Ludla Febbraio 19 k Layout Ludla - Il dialetto romagnolo ...

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la Ludla 1 “Poca favilla gran fiamma seconda” Dante, Par. I, 34 la Ludla (la Favilla) Periodico dell’Associazione “Istituto Friedrich Schürr” per la valorizzazione del patrimonio dialettale romagnolo in collaborazione con il Comune di Ravenna - Assessorato alla Cultura Autorizzazione del Tribunale di Ravenna n. 1168 del 18.9.2001 Società Editrice «Il Ponte Vecchio» Anno XXIII • Febbraio 2019 • n. 2 (193°) SOMMARIO Tre liriche di Gianni Fucci Ninne-nanne romagnole di Nino Massaroli Poesie d’amore nel giorno di San Valentino I luoghi di Rimini nella toponomastica popolare - I di Davide Pioggia A vegia di Natalia Fagioli Illustrazione di Giuliano Giuliani Tonina Facciani - Insøgni di Leonardo Belli Parole in controluce: zòcol, scafa, piéga Rubrica di Addis Sante Meleti La msura di Paolo Maltoni E’ dè ad Sân Grugnon di Gilberto Casadio Successo romagnolo a “Salva la tua lingua locale” La redazione I scriv a la Ludla Gianfranco Miro Gori - La s-ciuptèda di Paolo Borghi p. 2 p. 3 p. 4 p. 6 p. 8 p. 10 p. 11 p. 12 p. 13 p. 14 p. 15 p. 16 Addio a Gianni Fucci di Paolo Borghi Febbraio 2019 - N. 2 Il quindici di questo mese di febbraio Gianni Fucci, uno dei portavo- ce più qualificati, influenti e autorevoli nell’ambito della poesia dialet- tale romagnola, ha preso commiato dall’esistenza lasciandoci tutti un po’ più soli, confusi e smarriti, di fronte all’operato di una morte che, simile a un autocrate dirimpetto al branco dei sudditi remissivi, ha sempre mostrato esigui riguardi nel compiere le proprie scelte insana- bili, una morte che nell’imperscrutabilità recondita dei suoi percorsi non ha mai rivelato alla collettività degli umani (predestinati ma igna- ri interpreti dell’evento) la benché minima intenzione di praticare eso- neri o moratorie ad alcuno dei protagonisti implicati nella vicenda, fosse costui banale o inconsueto, pragmatico o sognatore, materiali- sta… o magari semplicemente poeta. Nel tempo, il cammino di Fucci come uomo e come autore, è sempre stato quanto mai limpido e in primo luogo coerente: specchio di un’in- dole immune da accomodamenti con gli stereotipi di un riproporsi assiduo della quotidianità, e dunque poco consona a vagheggiare, nei propri percorsi, stratagemmi o soluzioni di comodo. Lui e un coerente numero di amici orbitavano nell’incomparabile micro- cosmo romagnolo dell’altrettanto minuta ma non per questo facilmente rimpiazzabile Santarcangelo, dando origine nella circostanza a quello che in seguito, vista la natura dei partecipanti, con bonario sarcasmo fu battezzato dai santarcangiolesi con la locuzione “E’ circal de’ giudéi- zi”: sostanzialmente una circoscritta brigata di confidenti che, a dispetto del numero, è stata in grado di dare origine nella cittadina romagnola a una sorta di Eden utopistico, luogo d’innovazione e di crescita poetica e concettuale. Continua a pag. 2

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la Ludla 1

“Poca favilla gran fiamma seconda”Dante, Par. I, 34

la Ludla(la Favilla)

Periodico dell’Associazione “Istituto Friedrich Schürr”per la valorizzazione del patrimonio dialettale romagnolo

in collaborazione con il Comune di Ravenna - Assessorato alla CulturaAutorizzazione del Tribunale di Ravenna n. 1168 del 18.9.2001

Società Editrice «Il Ponte Vecchio» Anno XXIII • Febbraio 2019 • n. 2 (193°)

SOMMARIO

Tre liriche di Gianni Fucci

Ninne-nanne romagnoledi Nino Massaroli

Poesie d’amore nel giorno di San Valentino

I luoghi di Rimini nella toponomastica popolare - Idi Davide Pioggia

A vegiadi Natalia FagioliIllustrazione di Giuliano Giuliani

Tonina Facciani - Insøgnidi Leonardo Belli

Parole in controluce:zòcol, scafa, piégaRubrica di Addis Sante Meleti

La msuradi Paolo Maltoni

E’ dè ad Sân Grugnondi Gilberto Casadio

Successo romagnolo a “Salva la tua lingua locale”La redazione

I scriv a la Ludla

Gianfranco Miro Gori - La s-ciuptèdadi Paolo Borghi

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p. 14

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Addio a Gianni Fucci

di Paolo Borghi

Febbraio 2019 - N. 2

Il quindici di questo mese di febbraio Gianni Fucci, uno dei portavo-ce più qualificati, influenti e autorevoli nell’ambito della poesia dialet-tale romagnola, ha preso commiato dall’esistenza lasciandoci tutti unpo’ più soli, confusi e smarriti, di fronte all’operato di una morte che,simile a un autocrate dirimpetto al branco dei sudditi remissivi, hasempre mostrato esigui riguardi nel compiere le proprie scelte insana-bili, una morte che nell’imperscrutabilità recondita dei suoi percorsinon ha mai rivelato alla collettività degli umani (predestinati ma igna-ri interpreti dell’evento) la benché minima intenzione di praticare eso-neri o moratorie ad alcuno dei protagonisti implicati nella vicenda,fosse costui banale o inconsueto, pragmatico o sognatore, materiali-sta… o magari semplicemente poeta.Nel tempo, il cammino di Fucci come uomo e come autore, è semprestato quanto mai limpido e in primo luogo coerente: specchio di un’in-dole immune da accomodamenti con gli stereotipi di un riproporsiassiduo della quotidianità, e dunque poco consona a vagheggiare, neipropri percorsi, stratagemmi o soluzioni di comodo.Lui e un coerente numero di amici orbitavano nell’incomparabile micro-cosmo romagnolo dell’altrettanto minuta ma non per questo facilmente

rimpiazzabile Santarcangelo, dandoorigine nella circostanza a quelloche in seguito, vista la natura deipartecipanti, con bonario sarcasmofu battezzato dai santarcangiolesicon la locuzione “E’ circal de’ giudéi-zi”: sostanzialmente una circoscrittabrigata di confidenti che, a dispettodel numero, è stata in grado di dareorigine nella cittadina romagnola auna sorta di Eden utopistico, luogod’innovazione e di crescita poetica econcettuale.

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la Ludla2 Febbraio 2019 - N. 2

Segue dalla prima

Gli aderenti alla cerchia rispondeva-no ai nomi di Tonino Guerra, Raf-faello Baldini, Nino Pedretti, RinaMacrelli e Flavio Nicolini, e assiemea Gianni Fucci istituivano all’epocaun improbabile ma provvidenzialeconnubio di poeti, scrittori e lettera-ti i quali, porgendo un contributopalese e compiutamente accettato alpanorama intellettuale e all’interalirica dialettale romagnola del

secondo novecento, sono stati capa-ci di sdoganarla in modo risolutivoda quel ruolo di subalternità eserci-tato in precedenza, nobilitandola esottraendola a uno stato di soggezio-ne divenuto a questo punto incon-gruo, per indirizzarla ai massimilivelli.Ovunque tu sia Gianni, grazie, poi-ché in questa contemporaneitàtiranneggiata dallo schiamazzo arte-fatto delle televisioni, in questa cul-tura del presente manipolata e sna-

turata da un’abnorme smania diproduttività ed espansione, nel-l’odierna e dominante formazioneculturale che non si fa scrupolo diinficiare, senza attendersi ripercus-sioni di sorta, la vitalità, l’efficacia ele prerogative insostituibili dellaparola scritta, hai fatto a nostro sus-sidio, del tuo pensiero e della tuapoesia, un’impareggiabile presa dicoscienza, premessa e incentivo aseguire immeritati le tue tracce e anon mollare.

Paeis

L’è arivat un gran svéit se fê dla sàira e agli òmbri agli érra lònghi éulta al murai, travérs cantìr, sòura e’ vàird dal calèri.Tal chêsi véci tónda la piazèttadvè ch’i gévva e’ rusêritl’udòur ad brusadézz di gambaréunch’i cus la pida sòura róli ad fómmadès l’è acsè tranquéll che aquè vaiéunogni vòusa ch’u s sint la sòuna ciòche parsina la léuna alasò in êltu n’è che un òc ad cózz spropositèd.

Da Témp e tempèsti

Paese

È arrivato un gran vuoto sul fare della sera / e le ombre eranolunghe alle muraglie, / in mezzo ai campi, sul verde delle calla-ie. / Nelle case vecchie attorno alla piazzetta / dove dicevano ilrosario / nell’odore di bruciato dei gambi di granturco / coiquali cuocevano la piada su fumosi focolari / adesso è così tran-quillo che qui attorno / ogni voce ascoltata ha suono falso / epersino la luna lassù in alto / non è che un occhio di vetro spro-positato.

Da la finèstra

Puzêd me davanzêlta i staðévvi dagli òuri e’ dopmeþdèsla testa ch’la viaþévva par su còunt.

Quant mai pensìr i è pas par cla finèstrae i s’è cuvê tra i sas de vec salghê,tl’òmbra mórba dl’andròuntra ‘l ðgrégni dal ragazich’al mandévva cagli ucèdi ingurdòuðie i lêmp dal còsi biénchi ad sparaguài!

Quèll l’érra e’ témp ch’ e’ galupévva e’ córe i an l’érra dal strêdi lóstri ad sòul.

Da Vént e bandìri

Dalla finestra

Appoggiato al davanzale / ci stavi delle ore il pomeriggio /con la testa che viaggiava per conto suo.// Quanti pensierisono passati per quella finestra / e si sono chinati tra i sassidel vecchio selciato, / nell’ombra morbida dell’androne / frale risatine delle ragazze / che lanciavano quelle occhiateingorde / e i lampi delle bianche cosce di straforo! // Quelloera il tempo in cui galoppava il cuore / e gli anni erano stra-de lustre di sole.

Cmè un susórr

L’è stê che dè, quand dréinta la tu cambra guèsi e’ paréva ch’e’ fóss éintri e’ mêr,che a l’impruvéis, t’è trasantéi cla vòusa ch’la géva: «E’ sòul, la léuna, la Mafalda: tótt’ ròbi bèli, però ténti in mént:e’ mònd l’è te su pasè».

Cmè un susórrch’u s sparguiévva alè, d’aria durêda, at che gran svéit t’avévvi tónda e’ cór; at che strémmal lizìr cmè un vòul ad pavaiòta sòura un fiòur.

Da Témp e tempèstiCome un sussurro

E stato quel giorno, quando nella tua stanza / quasi sembravafosse entrato il mare, / che all’improvviso, hai percepito quellavoce / che diceva: «Il sole, la luna, la Mafalda / tutte cose belle;però ricordati: / il mondo è nel suo passare». / Come un sussur-ro / che si propagava lì, nell’aria dorata, / in quel gran vuotoche avevi attorno al cuore; / in quel fremito leggero / come ilvolo di una farfalla sopra un fiore.

Tre liriche di Gianni Fucci

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la Ludla 3Febbraio 2019 - N. 2

Il grido del dolore e dell’amorematerno, il profumo dell’animaromagnola, il più delicato lirismopassionale colora questi canti, dolcicanti sbocciati all’ombra di sorriso didue occhietti innocenti, di due picco-le labbra rosee. V’è in questi cantitutta l’anima fiera ed ardente delladonna di nostra terra, ancora fanciul-la e già madre; e una freschezza viva,un colorito esuberante e smagliante,una armonia che scorre sonora comeacqua sorgiva e serenella!Risuona in questi canti l’eco dellanatura esteriore: fruscio di rami, sus-surrii di vento, battìo d’ali, odor d’er-ba e di sole, venate freschezze di albe,sgargianti luccichii di tramonti! Sonoparole bagnate di rugiada, sono gia-culatorie d’adorazione! Presso unaculla l’anima d’una madre canta inginocchio. L’elemento mistico profu-ma questi canti come un incenso. Esono deliziosi: fioriscono così natura-li e semplici e ingenui come fiorisce ilcanto nella gola dell’usignolo; sonodiafani e leggeri come le ali delleprime farfalle bianche.[...]Le ninne-nanne della Romagna sonoa verso breve, tolte quelle di Villano-va di Bagnacavallo, a verso endecasil-labo o dodecasillabo, che sono di unamorbidezza e grazia e freschezza qualenon ha riscontro che nelle nannedelle spiagge di Venezia e dell’Istria.

Ninan ninan la mi babena bona,la mama che v’ha fat la vi customa:la vi customa e la vi da e su lat,si banadet la mama che v’ha fat;la vi customa e la vi da la teta,la mama che v’ha fat si banadeta!Ninan ninan la mi babena bonain paradis u j’è j’anzulen ch’sona:in paradis u j’è j’anzulen ch’canta,ninan ninan la mi babena santa:in paradis u j’è di j’anzulen,E quà da nò’ u j’è di bei baben!

Una nanna cotignolese di squisitagrazia popolare:

Fa la nana e mi bel vis,fiuraden de paradis;Paradis l’è cosa santa,j’anzulen i sona, i canta;Paradis l’è cosa bona,

j’anzulen i canta i sona;Paradis u si sta ben:canta e sona j’anzulen!

Miracolo gentile! presso una culla ilduro ed aspro linguaggio romagnoloacquista una morbidezza vellutata,un suono armonioso di campaned’argento: la parola si stende e spianacon largo respiro nella forma parossi-tona come su spiaggia aprica e indolce seno.Ma quando la miseria, la fame entradalla soglia e s’asside scarmigliatapresso la piccola culla, come è tristela ninna-nanna nella sua rude sempli-cità:

Ninàn, ninàn, ninàn, babé, la papae nun ti posso dé ca nun l’ho fata;a nun l’ho fata ca ‘n aveva legna,sta bon e’ mi babén, speta c’ a vegna:a nun l’ho fata c’an aveva e’ pan,sta bon e’ mi babén cl’è chér e’ gran;a nun l’ho fata c’an aveva e’ sel,sta bon e’ mi babén che la va mél.

Ma questi canti in cui si riflette “ildivin silenzio verde” dei nostri pianio dei nostri monti, bisogna udirli a

sera stando sull’aia o nell’ora lumino-sa della siesta, quando i villaggi roma-gnoli dormono sotto il bianco sole ele cicale zirlano dallo smeraldo don-dolìo delle pioppe e da una fenestrel-la socchiusa viene un cantilenarelungo:

… sré i vostr’ucìcuntinté la vostra mama!

V’è in questi canti, più che nei cantiprettamente lirici (stornello) l’animanuda ed il volto di Romagna coi suoilunghi filari di betulle e quel paesag-gio così caratteristico della Roma-gnola:Folti giuncheti dove l’acqua stagna,casette solatìe su l’aia bianca,lunghi canali dove l’acqua stanca,riflette i pioppi e il cielo di Romagna!

Da «Il Folklore Italiano», 1 (1925).Ora in N. M., Divagazioni sul folkloreromagnolo 1920-1933, a cura di Vero-nica Focaccia Errani, Imola, EditriceLa Mandragora, 2018 - 12o volumedella nostra collana Tradizioni popolarie dialetti di Romagna.

Ninne-nanne romagnole

di Nino Massaroli

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la Ludla4 Febbraio 2019 - N. 2

A la mi dona

di Francesco Talanti Sant’Alberto di Ravenna

Quand arvess la finestra a la matëna, am sent a vnir in fazza un’eria alzira che forsi l’ha sfiurè quelca culëna, rubend un uduren a la custira.

Ch’l’epa dett una quelca parulëna a la mi dona dnezz a la spicira?O quand ch’la guerda e port e la marëna cun j’occ rident, stasend a la ringhira?

Forsi e pinsir in che mument e vola a Triest, a San Giost, là fra cal mura, e alora e mor in boca la parola,

ch’a vleva di’, che instand ch’e mond e dura,avreb c’la foss iquà dacant li solacal nott tremendi quand us sent la bura.

Da: Sottovento, 1903A la mia donna

Quando apro la finestra di mattina / mi sento venire in facciaun’aria leggera / che forse ha sfiorato qualche collina, / ruban-do un profumo alla costiera. // Che abbia detto qualche paro-lina / alla mia donna, davanti allo specchio? / O quando guar-da il porto e la marina / con gli occhi ridenti, appoggiata allaringhiera? // Forse il pensiero in quel momento vola / a Trieste,a San Giusto, là fra quelle mura, / e allora muore in bocca laparola, // che volevo dire, che intanto che dura il mondo, / vor-rei fosse qui davanti, lei sola / in quelle notti tremende quandosi sente la bora.

Bèla

di Raffaello BaldiniSantarcangelo

La tòurna d’ogni tènt, par la su mà, la sta póch, du tri dè, la n scapa mai, mè pu a so sémpra fura.A la ò incòuntra par chès, tla farmacéa,«Mo quant’èll ch’a n s’avdémm?», la m’è pèrsa piò znina,«T’é i cavéll chéurt», ch’ la i éva lóngh, sai spali, la à céus i ócc: «Ta t’arcórd di mi cavéll?»

Vinicio u i éva fat una pasiòun.E li gnént. Sa chi ócc véird e e’ maiòun zal.U i era ènca andè dri Lele Guarnieri, e la dmènga l’avnéva da Ceséina a balè un biònd s’una Giulietta sprint.Mè, la era tròpa bèla, a n m’arisghéva.

Dop a la ò cumpagnèda fina chèsa,la à vért, ò détt: «Cs’èll ch’avrébb paghè ‘lòurapar no purtè i ucèl!»,la à ridéu: «A s’avdémm fr’agli èlt vint’an»,

pu da e’ purtòun custèd, préima da céud, la m’à guèrs: «Ta m piesévi», senza réid, «Quanti nòti a t’ò insugné!»

Da Furistir, 1988

Bella

Torna ogni tanto, per sua madre, / sta poco, due tre giorni, nonesce mai, / io poi sono sempre fuori. / L’ho incontrata per caso,in farmacia, / «Ma quant’è che non ci vediamo?», / mi è sem-brata più piccola, / «Hai i capelli corti», che li aveva lunghi,sulle spalle, / ha chiuso gli occhi: «Ti ricordi dei miei capelli?»// Vinicio ci aveva fatto una passione. / E lei niente. Con que-gli occhi verdi e il maglione giallo. / Le aveva fatto la corteanche Lele Guarnieri, / e la domenica veniva da Cesena / aballare un biondo con una Giulietta sprint. / Io, era troppobella, non m’arrischiavo. // Dopo l’ho accompagnata fino acasa, / ha aperto, ho detto: «Cosa avrei pagato allora / per nonportare gli occhiali!», / ha riso: «Ci vediamo fra altri vent’anni»,/ poi dal portone accostato, prima di chiudere, / m’ha guarda-to: «Mi piacevi», / senza ridere, «Quante notti t’ho sognato!»

La dichiaraziôn (d’una völta!)

di Aldo ZamaRavenna

Sgnurêna! a vléva dscöri stamatêna quând c’a l’ò vésta ‘travarsë la piàzza, mo quând c’aj sò stè ‘vsên, guardéndi in fàzza e incuntrénd i su ócc da Madunêna,

um è ciàp un fatt trémit, un fatt chè c’am sò incantë a guardëj, icé a du pass, e um paréva che in piazza tott i sassi fruléss tott in tond, chissà parchè!

L’à da dì che ajir sera, c’a pinséva da dezìdum a dscöri, de timor aj dàgh la mi parola c’an n’avéva!

Adèss aj scrìv e aj zùr sora l’unor c’aj vój tànt ben c’a la turébb par mój!Cun mè, sgnuréna, al vola fè l’amor?

Poesie d’amore

nel giorno di San Valentino

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la Ludla 5Febbraio 2019 - N. 2

La dichiarazione (d’una volta!)

Signorina! Volevo parlarle stamattina / quando l’ho vista attra-versare la piazza, / ma quando le sono stato vicino, guardando-la in viso / e incontrando i suoi occhi di Madonnina, / mi èpreso uno strano tremito, un non so che / e sono rimasto incan-tato a guardarla, così a due passi, / e mi pareva che in piazzatutti i sassi / girassero in tondo; chissà perchè! / Deve dire cheieri sera, quando pensavo / di decidermi a parlarle, del timore,/ le dò la mia parola, non ne avevo! / Ora le scrivo e le giurosul mio onore / che le voglio tanto bene, che la prenderei permoglie. / Con me, signorina, vuol fare all’amore?

Da Prufóm d’ricùrd 1918

Quel ch’ l’è fatt, l’è fatt!

di Rino GramelliniForlì

Un zovan l’era còtt da piò ‘d sì mis int una bionda ‘d quéli eh’ è int la fola che e’ su babb e’ vindeva dal camis! e un bel dé u s’ decide ‘d cmandèj la fiöla!

«Mè sé ch’ a so cuntent, mi moi precis e sicoma ch’ a so t’ sì andè a la scola t’ avré j occ bun da lézar in cl’ avis! Guèrda che mè a j o sol una parola!

Pù ui insgnep ilà pr’ éria, scrett ad blu e’ cartéll eh’ 1’ era sora una scansì: e lo, fasendsi sotta coma un ciù,

e’ lizé nenca s’ 1’ era un po’ smalvì:«Arcurdiv che j artecul ch’ s’ é vindù in s’ pò nò baratè, nò dèr indrì! ».

Ciò che è fatto, è fatto!

Un giovane era cotto da più di sei mesi / in una bionda diquelle da favola, / che suo babbo vendeva camicie! / e un belgiorno si decise di chiedere la figlia! / «Io sì che son contento,mia moglie pure / e siccome so che sei andato a scuola, /

avrai gli occhi buoniper leggere quell’avvi-so. / Guarda che iosono d’una parolasola! / Poi gli indicò làin alto, scritto in blu /il cartello che era soprauna scansia: / e luifacendoglisi sotto comeun allocco / lesseanche se era un po’sbiadito: / «Ricordate-vi che gli articoli ven-duti / né si barattano,né si restituiscono»!Da:Al garnël dla smenta

L’ingòz

di Ruffillo Budellacci - BertinoroL’è sempar a là vers sera cvent e’ sol e sta calend che u t ariva adoss...che vel ‘d malincunia.E t gverd da cla perta che tira e’ vent pr’ avde... se l ariva cla vosa che t se che 1 an ariva piò.E t at gverd in torna, se par ches ui fos armast a mench l’ombra.L’urecia, la sent incora cal vosi che al rimbumbeva tra i mur,e al t rimpiva la vita.E incù?Un silenzi che u t rimpess ad tristeza!Ombri niri al voga par la mimoria ombri e vosi che sol e’ zarvel e po capì.E... cvent ai pens,a m pass un fazulet a sota j occ.

L’angoscia

È sempre là verso sera / quando il sole sta calando / che ti arrivaaddosso ... / quel velo di malinconia. / E guardi dalla parte chetira il vento / per vedere se arriva quella voce che sai che non arri-va più. / E ti guardi intorno se per caso / ci fosse rimasto almenol’ombra. / L’orecchio sente ancora quelle voci / che rimbombava-no tra i muri / e ti riempivano la vita. / Ed oggi? / Un silenzioche ti riempie di tristezza! / Ombre nere vogano per la memoria./ Ombre e voci che solo il cervello può recepire. / E... quando cipenso, / mi passo un fazzoletto sotto gli occhi.

Mòdi ad vlòi bén

di Dauro Pazzini - Verucchio

Vlòi bén senza tradói l’è vlòi bén ma piò persòuni

senza mai ferói.Al déggh pianìn, che a t vói bén, e a diffònd la mi allegréa da i altoparlènt.Tè ta m’inségnche l’amòurl’à i pàs pesènte e’ tradimént l’avrébbdagli impròunti profóndi.A camnarò sòura i vóidarpar feróim mè snò.

Modi d’amare

Amare senza tradire / è amare più persone / senza mai ferire.Sussurro / che ti amo /e diffondo la mia allegria / dagli alto-parlanti. / Tu m’insegni / che l’amore / ha passi pesanti / e iltradimento avrebbe / orme profonde. / Camminerò sui vetri /per ferirmi io solo

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la Ludla6 Febbraio 2019 - N. 2

Chi oggi consulti una pianta dellacittà di Rimini (Rémmin) vedràun’imponente distesa di costruzioni,che prosegue senza soluzione di con-tinuità lungo la costa, congiungendo-si coi comuni limitrofi. Questo statodi cose però si è determinato solonegli ultimi decenni, mentre neisecoli precedenti la città è cambiatamolto lentamente, e i suoi luoghisono rimasti sempre ben differenzia-ti. Bisogna inoltre considerare che losviluppo economico e tecnologicomoderno consente di dominare facil-mente gli ostacoli geografici, ma finoa pochi decenni fa la geografia deiluoghi era assolutamente determi-nante nel definire certi confini e lepossibilità dello sviluppo. Anche dalpunto di vista linguistico si può osser-vare che fino ai primi decenni del XXsecolo ogni quartiere della città eogni sobborgo aveva una parlata pro-pria, facilmente riconoscibile e distin-guibile, e solo dopo la Seconda guer-ra mondiale l’immigrazione dallecampagne e la progressiva diffusionedell’italiano hanno deteriorato que-sta varietà linguistica, che ormai siritrova solo nei parlanti più anziani.La differenziazione tra le parlate si èsviluppata nell’arco di molti secoli, a

partire dal tardo latino volgare finoagli esiti odierni: se nei quartieri dimolte città si sono avuti esiti peculia-ri è perché essi da un punto di vistasociale, economico e urbanisticosono rimasti in qualche modo auto-nomi rispetto agli altri. Così a Rimi-ni chi apparteneva alla marineriaviveva nei borghi attorno al Porto (e’Pört) e frequentava solo in occasionidefinite chi risiedeva entro l’anticacinta muraria della città.In considerazione di tutto ciò, perfarsi un’idea dei rapporti storici fra iluoghi della città è preferibile utiliz-zare una pianta di qualche secolo fa.Noi qui faremo riferimento alla pian-

ta di De Lalande del 1786 (Fig. 1),che analizzeremo con l’aiuto di unasua rappresentazione schematica(Fig. 2).

1. La geografia del luogo e l’impian-to urbanistico

La pianta mostra diversi elementidella geografia entro la quale fu eret-ta la città, delimitata: a) dal Mare Adriatico (e’ Mër), anord-est, sulla destra della pianta; b) dal torrente Ausa (l Ëuṡa), a sud-est, in basso sulla pianta; c) dal fiume Marecchia (e’ Marèccia),1

detto anche semplicemente il Fiume(e’ Fiọmm), a nord-ovest, in alto sullapianta; il nome latino della città, Ari-minum, deriva proprio dal nome delfiume, che i Romani chiamavano Ari-minus; d) dalla colline retrostanti, a sud-ovest, che si possono immaginaresulla sinistra della pianta qualora essavenisse prolungata verso monte diqualche chilometro. Per uscire dallacittà e dirigersi verso Ravenna e versoRoma bisognava dunque attraversarei due ponti posti ai lati della città (P1-P2). La strada che giunge a Rimini daRoma è la Via Flaminia, e chi arrivapercorrendo quest’antica stradaromana entra in città trovandosi difronte un arco trionfale oggi denomi-nato Arco d’Augusto (l Ërc), chesegna appunto il termine della ViaFlaminia e fu edificato in epocaimperiale, probabilmente in sostitu-zione di una precedente porta diepoca repubblicana. Oggi il torrenteAusa e stato tombinato e deviato amonte della città, per cui il ponte in

I luoghi di Rimini

nella toponomastica popolare

I

di Davide Pioggia

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la Ludla 7Febbraio 2019 - N. 2

prossimità dell’Arco d’Augusto (P2)non esiste più. Invece il ponte sulfiume Marecchia (P1), costruito inepoca imperiale, resiste nei secolicome monumento dell’ingegneriaromana. Oggi esso si chiama Pontedi Tiberio (e’ Pòunt), ma in passatoebbe varie denominazioni, e popolar-mente era detto anche Ponte del Dia-volo (e’ Pòunt de’ Diëvul). Da questoponte partono verso nord la Via Emi-lia e la Via Popilia, che i Romanicostruirono per raggiungere Piacenzae Aquileia da Rimini. Per comprendere lo sviluppo dellacittà precedente e successivo allasituazione descritta dalla pianta diDe Lalande occorre tenere presenteche la città subì diversi sconvolgimen-ti storici e urbanistici che ne mutaro-no profondamente l’aspetto.Il primo fu la costruzione di unanuova cinta di mura esterna all’anti-ca cinta romana. La nuova cinta fucostruita a partire dal XIII secolo eproseguì per decenni, con completa-menti e rifacimenti, soprattutto pervolontà dei Malatesta. Quelle visibilinella pianta di De Lalande sonoappunto queste nuove mura medie-vali, dette Mura Malatestiane (alMùri), o Bastioni (sing. e’ Bastiòun,pl. i Bastiùn). Il confronto fra le duecinte murarie si trova nella piantadel Benedettini del 1864 (Fig. 3), ilquale confronta le mura della cittàcom’erano alla sua epoca (sostanzial-mente immutate rispetto all’origina-rio perimetro medievale) con l’anticacinta romana. La costruzione dellanuova cinta ebbe ovviamente nume-rosi effetti sull’assetto e sullo svilup-po della città, e in particolare: a) l’in-

clusione nell’area urbana dei primisobborghi che all’epoca stavano sor-gendo fuori dalle mura, solitamentein corrispondenza di qualche porta;b) la realizzazione di nuove porte incorrispondenza di quelle più anti-che, per cui al posto delle anticheporte si ebbero altrettante coppie diporte. L’inclusione dei sobborghi fupoco rilevante verso l’Ausa e verso ilMarecchia, perché su questi versantisi aveva già il confine naturale deicorsi d’acqua, e i sobborghi erano giàsorti oltre tali corsi d’acqua, sicché lenuove mura non fecero altro cheestendersi fino ai ponti senza inclu-dere consistenti quartieri abitati.Invece verso mare e verso montefurono inclusi dei sobborghi già con-sistenti, come diremo meglio inseguito. Il secondo sconvolgimento coincidecon l’instaurazione del regime napo-leonico, fra la fine del XVIII secolo el’inizio del XIX. Il nuovo regimeinfatti soppresse la maggior partedegli ordini monastici, per cui decinedi monasteri distribuiti nell’areaurbana o nei sobborghi, assieme adalcune chiese, vennero requisiti, tra-

sformati in edifici pubblici, rivendutiai privati o demoliti. Quando nel1815 fu restaurato il governo delloStato Pontificio l’assetto urbanisticodella città era ormai irrimediabilmen-te mutato. Il terzo si colloca nel XIX secolo e fusegnato da due eventi cruciali. Anzi-tutto la nascita, nel 1843, del primoStabilimento Balneare, detto comu-nemente i Bagni (i Bàgn), in prossi-mità della battigia (nell’area indicatacon la lettera G dello schema, o nellapianta del Benedettini col numero65). Il secondo fu la costruzione dellaFerrovia (la Feruvìa), progettata sottolo Stato Pontificio e completata subi-to dopo l’annessione al Regno d’Ita-lia, nel 1861. La Ferrovia, che nellapianta del Benedettini è rappresenta-ta con una coppia di linee rette paral-lele, tagliò in due l’area a mare dellacittà, e la città balneare finì per svi-lupparsi soprattutto a mare della Fer-rovia, dove in precedenza c’eranosolo sterpaglie e orti. A partire daquel momento è come se a Rimini cifossero due città in una: quella stori-ca posta sopra la Ferrovia (sóra laFeruvìa) e detta semplicemente la

Città (la Zità), e quella bal-neare posta sotto la Ferro-via (såtta la Feruvìa) e dettala Marina (la Marèina).

Nota

1. Il nome Maricula o Mari-cla, da cui deriva appunto«Marecchia», comincia acomparire solo verso la metàdel X secolo, in un’epoca incui il fiume procurava spessoalluvioni e straripamenti.Essendo maricula un diminu-tivo di mare questo nome fapensare appunto ad una foceche si confonde con il marein un ambiente acquitrinosoe paludoso. Quanto al nomedialettale, nel dialetto urba-no il genere è diventatomaschile per l’influenza del-l’italiano, ma nei dialettirustici si ha ancora l’origina-rio genere femminile: laMarèccia.

Continua nel prossimo numero

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Cla sera, a vegia, i s’era fèt fora unagran spadlèda d’anmi che cal doniagl’iaveva bustarghì int e fouran dlastufa. Par tèra l’era tot gosi, mucididria i pi’ dla tèvla o tra ‘l scarani, dalgosi ch’al scrichiva sota i pia e cheMichil, l’arzdour, d’ogna tent e spa-tasèva cun un chilz parché ch’unc’avdéss che la spanzèda piò grosa usl’era propi fata lo, ch’un e vlevarcnoss.Torna la tevla ij’era quasi tot: la surè-la dl’arzdour, ch’la faseva la sèrta e las’era mesa isdé propi sota la lusapr’avdè lun ben a trapunté bevar ebavaresi ‘d giaca un dop cl’èt ; e sufradèl piò znin che cla sera un’erasera da murousa e nenca lo d’ognitent e daseva so par purtè ‘venti escours e nenca par tnéss sveg quant esantiva ch’us impalughiva. Po’ ui erae ba ‘d Michil, e nòn che, dal sèt ch’-javeva sparcè, us era sculè tot e rest debuciòun arvanzè soura la tèvla, po’l’era andè int la cantena a spilé unfiasc ad cagnina parché e saveva cheagl’anmi al fa vnì una masa ‘d seida eche, ciacarend, e bicìr us svuita sobit.La moi ‘d Michil, la Bianca, l’aiutevala cugnèda fasend de sotpunt e labutéva so int la stufa quant la andè-va zo d’ cheld. La saveva che tot calgiachi, e sabat, agl’iaveva da èss fini-di e che lurèti doni agl’aveiva da stè‘lvèdi e menc e menc fena a la mèza-nòta.La nona invici, ch’la s ciamèva ’Lim-pia, la fasèva de scapen isdé tra latèvla e la stufa e la bisnòna Filomacun e scalden sota i pia e un dentsoul in boca la mitéva so tre, quatr’anmi a la volta, la suciva e sèl, po’d’ogna tent la sli spudéva int e pogncius e, cun bouna grèzia, la li lasévacaschè int la ruscarola ch’la j’avévadachént.Di burdél, che piò znin, i l’avéva zàmes a lèt e ‘csé j’aveva putù spustè eprit int e lèt grand e alé in zir par lacusena ui era ‘rvanzè soul e piò gran-dìn di mèsc che e faseiva e fil a la sunona parché la zughéss cun lo a pela-galena e po’ la su surèla, una babinatot ureci ch’la staseva da santì chigrend e un i scapèva gnent.Ch’joman, dop avé scurs un pèz adcuridùr «e me a so ‘d Coppi, e te tci’d Bartali» e po’ èss andé incoura

piò indria cun Binda e Girardengo«tvu mét!», a la fen j aveva tachè cuni sperit.A che punt, enc cal dòni, senz’alzè latesta da e lavour, al vlet dì la sua e alcminzét a cuntè che a là u si santiva,e che ‘d qua u si avdeva…«Stazì zeti vuieti, che i sperit inesést!» e dasét so Michil. «L’era unavolta ch’ij cardéva!»«Us capéss, i purétt!» la i giustifichétla su moi «in era mai scapé d’in ca’,una miseria ch’la s tajèva cun ibastùn, una paura adòss ch’la faseivai zent…!»«Eh! La jera pròpi csé» la get la sèrta,zarchénd a tastun cun una men al sugiuri sota dal frodi e di crinùn.«L’era chi furb chi tuleiva in zirr chicvajùn!»«Va là che me aj n’ho vu poca dlapaura quante che sumàr che sta a lé’d ciota, mo se, e Bachen, propi lo, ujha pruvè nenca cun me!»«A fè e fantasma?»«Sé, l’arciapét l’arzdour, i geva cl’eraun strambal che d’ogni tent, ad nòta,us ingupleva int un lanzol e po’ usmiteva a svulazè a brazi verti traj’amùrr. Mo cla volta che scapét forada e canéid, mugend cume una burè-la, c’us cardeva ‘d fem paura… me ane so, e bséva ‘vé scapuzé int uncodal, fat e stà che a l’impruvìs emulét una biastema e me al arcnusétsobit da la vousa e ai rugét dria: Valà, Bachen, va e dè via e cul…»«E cla volta che tra Cagnaza e la spa-zarena, i staseva par fèt la quartaza?»«Ah, cla volta, ciòu, a sera in bicicle-ta, la luna la j era quasi mèza, mo alé, sota cal pienti, uj era un scurr! Im

ciapét un dat qua e un dad là, unl’era saltè fora de fusòun, clèt daddria dla séva ’d Minghìn. Im bluchétint e mèz dla streda, mo… “Un è lo!”e get sobit quel cum tneva pre manu-brio e tut du i lasét la presa e i sparétint un lemp.»E sa sera “lo”?, aj avréb vlù dì. Quil’era brot mamint, burdéll, poc dòpla guèra…»«Mo me a rest de paré» l’aveva ciapèparola e un la vleva mulè «che quelch’l’è spavantè, e ved nenc quelch’un gn’è, e sint nenc quel ch’uncsint int nisùn mud. Me a torn a ripétch’unc po’ vnì so int la paura! Chiburdéll, ciò jè znin, aj ò avisì, nenc lasu mama la s’aracmanda sempra: “Se‘d nòta a santì dl’armour in tla sufe-ta, no vi paura ch’l’è i sorg chi corrtra la sufeta e i cop! I fa dal trutèdichi pè cavèl da cursa! Al prem volti ajavem vu paura nenca nun! Po’ me ajò capì. A lé u j ha da vé fat e nid isorg, chi sa quant jè! Quant i si métd’adbòun, u n c dorma!»E dasét so la nona: «Mo, e de Maza-pegual an gì gnent? Gistoun e gevasempra che una volta u l’aveva vest alasé e su britìn ross soura la zrèla depozz.»Tot i vlet dì la sua:«Nenca Pitìn u l’ha vest. Lo ui dis eMazapegur, mo l’è sempra quel,» lasentenziét la bisnona strabighènd lascarana piò sota la lusa. «I dis c l’èznin, cun do gambi curti curti.»«L’è lo che fa al trezi in tal codi dalcavali», l’azunzét la Bianca, buténdso un ent stlonc in te foran dla stufa.«Mo va là, che me a ni cred!»«Te t a ni crid, mo ui n’è parecc chi

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A vegia

di Natalia FagioliDialetto di Cesena

Illustrazione di Giuliano Giuliani

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dis che la matena j a truvè la cavalacun tot trizini in t la coda e che l’è stèe Mazapegual a ‘rdusla acsé», l’insi-stét la Bianca.«S’l’è par quest, a gli ho truvèdinenca me,» l’amitét Michil, dop avébuté zò un ent mèz bicìr ‘d cagnina.«Mo csèl po’ che fa ste Mazapegual?»,e saltet so la babina.«Piò che ètar e va a truvè cal dòni, calbèli!» e ghignét e nòn «us ji stoglasoura e stong, un li lèsa rispirè.»«Mo andì là, lasì d’andè! Mo csa giv!Quant is stufet ‘d discut, ad cuntègnun la sua, la stufa la s’era bèlasmorta. Aloura i cminzét a’ndèss alèt, i murtét la lusa e is mitét adurmì.Durmì!Sé, ui fot qui chi s’indurmantétsobit, mo enca qui che jarmulinevaincoura int la tésta tot i scurs chjaveva fat: cl’anma lunga dachent ecanzèl de camsent ad Tipen, l’ar-mour dla barachina ch’la s farmèvasempra sota e nous dninz a ca, alcadeni ch’al scusceva contra e par-ghèr, tspesa la capana, cla spezi d’cantilena a là zo vers e fiom.

Durmì, par queicadùn, l’era unaparola. Pez di tot e staseva propi l’arzdour c’us santiva pesent, us zireva ‘d qua e‘d là, e sbufeva contra tot cagl’anmich’us era magnè, po’ e zarchèva ’dcalmèss che csé e pansèva d’indur-mantèss prema. U n c sint zà nisun armour, nisonavousa! Silenzio assoluto! Adèss us dorma! E invici… no.Pic… pic… pic… Porca miseria! Mo csèlmai quest? E us met d’ascolt. Uncsmov agnenca.No, un era un ver armour, mo untoc…int un fienc soura la querta. Mo csèl c’uj è che e pè cum camina aqua dachent! ...D’arnov ste pic,pic, pic un po’ piò svelt!«Bsè, un pesa tent «us get Michil.» Però!Un ciarà miga e Mazapegual che ven afem di schirz! Va là ch’l’è tot cagl’anmich’a m so magnè!E us rimpighét tot sota l’imbutida, usfazét znin piò che putét e e stasét zetzet a vdé quel che zuzideiva.Pic… pic… pic…«Mo adèss e corr, u m’è ‘dòss! Insoma, egeva int la su testa, un è che pisa una

gran masa, mo gnenca poc da fat. Us fasantì, e boja!… Ecco, c’us è zirèt datònd. Adèss um èrivèt propi sora e stong e us è farmè a lé.Mo aloura l’è propi e Mazapegual!Mo csa vol da me? E me ca ni cardeva!«Di,’ Mazapegual, tan um fèza unabreta!E s’ai dag un scusòun?E se po’ dop us arabia piò tent? …Va là che adèss me ai dag un scusòun.Si no, pianin pianin, am pos ziré int unfienc. A voi propi avdé.No, no, l’è mei c’ai dèga un scusòun fort,c al bota zo senza tint cumplimìnt, checse us n’in va. E sun c invà? E su la to mèl?E stasèt un gran pèz, e menc a lo uiparét acsé, zet zet e ferum ferum cune Mazapegual soura e stong, po’ pia-nin pianin us azardét a slunghì unbraz sota e cuscen, e ciapét int unamen la pireta dla lusa, e, un due tre,us decidét a zend, pr’avdél cun i suocc.L’avdét sol e su gat gris, tot scucì chee su padroun us foss tirét so isdé, ul’avess svigì cun un ragiàz, buté zo delèt e mandè cun un chilz int e fred.

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la Ludla10 Febbraio 2019 - N. 2

Questa raccolta di poesie di ToninaFacciani rappresenta una delle primepubblicazioni a cura dell’Associazio-ne dialettale “Te ad chi sit e fiol” diCesena.Per l’autrice, che scrive sia in italia-no, sia in dialetto, il libro Insøgni arri-va dopo le fatiche fisiche ed interioridi Diario di una paziente, dopo il rifu-gio “rinfrescante” di Caramëli adMênta, dopo La vósa dla mi mà, inti-mo e delicato ricordo della madre, edopo l’opera compiuta del romanzoL’attesa.La poesia non viene dal nulla, dicel’autrice. Non viene solo dal ricordo.Nemmeno basta aver vissuto deter-minate esperienze e in determinatiluoghi. Occorre “scriversi sull’ani-ma”, avere questo bisogno urgente.Solo così la parola scritta diventaun’operazione di salvataggio delmondo scomparso, ma prima ancoradi se stessi.Rainer Maria Rilke di fronte alla Fio-ritura diceva: “È questa l’ora in cuimi riposseggo / ... / E nel silenzio,mi sento rifiorire”. Tonina con un bisogno simile scrive:Mo che gir strambli la jà mai fat la mivita / se par arcnøsmi, a jò d arturnæ aquasø? Come se per capire la propriastoria occorra rifarsi ogni volta dacapo: tornare alle origini, sciogliersinella malinconia di un Paesaggio,mai scomparso dall’anima, anche seil destino ci ha portato altrove. In quei luoghi dell’infanzia, possia-mo immaginare la Tonina poetessache ritorna, che sistema insieme adaltri una Badia, che cammina racco-gliendo “i suoi” Sassi (Caramëli adMênta) e si volta indietro per narrarecon la forza della nostalgia anche ciòche non aveva visto prima, vivendo.Nella poesia di Tonina Facciani, dun-que, ricorre il sentimento dei luoghie del ritorno. Se Careste è scomparsainsieme alla sua casa, come dice neiversi: Che tu nné piø e tett / e i mur i ssfa / com agli òsi di murt … non devescomparire la sua lingua, sembradire. Ecco perché, con questo libro,torna alla lingua madre: a quel dialet-to aspro, ma puro, particolarmentemusicale ed evocativo, rimasto intat-to, come lei lo ha iniziato a parlare.La nostalgia d’altronde, se vissuta

poeticamente diventa mitica e famiracoli. Aiuta ad orientarsi meglionel presente, a leggere criticamente ilmondo nuovo, senza rimpiangeresconsolatamente il vecchio.Il titolo del libro, Insøgni, “Sogni”,sembra unirsi alla natura stessa dellapoesia: entrambi tremolanti, difficilida interpretare, dal valore mai com-pletamente afferrabile. La Raccoltaintroduce, e lega a questi due ele-menti stessi, un altro argomentoenigmatico per l’uomo: quello dellamorte. Avvalendosi della strategiadel sogno, che ne rimanda il dram-ma, scrive Tonina a questo proposi-to: A i ò insugnæt la mi mórta / La mdéva e tæmp ad daquæ l’órt / ad salutéun ch’u paséva da d lé / ... / Ad smur-tæ e føc, chjud pórti e finèstri / comquant u s va a lèt a la séra. Quasi comeuna compagna di ogni giorno, allaquale poter dare del “tu”. Una mortenon violenta, ironica, che arrivacome “un sonno”. La poesia d’al-tronde va ricercata nei temi e nelledimensioni umane più in ombra; lepiù intime, le più dolorose, le piùfaticose di noi stessi: solo così puòsostenerci, rivelarci emozioni inatte-se e il senso dell’infinito. Tonina Facciani è in grado di distilla-re effetti sorprendenti da immaginicomuni e di chiederci forse, un po’stupita, perché non siamo in gradodi fare altrettanto. Da semplici letto-ri, il suo messaggio ci colpisce e alle-na il nostro sguardo verso aspettidella realtà ai quali non avevamoprima d’ora prestato attenzione. E cipermette di cogliere all’improvvisoun linguaggio nuovo e potente, comefosse un po’ anche nostro. Poesiafacendo / un pezzo di strada / insie-

me / senza fretta, scriveva ne Le venedel cuore.

La crépa

L è un pó che um pær d avdéUna crépa te murCh’ la s slærga dé par déPræma u i paséva la punta d un ègPu la punta d un stuzicadæntPu la punta d una matita Pu e mi dit znin, pu e mi dit gròsPu una mæna, pu un braćFin ch’a i pasarò mè ad amsuraE avdirò chei ch’u j è ad là

La crepa

È un po’ di tempo che mi pare di vedere/ una crepa nel muro / Che si allargagiorno per giorno / Prima ci passava lapunta di un ago / Poi la punta di unostuzzicadenti / Poi la punta di una mati-ta / Poi il mio dito piccolo, poi il mio ditopiù grosso / Poi una mano / poi un brac-cio / Fino a quando ci passerò io di misu-ra / E vedrò cosa c’è di là.

Tonina Facciani

Insøgni

di Leonardo Belli

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la Ludla 11Febbraio 2019 - N. 2

zòcol (spesso dittongato) e còsp: ital.zoccolo di legno (dal lat. soccus). Plau-to, Epid. 725-6: …soccos, tunicam, palli-um / tibi dabo… (…ti darò zoccoli, tuni-ca, mantello…). Terenzio, Heaut. 124:Adsido: accurrunt servi, soccos detrahunt(mi siedo: accorrono gli schiavi, mitolgono gli zoccoli). In campagna,anche il vecchio padrone indossava glizoccoli. Spesso non si fa caso ad usi ecomportamenti quotidiani che leparole rivelano.Da Meldola in giù però il terminezòcol è sostituito da còsp, che derivaper metafora dal lat. cuspide[m]‘punta’, ‘cuspide’). La cuspide era lacopertura della parte anteriore delpiede ricavata, con la pianta dellozoccolo, da un unico pezzo di legno,com’è ancor oggi per quelli olandesi:l’aggettivo, contratto, ha soppiantatoil nome.1 I cosp erano usati anchenella stagione invernale e, soprattut-to se larghi, imbottiti di paglia o difieno, perché tenessero più caldo. Ovviamente, oltre ai socci c’eranoanche le sòleae, al sóli (suole, solette),di maggior costo e più eleganti. Plau-to, Most.. 384: Cedo soleas mihi, utarma capiam (Qua le mie suole, che iole usi come armi!). Le usavano in tal

modo fino a poco fa anche le donneche litigavano alla fonte o al lavatoio:li mnèva con al s-ciafli. Come i soccianche le soleae a tavola si toglievano,come precisa ancora Plauto, Truc.363-4: Cedo soleas mihi. / Properate:auferte mensas (Ridatemi i ‘sandali’.Sbrigatevi: sparecchiate). Suole quiindica le ‘scarpe’: quelle romane, conla tomaia aperta, spesso ridotta solo adei lacci, erano di fatto dei sandali.Ma sàndalon, giunto a Roma dallaGrecia, in origine significava ‘barchet-ta’. Schérpa era un altro terminenuovo d’origine germanica, introdot-to tra noi dai barbari, che venivanoda climi più rigidi ed usavano calza-ture con la tomaia chiusa. Tra leglosse del du Cange si trovano ancheil maschile scarpus e i verbi bassolati-ni scarpinare da cui deriva il dial.scarpiné e scarpuzare, esempio noninfrequente di etimologia popolareforzata e fasulla: come se derivasse da‘scarpa’ e non da ‘cappuccio’ o‘capuccio’.

Note

1. Noi oggi pensiamo a cosp come ter-mine proprio della nostra area ristretta.Eppure capita di leggere nel francese DuCange, Gloss.: ligneos cuspos, cosp ad lègn.Anche Walde-Hofmann lo registra riferi-to a tempi quasi a ridosso dell’età classicacospus, ricavato dalla volgarizzazione dicuspide[m]. Da poco, infine, è entrato nel-l’uso definire qualche donna ‘zoccola’,con un termine preso dal romanesco, chein ogni caso non deriva da soccus (zocco-lo), ma dal lat. sucula, dimin. di sus: valea dire ‘maialina’, ‘troietta’. Plauto,Rudens 1170: Quin tu i dierecta cum suculaet cum porcis (Ma va’ piuttosto a fartiimpiccare con la giovane troia e i suoiporci!). Ma per dierecta, esattamente perdiem erecta: (tirata su in giornata!) vannobene anche altre varianti pur che noncambi il significato finale! Vat a murìmazè o impichì!

scafa: in ital. lavello della cucina, oggiin uso solo in pianura; deriva dalgreco scaphé, ‘conca’, ‘catino’, ecc.; mail senso originario era ‘scialuppa’. Incollina e in montagna oggi si usa peròquasi sempre vasca o lavél; vasca deri-

va a sua volta dal lat. vas o vasum,‘vaso’, attraverso il dimin. neutroplur. vàscula, trasformato, come capi-ta spesso, in femminile singolare.Lavél ‘lavello’ deriva invece dal. lat.labellum, dimin. di la[va]brum (vascada bagno, tino); il termine lavabo,riferito al lavamano – che per uncerto periodo fu di moda nellecamere da letto, ma u l’ druvèva sol e’dutòr ch’l’eva visitè un amalè – fupreso di peso, senza capirne il senso,dalla frase di un salmo incisa nei lavel-li delle sacrestie: lavabo inter innocentesmanus meas… (tra gl’innocenti laveròle mie mani…). Infine, e’ lavanden disolito non è quello della cucina; nep-pur era e’ lavadùr, pubblico o privatoche fosse, riservato ai panni da ars-ciarè o arsaquè (risciacquare).

piéga: in ital. piaga, ferita sanguinante,in lat. plaga. Il maestro d’Orazio, Epist.II 1, era plagosus poiché piagava glialunni a colpi di bastone: si noti cheplagosus era chi aveva inferto le piaghead altri; oggi ‘piagoso’ è chi è stato pia-gato. Apuleio, Metam. IX 12:homuncoli vibicibus lividis totam cutemdepicti dorsumque plagosum (poveracci[che avevano] tutta la pelle dipinta dilividi gialli e il dorso piagato). In dial.si usa anche piaghé: e’ Signór in cróðl’è tot piaghé oppure tot pîn adpièghi, per quanto oggi del Signorepiagato si parli meno di una volta. Ipreti moderni, che poi si lamentanoche nelle chiese i fedeli si sono rarefat-ti, hanno fatto sparire pure le statue diGesù che mostra le piaghe e il ‘sacrocuore’ gocciolante, così come hannofatto sparire le messe dei nove venerdìdel mese con cui avevano garantito amia nonna la buona morte e il pa-radiso senza purgatorio. A vedere quelche è cambiato nella chiesa, lapoveretta, se non fosse morta di vec-chiaia nei primi tempi del concilio,sarebbe morta ad s-ciopacór: lei cheascoltava due messe nei giorni feriali(quattro di domenica) e coltivavabuone conoscenze tra i tanti santi delcalendario, compresi quelli poi espulsio declassati, fece appena in tempo adintuire che sti pritìn þùven i butarà prèria ogni qvel.

Rubrica curatada Addis Sante Meleti

da Civitella

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la Ludla12 Febbraio 2019 - N. 2

Com’èla fata la materia? Cum èi fëttot i quel? D’indo’ vej? Com’a s fal amsurej? Grend, znen, grandesum,znin znin? In tota la stôria dl’òman di dutur, diprufesur, insoma dla zent cun dl’in-zegn, j a pruvê a spieghê com ch’l’èfata la materia ch’a tuchem, ch’amagnem, ch’a dbem, ch’a vdem enenca quela ch’a n avdem brìsul,gnaquël ch’e’ stèga ins la tëra e inte’ zil. J a det nenca che par capila ben e’bsogna msurêla.Insoma, j à stugê una masa e i s n èdet da forca e da galera parchèognon l’avleva rason.E pu za u s’j è mes nenca i filòsuf…e a l’avem fata ciumpida! Piò che capì qualquël u s’è livê unnibion acsè fet che a Cmac innuvèmbar u s ved mej.Zà int l’antica Grecia, do-tre melaen fa, istânt ch’i badeva al pìgur e javeva de temp da pérdar, i cminzè adì che a sem fët ad tëra, êria, aqua efugh. E fen a que, dai e dai, e’ pareva ch’is fos mes tot d’acôrd. E qui ch’a ncapeva… i faseva cont.Parò e’ saltè fura on ch’e’ cminzè adì che tota la materia la s putevadivìdar e fê di pzultin sèmpar piòznin sèmpar piò znin, nenca quândch’i n s avdeva piò, u j avleva sól e’curtël adat e u s puteva arivê agnint; sól che a fôrza d’divìdar quelch’armèsta èla incora aqua o tëra?“apriti cielo”! Chj étar, prema ad tot i dgeva ch’l’eraun grând imbezel, e pu che la materiase la s puteva divìdar, mo sól insena adi quilin znin znin ch’i s ciameva“atomi” e pu basta. E’ pasè de’ temp, ognon e’ dgeva lasu, e u s’arivè a e’ Medioevo mo laquestion l’era sèmpar quela. U s’imitè nenca j alchimesta (forsi l’èmej dì i strolgh), ch’i trasfurmeva e’piomb in ôr, e la fo finida!L’era cêra parò che la stôria dla tëra,êria, aqua e fugh la fos ormai sól ‘nafôla pr ì babin.Dai da qua e dai da là, stugia,msura, pésa, armes-cia, u s’arivè asavé che sta materia l’è quesi totavuta e che par capì sta röba e’ bso-gna cunfòndar e’ spazi cun e’ temp

e e’ temp cun e’ spazi. L’è tot relativ,e’ dipend, e’ bsogna avdé... Adësben!!!Com che difati, u s j è mes dj étarstugius a dì ch’u n gn’è piò gnintd’sicur e che ste scors e’ va ben parla röba grânda una masa e brìsul parquela znina znina: a lè al règul agli èdifarenti.E a sem da capo! Coma a s fal amsurêr i quel ? Coma a s fal a dì s jè grend o znin? Sti prufesur i disch’u j è “il principio di indetermina-tezza” e che pröpi par la röba znenau n s pò mai dì…. Alora e’ casen e’ sêlta fura, a deghme, sèmpar quând ch’l’è ora ad divì-dar e’ grând da e’ znen.A fê sti scurs, u m ven int la ment e’puret de’ mi Bab quând ch’l’era atêvla. E’ magneva com’un grel epröpi par quel l’aveva da truvê lamsura par tot i quel.Avì da savé invezi che mi Mê l’erauna grând cuga, la faseva sèmpard’la bóna röba e… l’aveva una grânpazenzia. L’ariveva a têvla, dop ch’l’aveva lavu-rê tota la matena, strulghê, fat laspesa, parparê, cöt, cuntrulê e lacmandeva a Bab quel ch’l’avleva.Lò, ch’l’areb det gnint, l’aveva datirê fura sèmpar una msura diversapar acuntintêla. Furtona che, da rumagnôl, l’avevasèmpar la parôla giosta.S’l’ariveva la mnëstra e’ dgeva:dàman un cicinin. Sól se pröpipröpi la j piaseva e se l’aveva fâm, e’puteva e’ masum arivê a un bisinin(che nel sistema metrico decimale roma-gnolo equivale a du/tri cicinin).

E li, pronto, la tuleva la cucêra e lafaseva e’ piat.S’l’era e’ sgond e’ puteva dì: dàmanuna smareja, e li zàcchete, cun e’curtël, la faseva la razion.S’u j era pu dla vardura e’ màsuml’in tuleva un pizgöt (ch’l’è tra unbisinin e una smareja).Quând ch’u j era la gardëla, lamsura piò usêda l’era un squartez(un quartino) d’brasula, un brìsul(che sta tra la garnëla e la fitlina)d’pân e magara un didêl (ch’l’è trauna goza e un bichirin, qui da cognacparò) d’ven.U j era parò un quël ch’u j piasevauna masa e l’era la zambëla (o zam-blòn). Se mi Mê la l’aveva fata aloral’era una fësta e lò in tuleva adiritu-ra … una partècula (termine normal-mente utilizzato in ambito ecclesiasticoper indicare l’ostia, sottilissima, eterea,quasi invisibile!)Me, ch’a sera un babin, a n’ho maicapì com ch’la fases sèmpar a tuj lamsura … a m divarteva parò a sintìcun quânti parôli u s pö dì un quëlznin.Sól adës ch’a so dvent grând (i mifiul i dis “vëc”) a crid d’avé capì: i savleva sól un grân ben. Quela l’erala msura!Bab e’ faseva cont d’dê un órdin,coma tot i rumagnul, e la mi Mâma,dop ch’l’aveva cmandê un quël parrispet a e’ su òm, la faseva contd’ascultê e pu… la faseva d’su tësta!A so sicur che lò u l saves benesum,mo coma tot i rumagnul, ch’i vosèmpar dì la su in ca e fê contd’cmandê, a la fen i spera ch’e’ dezi-da la moj!

La msura

di Paolo MaltoniGranarolo Faentino

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13la Ludla Febbraio 2019 - N. 2

Sân Grugnon, u n e’ pò avder incion.Così un proverbio romagnolo a pro-posito del giorno di San Grugnone.È inutile affannarsi a cercarlo nelcalendario. Non c’è nemmeno sulLunêri di Smémbar, che pure di santise ne intende e dove a cercar beneforse si trova anche San Giovese. San Grugnone si festeggia il Mercole-dì delle Ceneri, primo giorno di Qua-resima, quando tutti hanno il gru-gno, cioè il muso, lungo perché ilCarnevale è finito. O meglio ce l’ave-vano una volta, perché adesso - anchesenza volere fare i moralisti - mi pareche sia carnevale tutto l’anno. Giorno di penitenza e di mestiziamalvisto da tutti, San Grugnone.Anche se non proprio da tutti, per-ché in Romagna c’è - e non da poco- chi festeggia il carnevale proprio ilprimo giorno di Quaresima. Succe-de a Conselice, dove esattamentecento anni fa - era il 1919 - alcunibuontemponi senza un soldo intasca, trascorso il martedì grasso, sichiesero chi mai potesse loro impe-dire di continuare la festa anche ilmercoledì delle Ceneri. E così prese-ro i loro strumenti musicali e simisero ad andare in giro per tutte lefrazioni di Conselice, riscaldati erinvigoriti da buone dosi di lambru-sco. Era nato il Carnevale di SanGrugnone!Non erano tempi molto felici quelli:la guerra era finita da pochi mesi estava imperversando la Spagnola, la

terribile influenza che in Europauccise più persone di quante ne fosse-ro morte nella Grande Guerra. Maforse era proprio per questo che lagente aveva più bisogno di divertirsiper dimenticare i lutti e la miseria.Qualche anno dopo, il conseliceseragionier Brunetti, che era uno spiri-to bizzarro, istituzionalizzò il Carne-vale di San Grugnone trasformandoConselice nel Boystenland - unostato da operetta - con tanto di re,ministri, sottosegretari, dignitari enobili vari. Da allora, ogni giorno diSan Grugnone, il re del Boystenlandva in giro con la sua corte per le fra-zioni (pardon, per le colonie) delregno fermandosi ad ogni angolo distrada ad assaggiare sfrappole e zuc-cherini ed a bere il vino offerto daisudditi. Vi lascio immaginare in quali condi-zioni torna alla reggia!

Qualcuno penserà: «E il parroco chedice?» Niente, chiude le finestre e fafinta di non vedere. L’unica vera begaci fu nei primi anni ’30, sotto il fasci-smo. Siccome il re del Boystenlandnel suo discorso in piazza prendevain giro un po’ tutti, s’era diffusa lapreoccupazione - in verità non infon-data - che sotto sotto ci fosse un po’di satira contro il regime. Allora man-darono da Roma nientemeno che un“ispettore generale” col compito diriferire in alto quello che accadeva aConselice. L’ispettore arrivò, ma nonriuscì a capire bene quello che succe-deva perché venne prontamenteubriacato e se ne tornò soddisfattonella capitale. “Che cosa volete mai chefacciano a Conselice? - fu il succo dellasua relazione - Cantano, ballano, bevo-no, si divertono e buonanotte!”Da allora San Grugnone fu lasciatoin pace.

E’ dè ad Sân Grugnon

di Gilberto Casadio

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la Ludla14 Febbraio 2019 - N. 2

La giuria del premio letterario nazio-nale “Salva la tua lingua locale”, isti-tuito dall’Unione Nazionale dellePro Loco d’Italia (Unpli) e da Legau-tonomie Lazio, ha decretato i vinci-tori della sesta edizione (2018).La cerimonia di premiazione si èsvolta il 14 dicembre scorso nellasala della Protomoteca del Campido-glio a Roma. Cinque le sezioni previste, tutte atema libero, in uno dei dialetti odelle lingue locali d’Italia: poesiaedita a partire dal 1o gennaio 2016;prosa edita (storie, favole, racconti,dizionari, rappresentazioni teatrali);poesia inedita; prosa inedita; musica(brani originali in dialetto e/o lin-gue locali e canti popolari della tra-dizione).Il Premio Speciale della Giuria èstato assegnato al nostro poeta edrammaturgo Nevio Spadoni, per ilvolume Poesie 1985-2017, èdito da “IlPonte Vecchio” di Cesena, Un suc-cesso di grande ed indiscusso presti-gio. Spadoni è un autore tropponoto perché qui si possa aggiungerequalcosa a quanto si è detto e scrittodi lui. Rimandiamo pertanto i letto-ri alla recensione del suo volume, danoi pubblicata alla pagina 2 dellaLudla di febbraio dello scorso anno.I nostri complimenti vanno poi allasantarcangiolese Germana Borginiche nella sezione Poesia inedita si èassicurata il terzo premio ex-aequo.

Un riconoscimento è stato assegna-to anche a due Pro Loco romagnoleper il ruolo attivo da loro svoltonella promozione e diffusione delPremio. Si tratta della Pro LocoChiusa d’Ercole (Cusercoli) e di quel-la di Santarcangelo di Romagna.Riteniamo doveroso citarle e por-tarle ad esempio alle oltre centoconsorelle romagnole che spessodimenticano che nei loro compiti cisono anche la difesa e la valorizza-zione dei beni culturali di tipoimmateriale.“I dialetti raccontano la storia,custodiscono la memoria, rappre-sentano l’identità stessa dei singoliterritori. I dialetti sono la linguadella famiglia, delle emozioni e dellavita reale a partire dalle paroled’amore e di rabbia. La qualità evarietà delle opere pervenute anche

in questa edizione, ne testimonianol’assoluta vivacità” ha affermato ilpresidente dell’Unione Nazionaledelle Pro Loco d’Italia, Antonino LaSpina.Il presidente ha inoltre sottolineatocome, sul fronte dei dialetti e dellelingue locali, la costante azione ditutela e la valorizzazione del patri-monio culturale immateriale, avvia-ta su più ambiti dall’Unpli, si stiaconcretizzando nella registrazioneaudio e nella archiviazione, a futuramemoria, di tutti gli elaborati inedi-ti presentati al concorso. I contribu-ti audio entreranno a far parte di“Memoria Immateriale” un canaleYouTube che costituisce l’inventarioon line delle tradizioni italiane: unprezioso archivio, unico nel suogenere, voluto ed implementato pro-prio dall’Unpli.

Successo romagnolo

a “Salva la tua lingua locale”

La redazione

Roma. Nevio Spadoni riceve il Premio Speciale della Giuria del concorso “Salva latua lingua locale”, organizzato dall’Unione delle Pro Loco d’Italia.

Attenzione!L'arrivo nei nostri ufficidella fibra ottica ci ha

costretti a cambiareil numero di telefono.Il nuovo numero è:

0544 472261Vi preghiamo di prenderne

nota e vi ricordiamo chedurante la nostra assenzaè in funzione la segreteria

telefonica.

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la Ludla 15Febbraio 2019 - N. 2

Cara Ludla, sono un parlante dialet-to cesenate, o meglio della campagnanord-cesenate dove si dice incù e nonoþ. Con alcuni amici ci siamo intrat-tenuti sugli avverbi di luogo. Noidiciamo Alà per dire ‘Là’, Adlà perdire ‘Di là’ (qui di fianco), Avilà perdire un ‘Là’ un po’ più lontano’,Alaþò per dire ‘Laggiù’. Fin qui chia-ro, ma qual è la derivazione dell’ag-giunta di una ‘A’ iniziale in tutte leforme? Ma diciamo anche Avizulà (oAvizzulà) per dire un ‘laggiù’ propriolontanissimo dove quasi non si vede.Non abbiamo capito quale sia la deri-vazione di questo ultimo avverbio. Ci aiutate?

Giancarlo Biasini - Cesena

La a- di Alà è quasi sicuramente la pre-posizione (in latino ad) che in italianointroduce (fra gli altri) i complementidi stato o di moto a luogo. Come sidice Me a végh a Ravena così in paralle-lo si dirà Me a végh a là. E forse è benescrivere a staccato da là. Per Adlàdistinguerei un dlà, letteralmente ‘dilà’, una preposizione con il senso di‘oltre’ o ‘dopo’ in senso spaziale: dlàde’ fiom ‘oltre il fiume’, da una locuzio-ne avverbiale ad dlà: E’ sta ad dlà ‘sitrova oltre’ (nell’altra stanza, oltre unastrada, un ponte, un confine…). Avilà

è formato da a+via+là dove via va inte-so in senso avverbiale quasi ad indica-re la strada che bisogna percorrere pergiungere appunto avilà. Alazò è chiara-mente formato da a+ là+giù mentreAvizulà da a+via+giù+là.

gilcas

A volte ho sentito dire ad alcuniragazzi scapestrati la seguente frase:«Cvel l’è pez che Tàrabas!». Chi era que-sto personaggio? Sicuramente unpoco di buono. Era un bandito? Unladro? Un militare spietato? Oppureun personaggio mitologico o dei car-toni animati?

R. B. - Bertinoro

L’ultima ipotesi è quella che più ci siavvicina. Tarabas è il “cattivo” delterzo film della saga televisiva Fanta-ghirò andato in onda in prima visionesu Canale 5 il 20 dicembre 1993.

gilcas

Nel parlare con mia moglie mi èvenuto di dire: l’è e’ bòt (le 13). Perchèsi dice e’ bòt? C’è una ragione antica

legata a questa parola?Alberto Cervelli - Castel Bolognese

Il perché è molto semplice: le tredicivengono “suonate” dagli orologi delletorri o dalle pendole di casa con unsolo rintocco (böt). Per l’una del mat-tino è bene specificare: e’ böt dla nöt.In alcune zone della Romagna si diceanche un’ora. In toscano (ed in buonitaliano) le tredici sono il tócco che hala stessa etimologia di böt.

gilcas

Gambettola in dialetto secondo ilMattioli … concordo … Bosc. Secon-do Antonio Morri … Bosch … Per meh finale è di troppo. Grazie se vorreterispondermi.

Anonimo - Via e-mail

All’anonimo telegrafico estensore delquesito rispondo che c’è anche unaterza possibilità sostenuta dall’Ercola-ni e dal Quondamatteo: Bos-c. Personalmente preferirei Bosch,anche se, scritto così, a prima vistapuò richiamare un marchio tedescodi elettodomestici e ricambi perauto. Ma non è certo il caso di met-tersi a discutere: l’ideale sarebbe cheuna buona volta ci si mettesse tuttid’accordo con la grafia. Da ultimo vorrei ribadire, anche per-ché non tutti lo sanno soprattuttonella Romagna occidentale, che ilnome del paese è, nella tradizionepopolare dialettale, E’ bosch nonGambettola.

gilcas

Una vecchiacartolina con veduta di Gambettola,anzi E’ bosch.

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la Ludla16

«la Ludla», periodico dell’Associazione Istituto Friedrich Schürr • Editore «Il Ponte Vecchio», Cesena • Stampa: «il Papiro», CesenaDirettore responsabile: Ivan Miani • Direttore editoriale: Gilberto Casadio

Redazione: P. Borghi, R. Gentilini, G. Giuliani, A. S. Meleti • Segretaria di redazione: V. Focaccia Errani

La responsabilità delle affermazioni contenute negli articoli firmati va ascritta ai singoli collaboratori

Indirizzi: Associazione Istituto Friedrich Schürr e Redazione de «la Ludla», Via Cella, 488 •48125 Santo Stefano (RA)Telefono e fax: 0544.472261 •E-mail: [email protected] • Sito internet: www.dialettoromagnolo.it

Conto corrente postale: 11895299 intestato all’Associazione “Istituto Friedrich Schürr”Info Point della Schürr: Libreria Dante di Longo - Via Diaz 39 - Ravenna - Tel.: 0544 33500

Bottega Bertaccini - Corso Garibaldi 4 - Faenza - Tel.: 0546 681712 • Libreria Alfabeta - Via Lumagni 25 - Lugo - Tel.: 0545 33493Poste Italiane s.p.a. Spedizione in abbonamento postale. D. L. 353/2003 convertito in legge il 27-02-2004 Legge n. 46 art. 1, comma 2 D C B - Ravenna

In pagine di motivata sostanza, da cui traspare il deside-rio di ingenerare nei lettori una partecipazione, con-giunta a un coinvolgimento emozionale compiuto edesauriente, il poeta evoca e rinnova con intensità sugge-stiva un avvenimento con cui siamo in dimestichezzafin dall’infanzia, un caso efferato al quale, coinvolti econquistati dal succedersi intenso della narrazione, ciidentifichiamo quasi nel ruolo dei testimoni, intantoche i ragguagli della vicenda si evolvono compositi edettagliati, potenziandosi per gradi nei contenuti enelle intonazioni.Il tragitto de La s-ciuptèda procede in un crescendo inci-sivo, suffragato dal fervore dei personaggi direttamenteimplicati, dal linguaggio rivelatore e sintomatico dei loromonologhi e dalla padronanza evocatrice di Miro Gori,

in grado di intrigare compiutamente all’evento chi - spet-tatore o lettore - in qualsiasi maniera gli si accosti.La cronistoria si dipana senza digressioni e franca dainutili orpelli, tramite il succedersi eclettico delle inge-renze - vuoi intense, vuoi turbate - delle undici figureritenute determinanti dal poeta per condurre a termineun’analisi compiuta e partecipe dell’accaduto; il tuttoespresso in un linguaggio consono all’esigenza di farciesaminare le cose da prospettive che, in via autonoma,avremmo stentato a contemplare.Si alternano quindi nell’esposizione effigi femminili emaschili che incalzano pervasive e intense la mente del-l’autore, con gli accenti travagliati, disadorni e neglettidi coloro che hanno preso commiato da noi in stagioniormai trascorse e tuttavia esortando - proprio loro: quel-li che non ritornano - che la partecipazione del poetaalle loro vicissitudini terrene si mantenga coinvolta e sol-lecita, e che la portata delle sue parole sia in grado dimantenere, nel corso della narrazione, quel tono prag-matico e scevro da preconcetti che, solo, sarà in grado ditener salde le cose a un livello di emotività, tale da rife-rire plausibilmente il resoconto del turbato episodio intutte le sue sfaccettature, riconducendo espressiva all’og-gi l’esposizione concreta di un’evenienza largamente tra-scorsa, e già divenuta nella nostra memoria qualcosa didisimparato ed ambiguo.

Paolo Borghi

E’ mòrt mazè

E i m’à tirat própi int e’ mèz dla fròunta.Na, una saèta che la s’è s-ciantèda.Una vampèda e tli stes témp ‘na bòtaal m’à inzurlói te fugh d’un incéndi:un sgònd d’inféran, pu l’Inféran dabón.La testa la è s-ciòpa, i zanzai ‘d zarvèlsquizì d’impartót. Un tòun, un balòin:e’ quèdar dla mi vóita ch’u s’muvóiva.

Il morto ammazzato E mi hanno sparato proprio nel mezzo della fronte.\ No, un fulmine che s’è schiantato.\ Una vampa e nello stessotempo un botto \ mi hanno intronato nel fuoco di un incendio:\ un secondo d’inferno, poi l’Inferno davvero.\ La testa è esplosa, i brandelli dicervello\ schizzati dappertutto. Un tuono, un lampo:\ il quadro della mia vita che si muoveva.

Febbraio 2019 - N. 2

Gianfranco Miro Gori

La s-ciuptèda