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la Ludla 1 “Poca favilla gran fiamma seconda” Dante, Par. I, 34 la Ludla (la Favilla) Periodico dell’Associazione “Istituto Friedrich Schürr” per la valorizzazione del patrimonio dialettale romagnolo Autorizzazione del Tribunale di Ravenna n. 1168 del 18.9.2001 Questo numero è stato realizzato con l’apporto del Comune di Ravenna Società Editrice «Il Ponte Vecchio» Anno XVII • Gennaio 2013 • n. 1 SOMMARIO Ragionamento parenetico dei tempi nuovi ai popoli della Romagna afflitti dai luoghi comuni di Giovanni Nadiani & Marcello Savini Lettera aperta ai Canterini romagnoli di Maria Tampieri Ancora auguri... Giovanni Nadiani - Piadina Blues. Altre storie da caBARet di Veronica Focaccia Errani Gozli ad Rumagna Racconto di Dino Bartolini Illustrazione di Giuliano Giuliani La mitologia femminile della Romagna - III di Silvia Togni Parole in controluce Rubrica di Addis Sante Meleti 14 a edizione del concorso “e’ Sunet” Stal puiðì agli à vent... I scriv a la Ludla Pr’ i piò znen Dolfo Nardini - Mé a magn di Paolo Borghi p. 2 p. 4 p. 5 p. 6 p. 8 p. 10 p. 11 p. 12 p. 13 p. 14 p. 15 p. 16 Una delle prerogative specifiche di un poeta potrebbe essere, fra le altre, la capacità di saper avvicinare e coinvolgere i suoi lettori con parole che essi siano in grado di condividere senza l’apporto di media- zioni dall’esterno. Proprio questa dote di immediatezza e di spontanei- tà ha da sempre contraddistinto l’impegno e l’estro di Walter Galli e, congiuntamente al fervore, all’ironia, all’assenza di retorica e di affet- tazione della sua poesia, ce lo ha fatto amare, colmando la sua morte di un rammarico che ancora il tempo non ha saputo lenire. Fin dal lontano esordio i suoi versi amari, scontrosi e scevri da illusio- ni hanno tracciato un segno raro quanto tenace nel cuore della Roma- gna e dei Romagnoli e se n’è avuta chiara testimonianza il ventotto del dicembre scorso a Cesena, quando l’ampia sala conferenze del “Palaz- zo del Ridotto”, non è stata in grado di contenere tutti presenti, con- venuti da ogni dove per rievocare il poeta in occasione del primo decennale di una scomparsa a tutt’oggi inaccettata. Sala gremita, dunque, e partecipe degli interventi di Marino Biondi ed Enrico Galavotti, coordinati da Roberto Casalini ed intercalati dalle letture di Roberto Merca- dini, Annalisa Teodorani e Anna Simoncini, che hanno prestato voce alle opere del poeta scomparso. A conclusione ed a ricordo della ricorrenza è stato fatto dono ad ogni intervenuto di una copia del volume “Com- pianto per la Valdoca” (Società Editrice «Il Ponte Vecchio»), una silloge delle poesie di Galli curata da Anna Simoncini e Roberto Casalini e suffragata dall’introduzione di Marino Biondi, che il Comune di Cese- na ha voluto promuovere a commemorazione tangibile del- l’anniversario. P. B. Cesena ha ricordato Walter Galli Gennaio 2013

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la Ludla 1

“Poca favilla gran fiamma seconda”Dante, Par. I, 34

la Ludla(la Favilla)

Periodico dell’Associazione “Istituto Friedrich Schürr”per la valorizzazione del patrimonio dialettale romagnolo

Autorizzazione del Tribunale di Ravenna n. 1168 del 18.9.2001

Questo numero è stato realizzato con l’apporto del Comune di Ravenna

Società Editrice «Il Ponte Vecchio» Anno XVII • Gennaio 2013 • n. 1

SOMMARIO

Ragionamento parenetico deitempi nuovi ai popoli della Romagna afflitti dai luoghi comunidi Giovanni Nadiani & MarcelloSavini

Lettera aperta ai Canterini romagnolidi Maria Tampieri

Ancora auguri...

Giovanni Nadiani - PiadinaBlues. Altre storie da caBARetdi Veronica Focaccia Errani

Gozli ad RumagnaRacconto di Dino BartoliniIllustrazione di Giuliano Giuliani

La mitologia femminile dellaRomagna - IIIdi Silvia Togni

Parole in controluceRubrica di Addis Sante Meleti

14a edizione del concorso “e’ Sunet”

Stal puiðì agli à vent...

I scriv a la Ludla

Pr’ i piò znen

Dolfo Nardini - Mé a magndi Paolo Borghi

p. 2

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Una delle prerogative specifiche di un poeta potrebbe essere, fra lealtre, la capacità di saper avvicinare e coinvolgere i suoi lettori conparole che essi siano in grado di condividere senza l’apporto di media-zioni dall’esterno. Proprio questa dote di immediatezza e di spontanei-tà ha da sempre contraddistinto l’impegno e l’estro di Walter Galli e,congiuntamente al fervore, all’ironia, all’assenza di retorica e di affet-tazione della sua poesia, ce lo ha fatto amare, colmando la sua mortedi un rammarico che ancora il tempo non ha saputo lenire.Fin dal lontano esordio i suoi versi amari, scontrosi e scevri da illusio-ni hanno tracciato un segno raro quanto tenace nel cuore della Roma-gna e dei Romagnoli e se n’è avuta chiara testimonianza il ventotto deldicembre scorso a Cesena, quando l’ampia sala conferenze del “Palaz-zo del Ridotto”, non è stata in grado di contenere tutti presenti, con-venuti da ogni dove per rievocare il poeta in occasione del primodecennale di una scomparsa a tutt’oggi inaccettata.Sala gremita, dunque, e partecipe degli interventi di Marino Biondi ed

Enrico Galavotti, coordinati daRoberto Casalini ed intercalatidalle letture di Roberto Merca-dini, Annalisa Teodorani eAnna Simoncini, che hannoprestato voce alle opere delpoeta scomparso.A conclusione ed a ricordodella ricorrenza è stato fattodono ad ogni intervenuto diuna copia del volume “Com-pianto per la Valdoca” (SocietàEditrice «Il Ponte Vecchio»),una silloge delle poesie di Gallicurata da Anna Simoncini eRoberto Casalini e suffragatadall’introduzione di MarinoBiondi, che il Comune di Cese-na ha voluto promuovere acommemorazione tangibile del-l’anniversario.

P. B.

Cesena ha ricordato Walter Galli

Gennaio 2013

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Preambolo La ripetuta lettura di libri e articoli sullaRomagna, che una certa editoria, attentaesclusivamente all’aspetto commerciale,pubblica senza freno, nonché la fruizionedi spettacoli, trasmissioni, eventi di varianatura imperniati – ovviamente – sullaRomagna, ci ha indotti a interrogarci,ancora una volta, sul nostro essere perdestino romagnoli. E, senza menarnebecero vanto alcuno, tali siamo convintidi essere per le seguenti ragioni: le nostrericerche anagrafiche fanno risalire adoltre due secoli fa la presenza di nostriantenati paterni e materni in terra diRomagna (Bagnacavallo, Cotignola,Faenza, Russi, Terra del Sole). Le nostreorigini contadine, bracciantili e operaierientrano nel tradizionale contesto socialedella Romagna. Siamo anche forniti delregolamentare soprannome di famiglia: “JIndgiân” (Nadiani), “I Balarèn” (Savini).Inoltre, e questo è il dato fondamentale,la nostra lingua madre è il dialetto roma-gnolo, che parliamo e scriviamo in poesia

e prosa. Per entrambi la conquista dellalingua italiana è stata dura e, osiamodirlo, abbastanza sicura. Per queste ragio-ni ogni volta che ci siamo imbattuti inlibri di narrativa o in raccolte poetiche diambientazione romagnola o in articoli esaggi di carattere storico-antropo-sociologi-co miranti ad analizzare e descrivere lacosiddetta “etnia” romagnola nei suoiconnotati tipici o che ci siamo trovati aessere testimoni di certi desolanti spettaco-li “romagnoli”, ci siamo sempre chiesti seci riconoscevamo in essi. Troppe volte larisposta è stata: no. E per le stesse ragio-ni, ora ci sentiamo autorizzati a esterna-re le riflessioni che seguono, nella speran-za che chi ci leggerà vorrà dibattere il pro-blema, allo scopo di superare convenzioni,banalità e fastidiosi stereotipi.

Ragionamento pareneticoQuesto testo è una domanda e unappello a un tempo. Se proprio se ne sente l’insopprimibi-le bisogno, è possibile riconoscersi inun’appartenenza a un lembo di terradai labili confini e alle sue genti, allasua storia che, nel bene e nel male, neha forgiato lingua (e ora ne sta for-giando di nuove), variegati modi divita, fedi di ogni tipo, lotte, dolori,passioni, speranze e disperazioni?È possibile riconoscersi in un’apparte-nenza a una simile entità senza sco-modare il concetto limitato e limitan-te e, in ogni caso, usato al singolareassolutamente insufficiente, di identi-tà? Un concetto che, per altro, se nonè escludente in partenza, tuttavia puòprecludere un’indispensabile acco-gliente comprensione dell’altro-da-sé,richiamando esso troppi nefasti

momenti della storia dell’uomo nellepiù disparate epoche e latitudini. È possibile una “normale”, pacata enon ostentata appartenenza a questoqualcosa che non faccia sfoggio altez-zoso della sua esistenza, ma che sem-plicemente si confronti dialetticamen-te senza superbia ma neppure com-plessi d’inferiorità con altre apparte-nenze, nel tentativo di realizzare laconvivenza mediante il reciproco,pacifico e libero riconoscimento per ilprogresso umano e civile di tutti? Se tale appartenenza è possibile, èaltrettanto possibile per gli e le appar-tenenti poter esprimere liberamente eserenamente il proprio disagio, la pro-pria critica verso quel pervertimentoculturale che ha deturpato e continuaa deturpare in modo irreversibile la“faccia” ambientale, paesaggistica,architettonica, economica, di convi-venza civile eccetera di quel lembo diterra senza per questo venire imme-diatamente tacciati di essere dei rin-negati? È possibile per gli e le appartenentichiedere a coloro che sentono dipoter condividere la stessa apparte-nenza per nascita, per vita, per sceltao per qualsiasi altra santa ragione, diribellarsi allo squallido mercimoniodelle tradizioni inventate e dei piùvieti e farraginosi stereotipi caratteria-li, enogastronomici, letterari, spetta-colari, turistici, pseudo-folklorici,pseudo-musicali eccetera (che, s’inten-de, hanno tutto il diritto di esistere edi essere spacciati liberamente dachiunque per il proprio tornaconto edi essere consumati da chiunque, maprima rimuovendo da essi l’illusoria e

Ragionamento parenetico

dei tempi nuovi ai popoli

della Romagna afflitti

dai luoghi comuni

di Giovanni Nadiani & Marcello Savini

Il titolo di questo“ragionamento” fa ironicamente

il verso al Ragionamentoparenetico indirizzato dal sig.

abbate G. C. ai popoli dellevarie città di Romagna afflitte

dal tremuoto, del lugheseGiuseppe Compagnoni (Bologna,

Stamperia Lelio Dalla Volpe,1781), scritto all’indomani del

terribile terremoto che colpì condue fortissime scosse una vastaarea dell’Appennino al confine

tra Marche settentrionali,Umbria e Toscana, che comprese

comunque buona parte dellaToscana (da Firenze a Monte

Oliveto Maggiore) e dellaRomagna (fino a Ravenna).

A differenza di quella orazione,decisamente reazionaria nei

contenuti in quanto redatta dalCompagnoni ben prima di

abbracciare le ideeilluministiche, questa nota

intende stimolare uno sguardocritico e pungolante nei

confronti di un uso superficiale esoporifero di certi luoghi comuni

legati alle piccole patrie.

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fuorviante etichetta dell’unicità /autenticità)? È possibile chiedere agli e alle apparte-nenti che si gustano un meritato cap-pelletto o una sudata piadina con sal-siccia, o un’agognata fetta di castratodopo aver fatto 500 m. di fila e un’oradi attesa alla Sagra della Pera Volpinacon l’orchestrina zum-pa-pa che suonain sottofondo in playback, di limitarsia considerare quel momento di svagoe di piacere come un mero momentodi svago e di piacere e basta, senzacomplicarsi la vita a pensare di starfacendo un gesto di appartenenza?È possibile agli e alle appartenenti –mentre continuano a sognare un’agilerete di metropolitane di superficie,simile a quelle esistenti in altre regio-ni europee avanzate, che unisca senzasosta i suoi diversi nodi – esigere dachi di dovere che il cosiddetto mate-riale rotabile (leggi: treni), sferraglian-te rugginosamente su quel lembo diterra, da alcuni definito la Californiad’Europa, li porti una buona voltarapidamente e sicuramente alle loropendolari mete di lavoro e di studisenza dover perdere il resto della vitain vane attese e proteste?

È possibile sperare che gli e le appar-tenenti dotati di spirito d’iniziativa, dicapacità e di mezzi diano nuovaforma, in modo adeguato ai tempi, aquel lembo di terra dal punto di vistaeconomico (dal turismo, anche sporti-vo, all’agricoltura; dall’artigianato allapiccola e media industria; dalla tecno-logia all’architettura; dalle attività por-tuali alla silvicoltura; dai servizi allacultura ecc.) facendone un lembod’eccellenza senza comprometterneirrimediabilmente i “connotati”,bensì prefigurando modi di vita, pro-duzione e gestione alternativi, durevo-li e sostenibili? È possibile per gli e le appartenentirichiedere a chiunque li amministri oli amministrerà di smettere di riem-pirsi la bocca di termini e sintagmiquali “romagnolità”, “fruttuosa siner-gia tra i poli romagnoli”, “forti legamicon la gente di Romagna”, “areevaste” eccetera, pensando piuttosto adare il massimo nel loro piccolometro quadro locale, dove sono chia-mati a servire i loro amministrati alleprese con la loro faticosa quotidiani-tà, cessando, dunque, di operare afavore per esempio di anonimi appa-

rati multiutility dell’acqua, della sanità,del rusco? È possibile richiedere agli stessi e allestesse di cui sopra di continuare a ser-vire gli e le appartenenti operando fat-tivamente – e cioè investendo capitalie risorse umane – perché quanto crea-to nella sua poliedricità e stratificazio-ne dalle fatiche, dalle passioni, dallelotte, dalle fedi delle precedenti gene-razioni, che hanno calcato quello stes-so lembo di terra, non venga ignomi-niosamente dissipato e cancellato,bensì sia preservato nelle strutturemateriali (ad es. mettendo in sicurezzai soffitti di biblioteche, scuole e museiprima che crollino) e immateriali (ades. lingua, musica ecc. prima che sidissolvano), e sia valorizzato creativa-mente e – laddove possibile – rinno-vato e rimesso in gioco per la crescitaculturale, umana, civile e pure econo-mica dei nuovi appartenenti e deiloro ospiti senza per questo venir tac-ciati di essere degli incorreggibili epassatisti bacchettoni? Se tutto questo (e ben altro) è o saràpossibile, è e sarà possibile definirequell’appartenenza come Romagna.

Lugo di Romagna, 3 gennaio 2013

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Si dice che lunedì 3 dicembre, pocodopo le 19, un signore abbia scesofrettolosamente le scale che dall’AulaMagna della Casa Matha portanoall’uscita e sia montato velocementesulla sua bicicletta gridando: “Vi sietefatti tutti corrompere!!!” o qualcosadel genere. Io non ero lì e non hopotuto assistere alla scena e mi èrimasto il dubbio che questo episodiosia una sorta di favoleggiamento, diricamo della memoria, o frutto delpassaparola su quanto veramenteaccaduto.Ma chi si sarebbe fatto corrompere, echi corrompeva? Sul sito internetdella Casa Matha ho potuto verifica-re che il 3 dicembre si svolgeva unodei quattro Incontri sul romagnolo, que-st’anno dedicati a La musica popolareromagnola. Relatrici: Cristina Ghirar-dini e Susanna Venturi. Ho cercato ilprogramma più dettagliato, infor-mandomi da chi era presente, nonultima la nostra presidente, CristinaGhiradini, che mi ha raccontato lasua versione dei fatti. Il 3 dicembre si era appena conclusala lezione di Susanna Venturi, intito-lata: Il canto corale e l’invenzione delpopolare: i canterini romagnoli. A dettadella presidente, Susanna Venturiaveva fatto una bellissima lezione sul-l’origine dei canterini romagnoli,citando documenti e portando foto-grafie relative alla ricerca sui canteri-ni di Russi che sta conducendo. Hadescritto il ruolo di Spallicci, Pratel-la e Martuzzi, ha spiegato come icori, che cantavano il mondo agrico-lo reimmaginato da Spallicci nelleproprie poesie dialettali, fosse com-posto da persone di estrazione bor-ghese. Ha fatto ascoltare registrazioniche aiutassero a capire la differenzatra lo stile vocale proprio della tradi-zione orale e la polifonia di Pratella eMartuzzi e ha sottolineato come lecante fossero, appunto, in dialetto, adifferenza della maggior parte deicanti di tradizione orale diffusi inRomagna che erano in italiano ocomunque in una lingua mista di ita-liano e dialetto. Ha spiegato come inRomagna le vicende dei vari cori dicanterini romagnoli si intreccinocon il Fascismo e come l’OperaNazionale Dopolavoro abbia regola-

mentato i cori romagnoli come tantealtre attività del tempo libero del-l’epoca fascista. Ha parlato dell’in-troduzione dei costumi. Ha poi sot-tolineato come le “cante” di Spallic-ci, Pratella, Martuzzi abbiano avutoun tale successo da sostituirsi alrepertorio di tradizione orale ediventare, nell’immaginario comu-ne, la “vera tradizione” di musicacorale romagnola e come ciò abbiasuscitato la reazione di Pratella, cheinvece desiderava fosse chiaro che lamusica che i canterini cantavano erastata composta da autori contempo-ranei, tra cui egli stesso.Pare che il signore che sarebbe piùtardi uscito contrariato, si sia presen-tato all’inizio della lezione come can-terino della corale di Ravenna eabbia chiesto se la relatrice lasciavaintervenire il pubblico. Susanna haaccettato di buon grado, ma si deveessere dimenticata nel corso dellalezione della richiesta che le era stataavanzata, tant’è che il personaggiomisterioso, verso le 18.30 pare abbiachiesto nuovamente la parola,aggiungendo: “Io l’ho lasciata parlarefino ad ora, vorrei intervenire!”. A detta della presidente questa è laprima delle due frasi infelici che sonostate pronunciate, dato che si trattavadi una conferenza, non di un dibatti-to pubblico, che oltretutto Susannateneva gratuitamente, visto che CasaMatha non retribuisce i propri relato-ri e la Schürr è notoriamente un’asso-ciazione di volontariato. La seconda espressione infelice è arri-vata non appena il misterioso perso-naggio ha preso la parola, presentan-

dosi appunto come componente deicanterini romagnoli del GruppoCorale Pratella-Martuzzi di Ravenna,del quale ha distribuito un po’ dimateriale informativo. La frase sareb-be stata: “Io non conosco la prepara-zione della signora, immagino sia lau-reata...”. Sebbene sia legittimo chie-dersi quale è il background di un rela-tore, probabilmente il canterino èassolutamente digiuno di musica(che non sia quella che lui canta,ovviamente), dato che Susanna Ven-turi è piuttosto nota a Ravenna: nonsolo è una fine musicologa ed etno-musicologa, laureatasi al Dams deitempi d’oro con Roberto Leydi, fon-datore insieme a Diego Carpitelladell’etnomusicologia in Italia, macollabora da anni con Ravenna Festi-val ed è giornalista e critico musicaleper il Corriere di Romagna. Macredo sia giusto concedere al nostrocanterino il diritto di dover essereinformato sulla biografia dei docentidei corsi che la Schürr contribuisce arealizzare e mi permetto di suggerirealla nostra presidente di presentaremeglio i relatori nelle prossime occa-sioni. Questi dettagli, apparentementenoiosi, servono a chiarire i ruoli, per-lomeno come mi sono stati racconta-ti: il canterino, che si presenta comeportavoce di quella “tradizione” sucui Susanna si accingeva a parlare, ela studiosa relatrice.Dopo aver preso la parola nel modogià descritto, il canterino si è dettoassolutamente contrariato dalla pre-sentazione di Susanna: oggi i canteri-ni sono un’altra cosa e quello che lei

Lettera aperta

ai canterini romagnoli

di Maria Tampieri

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ha raccontato non corrisponde allarealtà attuale dei fatti. A nulla è servi-to, evidentemente, il dibattito chepare sia scaturito e nel quale la nostrapresidentessa si è sentita in dovereintervenire nel ruolo “istituzionale”che le spettava.I miei informatori, e tra questi lanostra presidente, non sono statichiari su un punto che invece miincuriosisce particolarmente: perchéil canterino era contrariato? Quale èla sua visione? Perché indignarsi di

fronte ad una ricostruzione storicagià più volte proposta (seppure senzala ricca documentazione portata daSusanna e senza le precisazioni ditaglio musicologico che lei inveceavrebbe fornito in quella sede) da sto-rici del calibro di Roberto Balzani eStefano Cavazza, solo per fare duenomi? Che cosa, dopo l’uscita dellaraccolta di saggi L’invenzione della tra-dizione, a cura di Eric Hobsbawm e diTerence Ranger, disturba ancora nelfare presente che una tradizione

“inventata” può avere un tale succes-so da essere percepita come patrimo-nio culturale atavico che esprime lavera tradizione per chi la pratica? Per-ché in Romagna ci stupiamo cosìtanto, noi che tutti i giorni attribuia-mo uno stereotipato carattere roma-gnolo a modi di esprimersi, a compor-tamenti, a prodotti alimentari ed arti-gianali, compiacendoci della nostrastessa retorica? Siamo così pirandellia-ni, invece, da identificarci con i perso-naggi che noi stessi creiamo?

L’ân nôv

di Speranza GhiniL’ân nôv 1’insaca e’ veccint i lom e’ cioc d’zirândul, cun al boll de spumântch’al dura un toc de’ pèndul, una nott d’ bèl e d’cânt, mo cun purasè rimpiânt par un àn ch’u s’à dê tânt, pers int e’ val de temp che spola nânc senza vent.

L’anno nuovo L’anno nuovo insacca il vecchio / nelle luci e scop-pi di fuochi, / con le bollicine dello spumante / che durano un toch delpendolo, / una notte di balli e canti, / ma con parecchio rimpianto /per un anno che ci ha dato tanto, / perduto nel setaccio del tempo /che spula anche senza vento.

Letra a la Befâna

di Arrigo CasamurataA-n sò se nénca st’ ân t’ êpa e’ curagg‘d avni’ a truvess e’ prossum mes ad Znêre fê’, sôra la tëra, e’ tu pasaggpar fê’, coma chj itr’ én, sémpr’ e’ tu dvêr.

Se in chêsi t’ vé’, te’ cont che t’ he un vantagg:no stê’ carghet adoss che barachêrad chi righêl che t’ purt iquà in umagg,che st’ ân - a t’ e’ voj di’ - l’ è stê un lurdêr.

La zénta la j è stêda mânca usivae u n’u-m pê’ giost ch’ la pénsa ‘d fê’ la fësta,in möd speciel i “chêp dla cumitiva”.

Se t’ chèpit pròpi quând ch’j “êlza la crësta”,da mént, no ve’ paura ‘d l’ ëss cativa;zerca ‘d s-ciantej la tu garné int la tësta !

Lettera alla Befana Non so se anche quest’anno avrai il corag-gio / di venirci a trovare il prossimo mese di Gennaio / e fare, sullaterra, il tuo passaggio / per compiere, come ogni anno, il tuo dovere.// Nel caso tu venissi, tieni conto di un vantaggio: / non caricartidi quel fardello / di regali che sei solita farci, / perché quest’anno -voglio dirtelo - è stato un bordello. // La gente è stata meno trattabi-le / e non mi pare giusto che pensi a fare festa, / specialmente quelliche comandano. // Se giungi nel momento che usano arroganza, /dai retta, non avere paura di essere cattiva; / cerca di romper loro lascopa sulla testa!

La necessità di chiudere l’ultimo numero della Ludla del2012 in congruo anticipo, perché potesse essere nelle case

entro le festività natalizie, non ci ha permesso di pubblicarealcuni contributi di contenuto augurale giunti dai nostri

soci a Dicembre inoltrato.Speriamo possano risultare graditi anche in questo numero

di Gennaio: l’anno è ancora giovane.

Ancora auguri...

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Se dovessimo raccontare gli anni Duemila, li etichetterem-mo come gli anni della globalizzazione, con l’imporsidelle grandi catene di cinema multisala, centri commer-ciali, ipermercati. Li etichetteremmo come gli anni dellamulticulturalità, dell’apertura degli orizzonti (geografici ementali), fra donne in burqa, bazar cinesi che spuntanocome funghi e badanti venute dell’Est. Li etichetteremmoinfine come gli anni della tecnologia a portata di mano,fra smartphone ricchi di applicazioni, social network echat. E ci viene un po’ di magone, forse, ripensando atutte quelle piccole realtà di paese che, a furia di plasmar-si per stare al passo coi tempi, hanno finito per perdere lapropria identità.Ma è proprio così? Cosa è rimasto in questo contesto, adesempio, della Romagna e dei romagnoli?Ecco che ce lo racconta con pungente ironia GiovanniNadiani, tratteggiando in questo agile volume divertentied attualissimi quadretti di vita quotidiana nella nostraterra. Così incontriamo fra le pagine il romagnolo burbe-ro e critico, amante del ‘gossip’, dei fatti altrui (l’occhio alvicino si butta sempre, si sa…), impaziente e scaltro (ilgalateo va a farsi benedire di fronte all’irresistibile tenta-zione di saltare una fila o assaltare un buffet), con in testasempre un chiodo fisso, anzi tre: il denaro, il cibo e ledonne. Incontriamo insomma un po’ tutti noi, comedavanti ad uno specchio che riflette e svela i nostri picco-li vizi. E scopriamo che, anche se con in tasca un Iphone,un abbonamento alla palestra e la tessera punti del super-mercato, il nostro spirito è quello di sempre. Sì, perché letradizioni non muoiono, semplicemente si adattano e sifondono, in un sincretismo dove, fra miti vecchi e nuovi,regna sovrana lei, la vera potenza conquistatrice, capacedi convertire e consolare anche il cuore dei forestieri: lapiadina.

Dal volume di Nadiani riproduciamo due “storie”: la prima èlegata al tema del rapporto con la tecnologia, la seconda è quel-la che dà il titolo alla raccolta.

Comunicazione

«Ös-cia Ruðìna, a l’ét let e’ cartël? A cvè in ste pöst biso-gna spegnere il cellulare. Spëta, va’ là, ch’a murta e’ tala-funì. Che pu me a vreb savé parchè a l’apèi a fê che, cheintagnimod u n’um ciâma mai incion...»«T’é magara raðon, Tonina, che nenca a me u n’u m talé-fana mai incion... E invézi e’ dè d’Nadêl, ch’a séra in ciða,la ciða pina, e pröpi int e’ mëþ dl’elevazion, ben, u n’s’èmes a sunê cum’è un mat e’ mi talafunì, che me, ciò, al’tegn a e’ màsum parchè a so mëþa sórda, e di pu ch’e’rugéva, e me a n’séra bona d’truvêl, che tot j à cmenz agvardêm, e nench e’ prit l’à ðmes ad dì la mesa, ch’um’gvardéva nenca lo cun j oc fura da la tësta...Ció, me a j ò ciap la córsa e a so scapa fura da la ciða, fatavargògna! Mo chi sràl ch’um zérca... “Pronto, pronto, conchi parlo?”Ben, ció, u n’era un ciù ch’u s’éra ðbagliê nòmar!»

Piadina Blues

(Da recitarsi modulando la voce sulla melodia di un bluesarcaico).

Moi, je suis noir et je suis contentme a so négar e a so cuntenta so avnù in cvà da l’Africàa so stê on di prem a ‘rivêa j ò fat e’ vucumpràin cvelch môd avéva da magnê!E pu i m’tulet int e’ racket di parchegposteggiatore abusivo dnenz a e’ bðdêlmo me a so sèmpar stê un öman indipendente a m’licenziet e a cminzet a fêr e’ cuntadenparchè la tëra me a la cnosa cvè l’è bona e négra coma meu n’s’atrova cvaði incion ch’u la voia lavurêe l’è stê a lè stramëþ a i cuntadenme che par mi cont dal lèngv in scuréva treimbacont a imparet nench cvestach’u n’la scor cvaði piò incionparchè i dið ch’l’è ðgroþach’la sa d’miðéria coma mepovera lingua perdenteselvatica e impotentea cogliere le brame del poterelinguaggio di realtà non più esistentequella vera solo nei reality si sentecs’a vut ch’e’ fos par me a imparêlach’a savéva þa e’ franzéðche cvaði u s’j asarmeiae acsè adës me a l’impëst dè par dèa fëgh dla piê, pida o piadina, sèmpar lìinsieme metafora e logo

Gennaio 2013

Giovanni Nadiani

Piadina BluesAltre storie da caBARet

di Veronica Focaccia Errani

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la Ludla 7Gennaio 2013

di questa mia terra che non è il Togoparchè ció a m’séra stofd’ðradê e d’còiar sòl dal péðgho d’pudê d’invéran cun e’ giaze a cvè u j è sól di lavurche incion u n’i vó piò fê!U m’ingaget Frédo detto Bëficol suo chiosco di crescionispianate piadine e conchigliee cvânt che l’è ‘ndê in pinsiona cumpret da lo baraca e buratene da alóra i baioch i cor ch’i vala þent j à fâm e incion e mâgna a caadesso ho un’holding: Bëfi Spachioschi e dehors in tutta la cittàpiadina biodinamica di pasta madre, la mia specialitàa so gvent una putenzanon temo concorrenza cs’a vut mai i cinið cun i su bëro cla rubaza di kebabló i n è brið’ d’a cvè: i n’cnos incorai gost dla þent coma me!I n’a capì che e’ rumagnôl, cvel boncvânt ch’u s’trata d’magnêe’ sa sòl d’urcion, caplet e liðegn sotio sinö d’piê cun e’ parsot!Mo cvest dla chêrna d’pôrchl’è un probléma nench par meparchè tot sti maruchì, nö dla Basa Italia, da piò d’in þoch’i cmenza a lavurè par meparchè ció t’an truv miga inciond’cvi d’a cvè, chi sgnuren, ch’j épa voia d’lavurêcum ch’i sent l’udór d’pôrchu i ven fastidi e si sentono in peccatoe cla chêrna i n’la vô briða tuchê...Ös-cia ach malèta nenca vó burdel!S’a n’avì voia d’argumblêvturnì pu e’ vòst paéð che a cvè a sen abastaun’indecenza ‘ste ultime generazioni di migrantij è þa trop vizié e nench sindicaliþé pr i mi gost!Ció cum ch’l’è fadiga a fê l’imprenditóre la séra da par me u m’ven so e’ magon‘tânt che mi moi, òna d’a cvèla va da i Ferovieri pr un magione me a sent l’arciâm dla mi cadla mi tëra ch’a laset pr avnìr in cvàu m’ven da piânþar a pinsê a la libartê ch’a j ò lasêparchè a n’avéva un frânch da ðbatr in cl’êtare coma ch’i dið incora i vec d’a cvèu j éra piò miðéria mo a segna piò cuntentnench s’l’à i su vantëþ u s’capescaghêr in pêz sóra un water d’ôr

e avé sèmpar l’acva da lavêsnench se me a n’capès un cvël:cun tot’ l’acva ch’a j ò druvê a cvè in Rumâgna‘dó che incion e’ fa e’ razestau ngn’è stê gnìt da fê:nench s’a scor in rumagnôle par tot e’ dè a so infarinêe a la dmènga a végh in þir par Fenza‘s’na Mercedes biânca ch’la starlocació a n’so stê bon d’cambiê e’ culór dla pële nench j amigh d’a cvè i m’dið che’ pê ch’a seia ciose l’è in stal sér d’lona pinach’u m’piànþ e’ côr, ch’u m’ven e’ magonalóra a végh ins e’ balcon dla mi vela a gvardê sot’a la lonatota la Rumâgna, dolce paese, e e’ magon a l pes in þoe intant ch’a pes, da par me a chent ste blues che

[incion e’ capes...

“Piadina Blues” di Giovanni Nadiani è pubblicato dall’editoreDiscanti di Bagnacavallo nella collana “Collezione romagnola. Librisuggeriti da Giuseppe Bellosi”. L’«altre» del sottotitolo fa di questaraccolta la continuazione delle storie pubblicate dall’autore in “LowSociety” (Editore Carta Canta, 2010).

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la Ludla8 Gennaio 2013

Quand che e’ Carnevèl e’ finèjva, cume’ tachèva la Quaréjsma, énca se i priti gnurgniva, quasi dimpartot i balèva.A Sajen, t’un pajstéjn dal culeni adCisena, la nota de’ sabat lov u j’era e’viglioun. Par cvil chi stasèjva a lè d’in-tonda, casint, cuntaden, zenta ad cam-pagna abituèda a lavurè senza majputèj divartéjs, énca s’i balèva t’un cvèlpursija du che e’ sulér l’era tot un sò ezò, cl’aveniment l’era cumè una cala-méjta, e tot i curéjva, da fè quasi trava-lè che’ cambaroun. Un sabat ad cvil,dato che e’ vendar nota u n’avèjva fatèlt che bufé cun un vangéjn che spulè-va cla nèjva da mucij in chi sbòcch difèt réjfan chi spléjva quasi gnacvèl, lamatena prèst, j’oman scarbuij in calstrèdi i tachét a dès da fè, cun vachibadéjl e fièsch ad Zanzvèjs e buijarijd’ogni raza, par fè la ròta. L’Ada, la mi cusena, una burdliscotaad ség èn, che fintenta aloura la j’avèj-va cnusou soul ca’ e cijsa, la n stasèjvapiò tla pèla, parché cla sèjra, énca lija,cun la su ma’, la saréb andèda a e’ suprem viglioun. Zà ad prema matena,drij la rola, la tachét a pastruciès la fazae a laves i cavéll, par pò stimes unmond a zirandlè cun i canaréll tla tèstae la faza impatachèda ad cipria parciutè al vuladghi. Cal doni invici, che’dopmezdè, a n fasét èlt che pagiughijtourna e’magnè da putèjsal gustè amèzanota propi te’ bèl de’ viglioun. La

noona, cun me a lè drija ch’a j ziran-dlèva d’intonda aspitènd e’ mumentboun par putèj lichij al déjdi, la fasèj-va al castagnoli, mentar la zija t’unmurtarol ad tèracota la cusèjva zola epatèti cun l’udour de’ bacalà. Cla burdèla, cla sèjra, instéjda cununa sutanéjna dla su ma’ ad quantch’la jera zovna, una camisèta dla susurèla zà spusèda e tla testa e’ fazultéjnbiench dla Crèjsma, énca se ti pija laj’avèjva di stivalèz (dato che in chi dèu s’andèva par la piò a pija e al schèr-pi dla Créjsma, par cla stradaza che daSurejgval la purtèva a Sajèn al n’avrébtnou bota) la jera piò bèla de’ solit…Ma’ e fiola, al sèt dla sèjra cun la gava-gna de’ magnè, la bocia de’ tarbiench

e al schèrpi ingupledi in di strèz, piòche ciutèdi, insen cun e’ noon Man-ghéjn ch’u j’avréb fat strèda cun e’lom a carburo, al scapét d’in ca’.Agl’ot pasèdi agl’intrét te’ camba-roun, du che forza ad spatasoun altruvét e’ post par metas disdèj t’onaad cal benchi tachèdi me’ mour, duche sota agl’inschét gavagna, bocia de’bèj e stivel. Enca a lè in che’ cious us’batèjva i pija pre’ frèd, ma pèna cheSilvano Prati cun la su orchèstra etachét a sunè, l’aria tra scapoz, zam-péjgh e pistoun ti pija la tachét sobitad arscaldès. I piò i zirandlèva, i duciè-va par dmandè mal ragazi ad balè,l’Ada, però, sdundlènd la tèsta labadèva a déj ad nà!

Gozli ad Rumagna

un racconto di Dino Bartolininel dialetto di Sorrivoli

Illustrazione di Giuliano Giuliani

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la Ludla 9Gennaio 2013

Un muritéjn, che fintenta a che’mument fasènd féjnta ad gnent, un’avèjva fat èlt che gvardè l’Ada, tot dasèch è stasét sò pr’invidela a balè. Lija,incucaléjda, senza l’ès bouna ad déjgnent la dvantét ròsa cumè un pivi-roun, e che’ zovan par non laseslascapè e tachét a scor: “Me… a stagh a la Carpdnèjda, a so…Pacaléjn ad Féjgh nijr… a jò dijs pigrich’a li stoug matena e sèjra da cavèjfora un furmaj… cun un fat scajféjn….ch’l’è quajcosa ad boun. Cum a t’òvést u m’à ciapè un zert chè m’adoscumè quand al mi pigri al vèjd un caspd’erba piò che bouna ch’la n s’trovaquasi invèll… Mi mi améjgh ta j’è déttad nà e me ch’a m’arésgh poch an’avèjva e’ curag d’avsinem, ma quelche counta l’è che adès a sija a cvè! Talfarést un bal cum me?” A cal paroli e muntet sò la ma:“Gnenca a scoran! Ch’u s’vèga pou acapè un’enta ragaza s’u j téjn acsè tenta balè! La mi fiola, maj la s’abasarà abalè cun un pigurèr.”“Sa daséjv i nomar, ma’? Sa che coun-ta cvèl che lè? A n’aldéj che spali rubo-sti, che manazi, che occ da birichéjnch’l’à? Mama, par piasèj...!”“Mo sé, bala pou se ta j téjn acsè tent!A voj però ch’arstéva a què impètamè!”Chi dou zovan, cun l’urchèstra che inche’ mument la tachèva a sunè untango, i s’butét in pésta, da sparéjquasi sobit te’ mèz a tot cagl’ilt. Clama’ aloura, par tnèj a d’oc la rapétsoura la benca e tl’aldèj chi dou bur-déll scrichij cumè sardèli sot’oli, laj’andét fora ad tèsta: “Ada!... Ma sa fét, sa c’uj sarà maj dascrichij? Staj piò da loungh! T’an t’var-gogn propi gamba?” Chi dou burdéll, vargugnous, i pruvè-va ad stachès… par pò scrichijs piò chen é prema… furtona che a mezanota ismitét ad suné, sinò cla pora dona laj’avréb pers la vousa da fat! Cla fiola laj’arturnét te’ su post imbarijga e cun-tenta cumè una pasqua, mentar la ma’la j’avèjva un dièval par cavéll: “Burdlaza!... Pusebal ch’u s’epa da fècsè a balè? Ta n’avré méjga mèl adtèsta par chès, che ta glia tnivti puzèdasoura al su spali!? Imbucount, adès amagnèm e pò a s’andèm a ca’!...” E di znoc, la tachét a razè sota la

benca, par pò stuglès da fat, ma lagavagna e la bocia de’ bèj agl’era spa-réjdi! L’Ada intent, dato che a lè drija u s’eraliberè di post, la tachét a fè ségn aPacaléjn, che sobit dop u si andét amétt disdèj a lè drija insen cun la sunoona, ch’la tachét a cavè fora da lalighèza: furmaj, cantarèli e una fiascad’ajbena, mentar ch’la mama la cunti-nueva a gnurgnij: “Chi lazaroun, i s’à purtè vij gnacvèl!Pansè che mu me u m’à ciap una fenach’a la vègh!..”“Ch’la stèga chèlma, sgnoura: ch’lamègna pou a cvè cun noun senza fètent cumplimint, - la j giét la noona adPacaléjn - la l sa, che po dès, ch’a dvan-tèma parint!” Senza piò badè ma gnent, impèta a totche ben di Dio, cla ma’ la tachét amagnè cun un fat gost cum u gn’eramaj capitè e cumè ch’a s’fos sèmpracnusoudi, cal dò doni a n fasét èlt checiacarè fintenta al trè, l’oura chi smitetad suné; mentar chi dou burdéll, piòche badé, in fot padroun gnenca d’an-dès a gusté una gazousa a e’ bitulen.Cla nota Pacaléjn, u n fasét èlt chepansè ma cla bèla ragaza, senza l’èsboun ad cioud un oc, tent che e’ dop-mezdè dla dméjnga, pr’arputèjla aldèje’ tachét a zirandlè par Suréjgval senzacuncloud gnent. Tra e’ lom e e’ scour,mentar che tot scrozz u s’n’arturnèva aca’, impèta l’ustaria un vcéjn che tra-balèva u s’apuzét ma lò gièndi: “Boja dla vaca! Cun sta nèjva u gn’èmodi ad stè in pija!”“Sgond a me invici, a crèjd ch’avéjvabou un bicijr ad piò! Avéj chèra ch’av’acumpègna ma ca’?”“Osta sa j’ò chèra: acsè a so sicour adnon caschè!” E strèda fasènd, tra una ciacra e cl’èl-ta, che zovan e’ cnusét Manghéjn, e’noon dla ragaza, tent da dvantè lasèjra stèsa, cun la cuntantèza ad tot e’murous dl’Ada. La ma’ o la nòonaperò, par badèj a li stasèjva sèmpra trai pija, da druvè che’ zuvnot ben e spèsscumè dvanadour: fèj tnèj la gavètlaintent che lou a gl’ingupleva e’ ghefal.Una sèjra ad maz però, intrènd tlacusena, Pacaléjn e giét d’avèj vést e’baghèn smusarlé tra i pajer; la ma’ acal paroli, sbruntlènd la scapét adcoursa pr’arpurtè cl’animèli te’ purzéjl

e dop a qualch mèjs, ma l’Ada ujtachét a ciapè di ziramint ad tèstaquasi da buté fora. “Ma sa t’è maj fat Ada? - la j gèjva lama’- An t’arcnoss piò, ta m’è méss sòun culour che t’am pijs poch e a sopreocupèda! Praperat daj, ch’andèmda e’ dutour!” Dop a la visita e’ dutour e’ tachét a dèjch’la jaspitèva un burdèl!!!“Impusebal! Maj a j’avèm lasij da parlou dou!”“Sono più che certo di quel che dico!”“E’ vréb déj aloura ch’la jè incéjnta?Ch’la jè pregna? Oh, purèta me! - lagnurgniva cla ma’ - Cum a farèm majadès a dèjl ma Jacmejn e’ su ba’?” E par tot che’ dè, enca s’al vlèjva ch’e’savéss, al n’avét e’ curag d’afruntècl’umoun seri, dour e tot d’un pèz... La sèjra, cum l’arivét Pacaléjn, cla ma’ch’la n’era piò bouna ad stè invèll dae’ narvous, la l ciapèt pre’ cruvatèndmandèndi quand l’era maj capitè chefat? Pacaléjn ch’u n’ariveva a capéj,cumè che caschéss dal novli e’ tachét adéj: “Ma che fat, s’èl maj suzèst? Me agn’entar!”“Sta zétt e lasum scor, che me a so piòche sicoura che t’ci stè tè!”Dop avej savou cum e’ stasèjva al robie’ giét: “Ma sa vut ch’a sepa me! S’a vut majch’a savéss me, che par dè la mola a unbaghen e’ saréb capitè un mirècval?!...Mèj acsè, acsè a m’la spous sobit la sufiola!”“Brot lazaroun d’un picurèr, aspetach’l’aréjva e’ su ba’ ch’u t’insgnarà lòcum u s’fa a stè a e’ mond!”E propi in che’ mument l’intrét Jac-mejn, che senza l’ès vést l’avèjva santéjgnacvèl e ciapènd la moj tla brazèda e’tachét a déj: “Sta bouna Gièpa, sta chèlma! L’è robich’al capita!… Forsi ta t’si scorda, cheforza ad fèla bèj cla noona a la fasesumindurmantè? E che pò dop l’è suzèstun fat pracéjs énca ma noun! Par mel’è una gran bèla nutéjzia, avrèm unanvudéjn! Finalment a dvantarèmnoon énca noun, parchè da cl’èltafiola, spusèda zà da quatr’èn, a j’òpavoura ch’u j sija poch da garavlè!...Daj, andèma Gièpa, che chi dou bur-déll i n vèjd agl’ouri d’arstè un bisi-néjn da par lou...”.

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la Ludla10 Gennaio 2013

Sinonimo di adulterio per eccellenzanel faentino, Cassandra Pavoni ful’amante ufficiale (e madre di trefigli) del signore di Faenza, GaleottoManfredi, costretto invece a sposareFrancesca Bentivoglio di Bologna nel1482, la quale però lo farà uccideredalla gelosia. Si noti che alla Pavonaè dedicato anche un famoso stiledelle ceramiche faentine (occhiopenna di pavone), voluto proprio dalsignore della città manfreda. Il pavo-ne, poi, è da sempre un animale rite-nuto vanitoso e borioso (così come siimmagina essere un amante), bastipensare alla celebre favola di Fedro, Ilpavone e Giunone. «Un pavone avevaascoltato il soave canto dell’usignolo,subito cantò per gareggiare, ma per lavoce rauca e stonata suscitò il riso ditutti gli uccelli. Allora il pavone sup-plicò Giunone: “O regina degli dei edelle dee dona anche al pavone lavoce e il soave canto dell’uccello diGiunone, gli dei donarono un bel-l’aspetto al pavone, ma senza la dol-cezza della voce eccitiamo il riso deirestanti uccelli”. Ma la dea rispose:“Donai agli uccelli delle doti, dellesemplici volontà: la forza all’aquila, lavoce all’usignolo, il malaugurio allacornacchia, al pavone un bell’aspetto,nessun uccello è fornito di tutte lequalità; tu superi tutti per le piumecolorate e per la splendida coda.Come i rimanenti uccelli per la lorodote sono graditi così anche tu e latua specie dovete essere soddisfatti”.»Parlando di donne e di emancipazio-ne femminile, il riferimento a Cateri-na Sforza sembra quasi obbligato interra di Romagna, dove questa straor-dinaria donna è vissuta a lungo, sia aForlì sia a Cotignola. Nata a Milanonel 1463 e morta a Firenze il 28 mag-gio 1509, era figlia illegittima di Gale-azzo Maria Sforza, duca di Milano, edi Lucrezia Landriani. Occupatasi alungo di erboristeria, medicina,cosmetica e alchimia, Caterina ci halasciato un libro di ricette e di proce-dimenti: gli Experimenti della excellen-tissima signora Caterina da Forlì, com-posto da 461 ricette che presentanodei rimedi per combattere le malat-tie e, più semplicemente, per preser-vare la bellezza del viso e del corpo.Si tratta di veri e propri experimenti

chimici in cui Caterina si dilettò pertutta la vita1. Non tutte le prescrizioni però sono daconsiderarsi ridicole o ciarlatanesche:in alcune vi sono intuite delle scoperteche verranno fatte solo molto tempodopo, come la cloroformizzazione pereseguire gli interventi chirurgici. Cate-rina era una donna di straordinariabellezza e ciò contribuì sicuramente afarne la persona affascinante di cuitutte le cronache del tempo parlano.Essa aveva un culto per la propria bel-lezza e questo era per lei un ideale divita per cui valeva la pena spenderetempo e denaro. Proprio per questomotivo gran parte del ricettario è costi-tuito da rimedi per preservare tale bel-lezza, secondo i canoni dell’epoca: per«fare la faccia bianchissima et bella etcolorita», per «far crescere li capelli»,per «far venire li capelli rizzi», per «far licapelli biondi de colore de oro», per«far le mani bianche et belle tanto chepareranno de avorio». E anche in ragio-ne della sua avvenenza, si narrava aves-se tantissimi amanti che catturava e,dopo averli stregati e posseduti, li but-tava in un pozzo rasoio.

Il caso vuole che il nome di Catarè-na, la pronuncia romagnolizzata delsuo nome, sia legato ad un’altra figu-ra ben più fantasiosa e quanto maienigmatica. Nel ravennate2 è famosoil dolcetto con fattezze femminili chesi regala il giorno di Santa Caterinad’Alessandria (25 novembre)3. Acausa della mancanza di evidenze del-l’esistenza di Caterina, la ChiesaRomana soppresse il suo culto nel1969, che però permane tra la gente.Tra la leggenda di Santa Caterina e lavita della matematica Ipazia, simbolodella libertà di pensiero, filosofapagana uccisa barbaramente a Diounpresso Alessandria d’Egitto nel 415d.C. da un gruppo di parabalanoi(monaci cristiani guidati da un certoPietro), i molti elementi in comunefanno però pensare che la figura dellasanta cristiana sia una trasposizionedella Ipazia storica, martire pagana.Gioco del destino o strana coinciden-za che sia, fatto sta che il nome di“Caterina” simboleggia in Romagnal’emancipazione delle donne, un po’come la Marianne in Francia sta asimboleggiare la libertà.

(Continua)

Note

1. G. ZANELLI, Streghe e società nell’Emilia-Romagna del Cinque-Seicento, Ravenna,Longo, 1992.2. E. BALDINI - G. BELLOSI, Calendario efolklore in Romagna: il prodigioso, il sopran-naturale, il magico tra cultura dotta e culturapopolare, Ravenna, Il Porto, 1989, p. 276.3. Umberto Foschi attesta la seguentefilastrocca popolare: Par Santa Catarena /impiness e’ sach dla farena, trattandosi delperiodo in cui si macina il grano e si ripo-ne la farina per l’inverno.

La mitologia femminile

della Romagna - III

di Silvia Togni

Il decoro tradizionale della “Pavona” in unaceramica faentina.

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la Ludla 11Gennaio 2013

sanablà: in ital. frivolo, buffone, sciocco.Forse sanablà era avvertito arbitraria-mente come fè bla-bla: scôr senza dìgnint. È una voce del medio Bidentequasi scomparsa; aveva come variantisanàc e sanablàc. Valeva in originecome saltimbenc ‘saltimbanco’,‘giullare’. La variante sanàc, per‘sciocco’ è registrata dall’Ercolani,Voc., come rara, raccolta nella zona diCannuzzo di Cesenatico, ma era fre-quente fino a mezzo secolo fa anche aCivitella: una volta perciò dovevacoprire almeno l’area intermedia.1

Per l’etimo, non a caso il lat. sannaindica la ‘smorfia che contraffà gliatteggiamenti altrui’, la ‘presa in giro’:che sanablà u m’ fa sempar dalbucazi, o dal ðmórfii, o dal mosi, cioèu m’ ufend. In lat. rugosa sanna (smor-fia di chi corruga il volto) compare inPersio, Satirae V 91; sannione[m] era ilbuffone, loquace senza necessità ofuori luogo; sannare era ‘far sberleffi’,‘beffeggiare’.2

Sanàc continua *sannàculum,diminutivo del lat. sanna, mentre ilsuffisso di sanablà può spiegarsiricorrendo alla commistione di *san-nàculum col lat. *sonàbula da sonus‘suono’, ‘sonaglio’: in fondo erano gli

oggetti in mano o addosso al ‘san-nione’, lo scettro e l’abito coi sonaglidel giullare medievale, come il ver-diano Rigoletto. Infine, sanablàc o eraun reinnesto su sanàc, oppure era trat-to mediante una falsa etimologia dasanablà e blac, forse alludendoall’abito delle maschere del carnevale,ricavato spesso da quéic blac malandè,smesso e di poca spesa.

Note

1. Stecchetti, Son. Rom. p. 88, usa l’astrat-to sanachìsom. Per il du Cange, Gloss.:SANNA: irrisio, maxime quae narium, oris,vulti distorsione fit (irrisione, soprattuttoquella che si fa con la distorsione di na-rici, bocca, volto).2. L’agg. femm. lat. rugosa è passataindenne nel dial., solo perché non con-tiene né la e, né la o, né consonantisoggette ai molteplici stravolgimenti dellanostra fonetica. ‘Sannione’ compare inuna commedia di Terenzio, Adelphoe,dove fa il ripugnante mestiere del ruffia-no (l’ha ‘na faza ghignoða; l’ha un ghegnðgustóð…). O tale ce lo mostra il suomestiere anche allora turpe. In questosenso, l’uso di ghignóð sottintende ungiudizio morale assente nell’italiano). IlCarducci per La chiesa di Polenta coniò ilverbo ‘subsannare’: un fulvo / picciol cor-nuto diavolo guardava / e subsannava [sog-ghignava]. Ovviamente sono diversi per significatoed etimo þana ‘zanna’ e aþanè ‘azzannare’presenti anche in dial. e che condividonol’etimo col ted. mod. der Zahn, ‘dente’.Però, se si risale alle radici indoeuropee,si possono collegare il germanico ‘zanna’,il latino ‘dente’ e il tema greco odont-, pre-sente in odontotècnic.

***sangv: in ital. sangue: dal nom. lat.(non dall’acc.) sanguis o sanguen. Ecosì, sanguinèri, sanguégn, san-guiné, sanguinàz sono voci latine.Modi di dire: u cor e’ sangv (ci siaccoltella); u cor bon sangv (trabuoni amici); e’ ven u fa sangv; u’ms’agiaza e’ sangv; e’ sangv pèst d’unmurél contrapposto a sangv viv; epoi sangv ad Baco!; sangv ad Crest!;perd e’ sangv o de’ sangv; ui cola e’sangv da e’ nèð o da la frida; éss int‘na pòza ad sangv; dè e’ sangv o cavèe’ sangv e (anche prima delle trasfu-

sioni, come metafora per ‘dare tutto’e, rispettivamente, ‘prendersi tutto’);pisé sangv (in senso letterale ometaforico); u m’arbòll e’ sangv (perla gioventù, per la rabbia, per un’offe-sa, ecc.); u me dið e’ sangv che…(sento per istinto quel che accadrà…).Infine, èss on sanguégn ci riportaall’ippocratica teoria di quattroumori: malinconico, flemmatico, bi-lioso, sanguigno. Ma per indicare il sangue in latinoerano in uso due termini: sanguis ecruore[m]. Il primo era il sangue chescorre nei vasi sanguigni; il secondoquello che fuoriesce a fiotti dalleferite profonde – un fiòt ad sangv1 –specie quella da armi da taglio.2 Trat-ti da cruore[m] in dial. usiamo soprat-tutto crud e crudeltà; mentre ‘cruen-to’ è dotto e raro anche in ital. Lachérna cruda è ancora da cuocere, onon è cotta a dovere e lascia ancoravedere il sangue, come la bistèca a e’sangv; ma crud significa pure feroce,aspro, duro, rozzo, non maturo. Siusa anche l’accoppiata nud e crud.3

Note

1. Fiòtt ‘fiòtto’ è giunto fino a noi pertradizione orale dal lat flùere; siaggiungano pure flós, fion, ecc. Flót [delmare], è forma dotta ripescata dal latino.2. Cicerone, Pro Caecina 76 , da avvocatoscriveva: Nisi cruor appareat, vim non essefactam (se non si vede il sangue, [siritiene] che non sia stata fatta violenza).3. De’ porc u’n bota via gnint, gnenca alsidli [setole]. Bé e’ sangv ad on è unametafora; ma il sangue bevuto ‘crudo’ eraritenuto anche… un ricostituente. Già glispartani mangiavano quello di maialebollito, come si faceva anche da noi nellecase dove s’uccideva il maiale: è capitatoanche a me da piccolo di doverlo mangia-re, ma francamente non vedevo l’ora chegli altri facessero la parte del leone. Inqualche casa si faceva e’ miàþ ‘migliac-cio’, un dolce a base di sangue, benché ilnome venga da ‘miglio’, e’ méj, uncereale oggi destinato solo agli uccelli ingabbia. Forse era in origine un san-guinaccio salato come fanno ancora neipaesi anglosassoni, usando però l’orzo. Ame però piaceva solo quello dolce dellefamiglie meno sparagnine, con più cioc-colata che quasi coprisse il sapore delsangue.

Rubrica curatada Addis Sante Meleti

da Civitella

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la Ludla12 Gennaio 2013

La gata (E’ rapiment)

di Adolfo Margotti - FusignanoSecondo classificato

L’è þa öt dè ch’la ciâma i su gatì,(che a ij ò “rapì” par dêi a un cuntaden),par insignêi d’ciapêi i surgaten; amstir intigh ch’la sa insignêi sól li!

Tot quènt i pës ch’a fëgh a l’ò stra i pi, cun un fringvël, cun un pasaruten…A m’sent coma ch’aves rapì un baben e u j è di dè ch’a pienþ insen cun li.

A n’in pos piò d’avdéla scunsulêda, distrota da e’ dulór, miulènd la i ciâma, la rugia coma un’ânma disperêda.

Air la tnéva un surgaten stra i dent…La nöt la chêva e’ côr com’una mâmach’la ciâma un fiôl sparì int un rapiment.

La gatta (Il rapimento) Sono già otto giorni che chiama isuoi gattini / (che io ho “regalati” a un contadino), / per inse-gnar loro ad accalappiare i topolini, / mestiere antico che sa inse-gnare solo lei. / Tutti i passi che faccio l’ho fra i piedi, / con unfringuello, con un passerottino... / Mi sento come avessi rapito unbambino, / e ci sono giorni che piango assieme a lei. / Non neposso più di vederla sconsolata, / distrutta dal dolore, miagolan-do li chiama, / grida come un’anima disperata. / Ieri teneva untopolino fra i denti… / La notte strazia il cuore come unamamma / che chiama un figlio scomparso in un rapimento.

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Parol int e’ vent

di Augusto Ancarani - BruxellesTerzo classificato ex aequo

Int la chelma dla stré, ch’la surnacevai dopmazdè d’inveran, pr’ e’ passéui era poch pasagg, mo la salghé,

ch’l’era d’sèss, tott a un tratt la rimbumbeva

sott i pi d’un caval. Piô in là u s’ sinteva suné l’arloi dla piaza e infèn fis-cé e’ treno a la luntèna e pu ciamé la dòna di bagigi ch’la vindeva

nèca la zoca còta e al mistuchei. Ogni tènt l’ariveva e’ strazarolzighend “Aviv di strèz, dòn?” strach e lènt,

cun e’ spènzar adési un caritei. Al souna incora totti stal parolche u li ramasa e u li scariola e’ vènt.

Parole nel vento Nella calma della strada, che sonnecchia-va / i pomeriggi d’inverno del passato, / c’era poco traffico, mail selciato, / che era di sassi, tutto ad un tratto rimbombava //sotto gli zoccoli di un cavallo. Più in là si sentiva / suonare l’oro-logio della piazza, e perfino fischiare / il treno in lontananza epoi chiamare / la donna delle noccioline che vendeva // anchela zucca cotta e il castagnaccio. / Ogni tanto arrivava lo strac-civendolo / urlando “Avete degli stracci, donne?”, stanco e lento,// mentre spingeva adagio un carrettino. / Risuonano ancoratutte queste parole / raccattate e portate intorno dal vento.

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L’ultum salut

di Angelo Minguzzi - BagnacavalloTerzo classificato ex aequo

At èva trouva acsè, sempar cuntenta,i sogn da sdesta j era la tu bleza, da un dè a cl’èlt tci gvointa difarenta,la nebia la t à cvairt sla su tristeza.

Va’ te a savoi cs t avivtja int la tu menta,incora una mez’ora, no ave’ freza,una canzon canteda lenta lentae agli ombri ch’al t faseiva una careza.

Guardes int j oc in zairca ‘d rob da di’,pio ch’aj pinsen e pio u n i è una rason,te cun al tu emuzion me cun al mi,

s’i s da a vde’... ch’aven dal fati faz,at acumpaign pre viel ch’va a la stazion,un bes, a cvè u s pò, sta’ ben, bon viaz.

L’ultimo saluto Ti avevo trovata così, sempre contenta, / isogni da sveglia erano il tuo bello, / da un giorno all’altro seicambiata, / la nebbia ti ha coperto con la sua tristezza. // Vatu a sapere cosa avevi in mente, / ancora una mezz’ora, nonavere fretta, una canzone cantata lenta lenta / e le ombre cheti facevano una carezza. // Guardarsi negli occhi in cerca diparole, / più ci pensiamo e meno c’è un senso, / tu con le tueemozioni io con le mie, // se ci vedessero... che facce abbiamo,/ ti accompagno per il viale della stazione, / un bacio, qui sipuò, sta’ bene, buon viaggio.

14aedizione

del concorso “e’ Sunet”

Secondo e terzo classificati nella sezione lirica

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la Ludla 13Gennaio 2013

Premio di poesia “Acquacheta 2012”Portico di Romagna

Stôria d’un temp

di Carmen BendandiTerza classificata assoluta

Prima nella sezione in romagnolo

Oh! Oh! Oh! Nenca questal’à i quajon:i vô save j én ch’a jò.Me a n e’ degh migai mi én, a n i degh a incion.

A v dègh inveci:che in chj énin Itaglia u j éra la ditatura,e’ cmandéva Muslèn.

E’ mi ba, l’avéva un’êtra idea,e’ ciapéva dal manganlêditra copa e cöl.

La nöta che a so nêda,a caval d’una bicicletatota ðgangarêdae’ paset da e’ Pont de’ Vichpar avnìs a ca.

Al doni al faðéva vegia,al scuréva a basa voða:e’ traplet l’éra in ateða.

Int e’ silenzi dla nötae’ mi ba e’ rugè da e’ balcon:“L’è nêda,l’è nêda una babina”.

L’éra i dið ad þogn

de’ sècul pasê.

Quând avet du énun’êtra vóða la rugèda e’ balcon ad piaza Venezia:“Italiani armiamoci… e partite!”

L’éra i dið ad þognde’ melnovzentquaranta.

Storia passata Oh! Oh! Oh! Anche questa / ha i coglioni: / vogliono sapere lamia età. / Io non lo dico / i miei anni, non li dico a nessuno.// Vi dico invece: / che in quegli anni / in Italia c’era la dit-tatura, / comandava Mussolini. // Mio babbo, era di altraidea, / e prendeva bastonate / tra nuca e collo. // La notte chesono nata / con la bicicletta / tutta sgangherata / passò daPonte Vico / per ritornare a casa. // Le donne facevano veglia,/ parlavano a bassa voce: / quel gruppetto era in attesa. // Nelsilenzio della notte / mio babbo urlò dal balcone: / “È nata, /è nata una bambina”. // Era il dieci giugno / del secolo scorso.// Quando ebbi due anni / un’altra voce urlò / “Italianiarmiamoci… e partite!”. // Era il dieci giugno / del millenove-centoquaranta.

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Primo concorso di poesia dialettale romagnola “Ascolto. Cosa posso fare per te?”

organizzato da La Rete Magica - Forlì

U s’ è fat scur

di Diella MontiPrima classificata

U s’è fat scur int la mi tësta, néca s’l’è dèe i mi pansir i s’è smarì, j ha pers la strè.

A te voj dì babina, moj, stam da santìch’ho voja ‘d scor, ad racunté, zérca ‘d capì.

A jho ‘na stôria in drénta e’ côr ch’la vó scapêr, aiutam te che me ‘n so bôn ‘d ciacarêr.

A so e’ tu ba, e’ tu marid, a so e’ tu fiôl, dam la tu mân, dam la tu vósa, al tu parôl.

E pu e’ basta ch’am so stóf e a voj andê cae a voj durmì scrichè tr’al braza dla mi ma.

S’è fatto buio

S’è fatto buio nella mia testa, anche se è giorno / e i miei pen-sieri si sono smarriti, hanno perso la strada. // Te lo voglio direbambina, moglie, stammi a sentire / che ho voglia di parlare, diraccontare, cerca di capire. // Ho una storia dentro al cuore chevuole uscire, / aiutami tu che non sono capace di parlare. // Iosono tuo padre, tuo marito, sono tuo figlio / dammi la tuamano, dammi la tua voce, le tue parole. // E poi basta che sonostanco e voglio andare a casa / e voglio dormire stretto tra lebraccia di mia mamma.

Stal puiðì agli à vent...

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la Ludla14 Gennaio 2013

Caro direttore,è la terza volta che am fëz da pè permodificare un testo che viene sempresuperato dagli eventi.Iniziamo dal tuo articolo di copertinasulla Ludla di Ottobre n. 8/2012, nelquale tratti due argomenti: la Grafia ela Grammatica, che reputo entrambeimportanti e che saranno da affronta-re e risolvere tutte e due. Certo che,mentre è comprensibile che ancoranon si sia raggiunto, neanche con l’in-contro del 6 ottobre, l’obiettivo didefinire Norme di Grafia condivise evalide per tutte le parlate Romagnole,non è più giustificabile che nelle pub-blicazioni [intese come presentazioneal pubblico] fatte da autorevoli Istitu-zioni culturali e dagli organizzatori diConcorsi di poesia e/o di prosa roma-gnola ci siano prototipi come quelloda te presentato Savliv cav dega (ma c’èdi peggio). Se all’editore arrivano deitesti con errori grossolani di Morfolo-gia, Sintassi, Grammatica – uso le tueparole -, questi non possono esserelegittimati da una pilatesca dicitura“La responsabilità delle affermazionicontenute negli articoli firmati vaascritta ai singoli collaboratori”; iodirei che ha l’obbligo di segnalarliall’autore affinché si provveda alla lorocorrezione, pena la non pubblicazio-ne. E non diciamo che è censura!E questa è una questione sistemata.Per la Grafia mi sembri eccessivamen-te amareggiato per l’esito dell’incontrodel 6 ottobre; anch’io mi aspettavoqualcosa di più - come dire? - costrutti-vo; e stavo per dirti la mia al riguardo,allorché è intervenuto, come fattonuovo, l’articolo di Carlo Zoli, sullaScrittura standard: un’urgenza non piùrimandabile. Fermi tutti!Ohibò, cus ël suzëst?Non entro nel merito dell’argomento,ampiamente trattato da Zoli, mi limi-to solo ad avanzare alcune considera-zioni.

Ho cercato di documentarmi un po’in Internet sulla questione della stan-dardizzazione linguistica in Sardegna ein Canton Ticino. Non ho capito seabbiano la stessa nostra situazione: nericavo tuttavia la conclusione che se ènecessaria, utile e ci si riesce anche con ilRomagnolo, ben venga anche da noil’operazione. Proviamo allora ad inquadrare il pro-blema nell’ambito della nostra situa-zione: ossia, stavamo tentando di met-tere a punto delle Norme di Grafiache permettessero di scrivere in Roma-gnolo in modo che fosse possibile fareun servizio ai lettori, nella convinzio-ne/speranza che ci saranno ancora deilettori romagnoli e/o del Romagnolo.E le difficoltà maggiori che sono emer-se derivavano dalla constatazione chela lingua/dialetto Romagnolo non esi-ste, al singolare: esistono piuttostomolteplici parlate romagnole: ne deri-va che la difficoltà sta nel trovare delleNorme che riescano ad essere il piùsemplici possibile ma che, allo stessotempo, riescano a cogliere e rappresen-tare le diverse sfumature di suoni,attraverso la definizione di intervallidi variabilità di suoni attorno allo stes-so segno grafico. Questo è quello che,nell’immediato, è da fare per poteresalvare una testimonianza del passag-gio su questa terra di quelle diverseparlate; e mi sembra un fatto culturaleirrinunciabile.La proposta di fare la scrittura stan-dard è un’altra cosa, che si può aggiun-gere o affiancare a quella della defini-zione delle Norme di Grafia.Necessità: se c’è, non deriva certo darivendicazioni di bilinguismo, a finiamministrativi e/o per motivazionipolitiche e/o sociali, come esistono inAlto Adige, in Catalogna, in Sardegnao in Canton Ticino. Non credo chenessun sindaco abbia avuto pressioniparticolari per la toponomastica ol’anagrafe. Zoli parla di una linguascritta che ha ambizioni di comunicazionesovra locale: testi ufficiali, eventualmentetecnico-scientifici, testi che hanno ambizio-ni letterarie per un pubblico più vasto, tra-duzioni di opere internazionali. Per ilmomento ci vedo al massimo proble-mi nei manifesti delle rassegne teatralidialettali, nelle affissioni funerarie onei nomi dei vini. Ma se possono deri-

varne vantaggi in futuri scenari econo-mici, che al momento non riesco adimmaginare …Utilità: fermo restando che dobbiamosalvare, come testimonianza, le diverseparlate romagnole, aggiungere un’al-tra lingua, quella standard, non è utilecerto a questo. Anzi, potrebbe rischia-re di innescare dei conflitti tra le pree-sistenti parlate e la nuova lingua stan-dard; ma se Zoli dice invece che è ilcontrario, allora proviamoci…Possibilità di riuscita: provateci evedremo che cosa ne viene fuori. Però,prima di partire in quarta, si potrebbeavere un assaggino? Partendo, a costozero, proprio da alcune parole rappre-sentative, che potremmo individuarein base ad alcune loro caratteristiche(ad es. diversità tra le parole usate perrappresentare lo stesso oggetto) oppu-re come scrivere le parole che hannopronuncia nasale e per le quali è anco-ra in atto lo scontro tra chi non vuolemettere nessun segno, chi li vuole met-tere solo sulla vocale senza aggiungerela consonante n o m e chi li vuole met-tere su tutte e due.In attesa di vedere che cosa succede,tornerei alla nostra questione di par-tenza: non vorremo mica alzare bandierabianca proprio adesso?!La partita continua! Si è giocato solo ilprimo tempo; con un sostanzialepareggio, tra quelli che vogliono arri-vare a trovare un accordo sulle normedi grafia e quelli che lo ritengonoimpossibile. Un pareggio che nonaccontenta nessuno ma che non ipote-ca il risultato finale.Intanto, mi sembra di aver capito chesi siano definite le regole del gioco,che sintetizzerei in questo modo:a) via le presunte pietre miliari rappre-sentate dai testi già scritti da “autore-voli” poeti o da vocabolari; ci porte-rebbero fuori strada, contraddittoritra di loro e a volte anche nei lavoridello stesso autoreb) separazione tra i problemi di Grafiae la Grammatica (un cvël a la vôlta)c) distinzione tra il falso problema diquanti segni usare nella scrittura (tanti,pochi, nessuno; se diano fastidio al let-tore, etc.) e di quali servono per rap-presentare i suoni presenti nelle parla-te romagnole, che è il vero obbiettivo.In pratica, direi che ora si debbano

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la Ludla 15Gennaio 2013

valutare, tra tutti i contributi ricevuti epubblicati sulla Ludla, quali siano gliapporti costruttivi, che si muovono inquesta direzione; tenendo conto del-l’esistente, perché, tengo ad eviden-ziarlo, non partiamo da zero. Ci sonogià le Norme del 1986 poi ripresedalla Ludla nel 1998: si tratta di lavo-rarci attorno con una lima fine, chépresentano ancora qualche spigolo dasmussare, ma sono una solida base dipartenza. A questa va aggiunto quelloche manca; ma bisogna farlo in tempiragionevolmente brevi e con il prag-matismo di contribuire a voler arriva-re alla soluzione del problema.A meno che, nel frattempo, il proble-ma della scrittura non l’abbiamo risol-to con quella standard.

Angelo Minguzzi

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Ciò! Ohi ciò! Ehi ciò! Esempio di utiliz-zo: Perché non sei venuto all’appuntamen-

to? Ehi ciò! Traduzione: Che vuoi che tidica? Non è dipeso da me.Abitualmente si accompagna ad unsollevamento abbinato di sopraccigliae di spalle. Ha un sapore fatalista, sot-tintende l’accadere dei fatti dipenden-te da fattori esterni (Dio, il fato, la pre-destinazione ecc.).Non conosco l’estensione territorialedi tale esclamazione ma ritengo facciaparte del carattere romagnolo: facciotutto il possibile per modificare la sto-ria consapevole che l’esito non dipen-de completamente dal mio operato.Ho chiesto a tanti ma nessuno riesce ariassumermi "ciò" con una sola parolacosì ho pensato di sottoporre a voi ildilemma e la mia modesta riflessione.

Giovanni M. - Lugo

Come Lei giustamente osserva Ció! nonè una semplice interiezione o un termineusato per avviare o intercalare il discorso(come potrebbero essere Be’ o Allora), maassume in sé una pluralità di significati

che non si possono rendere con una sem-plice parola. Forse è per questo che noiromagnoli ne facciamo ampio uso (l’eco-nomia è una delle caratteristiche che rego-la l’evoluzione delle lingue), anche in con-testi al di fuori del linguaggio colloquialeo famigliare.Ció! andrà dunque tradotto – come giu-stamente ha già fatto Lei – a seconda delcontesto in cui si trova. Ad esempio Ció!(in alcune parlate rafforzato o sostituito daehi! o ohi!) può valere come richiamo orimprovero nei confronti dell’interlocutore«Ció! Cs’a fét?» ‘Attento! Che cosa fai?’ ,oppure come giustificazione del propriocomportamento «Parchè t’an é dètgnint?» «Ció…» ‘Perché non hai dettonulla?’ ‘Non volevo, non potevo, non sape-vo che dire …), o anche per manifestare lapropria rassegnazione di fronte all’inevita-bile «Prèma o dòp u s tòca murì tot!»«Ehi… ció…» ‘Prima o poi dobbiamomorire tutti!’ ‘Che possiamo farci? È desti-no! Non dipende da noi…’.

gilcas

Cari bambini, è da qualche mese chenon scambiamo quattro chiacchierefra noi. Spero che abbiate passatodelle festività serene e che BabboNatale e la Befana siano stati generosicon voi.La gente di una volta, secondo la tra-dizione, credeva che la notte dell’Epi-fania, quella della Befana, le bestie

parlassero: “La nöta dla Pasqueta / e’scor e’ ciù e la zveta.”Questa è l’ultima festa delle ricorren-ze natalizie e, per l’occasione, i vecchidicevano: “L’Epifanì tot al fëst la pôrtavì / la li met int una casa / l’agli amolasol par Pasqua.” Nel mese di gennaio famolto freddo, il buio arriva presto e inostri nonni osservavano che: “Adþner, / tot i babin i va a e’ pulér”, cioènon vedono l’ora di raggomitolarsinel calduccio del letto, così come ipolli si appollaiano appena imbruni-sce. Oggi però la TV è più attraentedel lettuccio… e tutto cambia.In questo periodo dell’anno spessoaveva già nevicato abbondantemente;in caso contrario si aspettava la nevealmeno per il 17 gennaio, giorno diSant’Antonio Abate, come recita ilproverbio: “Sant’Antoni da la bêrbabiânca, s’u-n la jà, u-s la fa.”Il freddo era sempre pungente e tregiorni dopo cadeva S. Sebastiano:“Par Sân Bas-ciân, / e’ trema la coda a e’cân.”Più avanti, nelle rade giornate di sole,

qualche lucertola usciva dalla tana persaettare sui muri e il 21 gennaio, gior-no di S. Agnese, il proverbio recitava:“Sant’Agnèð / la luðerta pr’ e’ paèð.”Se per caso il 25, festa di S. Paolo,cominciava un po’ a sgelare eccopronto un altro proverbio: “Par SânPêval, / e’ giaz a ca de’ gêval.”Ora le stagioni hanno un andamentodiverso: vi ricordate che l’anno scorsosiamo stati sommersi dalla neve nelmese di febbraio?Come vedete i nostri antenati sapeva-no trarre uno spicchio di poesia daogni avvenimento o situazione meteo-rologica; denotavano di avere unanimo saggio e poetico; imparate amemoria quei proverbi, li ripeterete aivostri figli quando sarete genitori.Per ora, provate anche voi a inventaredelle rime prendendo spunto dallavostra vita quotidiana: vi divertireteed aguzzerete la vostra intelligenza;volete un esempio da me?Aquè la neva la s amâncabðogna andê a fê la Stmâna Biânca!Buon anno a tutti!

Rubrica a cura di Rosalba Benedetti

Pr’i piòznen

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la Ludla16 Gennaio 2013

«la Ludla», periodico dell’Associazione Istituto Friedrich Schürr, distribuito gratuitamente ai sociPubblicato dalla Società Editrice «Il Ponte Vecchio» • Stampa: «il Papiro», Cesena

Direttore responsabile: Pietro Barberini • Direttore editoriale: Gilberto CasadioRedazione: Paolo Borghi, Gianfranco Camerani, Veronica Focaccia Errani, Giuliano Giuliani, Omero Mazzesi, Addis Sante Meleti

Segretaria di redazione: Carla Fabbri

La responsabilità delle affermazioni contenute negli articoli firmati va ascritta ai singoli collaboratori

Indirizzi: Associazione Istituto Friedrich Schürr e Redazione de «la Ludla», Via Cella, 488 •48125 Santo Stefano (RA)Telefono e fax: 0544. 562066 •E-mail: [email protected] • Sito internet: www.argaza.it

Conto corrente postale: 11895299 intestato all’Associazione “Istituto Friedrich Schürr”Poste Italiane s.p.a. Spedizione in abbonamento postale. D. L. 353/2003 convertito in legge il 27-02-2004 Legge n. 46 art. 1, comma 2 D C B - Ravenna

In un paio di occasioni abbiamo già avuto modo di oc-cuparci sulla Ludla, di Dolfo Nardini e della sua poesia.Nardini è uno di quei poeti delle nostre bande che i piùfrettolosi ricordano quasi esclusivamente (e altrettantoingiustamente) per le poesie di genere scollacciato, segre-gando in questo modo l’autore a un ruolo laterale di com-primario dalla battuta licenziosa fine a se stessa e buona,tutt’al più, per suscitare sghignazzate e ilarità di basso pro-filo.Viceversa, nel caso di Nardini questo genere di approccioaltro non è, nella maggior parte dei casi, che un pretesto

per affrontare con schiettezza impertinente, non immuneda un caustico tocco di dileggio e buon senso, la faccendadell’erotismo che, pur tratto ineliminabile e (non cerchia-mo di nasconderci dietro un dito) piuttosto gratificantedell’esistenza, viene in linea di massima relegato dallavigente formazione culturale, al ruolo di attività magariindispensabile alla conservazione della specie, magari nonpropriamente marginale della nostra natura mondana,ma su cui, tuttavia, è disdicevole soffermarsi più del neces-sario, quando, da parte di alcuni reprobi, non si giungeaddirittura a compiacersene. In questa poesia, tratta dalla raccolta “An sò miga un pata-ca” (www.toscaedizioni.it) Nardini, senza scansare l’aggan-cio libertino ma sfruttandolo come un amuleto di ungenere tutto a sé, affronta con franchezza accessibile que-stioni nodali come quelle dell’infermità, della cupidigia,della morte, insomma tutto quel coacervo di incognite,bramosie e contrarietà che l’uomo si trascina appresso econ le quali è subordinato a fare i conti per l’intero ciclodella propria esistenza.

Paolo Borghi

Dolfo Nardini

Mé a magn

Io mangio, gioco a carte \ bere poco ché non posso \ a volte chiavo ancora…\ sono contento. \ Quanti ne ho visto \ più giovani di me \ infiac-chiti curvi \ incastrati dentro una carrozzina? \ E quanti ne hanno gettato via \ al don Baronio? \ I giovani mi fanno ridere \ si affrettano,brigano, fanno \ Cosa correranno? \ Dove vanno? \ E anche quelli che ammucchiano soldi.\ Che vuoi ammucchiare? Cosa te ne fai poi \ quan-do sei rinsecchito per un carcinoma? \ Io mi accontento e spero in un colpo secco.

Mé a magn, a zugh al chertibéi poch ch’an posdal volti a civ ancora…a sò cuntent.Quant ch’a n’ò vestpió zuvan che ne meindandarlì, imbarlèincastrè ad dentr una caroza?E quant ch’i n’à srundlèda e’ don Baroni?I zuvan me im fa ridi cor, i briga, i fà‘Sa curarai? In du vai?E nench tot qui ch’i mocia di bajoch.‘Sa vut muci? ‘San fet póquand t’ci sech ingiandlì pr un carcinoma?Me a m’acuntent, e a sper int un colp sech.