un cd ed undvd con la registrazione dei canti e le testi-monianze delle donne del coro.

Medicina non è in Romagna enon vi si parla il romagnolo, ma

il bolognese. Tuttavia ci èsembrato importante presentare

questa esemplare ricerca diCristina Ghirardini e Susanna

Venturi su una realtàculturalmente e geograficamentemolto vicina alla nostra, anche

perché Siamo tutte d’unsentimento fa da ‘apripista’ ad

un libro di imminentepubblicazione dedicato alle

mondine di Lavezzola dal titoloNoi siamo le canterine

antifasciste. L’autrice è Cristina Ghirardini,

che non ha bisogno dipresentazioni avendo curato

diverse opere pubblicate dallanostra Associazione.

la Ludla14 Marzo 2012

cui il gruppo di Medicina risponde inmaniera del tutto particolare: allesten-do per prima cosa uno spettacolo emettendo in scena un capitolo glorio-so del passato antifascista, lo scioperodel giugno del 1931, con un vero eproprio copione recitato poi a teatro efarcito di quei canti che, da lì in poi,costituiranno l’ossatura di tutte le suc-cessive esibizioni. Infatti, sono pro-prio i canti che finiscono per riassu-mere in sé gli umori di un’epoca, diuna socialità condivisa, di un mododi lavorare, di divertirsi, di lottare, diaiutarsi l’un l’altro: un modo insom-ma di vivere che costituisce (e cheviene percepito come) l’identità delluogo e della comunità. Nei canti èracchiuso tutto. Quindi, partendo daessi, in un percorso a ritroso, si è arri-vate a scoprire i tratti e i confini di

quell’identità comune alla cui forma-zione le stesse mondine hanno contri-buito, con la fissazione della memo-ria, selezionando tasselli appunto“memorabili” di una storia che dapersonale è divenuta storia collettiva.Ed i canti, appunto, sono l’oggettoprivilegiato della seconda parte delvolume, mirata ad approfondire lagenesi del repertorio del coro analizza-ta nei termini di una vera e propria“operazione culturale” attraverso laquale il coro ha saputo, più o menoconsapevolmente, non solo racconta-re il lavoro e la condizione femminiledi un importante periodo storico, maanche evocare l’intero universo cultu-rale di cui queste donne sono porta-trici. Per poi passare a indagare il valo-re simbolico del canto e sullo stilevocale delle mondine e quindi i mec-

canismi per cui in questo contesto ilcanto inevitabilmente si carica disignificati extra musicali. Fino a racco-gliere (nel cd allegato), trascrivere edanalizzare compiutamente il reperto-rio: 30 canti, in parte registrati dalcoro attuale, in parte attinti da regi-strazioni effettuate tra gli anni Settan-ta e Ottanta. In un quadro che sicompleta con il film Il Maggio delleMondine, realizzato da uno dei prota-gonisti dell’attuale antropologia visua-le italiana, Francesco Marano: unasorta di road movie in cui, tra fram-menti di vita delle singole donne etestimonianze colte nei luoghi chefurono risaie, si racconta il viaggiofatto dal coro nel 2009 per raggiunge-re Roma ed esibirsi per il concerto delPrimo Maggio all’Auditorium Parcodella Musica.

Quänd ch’a sän a là in mèþ a runchèrtótti al bisti al s vén a bchèra s guardän int la fâza e dai lè1

a parän tótti âlm adanè.

E té zin e té zin e te þôlapreti e frati alla cariôlae chi bûja2 chi stà (stän) su in Comuneper distrugger la povertà.

E s’al vén pŏ un tänp catîva s bagnän tótti al camîði padrón sŏtt’ali unbrèl:- Stê bôni dòn tuchê vî3 a lavurèr.

E té zin e té zin e te þôla ecc.

Quänd ch’a sän ala dmândga matînapar cunprèr un paið4 ed farîna

a scrulän tótti al bisâca n atruvän gnänc un bajòc mât.

E té zin e té zin e te þôla ecc.

Note

1) lati 2) boia 3) sbrigatevi 4) peso

E té zin e té þôla

la Ludla 15Marzo 2012

5a edizione del concorso “La zirudëla” premio “Dino Ricci”organizzato dalla Pro Loco Decimana

di San Pietro in Vincoli

E’ spred

di Franco Ponseggi

Cun e’ spred, cum’a siv mes?Me l’è un cvël ch’a n digeres,un dè e’ cala, cl’êtr’ e’ cres…Nẽch s’u s’in ciacara spesme sta röba a n la capes.Vó a m dirì: “Mo l’è listes!”E nö, invézi, a m’acanes.Nẽch s’j’ è cvel un pô cumples,a n m’arènd, a l garantes,(mo sta rima a la fines!)E, sicöm ch’a sò tistõ,par zirchêr’ infurmaziõa sò andê, l’êtra matèna,int ‘na bãnca acvè a Ravèna.U m rizév un raðunire me a j fëgh: “A sò in pinsirpar chi cvàtar suld ch’a jò,côsa fê, ch’u m dega lò,

êj sicur s’a fëgh di bot?,ch’a n’avreb armeti tot!Cun tot cvel ch’u s sẽt in þiru j’è nẽch da stê in pinsir,cun ste spred ch’avẽ stra i pi…a prupôsit, ‘s’a vôl dì?”E l’à cmẽz la spiegaziõd tota cvãnta la cvistiõ,arivènd pu cun e’ scórsagli aziõ, al valut, al bórs,e’ tas d scõt, lësa pu dì,e pu i bot e i bitipì,e pu l’euro, i bund tedesch,una masa d’ét’ tramesch,e comunque tot e’ mêll’è e’ famóð “diferenziêl”stra l’Itaglia e la Germãgna,…cun i dèbit ch’l’à la Spãgnae la Grécia (una muntãgna!),e pu e’ scórs u s’ingavãgna,cun al tas e cun e’ PILch’l’è fadiga nẽch a dil.A l’afìrum cun un sègnparchè ormai a n’um ðgavègn.In sustãnza, côsa fê?“E’ segrét: diferenziê!”,u m fa lo, “S t vu avé custrot,te t’in met du tri int i bote una pêrt int agli aziõ,basta fê la prupurziõ.Se l’Itaglia la trabalain ste môd e’ riðgh e’ cala.”Du tri bot, du tri agli aziõ…a n sò miga Berluscõ!Cvàtar suld incavaléa jò þa diferenzié:du tri l’acva, luþ e gas,e pu e’ bol, e’ rosch, al tas,s’u m n’avãza par la zẽnaa m farò una fiurintẽna,un vinël a bõ marchêe a la fẽ a sò pröpi... sprê.

Lo spread Con lo spread, come sietemessi? / È una cosa che non digerisco, / ungiorno cala, l’altro cresce…. / Anche se se neparla spesso / io questa roba non la capisco./ Voi mi direte: “Ma è lo stesso!” / E no,invece, mi accanisco. / Anche se sono cose unpo’ complesse, / non mi arrendo, lo garanti-sco, / (ma questa rima la finisco!) / E, sicco-me sono testone, / per cercare informazioni /sono andato, l’altra mattina, / in una bancaqui a Ravenna. / Mi riceve un ragioniere / eio gli faccio: “Sono in pensiero / per queiquattro soldi che ho, / cosa fare, mi dica lei,/ sono sicuri se faccio dei BOT?, / che nonvorrei rimetterceli tutti! / Con tutto quelloche si sente in giro / c’è anche da stare inpensiero / con questo spread che abbiamo trai piedi…. / A proposito, cosa vuol dire?” / Eha cominciato la spiegazione / di tutta quan-ta la questione, / arrivando poi col discorso/ alle azioni, alle valute, alle borse, / il tassodi sconto, lascia pur dire, / e poi i BOT e iBTP, / e poi l’euro, i Bund tedeschi, / unamassa di altri ingarbugli, / e comunque tuttoil male / è il famoso “differenziale” / fral’Italia e la Germania, / … con i debiti cheha la Spagna / e la Grecia (una montagna!),/ e poi il discorso si aggroviglia, / con le tassee con il PIL / che è fatica anche a dirlo. / Lofermo con un segno / perché ormai non midistrico. / In sostanza, cosa fare? / “Il segre-to: differenziare!”, / mi fa lui, “Se vuoi averecostrutto, / tu ne metti due o tre nei BOT /e una parte nelle azioni, / basta fare la pro-porzione. / Se l’Italia traballa / in questomodo il rischio cala.” / Due tre BOT, due trele azioni… / non sono mica Berlusconi! /Quattro soldi accavallati / io li ho già diffe-renziati: / due tre l’acqua, luce e gas, / e poiil bollo, l’immondizia, le tasse, / se me nerimane per la cena / mi farò una fiorentina,/ un vinello a buon mercato / a alla finesono proprio… in bolletta.

Stal puiðì agli à vent...

Dop tut stal discusioni um pisrìa ch’us pudìs scriva unameil in dialet senza stè mai a zirchè ch’al litrazi sa tut ch’iazent e tut chi segn.

Quii chi vo fe capì che cla "o" o cla "e" la è acsè e acsè, slaboca storta ‘d qua o ‘d dla, i po duvrè l’alfabet foneticinternaziunèlhttp://it.wikipedia.org/wiki/Alfabeto_ fonetico_internazionaleinduc uiè tut i segn chi bsogna, za spighèd bin ben, bastatruvèi.

Av salut, bona zenta.Marcello Maioli, Saludecio

la Ludla16

«la Ludla», periodico dell’Associazione Istituto Friedrich Schürr, distribuito gratuitamente ai sociPubblicato dalla Società Editrice «Il Ponte Vecchio» • Stampa: «il Papiro», Cesena

Direttore responsabile: Pietro Barberini • Direttore editoriale: Gilberto CasadioRedazione: Paolo Borghi, Gianfranco Camerani, Giuliano Giuliani, Omero Mazzesi

Segretaria di redazione: Carla Fabbri

La responsabilità delle affermazioni contenute negli articoli firmati va ascritta ai singoli collaboratori

Indirizzi: Associazione Istituto Friedrich Schürr e Redazione de «la Ludla», Via Cella, 488 •48125 Santo Stefano (RA)Telefono e fax: 0544. 562066 •E-mail: [email protected] • Sito internet: www.argaza.it

Conto corrente postale: 11895299 intestato all’Associazione “Istituto Friedrich Schürr”Poste Italiane s.p.a. Spedizione in abbonamento postale. D. L. 353/2003 convertito in legge il 27-02-2004 Legge n. 46 art. 1, comma 2 D C B - Ravenna

Marzo 2012

Non molti anni or sono, avvalendosi dell’introduzione diGianfranco Lauretano, è uscito per le “Edizioni Pendra-gon” di Bologna Voci dal buio, poesie in dialetto romagnolo diArnaldo Morelli.Morelli è un meldolese del 1939, trapiantato a Molinella(Bo) fin dal ’54, di modo che lo si potrebbe anche defini-re un romagnolo della diaspora, solo che questo distaccodi vecchia data dai suoi luoghi non è stato sufficiente perrimuovere dall’uomo le specificità del territorio di prove-nienza, prima fra tutte la lingua madre che è rimasta laten-te ma viva in lui, a dispetto della prolungata separazione.Dice Morelli: In cinquant’anni ho accumulato pensieri (di là)

che hanno finito per ingombrarmi la casa (qui) di Molinella.Non sembra dunque un caso che, pur già in età matura,l’individuare, significanti in se stesso, i pensieri e le sem-bianze della terra e del linguaggio che avevano segnato glianni dalla fanciullezza all’adolescenza, abbia coinciso, allaprova dei fatti, con la rivelazione\irruzione nella sua vitadella poesia, una poesia che, di conseguenza, non potevache essere costruita per e col dialetto.È una scrittura poetica, quella di Arnaldo Morelli, adultae consapevole, una scrittura poco incline a sposare quelliche sono ritenuti i consueti canoni della lirica romagno-la. I suoi, insomma, sono versi che poco si appagano diapprocci superficiali, ma chiedono viceversa al lettore dinon contenersi a una prima lettura, accostandosi piutto-sto ad essi con una intenzionalità che loro sono poi ingrado di ripagare con larghezza.Per questa pagina 16 individuiamo fra le tante una dellepiù impulsive ed agevoli poesie della raccolta nella qualequel pasa parola, già detto in precedenza e poi ribadito duevolte nel verso finale, finisce per coinvolgerci tutti,ammassandoci a quell’eccitata frotta di foglie in fugadavanti al vento.

Paolo Borghi

Arnaldo Morelli

E’ vent

Il vento Oggi m’è apparso il vento \ è un bel ragazzo \ ha uno zainetto addosso,\ fa rumore \ volteggia fra le aiuole \ di qua di là fa spola \gli cala dalla spalla una budella \ tubo che punta sulle cose morte \ e le foglie, leggere, leggere \ sono sempre le prime che lo ascoltano \ e c’èun passaparola, un movimento \ da finire davanti al vento \ per finire dove vuole il vento \ passa parola, passa parola.

E’ vent

Incò m’è pers e’ ventl’è un ragazètcun un zainèt indòs,ch’u fa dla rògiavultégia tra gli aoliin qua in là fa spòlaui cala da la spala na budèlacanon ch’ul ponta so dla roba mortae al foi alziri, alziria gl’è sempra al prèmi che li ‘scoltae u j’è un pasaparola, un muviméntda fnì davénti a e’ ventpar fnì duv vòl e’ ventpasa parola, pasa parola.