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la Ludla 1 “Poca favilla gran fiamma seconda” Dante, Par. I, 34 la Ludla (la Favilla) Periodico dell’Associazione “Istituto Friedrich Schürr” per la valorizzazione del patrimonio dialettale romagnolo in collaborazione con il Comune di Ravenna - Assessorato alla Cultura Autorizzazione del Tribunale di Ravenna n. 1168 del 18.9.2001 Società Editrice «Il Ponte Vecchio» Anno XXII • Luglio Agosto 2018 • n. 7-8 (188°) SOMMARIO Franco Dell’Amore - Il canto folclo- ristico in Romagna e la storia dei Canterini di Longiano (1933-1996) di Alessandra Bassetti T si un ignurânt! di Gilberto Casadio E’ dè ad Walter di Carla Fabbri Che ora? di Marie-Line Zucchiatti Röb d’incudè: E’ pêrch di díðum di Silvia Togni La babina ch’la n carseva di Loris Martelli Illustrazione di Giuliano Giuliani U s dið in rumagnôl di Bas-ciân Il superlativo in romagnolo di Enrico Berti A m la coj di Gilberto Casadio Parole in controluce: ravaþol Rubrica di Addis Sante Meleti Nö smètar ad saltê di Loretta Olivucci I scriv a la Ludla Quattro sonetti sul “Cuore” di Arrigo Casamurata Danila Rosetti - La tròmba di Paolo Borghi p. 2 p. 3 p. 4 p. 6 p. 7 p. 8 p. 9 p. 10 p. 10 p. 11 p. 12 p. 13 p. 14 p. 16 Nella ricorrenza della nascita del poeta Walter Galli avvenuta il 1 luglio 1921, l’Associazione di Cesena Te ad chi sit e’ fiôl? ha voluto ricordarlo scoprendo una targa in suo onore, per tenerne viva la memoria, in Galleria Almerici, proprio vicino al bar che era solito fre- quentare. La cerimonia improntata alla massima semplicità, alla pre- senza dei suoi famigliari e amici è avvenuta alle 20.30 di un caldo mer- coledì 4 luglio 2018. Di seguito sul posto sono state lette alcune poe- sie di Galli da un nutrito gruppo di poeti e dicitori per ricordare l’uo- mo e la creatività dell’autore cesenate. Ci si è poi spostati in Corte Dandini per una ulteriore lettura di poe- sie. Ad ogni spostamento i partecipanti a questo pellegrinaggio poeti- co crescevano di numero e cresceva la commozione e la partecipazio- ne emotiva di quanti ascoltavano attenti. Il successivo trasferimento ci ha portato in via Chiaramonti alla Casa Dell’Amore dove il proprieta- rio Franco Dell’Amore ci ha ospitati nella sua fresca cantina. Qui Ilario Sirri ha declamato con la con- sueta bravura alcune poe- sie di Galli per un pubbli- co in rispettoso silenzio, che alla fine non ha rispar- miato un lungo e caloroso applauso. Il padrone di casa ha quindi offerto, in linea con lo stile tipico romagnolo, vino dolce e ciambella che i parteci- panti hanno volentieri gustato prima di spostarsi al successivo e conclusivo luogo cesenate per la lettu- ra di ulteriori brani: il prato antistante il Museo di Scienze naturali. Continua a pag. 4 E’ dè ad Walter di Carla Fabbri Luglio Agosto 2018 - N. 7-8 Walter Galli. Cesena, 1921 - 2002

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la Ludla 1

“Poca favilla gran fiamma seconda”Dante, Par. I, 34

la Ludla(la Favilla)

Periodico dell’Associazione “Istituto Friedrich Schürr”per la valorizzazione del patrimonio dialettale romagnolo

in collaborazione con il Comune di Ravenna - Assessorato alla CulturaAutorizzazione del Tribunale di Ravenna n. 1168 del 18.9.2001

Società Editrice «Il Ponte Vecchio» Anno XXII • Luglio Agosto 2018 • n. 7-8 (188°)

SOMMARIO

Franco Dell’Amore - Il canto folclo-ristico in Romagna e la storia deiCanterini di Longiano (1933-1996)di Alessandra Bassetti

T si un ignurânt! di Gilberto Casadio

E’ dè ad Walterdi Carla Fabbri

Che ora?di Marie-Line Zucchiatti

Röb d’incudè: E’ pêrch di díðumdi Silvia Togni

La babina ch’la n carsevadi Loris MartelliIllustrazione di Giuliano Giuliani

U s dið in rumagnôldi Bas-ciân

Il superlativo in romagnolodi Enrico Berti

A m la cojdi Gilberto Casadio

Parole in controluce: ravaþolRubrica di Addis Sante Meleti

Nö smètar ad saltêdi Loretta Olivucci

I scriv a la Ludla

Quattro sonetti sul “Cuore”di Arrigo Casamurata

Danila Rosetti - La tròmbadi Paolo Borghi

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Nella ricorrenza della nascita del poeta Walter Galli avvenuta il 1luglio 1921, l’Associazione di Cesena Te ad chi sit e’ fiôl? ha volutoricordarlo scoprendo una targa in suo onore, per tenerne viva lamemoria, in Galleria Almerici, proprio vicino al bar che era solito fre-quentare. La cerimonia improntata alla massima semplicità, alla pre-senza dei suoi famigliari e amici è avvenuta alle 20.30 di un caldo mer-coledì 4 luglio 2018. Di seguito sul posto sono state lette alcune poe-sie di Galli da un nutrito gruppo di poeti e dicitori per ricordare l’uo-mo e la creatività dell’autore cesenate. Ci si è poi spostati in Corte Dandini per una ulteriore lettura di poe-sie. Ad ogni spostamento i partecipanti a questo pellegrinaggio poeti-co crescevano di numero e cresceva la commozione e la partecipazio-ne emotiva di quanti ascoltavano attenti. Il successivo trasferimento ciha portato in via Chiaramonti alla Casa Dell’Amore dove il proprieta-

rio Franco Dell’Amore ciha ospitati nella sua frescacantina. Qui Ilario Sirriha declamato con la con-sueta bravura alcune poe-sie di Galli per un pubbli-co in rispettoso silenzio,che alla fine non ha rispar-miato un lungo e calorosoapplauso. Il padrone dicasa ha quindi offerto, inlinea con lo stile tipicoromagnolo, vino dolce eciambella che i parteci-panti hanno volentierigustato prima di spostarsial successivo e conclusivoluogo cesenate per la lettu-ra di ulteriori brani: ilprato antistante il Museodi Scienze naturali.

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E’ dè ad Walterdi Carla Fabbri

Luglio Agosto 2018 - N. 7-8

Walter Galli. Cesena, 1921 - 2002

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la Ludla2

Con il suo lessico asciutto, tecnicoma facilmente comprensibile, Fran-co Dell’Amore, musicologo, fine col-lezionista e organizzatore di eventi,torna in libreria con un nuovo testodi studio sulla musica popolareromagnola.Già autore di numerosi articoli esaggi sulla storia degli usi e costumimusicali locali - vedi, per citare laprecedente pubblicazione Storia dellamusica da ballo romagnola (1870-1980),Verucchio, Pazzini editore 2010 esenza dimenticare la sua opera piùimpegnativa Storia musicale di Cesena.Mille anni d’artifici dal Medioevo al1900 - in questo nuovo e recentissi-mo lavoro, l’autore dà conto dellaproficua e intensa attività dellaCamerata dei Canterini Romagnolidi Longiano tra l’anno della sua fon-dazione nel 1933 e l’amara e inarre-stabile conclusione “dell’epopea can-terina longianese” avvenuta nel1996. Il declino si era già avviato apartire dal 1969 innanzi tutto coi“primi mutamenti delle abitudini edei gusti musicali del tempo”, inseguito con il sempre maggiore“assenteismo in seno allo stessogruppo” e in ultimo con il mancatorinnovamento dei partecipanti.Sessantatré anni di attività visti conlo sguardo attento e meticolosodell’instancabile ricercatore che cirestituisce un avvincente quadrodi tutta la società romagnola, maanche di buona parte dell’Italia.Franco Dell’Amore intrecciandostili di vita, abitudini e stereotipidell’epoca ci dimostra come sianovenute a costituirsi le “tradizioni”(feste paesane dell’uva, trebbiaturedi propaganda, veglioni, ecc.) indi-spensabili al Regime Fascista perun sempre maggiore e capillarecontrollo dell’espressione colletti-va soprattutto attraverso la fonda-zione dell’OND (Opera NazionaleDopolavoro) che aveva il compitodi gestire e controllare il consensopopolare per i suoi fini politici e“creare una forzata identità legataalla terra”.Con tangibile e vastissima compe-tenza - requisito che contraddi-stingue felicemente la produzionedell’autore del libro - egli intra-

prende un dettagliato e, per il letto-re esperto o meno dell’argomento,un affascinante viaggio nel tempo enelle vicende storico-sociologiche eartistiche che hanno così intensa-mente contrassegnato la “vita” diquesto importante gruppo coraleromagnolo.Il testo è diviso in due parti. La prima, ricca di citazioni di musici-sti attivi all’epoca e di autori piùrecenti, spiega le origini del cantofolcloristico in Romagna e tocca ildelicato tasto dell’ “invenzione dellatradizione popolare” con una chiarae ben articolata sintesi dei cambia-menti socio-culturali del periodo cheindussero intellettuali, letterati e

musicisti, animati dallo spirito ditutela di ciò che stava scomparendo,a intuire la necessità e l’importanzadi ‘ridare il canto al nostro popolo’,tanto per citare Aldo Spallicci.La seconda parte invece è un appro-fondito e vivace racconto delle vicen-de storiche dei Canterini ma nonsolo. L’autore infatti ci parla: delrepertorio cantato dal gruppo findagli esordi, dei balli, dei costumicaratteristici indossati durante le esi-bizioni, dei viaggi in Italia e in Euro-pa in occasione delle numerose rasse-gne vocali nazionali e internazionalia cui parteciparono, delle tensionicon l’ENAL (ente pubblico che coor-dinava le manifestazioni canore,

divenuto oggi Federazione ItalianaArti e Tradizioni) negli anni Cin-quanta, della collaborazione conl’ORSAM (Organizzazione Roma-na Spettacoli d’Arte Musicale)associazione spontanea con lafinalità di valorizzare la polifoniain Italia, delle registrazioni effet-tuate dagli stessi alla fine deglianni Trenta presso gli studi radio-fonici dell’EIAR di Bologna o del-l’ERR (Ente Radio Rurale) e dicome questi materiali audio sianostati utilizzati dalla Rai dal dopo-guerra fino agli anni Novanta suicanali della filodiffusione e delleincisioni effettuate per alcune eti-chette discografiche.Il libro ha inoltre un fondamenta-le e ricco apparato fotografico d’ar-chivio. Ben 95 immagini, tra cuiprogrammi musicali, dettagliatielenchi dei partecipanti al coro,copertine di dischi e le immanca-

Franco Dell’Amore

Il canto folcloristico in Romagna

e la storia dei Canterini

di Longiano (1933-1996)

di Alessandra Bassetti

Luglio Agosto 2018 - N. 7-8

Franco Dell’Amore. Il canto folcloristico in Romagna ela storia dei Canterini di Longiano (1933-1996). Longia-no, Fondazione Tito Balestra, 2018.

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bili pose dei Canterini nelle cittadi-ne in cui si recavano per i concerti oi concorsi canori.Ma ora un po’ di storia!Come abbiamo accennato, il grup-po, nato nel 1933, fu fondato dall’al-lora podestà di Longiano RobertoTurchi e da sua sorella Gabriella (pia-nista) e sostenuto dal commissarioRicci dell’OND. Composto da 52“tenaci” longianesi, era diretto dalmaestro Massimo Borghesi. Esordi-rono il 21 aprile 1933 in occasionedell’inaugurazione della Casa del

Fascio di Savignano alla presenza del-l’on. Achille Starace, segretario delpartito Nazionale Fascista.Già nel giugno del ‘33 parteciparonoal primo concorso nazionale percorali tenutosi al Teatro Carlo Felicedi Genova e “rappresentando laRomagna tutta”, vinsero il secondopremio e furono riconosciuti dallastampa locale come ‘intonatissimi eperfetti nell’uso delle voci’, pur nonsapendo leggere uno spartito musica-le, ad eccezione ovviamente del diret-tore. Successo che da lì in avanti gli

conferì una certa notorietà.Vissero una breve interruzione dellaloro attività a causa dell’evento belli-co tra il ’43 e il ’47, poi nel ‘57 permotivi di salute del maestro e unperiodo di “crisi” tra il 1971 e il 1976per motivi economico-organizzativi.Ma non volendovi svelare altro, perapprofondire le vicende e curiosareulteriormente nella storia di questacorale, non posso che invitare tutti ein particolare i nostri appassionati dicultura romagnola alla lettura di que-sto avvincente e imperdibile testo.

T si un ignurânt! Letteralmente ‘Sei un ignorante!’,ma in dialetto ignurânt non indicachi non conosce le nozioni più ele-mentari perché assolutamente privodi istruzione, bensì la persona che sicomporta in maniera rozza e prepo-tente.Nei dizionari ottocenteschi il signifi-cato oggi prevalente, per non direunico, è assente o secondario.Secondo il Mattioli ignurânt valesemplicemente Privo di sapere. Cheignora ciò che non ha mai studiato, oqualche altra cosa a lui ignota; mentreper il Morri il termine ha anche valo-re dispregiativo ed esprime in generalemancanza delle cognizioni necessarie econvenevoli, così vale anche per Zotico,Villano e simili.Nei dizionari più recenti appare soloil significato di “rozzo, prepotente”,come nell’Ercolani: Vale, comunemen-te; Stupido, Zuccone, Ottuso, ed ha sem-pre un senso dispregiativo. Solo parlandodi sé si può dire: Me a so’ un ignurânt,Io sono un ignorante, cioè uno che nonha nessuna cultura.Sulla stessa lunghezza d’onda ilQuondamatteo: Non è, in romagnolo,colui che ignora, ma lo stupido, lo zucco-ne, l’ottuso.Per indicare l’ignurânt al massimogrado, visto che – come è detto inquesto numero a pag. 10 i superlati-vi in –issimo in romagnolo di fattonon esistono – si ricorre a coloritiparagoni:Ignurânt com’un còsp ‘… come unozoccolo’

Ignurânt com’un zòch ‘… come unciocco’Ignurânt com’ una têlpa, una tôpa ‘…una talpa’L’è ignurânt che e’ rozla ‘…che ruzzola’L’è ignurânt che e’ coza ‘… che cozza’L’è ignurânt che e’ sangona ‘… che san-guina’.L’è ignurânt che e’ lasa la traza ‘... chelascia la traccia’.L’è ignurânt che e’ fa al sflèþan ‘… chefa le scintille’

Non tutti sanno che ignorante, nelsenso che ha in romagnolo, è attesta-

to anche in italiano con esempi cherisalgono al XVII secolo.Michelangelo Buonarroti scrive inuna sua lettera: Pregovi m’avisiatecome m’ò a governare [comportare]...,ch’i’ paia manco [meno] ignorante eingrato che sia possibile.Lorenzo Lippi, autore del poema IlMalmantile racquistato, scrive alcanto 2, ottava 15: Benché fosse costuicome una pina [pigna], / tanto largo,ignorante e discortese…. E nella nota alverso, Paolo Minucci spiega: Ignoran-te... vale ancora ingrato, zotico, villano,e poco amorevole: ed in questo luogo èpreso in tal senso, nel quale è sempre eper lo più preso nel contado. Vale a direche il senso ‘romagnolo’ era se nonl’unico, quello predominante anchenel linguaggio popolare toscano.E per venire a tempi più vicini a noi,ecco un esempio di Cesare Pavesetratto da Prima che il gallo canti: Qual-cuno gridò: - Chiudi l’uscio, ignorante, -e risero, vociando.

T si un ignurânt!

di Gilberto Casadio

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la Ludla4 Luglio Agosto 2018 - N. 7-8

Segue dalla primaSi erano prenotati per le letturedella serata: Mario Amici, LorisMartelli, Maurizio Cirioni, Gian-franco Miro Gori, Marco Magalotti,Lidiana Fabbri, Daniele Casadei,Francesco Gobbi, Claudio Pollini,Tonina Facciani, Marcella Gaspero-ni e Lorenzo Scarponi. E così, intor-no alla mezzanotte, si è conclusa lapasseggiata poetica per ricordareWalter Galli. Per tutta la serata si èpercepita empatia per questo poetae come considerazione e affetto neisuoi confronti siano crescenti neltempo. La sua poetica, testimoniaCino Pedrelli nel libro Meriggio inRomagna pubblicato nel 2009 dallanostra Associazione: si avvale del«mezzo linguistico nuovo eppurefamiliare, trasparente, e come talesottratto ad ogni sospetto di lettera-tura, la tematica spregiudicata, ever-siva, dissacratoria avanti lettera,come quella che partecipa di unvasto riflusso nei valori umani edartistici (il riflusso che si paga, vintie vincitori, durante e dopo ogniguerra); il vocabolo plebeo, forte,colorito, a recupero di una saluteche ha radici più oscure ma più soli-de di una buona educazione: tuttoquesto affascina Galli, gli restituisceil suo mondo poetico più vero […] èuna penna che conosce l’animoumano e sa come raggiungerlo etenerlo. Il meccanismo è sempre lostesso: una denuncia, un metterl’uomo di fronte all’uomo, unlasciarli così, a guardarsi negliocchi, come una sfida; senza cheaccada nulla. È la pazienza, la sop-portazione di tutto il sopportabile.Galli lascia dietro di sé molte diqueste situazioni di rivolta potenzia-le: quasi armi cariche, pronte a spa-rare: che non sparano per un’ultimasperanza, o per un’ultima dispera-zione. Sbaglierebbe tuttavia chi pen-sasse che la poesia di Walter Galli siesaurisca nella tematica sociale, cer-tamente la più rappresentata nellasua opera. Se l’uomo è nemicoall’uomo, per altro non ne è il solonemico. Alle spalle della società edella storia, nello sfondo c’è l’esi-stenza, c’è la vita con le sue leggispietate, inevadibili: che se concede

all’uomo maggior spazio, qualchemaggiore libertà di movimenti, tut-tavia lo attende a certi traguardiobbligati, lo costringe a pagare certipedaggi, contro i quali è vano ancheil rancore: le paure e gli insuccessidi cui è seminato il nostro cammino(Una speda ad legn); le malattie, lafollia in agguato (U n geva una paro-la); la bruttezza fisica che ci preclu-de l’amore (Un tern e’ lot); la solitu-dine (La mi vita l’è una festa); lamorte precoce; la morte. La preghie-ra alla Morte (La Gnafa) per il bam-bino che si accinge a passare l’Ache-ronte, nella barca dei morti: dovel’incredibile fusione, fra la misuradelle immagini e della lingua classi-ca da un lato e la barbarie delleimmagini e del dialetto romagnolodall’altro, non potrebbe raggiungere

risultati più felici e toccanti:

Gnafa, a m’aracmand,dài un’uceda a che babinintent ch’e’ scala zo ad là de’ fiom.Dài una mè, par carità,ch’u n’scapoza, por znin,fai curagg s’l’à paura dl’aquaacsè da par lo, int e’ scur;ciapl’ins còl, ciotal, ch’u n’epafredd cun chi pidin schèlz.

Camusa, mi raccomando, / daiun’occhiata a quel bambino / quan-do scende di là dal fiume. / Dagliuna mano, per carità, / che noninciampi, povero piccolo, / faglicoraggio se ha paura dell’acqua. /Così da solo, nel buio; / prendilo inbraccio, coprilo, che non abbia /freddo con quei piedini scalzi.»

E’ dè ad Walter

di Carla Fabbri

Cesena. La targa in ricordo di Walter Galli collocata nella Galleria Almerici a curadell’Associazione cesenate “Te ad chi sit e’ fiôl?” e dei famigliari del poeta. A fian-co della foto del poeta una poesia di Dolfo Nardini.

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la Ludla 5Luglio Agosto 2018 - N. 7-8

Alla poesia citata da Cino Pedrellimi piace aggiungere questa lirica chefa parte della raccolta La pazìnzia.

In chèv a la strèda

In chèv a la strèda quel ch’u i sipa a n’ capéss: èl un mont, èl un fióm, un burron? Chi lo sa!

Da quant èl ch’a sò’ in viaz ch’a camèn da par me?S’l’è un insogni, svigìm, s’l’è la vera, ajutìm.

Un dé dop a cl’ètar un sbai dop a cl’ètar la vita la passa la vita la córr.

Un vent ch’u n’ dà rechie u m’ chélca int la schina farmès u n’ gn’è mòdi bisogna sbrighìs.

Quant ch’ariv u m’ piasreb ad truvèm tra dj amigh, un paes ch’u m’ pè’ ‘d cnóss’ ch’a n’u m’ possa piò smarì.

E d’arnov arcminzjì cme ch’u n’ fóss cambjì gnint; e s’a casch putem alzè cum’ ch’ò fat fin’ adès.

In fondo alla strada

In fondo alla strada / cosa c’è noncapisco: / è un monte, è un fiume,/ un burrone? Chi lo sa! // Daquant’è che sono in viaggio / che

cammino da solo? / Se è un sogno,svegliatemi, / se è vero, aiutatemi.// Un giorno dopo l’altro / unosbaglio dopo l’altro / la vita passa /la vita corre. // Un vento che nondà requie / mi spinge nella schiena/ fermarsi non è possibile / bisognasbrigarsi. // Quando arrivo mi pia-cerebbe / trovarmi fra amici / unpaese che mi sembri di conoscere /dove non possa più smarrirmi. // Edaccapo ricominciare / come nonfosse cambiato niente / e se cadopotere rialzarmi / come ho fattofinora.

Nota bibliografica

La produzione poetica di WalterGalli è edita in Tutte le poesie (1951-1995), Società Editrice «Il PonteVecchio», Cesena 1999. Il volumecomprende le raccolte La pazìnzia(Edizioni del Girasole, Ravenna1976), Una vita acsé (Edizioni delLeone, Venezia, 1989) e La giostra(qui pubblicata per la prima volta).A questo volume va aggiunta la pla-quette Le ultime sempre edita da «IlPonte Vecchio» nel 2004.

Cesena, 4 luglio. Uno scorcio della cantina della Casa dell’Amore, in contrada Chia-ramonti, una delle tappe del pellegrinaggio poetico in memoria di Walter Galli. Al centro della foto il padrone di casa, Franco Dell’Amore.In alto:Gianfranco Miro Gori mentre recita alcune poesie del poeta cesenate in PiazzettaDandini.

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la Ludla6 Luglio Agosto 2018 - N. 7-8

Signora romagnola, sui settanta anni,entra frugando nella borsetta, un po’ pre-occupata

Ma come ho fatto … fruga … l’avròlasciata nella sala d’attesa, pensa … sì… adesso ricordo … ho fatto vedere aquella signora, poi … cerca nella suamemoria … proprio così, devo averlalasciata là, sul tavolino.Che ora ch’lè? Devo andare a prende-re Maicol all’asilo … Guarda l’orolo-gio… Vabbè manca mezz’ora, allora, chefaccio? Potrei telefonare per chiederese l’hanno trovata, così la riprendoquando vado a ritirare il referto … sì,faccio così … si gira, cercando l’elenco, lotrova, si mette gli occhiali. Allora ilnumero dell’ospedale, sfoglia le pagine… Forlì, O, o, ospedale … legge: “vediAzienda unità sanitaria locale” … u

t’pareva … A, a, azienda … Os-ciacvânta röba! Due pagine, in blu poi,… ah adesso che hanno cambiatol’ospedale, j à cambiê nench i nòmer… mò, mò, mò potevano scrivere unpo’ più grande, non ci capisco nien-te, ah, centralino! Quello almeno èscritto in grande! Allora: 0543731111… compone il numero, aspetta un po’ …Pronto? Buongiorno … ah? Sì …buongiorno, ehm … Paola e … iosono la Giuliana, la Giuliana Fabbri,sì, volevo chied… sì, aspetto …A cminzen ben … cvesta ch’a cvach’la m’dið “la metto in attesa”, dice-vo io, l’aveva rispost sobit, l’era tropobello … ascolta, poi, con tono monotono:“precedenza acquisita”, con ‘sta sto-ria della “precedenza acquisita”, maquelli che l’hanno acquisita prima dite la “precedenza”, non si sa quantisono, eh? … e poi adesso? … ascolta:cs’ëëël mai ‘sta röba … ? Ah, par fôrza

… con il mercato comune, ci diconoanche in inglese, ci dicono … braviperò, così se ci sono gli stranieri chechiamano, capiscono anche loro,gnînt da fè, tocca aspettare anche aloro, tutti uguali siamo … tutti in fila,al telefono …Ah, pronto? Sì, … sì … e io sono sem-pre la Giuliana Fabbri, sì, ecco lespiego, stamattina sono venuta lì davoi, a proposito, complimenti avetefatto un bel lavoro, lì all’ospedale …sì … sì … e … dicevo … sono venuta afare le radiografie, lì da che dutortanto simpatico, sì, quello giovane …sì … no … è che, dopo, a m’so scurdê-da una busta con delle analisi, sì lemie lì, nella sala d’attesa, non so se …sì … se vuole mi passi la radiologia,grazie … ch’l’è mej …Mo’ la musica … Che ora ch’l’è?Guarda l’orologio A spir ch’la fëgaprëst …

Che ora?

di Marie-Line Zucchiatti

Questo testo è frutto di unlaboratorio di scrittura

creativa tenuto da GiovanniNadiani in cui era stato

chiesto ai partecipanti unacreazione scritta personale; i testi furono poi pubblicatisulla rivista Tratti, edita a

Faenza dall’editore MobyDick.

Poiché il testo è quello di unascenetta da rappresentare,

l’autrice – docente presso ilDipartimento di

Interpretazione e Traduzionedell’Università di Bologna

sede di Forlì – ha inteso dareun ‘colore’ locale e una

tonalità umoristica alla storia,inserendo frasi, espressioni in

dialetto romagnolo. Per questoha chiesto aiuto a Nadiani

che ha curato personalmentequesti aspetti del testo.

Pubblicarlo oggi nella Ludla èun piccolo modo di ricordare

ancora una volta – a dueanni dalla scomparsa – la

grande generosità e il talentodi Giovanni.

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la Ludla 7

Sì pronto? Sì, buongiorno, allora,come dicevo alla sua collega, stamat-tina sono venuta lì da voi a fare leradiografie, c’era quel dottore, il dot-tor … Sì, sì, quello, sì, e … no, volevodire … credo … ho dimenticato unabusta con delle analisi, lì da voi, nellasala d’attesa, sì, perché le ho fattevedere a una signora, che poi abbia-mo fatto un po’ di chiacchiere cheanche lei poverina, c’aveva i suoi mali… sì, e poi mi sono alzata per partiree … a n m’arcord piò, per me … holasciato tutto lì sul tavolino … ah, sì,se può chiedere alla sua collega, mi faun gran piacere … Sì, è proprio genti-le … grazie.Che ora ch’l’è? Guarda l’orologio Oh!con ‘sta musica …Sì, sì pronto? Sì sopra c’è scritto Giu-liana Fabbri, sì sono io Giuliana Fab-

bri sì … l’ha trovata allora? Ah, menomale!Come? Un problema? Con la radio-grafia? Questa qua di sta mattina?Ah? … Sì mi passi l’infermiera allora.Cvesta pu, cs’a sràl sucëst adës ?Pronto ? Sì, sì, sono la Giuliana Fab-bri … Sì, stamattina ho fatto la radio,e mi ricordo sì … certo sì, mi sonomessa nuda, sì, mi ha detto l’infer-miera che era lì, di spogliarmi, io hodetto “nuda”? tutta, tutta ? e … ah,era lei? Sì, e si ricorda allora, io poi,un po’ mi vergognavo, mica per lei,no, ma davanti a e’ dutor, che bel zuv-not, anche se … lo so che è un dotto-re, che … mica ti guarda, ne vedetante e … poi cosa vuole che mi guar-di, e, me a so una pôra vëcia ….Un errore? Coma un errore, un sbali?… E non mi dovevo mettere nuda?

Cvesta pu … C’è stato un errore, maquale errore? … Sì, io sono Fabbri, ahno, no Giulia Fabbri, Giuliana Fab-bri, sì, sì … Ah si doveva spogliarequell’altra Fabbri, ah … e io no, ah …a jò capì. E allora? … Come? … Mitocca tornare? … Ma perché? Se miavete fatto tutta intera? Va pur benecosì no? Ah, la testa no? Allora mitocca tornare per far la radiografiaalla testa?Come certo?! E cs’a vliv che a sepame, se lei mi dice di spogliarmi, io mispoglio … eh no … eh sì, lo so, eappunto … dovevo fare come dice leila “panoramica” sì, e allora? Lo avetepur fatto tutto il “panorama”, megliodi così, a séra nuda me!I denti?Ma che c’entrano i denti?Buio

«DisumPark, uno dei parchi outdoorpiù belli d’Italia. Solarium sul prato,area softair, parkour, orienteering esistema Powerfan: ideale per party traamici e team building aziendali.»Nonostante abbia modificato ilnome del parco per ragioni di priva-cy, ammetto che stavolta sarei tenta-ta di alzare bandiera bianca, parò meche a so l’ingléð non posso mica tirar-mi indietro, altrimenti potreste pen-sare ch’a vegh dðend un mont ad pata-chêdi e che non è vero che capiscotutte quelle lingue.Trovo tuttavia che la traduzione mot-à-mot, cioè parôla par parôla, sia unpo’ riduttiva, quindi mi cimenteròcon una parafrasi dallo pseudoanglo-italiano al romagnolo.

«DisumPark, on di pérch a l’êriaavérta piò bël d’Itaglia. U s pò fêr e’sol ins l’erba, u s pò tirê di palen adgoma faðend cont d’ësar in guëraavstí coma di cazadur ad val, u s pòsaltê da una muraja a cl’êtra coma dizèmbal, u s pò andê a spass senzapèrdars guardend a e’ sol… e al stël(se u v chësca una pegna ins la

tësta!), u s pò saltê zò d’int l’êltalighé a un elàstich: tota sta röba la vaben quând a faðí dal fëst cun i vòstaramigh o par avdé se i vòstar cum-pegn de’ lavor j è sèmpar stregn ch’un sa l’ös-cia o s’i v dà una mân int e’mument de’ bðogn.»E vó, gentili lettori de La Ludla, s’a vcardiv che un ipotetico Ingléð e’capesa töt ? Ovvio che no! Basti pen-sare che il parkour è una disciplinasportiva nata in Francia, come delresto rivela il suo nome, mentre ilsoftair in Gran Bretagna si chiamaASG, acronimo di AirSoftGun,tanto che chi lo pratica là si chiamasoftgunner (letter.: che spara piano),che ha più senso dell’italiano softista(letter.: che va piano).Int igna môd, a me u m pê propi e’post di dìðum!

Luglio Agosto 2018 - N. 7-8

Röb d’incudè:

E’ pêrch di dìÝum

di Silvia Togni

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la Ludla8

Questa l’è una storia vera d’unavolta, d’una burdèla nasùda int onadal tenti ca d’alòra in campagna,quand la miseria e la fena... agl’andè-va d’acord…Int la burghèda de’ Fòss ‘d Màtar e’nasétt una piò bèla burdèla che mai,e i la ciamétt Noemi, sol ch’la naséttint e’ mument sbajè. U n gn’eragnint da magnè in cla ca e la mama lacnéva lavurè tot e’ dé cmè una sgrazì-da par tirè aventi e la n aveva sicùralsìr par badèla, mo u s ved ch’u sn’adasett nenca e’ Signor, parchè acla mama u j avnét do teti pini ad latcmé una burèla… e’ mench quel...Alora sta mama zovna tot al mateniprema d’andè int i chimp a lavurè lala tachèva a la teta, e lia, cuntentacum’è una pasqua, la titeva par piòd’un ora… cun una fena… cun ungost ch’la faseva voja! La lasèva laNoemi a durmì int la condla sa’ dubadarell tachè so’ e po la andèva da e’su marìd int e’ cantir e po a radanèchi niméli.Al zurnèdi agl’era bèli, l’era za là inchèv Avrìl, u n gn’èra piò e’ piriqualdal ludli de’ camén ch’l’era za smort,

ma ogni do tre ori la mama la fasevalistess una cursa in ca par guardè la suburdèla...E piò dal volti parò, la la truvèva ch’larugiva, cun di strell ch’e’ pareva ch’laavess al fantagliòli, e’ pareva quasich’la avess fena...e sinbén ch’la in’avess dè de’ lat, quand la avdeva lateta sta burdèla la dvantèva mata....e

po la tireva s’una cativéria cmé s’lan’avess mai magnè! La mama la nsaveva s’l’era nurmèl o no, l’era la suprema fiòla, la saveva sol che la suburdèla la aveva fena, e’ lat grèzia aDio u j era...e lia la j un daseva! Mosta burdèla la aveva sempra fena, e lan carséva! E’ temp e’ pasèva svelt, laNoemi la aveva za guasi zenqv misquand i la purtét a un cuntròl daBisulli, mo e’ dutòr u i dasétt un grancichétt parchè u la truvett mèlnutrì-da, la n’era carsùda a sa’! Lia la erasempra piò cunvinta che e’ su lat unavess sustenza, ch’la foss coipa sua, ela s mitét int un gran guài, una grandepresiòn. Da lé a poch int la burghè-da e’ nasett un ent bel burdèl ch’i cia-met Fausto (...mo il ciamèva totFasto), sol che la su mama la n avevagamba lat, e lo a forza ad tiré in calteti svùiti, u i aveva masacrè i capézul,la puréna..., alora la Clelia, la mamadla Memi, (Noemi l’era trop long),vest che de’ lat la i n’aveva par sètcastìgh, par quel ch’e’ puteva fè e’ sulat la s’ufrett par dèjan, e Fasto int e’zir d’un mes e’ ciapétt piò d’un chilo,... e la su Memi la n carséva...! Parcarità, la burdèla la n staseva mèl, lamagnèva cum un lop mo la n carséva!I la fasett avdé nenca a un spicialestardi burdell de’ bsdèl grand, mo nencalo, cun quel ch’u i geva la mama, u narivèva a capì quel ch’la s’avess staburdèla. La Clelia la n saveva piòcume fè, e sicom che là vajùn la rugi-va e basta, e su marid u i get ad stè a

Luglio Agosto 2018 - N. 7-8

La babina ch’la n carseva

di Loris Martellinel dialetto di Cesena

Illustrazione di Giuliano Giuliani

Racconto segnalato alla nona edizione del concorso e’ Fat 2017organizzato dalla nostra Associazione

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la Ludla 9

ca’ e ‘d guardè la su burdèla... chefursi a fèj un pancòt invici ad che latsenza sustenza l’era mej!Un dè parò un’avséna ch’la li eraandèdi a truvè, la gett che zà un entavolta la j aveva fat chès,... che laMemi la aveva sempra e’ bavarìn totbagnè....u n’è che la n tnéss e’ lat? Dacla volta la i fasett chès, e infàtiquand la babina la rugiva lia la curìvae la truvèva sempra e’ bavarin totbagnè inzupè ad lat... la n e’ tnéva!Una bèla matena, vest che int e’ can-tir la n gn’aveva d’andè piò, dopa avé

alatè par ben la babina, la s’indur-mantét cmè un blach a lè int una sca-ràna, mo da lè a poch la s svigét cuni rogg disperé dla burdèla..la i fasettchès ch’la aveva ancora e’ bavarin totbagnè, e la avett quasi l’imprisiònd’avdé qualquèl par tèra... mo ladasett la còipa che forsi la sugniva. Lai dasett ancora la teta e la dicidett adstè svegia, s’la puteva; un occ l’eraciùs, mo cl’èt l’era bazòt e mèz vert, lan la vleva perd ad vesta stavolta… einfàti, tot un trat, la ved rapè so parla condla una bessa cla sarà stèda piò

d’un metar, ch’la va dreta cmè un fussora la Memi e int un baleno la siinfila in boca fina a fèla armét! Labessa la aveva magari imparè che acséla bibina la armitéva e lia la i sucìvatot e’ lat, ecco parchè la n carseva!!!I fasett ciùd e’ scarvàj da du ch’laavniva la bessa, e da che dè la Memila carsét magari, la pasèt daventi aFasto e la ciapét un culor d’una belé-za!In cla ca’ l’arturnét l’armunia, ognitent i la avdeva cla bessa travarsèl’èra... mo i la lasett campè!!!

Luglio Agosto 2018 - N. 7-8

A j ò armast

La caratteristica del romagnolo, comedel resto quella di tutti gli altri dialet-ti, non sta solo nella fonetica o nellessico. Vale a dire che il dialetto èdiverso dall’italiano non solo perché,per esempio, l’aggettivo latino silvati-cus diventa nella nostra lingua nazio-nale ‘selvatico’ mentre in romagnolosi trasforma fino a diventare saibêdgho sambêdgh o perché chiamiamo scara-na la sedia o scafa il lavello. La diver-sità sta spesso anche nella sintassi,per cui troviamo nel romagnolo, adesempio, una costruzione del tipo a jò armast un quël da fê ‘mi è rimastauna cosa da fare’, con il verbo armanê‘rimanere’ usato in modo transitivodiversamente dall’uso in lingua.Costruzione che noi tranquillamentetrasportiamo in italiano: ‘ho rimastouna cosa da fare’, ‘ho rimasto l’assosecco’, ‘ho rimasto solo due euro nelcellulare’ … L’uso transitivo di ‘rima-nere’ – che fa inorridire i non roma-gnoli, come succede a noi quandosentiamo frasi del tipo ‘ti imparo iol’educazione!’ – è talmente radicatoche lo usano anche le persone colte,insegnanti compresi (si spera nonquelli di Lettere). Non tutti sanno che anche AlfredoOriani da bravo romagnolo usavatranquillamente ‘ho rimasto’ nei suoiscritti, anche se non è più tanto faciletrovarlo perché nell’edizione completadelle sue opere pubblicata in 30 volu-mi dall’editore Cappelli fra il 1923 ed

il 1933, il curatore corresse tutti gli ‘horimasto’ in ‘mi è rimasto’. E sapete chiera questo curatore? Un altro roma-gnolo, un autoritario ex maestro ele-mentare: Benito Mussolini.

E’ bala la Vëcia

In questa bella e calda estate, tuttiabbiamo visto ballare la Vecchia nel-l’ora infuocata del mezzogiornoquando in lontananza le strade sem-brano liquefarsi in uno stagno che

riflette il grigio-azzurro del cielo ed icontorni degli alberi e delle caseondeggiano in una danza tremolan-te… È la strega del mezzogiorno chenella calura meridiana, accompagna-ta dall’incessante frinire delle cicale,si abbandona ad un ballo sfrenato. Le Vecchie non sono buone. L’unicaVecchia buona – carbone a parte – èla Befana. E non vengono solo dinotte: è stato il Cristianesimo che haposto tutto il bene nella luce (il regnodi Cristo) e tutto il male nelle tenebre(il regno di Satana). Nelle cultureantiche, ed anche in quella ebraica(Salmo 90, 6), i dèmoni del mezzo-giorno sono invece pericolosi quantoquelli della mezzanotte, forse perchéquando il sole è allo zenith, l’uomo ele cose sono privi di ombra, quindi dianima, e dunque più fragili e soggettial loro attacco.Allora, attenzione! In quelle ore,apparentemente dominate dallacalma e dalla calura, la Vëcia è sem-pre in agguato e guai a lasciarci coin-volgere nel vortice funesto della suadanza!

U s diÝ in rumagnôl

di Bas-ciân

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la Ludla10 Luglio Agosto 2018 - N. 7-8

Nel corso delle mie letture di testidialettali (soprattutto leggendo laLudla) mi capita di imbattermi insuperlativi costruiti secondo le rego­le dell’italiano (bël, belĕsum; brŏt,brutĕsum; cativ, cativĕsum); franca­

mente nei miei ricordi giovaniliraramente ho sentito pronunciare isuperlativi in tale forma; i nostripadri e i nostri nonni ricorrevano ilpiù delle volte a perifrasi, che sareb­be buona cosa recuperare.Ecco alcuni esempi: sono venuto acasa bagnatissimo, a sò vnu a cabagnê mêrz [sono venuto a casabagnato marcio]; è una personabuonissima, l è piò bõn ch’ ne e pãn[è più buono del pane]; è bellissimal’è bëla com’e sól [è bella come ilsole]; è bruttissimo l è brŏt cŏma idëbit [è brutto come i debiti]; l èbrŏt cŏma l ân dla fâm [è bruttocome l’anno della fame]; sono stan­chissimo a sò strac môrt [sono stan­co morto]; è cattivissima l’è cativacom’e gêval [è cattiva come il dia­volo]; sei pallidissimo, t si biãnccom’una pëza lavêda [sei biancocome una pezza lavata]; se n’èandato arrabbiatissimo u s è aviêch’e faṣéva i rëẓ pr’ e cul [se n’è

andato che faceva i raggi dal sede­re]; ha fatto un discorso chiarissimol à fat un scórs ch’u l capĕs nẽnc unimbazĕl [ha fatto un discorso che locapisce anche un imbecille]; que­st’anno delle pesche ce ne sono mol­tissime, st’ân dal péṣg u i n è par sëtcastig [quest’anno di pesche ce n’èper sette castighi (con riferimentoalle piaghe d’Egitto)]; della gentece n’era moltissima u j éra un fŏmad ẓẽnt [c’era un fumo di gente]; deifunghi ne abbiamo portati a casamoltissimi di fŏnẓ a in avẽn purtê aca in tal caplê [di funghi ne abbiamoportato a casa a cappellate]; è sfor­tunatissimo l à d avé pisê in tebatéṣum [deve aver pisciato nel bat­tesimo (cioè nel fonte battesimale)].Ma di esempi ce ne sono ancora tan­tissimi e invito i cultori del dialetto afrugare nei recessi della memoria o ainterrogare qualche vecchio speran­do che non si sia anche lui imbastar­dito con l’italiano.

Il superlativo in romagnolo

di Enrico Berti

Enrico Berti ci manda daMeldola questo micro saggio

sull’uso del superlativo inromagnolo.

Come giustamente osserva,il superlativo assoluto nellaforma aggettivo più suffisso

latino –issimus (italiano–issimo) in dialetto nonesiste, se non a livello di

italianismo. Infatti–issimus nelle lingue

neolatine ha avuto fortunasolo in italiano, spagnolo e

portoghese.Ci siamo permessi di

aggiungere fra parentesiquadre la traduzioneletterale delle frasi in

romagnolo.Infine ci associamo alla

richiesta di Berti rivolta ailettori di segnalarci i modi

di dire per indicare ilsuperlativo che loro

conoscono.

A m la coj.Letteralmente ‘Me la colgo’. E signi-fica ‘Me ne vado’. L’espressione hala stessa struttura delle locuzioni ita-liane ‘Me la lego al dito, me la svi-gno, me la batto, la so lunga, me lado a gambe, ’ ecc., dove il pronome‘la’ ha un senso generico, che sipotrebbe definire neutro, e cioè:‘quello, quella cosa”.Per definizione etimologica si sa cheil pronome sta al posto di un nome,ma in questi casi non sono semprechiare la parola o la frase rese con il‘la’. Nella fattispecie, che cosa sicoglie colui che se ne va? Forse l’op-portunità?

Cojsla è locuzione registrata neidizionari dell’Ercolani, del Masotti edel Quondamatteo. È dunque vivaparticolarmente nella Romagna cen-tro orientale a partire dall’asseRavenna-Forlì. Si trova anche neldizionario ottocentesco del Morri,ma oggi, almeno in area faentina, èdi fatto disusata ed il senso di ‘Mene vado’ è reso con A m avej, letteral-

mente ‘Mi avvio’. ‘Cógliersela’ è anche nell’italianoantico o, per meglio dire, nel lin-guaggio popolare toscano. Dueesempi del XVII secolo: Michelange-lo Buonarroti il Giovane, La Fiera,1,4,8: Essi quando han veduto ’l bel, sela son colta; Lorenzo Lippi, Il Mal-mantile racquistato, 4, 49: Poiché a dor-mire ognun se l’era colta.

A m la coj

di Gilberto Casadio

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la Ludla 11Luglio Agosto 2018 - N. 7-8

ravaþól: in ital. ravaggiolo, raviggiolo.È un formaggio dolce, di pasta te-nera, da consumarsi fresco1, che ipochi contadini delle nostre vallateancora producono avvolgendolonelle felci (al félþi). L’etimo potrebbeessere il lat. ravus o ràvidus ‘giallo’mutato in *ravìgius e *ravigìolus, cioè‘giallognolo’, come diventa se si tardaa mangiarlo. Nello stesso tempo e’ravaþól – sempre attraverso ravidus –potrebbe pure collegarsi col nome diuna pianta dai fiori gialli che nel ter-reno smosso di fresco fiorisce spon-tanea, chiamata in collina ravastrél,a cui però non corrisponde esatta-mente l’italiano ‘ravastrello’, purappartenendo sempre alle crucifere.Si tratta della sinapis alba o nigra daicui semi – piccanti a contatto conun liquido – soprattutto oltre le Alpisi ricava ancora la sénape; forse usatauna volta in sostituzione del caglioricavato dal colostro, in dial. impre-sa: che fa ‘rapprendere’ il latte).2

Non ha senso cercare, come qual-cuno vorrebbe, l’etimo di ravaþól inraviolo; né vale il contrario; inoltre ilraviggiolo è di certo molto più anti-co dei ravioli del cui ripieno tutt’alpiù può far parte. Ancor meno vale

cercarlo come vuole il diz. ital. Devo-to Oli, in robiola, che sarebbe il for-maggio di Robbio in provincia diPavia con cui non è proprio il casodi supporre antichi contatti. Il Devo-to, Avviam., lo fa poi derivare daRaveggi, una località che lasciaimprecisata.

Note

1. L’iberico Marziale, Epigr. I 43 – che perun po’ di tempo lasciò Roma per vivere aForum Cornelii, cioè ad Imola – chiama‘mete’ o ‘coni’ i formaggi di Sàrsina: rusti-ca lactantis nec misit Sassina metas (…né larustica Sarsina mandò i suoi formaggifatti a méda...). Lactantes (plurale) fa pen-sare che fossero di pasta tenera, da con-sumarsi in pochi giorni e che quindi daqueste parti già si facessero formaggi si-mili al raviggiolo o allo squacquerone.2. Non sempre chi viveva isolato dispone-va sul momento del caglio tratto dalcolostro come oggi, quando si può cor-rere ad acquistarlo in farmacia. Già l’a-gronomo latino Columella, De Re Rusti-ca VII 8, precisava che in mancanza delcaglio animale, si poteva provocare ilcoagulo del latte ricorrendo al fiore delcardo selvatico, ai semi del cardamo, allatte di fico, o ad una moneta d’argento(chi l’aveva la premeva anche sulle pic-cole ferite: la stagneva e’ sangv: e’ piól’era avéla). Il Masotti, Voc., elenca comeerba da ‘impresa’ anche il Galium verum(arghéta) e il carciofo selvatico. Ma l’elen-co di piante, o parti di piante, alternativedel caglio animale dev’essere più lungo evariare a seconda della stagione e deiluoghi: potrebbero servire altre piante oparti di piante. Anche i semi o le fogliede’ ravastrél, potrebbe perciò far cagliareil latte.Nella cucina più antica la senape eranota. Plauto, in Pseud. 817, dopo averladefinita scelera ‘scellerata’ perché assaipiccante, scrive in Truc. 315-6: Si ecastorhic homo sìnapi vìctitet, non censeam / tamesse tristem posse… (Per Càstore, se sicibasse spesso di senape, non penso chesarebbe tanto stizzoso...). Come a dire:Che t’he magné inco da fèt rabì? Te t’mègn sèmper acsé ðerb? Specie in collinasi usa anche ðerb ‘acerbo’ per ‘ðgarbè’: l’èun òm ðerb. Oggi anche da noi si trova la senape diDigione. Può darsi che la senape fosse giàusata più dai galli cisalpini e transalpini

che dai latini e dagli umbri e che il comi-co sarsinate cogliesse l’occasione di farridere il suo pubblico su un’usanza d’o-rigine gallica. Più tardi, miele e senapecompariranno insieme in alcune ricettedi Apicio, destinate a conservare la fruttacon cui poi accompagnare carni dureprecedentemente lessate e poi arrostite(gru, anatra, cinghiale, struzzo, ecc.). Sidà il caso che ancor oggi in Lombardia lamostarda di frutta senapata s’accompa-gni al lesso ed alla coppa di maiale. L’Ar-tusi ricorda la mostarda di Savignanomeno piccante di quella di Cremona,oggi quasi scomparsa.Anche se da noi ha poco corso, ilvocabolo raviól, che si può ricondurre allat. revòlvere (‘rivoltare’, ‘ripiegare lapasta attorno la farcitura’), fa un po’ diluce sull’antica cucina di campagna. Daquanto tempo anche da noi si fa qual-cosa di simile ai ‘ravioli’, ravvolgendovari ripieni di erbe condite ed altro, cottiin più di una maniera? Già nel 1200 poifra Salimbene da Parma, cita raviolus sinecrusta de pasta da intendersi comepolpette o frittelle di verdure legate conuovo e farina. Si cuocevano sul ‘testo’ osulla ‘lastra’ d’arenaria, oppure sifriggevano con la pastella, come le melea fette, le foglie della salvia, i fiori dellarobinia, una volta giunta dalleAmeriche, le cime già lessate dell’ortica,della vitalba e molt’altro. Il poeta mac-cheronico Folengo, mantovano, nel1500 usa rafioli quale sinonimo di tortel-li e casoncelli (‘piccoli cassoni’?) come sichiamano tra Bergamo e Brescia. Da noipoi, a seconda delle zone, si alternanocarsòn (da ‘crescione’ come ripieno?),cusòn (da ‘cuscino’?), casòn (ancora da‘piccoli cassoni’?), fritti o cotti sulla la-stra. Anche in tempi non grami purefoglie di cavolo, o foglie di rape di piùvarietà sono finite nei ripieni – int e’cumpens, da verbo lat. pìnsere e pinsitare‘pestare’, ‘schiacciare’, e possono averdato il loro contributo all’invenzione dei‘ravioli’ e alla diffusione del nome. Plau-to, Asin. 33: … qui polentam pinsitant (…che ‘pestano e ripestano’ la polenta). Maqui era una crudele metafora: a pestare,per giunta qualcosa di duro, erano schiavidestinati ai lavori forzati: una sorte che lostesso Plauto avrebbe provato, legato alla‘macina’ di un pistrinum (il termine s’èspostato dal mulino al forno: prestinér inlombardo è il fornaio).

Rubrica curatada Addis Sante Meleti

da Civitella

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la Ludla12 Luglio Agosto 2018 - N. 7-8

Saltê la côrda, par la Carla, l’éra e’zugh piò bël de’ mond, mo u n’éramiga acsè fàzil imparê parchè t’é dafê zirê la côrda senza ch’la s’impontaint e’ vsti o int i cavel, e pu bsogna fêe’ sêlt un mument prema ch’la jarivaint i pi, parchè se t térd nench sól unàtum, l’è tröp têrd e la côrda la s’afér-ma ad davânti a i pi e, se t’sélt tröpprëst, ta la pest. Saltê l’è coma vìvar, bsogna fê i cvela e’ mument giost, nè tröp prëst, nètröp têrd; se a saltê t’vé piân t’si piòsicur ad nö caschê, acsè l’è la vita,s’ta la ciëp cun chêlma t’vé trancvel,sè, mo ach maleta! Se t’cor fôrt, döpun pô t’an é e’ rispir, l’è piò fàzil chet’chesca e che ta t’fëza mêl.Nenca la lungheza dla côrda la jà lasu impurtânza parchè s’la jè tröpacurta ta n’ariv a scavalchêla, e s’la jèlonga la t’fa la gambarëla, la s’apirôlasota i pi, la n’ariva a pasê senza che tala pesta. Una vôlta u n gn’éra miga alcôrd ch’u j è adës, ch’agli à l’impu-gnadura ad legn; una vôlta, a degh, uj éra dal côrd pochisì e la lunghezagiosta bsugnéva truvêla da par sè,zirendla atórna al mân s’la jéra longao ciapendla int la veta s’la bichévaint e’ curt. E pu u j è divirs mud ad saltê:- a pi a péra fasend nenca un saltinpiò znin cvând che la côrda la t’pasada sóra la tësta,- a pi a péra e basta, mo in ste môdbsogna saltê svelt svelt,- fasend cont ad scavalchêla, premacun un pè e pu cun cl’êtar e cvest us’pö fê stasend sèmpar int e’ stes pösto andend avânti.Bsogna ciapê e’ ritmo, mo ogni tântbsogna nench cambiêl se nö t’véavânti par abitudine, coma un pëz adlegn ch’u s’fa traspurtê da la curent.E la n’è fnida: on e’ pö saltê da parsè, mo u s’pö ësar nench in du, peröacsè e’ zugh u s’fa piò cumplichê par-chè e’ pöst da saltê l’è mânch e e’bsogna par fôrza andê in temp. L’è véra che in cöpia l’è piò fadiga,mo l’è bël avé e’ stes rispir, i pi ch’is’staca da tëra int e’ stes temp, ësaruna parsona sóla senza gnânchtuchês.Se inveci a fê zirê la côrda j è dj’étar,bsogna adatês a la velocitê che ló i jdà e cvest e’ zuzéd nench int la vita

s’l’è dj étar a decìdar par te o se tet’lës ch’i decida.Nench in ste chês, on e’ pö saltê dapar sè, mo u s’pö ësar nenca in du,tri, quàtar, e pu cvel ch’e’ sêlta u s’pöinserì int e’ zugh cvând che la côrdala va e alóra bsogna truvê e’ mumentgiost o sinö partì da férum. Saltê la côrda, coma ch’a jò za det,l’éra e’ zugh preferì dla Carla e dalvôlt la fasêva ad gara cun ’na suamiga pr’avdé chi ch’l’arivéva premaa zent; mo se par chêsi cvând ch’lajéra arivêda a utânta la-s sbagliéva, lacminzéva d’arnôv e la i daséva intântch’la n’éra arivêda a zent: on, du,tri… utântaquatar, utântazencv… ezent!Bsogna avé e’ curagi ad stê so, adarcminzê, ad argumblês al mângh seta n’ariv a fê cvel che t’vu, bsognapruvê, nö s’arèndar, senza gnint u-ns’à gnint!La nòna dla Carla la s’preocupéva

parchè la pinséva che a saltê sèmparu i fases mêl e una vôlta la l’dgènench cun e’ dutór: “La babina lasêlta sèmpar! U n’i farà mêl?” E lo:“S’a vliv saltê vo!?”Un dè la ciapè una stravôlta parchèint e’ curtil u j éra di scalos; cla vôltau si gunfè la caveja e nench e’ cöl de’pè. I su i j fasè una ciarê ch’la s’ata-chè a la gâmba coma e’ zez e li la javé-va paura ch’la-n s’staches piò; la sumâma e la su nòna agli dgéva ch’las’sareb stachêda da par li cvând chela sareb guarida, e cvând che final-ment la-s stachè, la caveja e e’ pè in’éra piò gonf e i n’i faséva piò mêl.A scôla, dal vôlt, u s’urganizéva lagara a scvêdar pr’avdé cvi ch’fasévapiò sélt e la Carla la jéra cvela ch’lafaséva vènzar la su scvêdra. Li la sta-séva sèmpar cun la su amiga Anna,mo una vôlta l’Anna la jéra int lasquêdra aversêria ch’la staséva vin-zend parchè nenca li la jéra brêva asaltê. Pröpi che dè l’Anna la la javévainvidêda a ca su a còjar al viôl lònghe’ fös e la Carla la n’avdéva l’órad’andêi. Sè, parchè li la n’andévamai invel, la su mâma la n’avléva esól una vôlta a l’ân la la laséva andêda la su amiga a còjar al viôl e la isareb andéda che döp mezdè. La gara la staséva fnend e e’ tuchévaa la Carla a saltê; la cminzè: on, du,tri… trentacvàtar, trentazencv… eintânt ch’la saltéva la guardéva l’An-na ch’la jéra un pô tresta parchè lal’savéva ben che li la jéra la piò fôrtae che la jareb fat vènzar la su squê-dra. La Carla la cuntinuéva a saltê ela jareb cuntinuê incóra ad che pôchs’u n’i fos avnù int la ment ad clavôlta che u i curéva dri un cân, li lacuréva piò fôrt ca ne l’Anna, mo piò

Nö smètar ad saltêdi Loretta Olivucci

Racconto selezionato al premio Sauro Spada 2017

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13la Ludla

fôrt ad tot e’ curéva e’ cân; la suamiga, ch’la jéra armasta un pôindrì, la s’afarmè un àtum, la tulè soun baston e la l’tirè a cl’animêlfasend un grân rog: “Va’ vi, tus!”. E’cân u s’afarmè e e’ turnè indrì. Ló als’guardè int la faza, e’ côr e’ batéva atirumbëla, piò par la paura che par lacórsa, e’ rispir l’éra curt; a-l s’avièvérs a ca e la Carla la pinséva a cvelche sareb zuzëst se l’amiga la n’avesspavintê e’ cân, e li la n’la javévagnânch tnuda d’asptê! L’arivè sól adì: “S’ta n’i sivtia te, a n’e’ so cumch’la sareb andêda a fni, me a jòpaura di chen e fórsi ló i s’n’adà epiò t’schëp e piò i t’cor dri”.L’Anna la i tnéva a cla gara, par fêavdé a cal röspi dal su cumpâgni chela jéra brêva nenca li; ló al la tulévain zir:

“T’ci bona ad stê sól cun la Carlaparchè t’sé che t’venz, ta n’vél un azi-dent!” “A i sit o an i sit, l’è pracis!” “Te t an si bona da gnint, t’sé fê sóla magnê, ormai t’ciëp e’ ròzal!”.La Carla la l’savéva e, intânt ch’la sal-téva e ch’u i paséva par la tësta sti pin-sir, la guardéva int la faza la su amigache la i cuntéva i su segrit e pu la jérasimpatica, la la faséva ridar e, nenchse la i tnéva a venzar la gara, la fasècont ad scapuzì rigalènd la vitôria a lasquêdra aversêria. L’Anna la la guar-dè, la i fasè un suris e pu l’andè dalcumpâgni ch’al faséva di sélt acsè dala cuntinteza d’avé vent; li la li salutèe l’andè vi un pô a tësta basa.Döp mezdè, prema d’andê a ca dlasu amiga, la Carla la s’mitè a saltê:on, du tri…zincvântazencv, zincvân-

tasi… e zent!Incóra adës la Carla, ch’la jà pasê “glianta” da un pëz, cvând ch’la véd unacôrda, la n’resest e la cmenza a saltê;i tabëch i la guêrda cun i oc fura dlatësta parchè i-n s’imàzina che ona,ch’la pö ësar la su nòna, la sia bonaad saltê la côrda; sól che cvând ch’lajè arivêda circa a vent, u j amânca e’rispir e la s’ingambarëla: u n’è migacólpa su, l’è cólpa dl’etê!Mo l’impurtânt l’è che u-n vegna maimânch la voja ad saltê, parchè saltêl’è la vita, l’è mètas in zugh, avé vojad’imparê nench cvând ch’u t’pê adnö avé bsogn ad savé piò gnint adnôv.S’ta n’pu fê zent sélt, fan quarânta,s’ta n’in pu fê quarânta fan vent, monö smètar ad saltê, nö smètar advìvar!

Luglio Agosto 2018 - N. 7-8

Ancora a proposito di os e pôrta(v. I scriv a la Ludla dello scorsonumero di giugno, p. 15)

Qui da noi [Bagnacavallo, ndr] sidice quasi sempre l’os, sia per quelliinterni sia per quello esterno: sëral’os, arvès l’os, tìrat drì l’os, un os advédar; al s aférma sèmpar a caval dl osa fê dal ciàcar etc.La “porta” è l’affaccio di dimen-sioni carrabili sulla strada, dovec’è il cancello: e’ rastël. Spessoaffiancata dall’apertura più pic-cola: e’ purten chiusa da e’ rastlen;in genere di ferro: A végh ins lapôrta a vdé se j ariva; e’ sta indò cheu i è cal dò piöpi ins la pôrta; ins clapôrta indò ch’ i ten e’ rastël sempr’avért; va piân cvând che t infìl e’purten in bicicleta; e pu sëra e’ pur-ten ch’e’ scapa e’ cân. Situazioni eterminologia usata meno, o perniente, in città rispetto al forese,laddove spesso la strada è contor-

nata dal fosso di scolo, che deve esse-re tombinato proprio per creare que-sto passaggio verso la proprietà, spes-so un’azienda agricola. Micidiale perun’auto che finisse nel fosso in pros-simità di questo sbarramento.E poi c’è la spurtëla, citata anche daSpallicci, che io me l’immaginocome il passaggio di accesso ad unluogo ben recintato; un passaggioobbligato e controllato; a volteobbligato proprio per potervi eserci-tare il controllo da parte di autorità(custode, vigilante, finanza etc) dellepersone e dei mezzi in entrata esoprattutto in uscita, per evitareasportazioni indebite di materiali.E e’ purton, quando l’apertura e il

relativo serramento sono di ampiedimensioni.Più che dal materiale direttamente(legno o altro) la scelta tra os e pôrtapuò darsi che dipenda dall’ubicazio-ne o dalla funzione dei serramenti?Os per l’abitazione e i locali frequen-tati quasi quotidianamente (come lastalla degli animali e il porcile), men-tre pôrta si usa di più per locali diservizio, ad uso più saltuario?Oppure che os sia di uso più antico,mentre pôrta è più recente e quindipiù italianizzato e per servizi che unavolta non esistevano: la pôrta degarage, la pôrta de laburatôri? Comunque, a cla tabaca [La“nipote” in Avé la pré di Romagna

slang, ndr], il richiamo sarebbepiù incisivo se formulato con unperentorio l’os, concentrandosulla o l’energia della voce; e sipresta anche a un ampio venta-glio di modulazioni, a significareun ordine: l’os! (sëra l’os!), un rim-provero: l’os? (parchè t a n’ é srêl’os?), un sollecito: l’òoos! (t an tsmenga d srê l’os), una ripetizione:l’òoos! (t at arculd ad srê l’os?). E sipresta maggiormente a questemodulazioni che non un più ita-lianizzato pôrta.

A. Minguzzi - Bagnacavallo

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la Ludla14 Luglio Agosto 2018 - N. 7-8

E’ diretor (alora)

Figuriv un umaz ch’e’ fa paura;sèmpar vsti d’ nìgar, cun un grân barbon;ch’u n rida mai, e cun la faza scura:e pu u s vegn’ a savé’ ch’ e’ sia tânt bon.

U n ðgrida mai inciun e, adiritura,quând ch’ u j sareb da dêr un buridon,l’ha dal parôl ch’ agl’è dla giost’ amðurapar arivê’ a ‘na bona suluzion.

L’ha pardù un fjôl in gvëra e l’è par quëstch’ e’ vleva abandunêr i prèm d’ febrêr;l’è armast parò indecið da fê’ che gëst.

Mo quând ch’ l’ ariva a scôla un nôv sculêrch’ u s’ asarmeja a e’ fjôl pardù icè prëst,l’arvânza int e’ su pöst a fê’ e’ su dvêr.

Il direttore (allora)

Figuratevi un omone che faccia paura, / sempre vestito di neroe con una grande barba; / che non rida mai e che abbia il visotetro, / e poi si venga a sapere che è tanto buono. // Non sgri-da mai nessuno e, addirittura, / quando ci sarebbe da fare unrimprovero, / usa parole adatte / per giungere ad una tranquil-la soluzione. // Ha perduto un figlio in guerra ed è per questo/ che si voleva dimettere all’inizio di febbraio; / però è rimastoindeciso. // Ma quando arriva a scuola un nuovo scolaro / cheassomiglia al figlio prematuramente perduto, / resta al suo postoa compiere il proprio dovere.

E’ diretór (incù)

In tot i post de’ mond e’ Diretórl’ era quel ch’ e’ mandeva dret la scôla.Atént e vigilânt a tot agl’ór,ch’ pareva un puliziöt senza pistôla.

U n vleva ðmaðament nè mânch armóre l’era basta ch’ e’ dges una parôlapar tnér i su student int e’ terór:coma di chen, tot cun la musarôla.

Adës a dvem scurdêsli cal figur;i “diretur” i è gvént d’ un’ êtra raza,ch’ i fa “mucina” sot’ i genitur.

S’ i râgna dri a un burdël o ‘na ragaza,i su parent i cor, sicur sicur,par denuncêj o par spachêj la faza.

Il direttore (oggi)

In tutti i posti del mondo il Direttore / era quello che dirigevala scuola. / Attento e vigilante a tutte le ore, / che sembravaun poliziotto senza la pistola. // Non tollerava né movimentiné rumore / ed era sufficiente che dicesse una parola / pertener i suoi scolari nel terrore: / come cani con la museruola.// Adesso dobbiamo dimenticarcele quelle figure; / i “diretto-ri” sono diventati di un’altra razza, / ché si sottomettono aigenitori. // Se sgridano un ragazzo o una ragazza, / i loroparenti corrono, sicuro sicuro, / per denunciarli o per romper-gli la faccia.

Quattro sonetti

sul “Cuore”

di Arrigo Casamurata

Arrigo Casamurata, sollecitato dai frequentiavvenimenti in ambito scolastico, ha pensato di

proporci alcuni sonetti tratti dalla sua raccolta “Un’ gn’ è pió e’ Cör d’una völta” nella quale si èdivertito a “rovinare” (è una parola sua) il libro

Cuore con oltre 150 sonetti del genere. Nell’ormaiimminente inizio dell’anno scolastico crediamo che

questi testi siano di assoluta attualità.

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la Ludla 15Luglio Agosto 2018 - N. 7-8

E’ prèm dè ad scôla (alóra)

Faðend un sfôrz, a m prôv d’ avdé’ cla sena.Un brânch d’ burdel ch’ i va, tot educhê,cun al cartël e no zèjn int la schena,e, coma pìgur, i s fa sistemê’.

I méstar, vut un óm o una sgnurena,i ciapa e’ su “pluton” e i l fa marciê’déntr a la câmbra e, in puch minud apena,a fê’ la su lizion i pò cminzê’.

In cla câmbra j è nenca piò d’ zincvântae mai ch’ i s’ spösta e i fëza dla cagnêra.L’educazion d’ chi fjul la jè mai tânta!

L’insignânt e’ met sò la “tiritêra”,e ló, in silenzi, cla “parôla sânta”j ascolta e u s sent e’ vól d’ una zanzêra.

Il primo giorno di scuola (allora)

Con uno sforzo, provo ad immaginarmi quella scena. / Unbranco di fanciulli che vanno, tutti educati, / con le loro car-telle, e no zaini in schiena, / e, come pecore, si lasciano siste-mare. // I maestri, sia uomo o sia donna, / prendono in con-segna il loro “plotone” e lo fanno marciare / nell’aula e, inpochi minuti appena, / a svolgere la lezione possono incomin-ciare. // In quell’aula arrivano ad essere anche più di cin-quanta / e mai che si spostino o facciano confusione. / L’edu-cazione di quei figlioli è mai tanta ! // L’insegnante attaccacon le esposizioni, / e loro, in silenzio, quella “parola santa” /ascoltano e si può sentire volare una zanzara.

E’ prèm dè ad scôla (incù)

Faðegna cont, Enrico banadèt,che t’ fos stê viv incóra e’ dè d’incù;int e’ “diario” s’a pensta t’ aves scrèt:che i tu cumpegn ad scôla i è tot bu’?

Ch’ i pôrta a i méstar sèmpar de’ rispèt?Ch’ i è tot ben eduché e u n ðgara inciu’?Che pr ajutêr i vecc i s spaca e’ pèt?Ch’ i ascólta i grénd e ch’ i to sò al virtù?

Ste mond u t truvareb impreparê.Par racuntêl t’ an truvares parôla,e u t’ cunvnireb fê’ cont d’ lèsr amalê.

E’ tu temp, oramai, l’ è gvent ‘na fôla.I sculér, quând ch’ i ven rimpruverê,i n bêda e, a vôlt, i dà fugh a la scôla!

Il primo giorno di scuola (oggi)

Facciamo conto, Enrico benedetto [Enrico Bottini, l’io nar-rante di Cuore], / che tu fossi ancora vivo oggi; / nel “diario”cosa pensi avresti scritto: / che i tuoi compagni di scuola sonotutti buoni? // Che portano ai maestri sempre gran rispetto? /Che sono tutti bene educati, senza eccezioni? / Che per aiutarei vecchi si impegnano al massimo? / Che ascoltano i grandi pertrarne virtù? // Questo mondo ti troverebbe impreparato. / Perraccontarlo non sapresti trovare le parole / e ti converrebbe fin-gere di essere ammalato. // Il tuo tempo, oramai, è diventatouna favola. / Gli scolari, quando vengono rimproverati, / nondanno retta e, a volte, incendiano la scuola!

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la Ludla16

«la Ludla», periodico dell’Associazione Istituto Friedrich Schürr • Editore «Il Ponte Vecchio», Cesena • Stampa: «il Papiro», CesenaDirettore responsabile: Pietro Barberini • Direttore editoriale: Gilberto Casadio

Redazione: P. Borghi, R. Gentilini, G. Giuliani, A. S. Meleti • Segretaria di redazione: V. Focaccia Errani

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Far poesia non significa dar vita a qualcosa di fine a se stes-so e pertanto definitivo ed immobile poiché, in quantoriflesso dell’estro, essa rivela sostanziali affinità anche coldivenire, il mutamento, la trasformazione. Ratificato il pre-ambolo è palese che non la si possa ritenere compiuta nellasostanza e negli intenti che per lo più le si attribuiscono,dalla singola stesura del poeta, quando lo diventa appienosolo dopo aver provocato in coloro che la interiorizzano, spe-cifiche sensazioni e complicità emotive suscettibili, per inci-so, di divergenze anche sintomatiche fra un destinatario el’altro, a seconda del caratteristico atteggiamento mentale eculturale o del modo di contemplare le vicende umane, lasocietà, l’esistenza stessa. La poesia, insomma, è da ritenersi come una sorta di inne-sco, idoneo a dar luogo al pensiero e all’introspezione inogni plausibile accento, e questo in un divenire concluso emutevole assieme, ma in primo luogo esaudiente.Danila Rosetti, nel personale e tenace impegno poetico chela qualifica, offre ai singoli lettori disparate sollecitazioni inproposito, tanto più che le proprie tematiche spesso e volen-tieri si estraniano in maniera comunque meditata, da quelle

percorse da una lirica dialettale cui capita talvolta di ribadir-si in contenuti prevedibili e monocordi. Ne scaturisce l’attendibilità che anche l’appello alla memoriapersegua nei suoi lavori scopi pertinenti ed estranei alla con-suetudine, dissociandosi in assoluto da una reminiscenzarannicchiata quasi per convenzione in se stessa e frequenta-ta, spesso e volentieri ma non da lei, non più che in formatradizionale o meglio nostalgico/passatista.Quanto mai alieni a tutto questo appaiono di conseguenza icontenuti de “La tromba”, i cui versi conducono intensi arovistare fra un garbuglio ormai inerte di ricordi giudicatiusualmente estranei al dialetto, alla questua di tracce disper-se nel tempo; pressoché disimparate in effetti ma sempre ingrado, una volta franche dalla dimenticanza e dalla polvere,di restituirci brusche ai vent’anni e alla complicità emotiva eperché no romantica suscitata da un jazz “West Coast” cheanche noi entusiasti d’antan, pur avvezzi ai casalinghi Sanre-mo, avvertivamo talmente anticonformista, coinvolgente eimpulsivo, da indurci se non ad approvare perlomeno adassolvere quei suoi interpreti oltreoceano i quali, allorchésentivano venir meno in loro l’imprescindibile fervore del-l’improvvisazione, non scorgevano altra via di scampo se nonquella di cedersi alla trappola, che li avrebbe condotti fatal-mente ai paradisi artificiali dell’assuefazione e della dipen-denza.

Paolo Borghi

La tròmba

E lo e’ þira tot e’ dè da un viôl a cl’ êtar,cun la su tròmba.U la strèsa còm una döna tota nuda,la j arluð int e’ bur mèj d’un lampion.Quânt’ël ch’i l’à cazê vi’ da ca a pogn e chilz,parchè l’à scambiê la moj pr’una tròmba?Quând ch’u-n gn’è incion e’ sóna par la lóna. Staséra la j è una striga,rosa imbraðêda, u n’i scàpa un spèl,e’ pê’ ch’la sangóna mo ló e’ sóna (e’ sóna)e’ tira drèt nènch tota la nötae pù u-s ðvèrsa a lè par tëracun i ócc indrì e la tròmba sóra.

La tromba E lui gira tutto il giorno da un vicolo all'altro,\ con la sua tromba. \ L'accarezza come una donna tutta nuda,\ splende nel buiomeglio di un lampione.\ Quant'è che lo hanno cacciato da casa a pugni e calci,\ perché ha scambiato la moglie per una tromba?\ Quando nonc'è nessuno suona per la luna. \ Stasera è una strega,\ rossa arroventata, non le sfugge uno spillo, \ sembra che sanguini ma lui suona (e suona)\ va avanti anche tutta la notte \ poi si rovescia lì per terra \ con gli occhi all’indietro e la tromba sopra.

Danila Rosetti

La tròmba

Luglio Agosto 2018 - N. 7-8