Dante, I, 34 la Ludla · non corrotta dalle retoriche dell ... mimèsi, ora aspre e dure, ora...

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la Ludla 1 “Poca favilla gran fiamma seconda” Dante, Par. I, 34 la Ludla (la Favilla) Periodico dell’Associazione “Istituto Friedrich Schürr” per la valorizzazione del patrimonio dialettale romagnolo in collaborazione con il Comune di Ravenna - Assessorato alla Cultura Autorizzazione del Tribunale di Ravenna n. 1168 del 18.9.2001 Società Editrice «Il Ponte Vecchio» Anno XXII • Febbraio 2018 • n. 2 (184°) SOMMARIO Nevio Spadoni - Poesie (1985-2017) Vanda Budini - Il piacere di raccontare in rima “E’ gost ad cuntê in rima” Dal Carnevale alla Quaresima di Luciano De Nardis Angelo Emiliani - E’ mónd quand ch’a sera znén di Bas-ciân L’êrch a râmpa di Mario Maiolani Illustrazione di Giuliano Giuliani I modi di dire romagnoli: un antidoto contro il male di Silvia Togni Parole in controluce: brèv Rubrica di Addis Sante Meleti Valerio Benelli - Se a vlì savè chi c’lè l’autor, l’è Gigì ad Savador di Bas-ciân E’ ziröt Testo e xilografia di Sergio Celetti Italina Rondoni - La Cuclì, e’ mi paés di Rosalba Benedetti Pr i piò znen Gilberto Bugli - Stràz di Paolo Borghi p. 2 p. 3 p. 4 p. 6 p. 8 p. 10 p. 11 p. 12 p. 13 p. 14 p. 15 p. 16 Tutti conoscono e’ Lunêri di Smémbar, che è il più antico lunario ita- liano ancora in vita: nacque la notte dell’ultimo dell’anno del 1844 a Faenza nell’Osteria di Marianaza (tuttora esistente) ad opera di una compagnia di artisti buontemponi. Pubblicato da allora ogni anno senza interruzione è oggi edito dalla Tipografia Faentina. Oltre al calendario con i santi romagnoli, sono presenti le lunazioni, la dura- ta del giorno (levata e tramonto del sole), le eclissi, le previsioni del tempo ed i consigli per l’orticoltura mese per mese. Naturalmente il pezzo forte è rappresentato dalla zirudëla, che que- st’anno è interamente dedicata al dialetto. L’evento merita una par- ticolare menzione perché in genere l’argomento riguarda gli eventi sociali e politici dell’anno appena trascorso. L’autore, che si cela sotto il nome di Gino ‘d Grapëla, tesse un’appas- sionata difesa del dialetto, che come mostra l’illustrazione (riportata qui sotto) si trova in condizioni di salute molto critiche, assistito al suo capezzale da uno stuolo di valorosi sostenitori, fra i quali non è difficile riconoscere volti noti. Nel testo trova spazio anche un gradito elogio all’attività della nostra Associazione: Da vetn pu, qui dla Schürr Cun dl’inzègn e a mus dur I parcura che e’ dialet U n s’asëra alè int un ghet! Febbraio 2018

Transcript of Dante, I, 34 la Ludla · non corrotta dalle retoriche dell ... mimèsi, ora aspre e dure, ora...

la Ludla 1

“Poca favilla gran fiamma seconda”Dante, Par. I, 34

la Ludla(la Favilla)

Periodico dell’Associazione “Istituto Friedrich Schürr”per la valorizzazione del patrimonio dialettale romagnolo

in collaborazione con il Comune di Ravenna - Assessorato alla CulturaAutorizzazione del Tribunale di Ravenna n. 1168 del 18.9.2001

Società Editrice «Il Ponte Vecchio» Anno XXII • Febbraio 2018 • n. 2 (184°)

SOMMARIO

Nevio Spadoni - Poesie (1985-2017)

Vanda Budini - Il piacere di raccontare in rima“E’ gost ad cuntê in rima”

Dal Carnevale alla Quaresimadi Luciano De Nardis

Angelo Emiliani - E’ móndquand ch’a sera znéndi Bas-ciân

L’êrch a râmpadi Mario MaiolaniIllustrazione di Giuliano Giuliani

I modi di dire romagnoli:un antidoto contro il maledi Silvia Togni

Parole in controluce: brèvRubrica di Addis Sante Meleti

Valerio Benelli - Se a vlì savè chic’lè l’autor, l’è Gigì ad Savadordi Bas-ciân

E’ zirötTesto e xilografia di Sergio Celetti

Italina Rondoni - La Cuclì, e’ mi paésdi Rosalba Benedetti

Pr i piò znen

Gilberto Bugli - Stràzdi Paolo Borghi

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Tutti conoscono e’ Lunêri di Smémbar, che è il più antico lunario ita-liano ancora in vita: nacque la notte dell’ultimo dell’anno del 1844a Faenza nell’Osteria di Marianaza (tuttora esistente) ad opera di unacompagnia di artisti buontemponi. Pubblicato da allora ogni annosenza interruzione è oggi edito dalla Tipografia Faentina. Oltre alcalendario con i santi romagnoli, sono presenti le lunazioni, la dura-ta del giorno (levata e tramonto del sole), le eclissi, le previsioni deltempo ed i consigli per l’orticoltura mese per mese.Naturalmente il pezzo forte è rappresentato dalla zirudëla, che que-st’anno è interamente dedicata al dialetto. L’evento merita una par-ticolare menzione perché in genere l’argomento riguarda gli eventisociali e politici dell’anno appena trascorso. L’autore, che si cela sotto il nome di Gino ‘d Grapëla, tesse un’appas-sionata difesa del dialetto, che come mostra l’illustrazione (riportataqui sotto) si trova in condizioni di salute molto critiche, assistito alsuo capezzale da uno stuolo di valorosi sostenitori, fra i quali non èdifficile riconoscere volti noti.Nel testo trova spazio anche un gradito elogio all’attività della nostraAssociazione:

Da vetẽn pu, qui dla SchürrCun dl’inzègn e a mus durI parcura che e’ dialetU n s’asëra alè int un ghet!

Febbraio 2018

la Ludla2 Febbraio 2018

Sanno bene i lettori come la linguadel pieno ermetismo - diafana e stre-mata nella sua letterarietà - concorraa spiegare la nascita della grande poe-sia dialettale del secondo Novecentoitaliano, impegnata a recuperare laparola autentica, essa sì pura, perchénon corrotta dalle retoriche dell’io edell’assoluto.Un posto di particolare rilievo, nellosvolgersi di questa ricerca, è larga-mente riconosciuto a Nevio Spadoni,forse oggi, nella pur fecondissima eviva poesia dialettale delle nostre pro-vince, il maggiore dei poeti viventi.Nella vastità dei temi che fervonoininterrotti nella sua poesia e nellasapienza d’arte del loro rivelarsi, unelemento che forse sopra ogni altro siimpone è la natura intensa e mimeti-ca della lingua: in essa, le parole bat-tono con il ritmo dei sentimenti econ la forza delle idee, ne sono lamimèsi, ora aspre e dure, ora dolcissi-me all’improvviso aprirsi della tene-rezza e dell’elegia.Passano così le attese e le angosce delvivere, la presenza infinita dellamorte, la tragica odiosità delle catti-verie umane, i sarcasmi, della cuiforza Spadoni conosce impareggiabil-mente le trame; ma anche passano gliidilli di mandolini dolcissimi e stan-

chi, le notti piene di voci, il caldo delmondo nel cuore quando la seradiscende: insomma, le «parole comeil miele» e quelle come spini che siaprono nella carne.Dunque, la tragedia e la commedia,qui rese in una lingua di invenzionicontinue: una lingua antichissima,venuta dal lento ruminìo di centina-ia di generazioni contadine, incardi-nate nel fondo della nostra anima;una lingua che ora si fa fresca, resanuova per la virtù di uno dei piùgrandi poeti della nostra terra.

Roberto Casalini

La ÝgréziaE ugn’è ch’i arvânza impiché int ’na réde i ðgavetla, i zérca un buð, e cun e’ bëch avért a e’ zil sèmpar piò scur i piöca ch’i s’adâna, e pu spurì i mânda zo la nöt ch’l’è lònga da scurghê.

La sventura E ve ne sono che rimango-no impigliati in una rete / e si dimenano,/ cercano una scappatoia, / e col beccoaperto / verso il cielo sempre più minac-cioso / gemono disperati, / poi con spa-vento ingoiano la notte / lunga da scorti-care.

E nó…Senza ch’a s’n’adaðema, un dè a la vôlta un vent giazê l’à spatasê vi i sogn. L’invéran e’ tô zo:ös-cia se e’ tô zo, e nó tot ranicé, ’s’ut ch’a faðema?Coma di pur bagen inðmì int i ricurd a s’supien int al mân senza fê bao.

E noi... Senza neppure accorgerci, giornoper giorno / un vento gelido ha spintona-to via i sogni. / L’inverno infiacchisce: /accidenti, se infiacchisce, / e noi tutti ran-nicchiati, cosa vuoi che facciamo? / Comepoveri stupidi / inscemiti nei ricordi / cisoffiamo sulle mani / senza parole.

Alzì pu so di mur…Alzì pu so di murj uðel i i vola sóra;i fa l’istes e’ nidpiò in êlt, là so int al róvri.Alzì pu so di mur,biench contra nir da sèmpar,al vóð agli è urazionche e’ vent e’ pôrta in zilcun i magon di s-cen.

Alzate pure dei muri... Alzate puredei muri / gli uccelli ci volano sopra; /fanno ugualmente il nido / più in alto, làsulle querce. / Alzate pure dei muri, / dasempre bianchi contro neri, / le voci sonoorazioni / che il vento porta in cielo /con i magoni degli uomini.

Nevio Spadoni

Poesie(1985-2017)

Per i tipi della SocietàEditrice «Il Ponte Vecchio» èuscito ad ottobre dello scorsoanno il volume che raccoglie

l’intera opera poetica inromagnolo di Nevio Spadoni:

a partire dalla raccolta Parsu cont del 1985 fino ai

versi inediti di Agli òmbar eI mur.

Il libro si apre con il corpososaggio Le voci dialoganti diEzio Raimondi sulla poetica

dell’autore e si chiude conuna breve, e dunque parziale,

sezione di pagine critiche.Pubblichiamo qui, a mo’ di

presentazione, la nota diRoberto Casalini presente in

quarta di copertina e trepoesie scelte fra quelle delleultime due raccolte inedite.

la Ludla 3Febbraio 2018

Il titolo della composizione nasce daun gioco di parole: il testo di strofet-te in rima racconta momenti di vitadella nostra infanzia e si concludecon una riflessione sul cambiamentosubito dai metodi educativi.Nel dialetto delle Ville Unite, zonasud-est di Ravenna, il termine eranon può essere tradotto come ‘aia’,infatti da noi lo spazio esterno allacasa contadina si chiama corta. Nonsi può nemmeno tradurre come‘era’, intendendo il lunghissimoperiodo di trasformazioni geologichedella Terra che non attiene al perio-do della così detta “civiltà contadi-na”. L’unica traduzione consonasarebbe identificare era con l'imper-fetto del verbo essere (tempo passatocontinuato), oppure si dovrebbeomettere l'apostrofo, per pensare alritornello lera lera, molto comunenelle antiche stornellate popolari. Inconclusione: un gioco di parole, nonprivo di significato.

L’era… l’era cuntadenaL’era… l’era cuntadena, l’era int l’êria udór da viôl ch’u s smulgheva la matena int e’ lat dagl’utmi fôl!“L’utma, cóntas l’utma fôla!” Cun j ucin che urmai i s’asëra:“L’usilin ch’e’ va ch’e’ vóla pasa e’ mêr, pasa la tëra...Ëco che l’è avnu Piron, fa la nâna e’ mi babin...”E’ bamböz ad furmintonl’è caschê sota i mi pi.I mi pi, ch’i à masinê tânti piazi, tent cavdél, ch’i m’à pôrt par tânti strêpr’abrazê sèmpar gnaquël! L’era l’era cuntadena, l’era int l’êria udór da zriz, ch’a n fasema una cadena da mursêr a fôrza ad bis! “Indvinël indovinël: ëco, atenti, u j è e’ furmaj, sota la camisa cs’a j ël?”T’an putivta indvinê mai!Éral bël scuprì la vita int e’ coc d’na vëcia fôla?Érla bëla la cantêda

dl’ “usilin ch’e’ va ch’e’ vola”? L’indvinël cun e’ furmaj ch’u n s puteva indvinê mai!? Éral bël scuprì la vita ‘s la pavira d’na scarâna, un frin frin svelt ad goc ch’u s faseva la ninâna?!Va a savé te s’l’era bël.Va a savé te s’l’era giost! L’uva serba de’ burdël la n dvinteva sòbit most! L’era l’era cuntadena, lerulera, l’è una fôla.L’è pasê la rundanena, “l’usilin ch’e’ va ch’e’ vóla”!

Era... l’era contadina

Era... l’era contadina, / era nell’aria profumodi viole / da intingere la mattina / nel lattedelle ultime favole! / “L’ultima, raccontaci l’ul-tima favola!” / Con gli occhietti che ormai sichiudono: / “L’uccellino che va che vola /passa il mare, passa la terra... / Ecco che èvenuto il sonno, / fa la nanna il mio bambi-no...” / La bambola di granoturco / è cadutasotto i miei piedi. / I miei piedi, che hannomacinato / tante piazze, tante cavedagne, /che mi hanno portato per tante strade / perabbracciare sempre ogni cosa! / Era l’era con-tadina/ era nell’aria odore di ciliegie, / che nefacevamo una catena / da prendere a morsi aforza di baci! / “Indovinello, indovinello: /ecco, attenzione, c’è lo scherzo, / sotto la cami-cia cosa c’è?” / Non potevi indovinare mai! /Era bello scoprire la vita / nella cuccia di unavecchia favola? / Era bella la canzone / dell’“uccellino che va che vola”? / L’indovinello conlo scherzo / che non si poteva indovinare mai!?/ Era bello scoprire la vita / sull’ impagliaturadi una seggiola, / un frin frin svelto svelto diferri / che ci faceva la ninna nanna?! / Va asapere se era bello. / Va a sapere se era giusto!/ L’uva acerba del bambino / non diventavasubito mosto! / Era l’era contadina, / lerulera,è come una favola. / È passata la rondinella,/ “l’uccellino che va, che vola”!

Vanda Budini

Il piacere di raccontare in rima“E’ gost ad cuntê in rima”

Vanda Budini è personatroppo nota ai nostri lettori

per avere bisogno diparticolari presentazioni: già

docente elementare, èarcheologa, ricercatrice di

storia locale e culturapopolare.

Ha pubblicato raccolte difiabe popolari, testi sulle

coperte da buoi, sulle caveje etiene conferenze e cicli di

lezioni sulla cultura popolaree la civiltà contadina.

In un libro recentemente edito- per volontà e con il

contributo della AssociazioneSan Zaccaria Insieme

(Ravenna, Tip. Scaletta,2017, pp. 208) - si presentain una veste sconosciuta algrande pubblico: quella diagile e fresca narratrice in

rima, una passione coltivatafin dall’infanzia.

Pubblichiamo qui L’era…l’eracuntadena, con la nota

illustrativa premessavidall’autrice.

la Ludla4 Febbraio 2018

Carnevale si considera iniziarsi il dìdell’Epifania: par la Pasquetta, cran-vêll e’ sbacchetta. Sbacchettare sta percomandare, padroneggiare. In cittàdi Forlì l’inizio s’intende fissato alquattro Febbraio della Madonnadel Fuoco.Par cranvêll, ogni scherz e’ vêl. Tutto siintende lecito e fattibile. Maschera-te, danze, cenoni, burle clamorose.E i più facili amori. Famosi i corsimascherati con il lancio di confettie di arancie: taluni corsi restanonella memoria dei vecchi e nella sto-ria dei borghi.Il carnevale si distingue diviso in tretempi: il primo che l’inizia, il piùlungo, un po’ svagato ancora e irre-soluto, senza un nome suo proprio;e poi il tempo della settimana grassa,che è la penultima della sua durata,dal mercoledì al martedì, assai piùfervoroso del primo; e infine quellodella settimana lova dal mercoledìdella grassa all’ultimo dì del carne-vale stesso - cioè il martedì lovo, vigi-

lia delle ceneri -, che è il tempo pazzoe clangoroso.Nelle famiglie, a carnevale, si man-giano le castagnole vuoi fritte nellostrutto che cotte al forno; e la piadaguernita dei ciccioli più succosi. Leimbandigioni sono varie e abbon-danti quanto mai. Il martedì lovo èil giorno in cui si dovrebbe mangia-re sette volte addirittura. E allasera, si dovrebbe mangiar la gallinavecchia a evitar di trovarla morta ildomani se non proprio tutte mortequante son galline nel pollaio: lagalena d’e’ mert lov che s’la n’s’mâgnala va in malor. E quando, bene inte-so, non si sia già mangiata per ladomenica gallinara, la domenica cioèche precede l’inizio della settimanagrassa.Ma con la sera di martedì lovo ognimensa va dispogliata; tutto deveessere accuratamente consumato.Comincia penitenza ristretta. I vec-chi si davan da fare a ripulir perfino

le graticole e le padelle perché nonfacessero odore.E le ragazze andate a parenti, pernon esser mal sospettate a disdoro,dovevan ritornare in famiglia inde-rogabilmente entro lo stesso marte-dì lovo. Le ritardanti si voleva por-tassero appese le mestole a derisio-ne sopra le natiche, perché a deri-sione gliele battessero.Al suono della lova - la campana delritiro che suona alle ventitré emezzo - carnevale finisce. «Finito ilcarneval finiti i canti, poveri mieiquattrin, ne avevo tanti!»Nel tempo di carnevale, nelle cam-pagne si fa tuttavia la mascheratadella vecchia: la viciarella. Son ragaz-zetti che indossano una camiciadisusata sui panni loro: e si adom-brano il capo in una pezzuola e ilvolto di fuliggine. Portano un basto-ne e una sporta. E vanno di casa incasa della parrocchia. Sbraitano: -Jò, jò, la povra vecia! - E i reggitori fan

Il passaggio fra Carnevale eQuaresima oggi non è quasi

più avvertito: in pratica ècarnevale tutto l’anno.

Ma un tempo le cose nonstavano così: la Quaresima eraun periodo di rigida penitenza

ed astinenza dalle carni e diconseguenza il Carnevale eramolto più sfrenato di quanto

non lo sia oggi.Rievochiamo quei periodi

attraverso l’elegante prosa diLuciano De Nardis,

riproponendo parte del suointervento pubblicato sul

numero 2 de «La Piê» del1946.

Si tratta di uno degli articolidell’autore forlivese raccolti

nel terzo volume della nostracollana “Tradizioni popolari e

dialetti di romagna” con iltitolo di Romagna Popolare.Scritti folklorici. 1923-1960

Dal Carnevale alla Quaresima

di Luciano De Nardis

Un momento della Imburnê-da ad Sânta Lusa in una fotodegli anni ‘50. Siamo nellaparrocchia di Santa Luciadelle Spianate nella campa-gna faentina.Nella pagina a fianco, la foto(datata 1949) mostra il grup-po dei partecipanti allamascarêda che si svolgevalungo le strade della parroc-chia di San Biagio di Faenza.

Immagini tratte da Faenzadei ricordi, Faenza, 1991.

la Ludla 5Febbraio 2018

dare loro pane e uova o carne insac-cata o formaggio o vino o quant’al-tro possa significare dovizia dellacasa. Allora la vecchia testimonia agran voce: - Ca bona par la povravecia, jò, jò! - che se invece la casa èavara o sta sorda al richiamo dellaviciarella, la voce protesta a disde-gno: - Ca bruseda! -E si fa anco, nelle campagne, lamascherata della Quaresima. Mentrela precedente non à dunque suotempo fissato, questa è ristretta alsolo dì delle ceneri. La vecchia siporta alle case e dona dalla sua spor-ta cenere fagioli e cipolle. Ricevespesso il cambio d’abbondanza:carne insaccata, formaggio, vino,pane, uova. Sono le case ricche, cheostentan dovizia, insofferenti dipenitenza e di soggezione al credoreligioso. Voglion dire: - guardate,invece, che quaresima si fa noialtri!non è, questa, casa di quaresima! -Altre case accettano in umiltà rasse-gnata l’avvertimento della penitenzae della morte senza nulla ricambia-re: cenere sei e in cenere ritornerai.Nella vecchia non c’è protesta. Con-tinua il suo andare nella grigia vestedella sorte, messaggera d’Iddio.

Il tempo di carnevale si conchiudetuttavia ufficialmente con la primadomenica che segue al dì delle cene-ri. Termine deciso dal popolo, beneinteso, e non con la chiesa concilia-to dal popolo. Che vi rinnovamascherate e balli e cenoni. E poicarnevale à uno strascico nel giovedìdi mezza quaresima detto della sega-vecchia per ricordanza dei supplizimedioevali delle streghe e, perriflesso, di quelli che si vorrebberoinferti alla mortificazione alla peni-tenza e al digiuno attuali. Lemaschere si ripongono appena sulvolto dei bambini e sulla stoppa deifantocci che fan guardia alle banca-relle, rutilanti, delle saporite frutta.E su quello della vecchia di Forlim-popoli che dopo il corteo clamoro-so, si sega, come nella conchiusionedelle folande, nel bel mezzo dellapiazza gremita, onde svuotarle ilventre fecondo di ogni buonaabbondanza.Nella prima domenica di quaresimaanco si pratica, a dispregio, nellecampagne, la fasulera a quelle ragaz-ze che, nonostante i favori concessidoviziosamente durante il tempodel carnevale, non sono riescite a

impegnare a nozze nessun presuntomoroso e che tuttavia ostentano difar le disdegnose e le pudiche.Consiste, la fasulera, nello spargereuna traccia di fagioli o di ceci o difave via per la strada di casa lorosino alla soglia di loro casa. Oggi simischia alla traccia anco zucca cottae penna di pollo. Voglion dire ilegumi secchi che, entro di sé, leragazze canzonate, biascicanopenando la rabbia loro, come pene-rebbero per biascicare questi semirisecchi.Tradizione meno longanime e gene-rosa impone la fasulera addiritturaper l’ultimo dì di carnevale: maquella della domenica, lascia conce-dente la breve tregua perché laragazza possa risolvere il tormentodel cuore e quetar la maldicenzaalmeno dopo la riprova dell’ultimoballo.Oggi però, senza termini e tempi, lafasulera si combina, in genere, ascherno delle ragazze che àn fattoscandalo di sé pur con l’abito del-l’onestà più rara; o per le vecchieragazze che si industriano, folleg-giando, a trovarsi un marito a parodelle ragazzine di primo amore.

la Ludla6 Febbraio 2018

Angelo Emiliani, faentino, originariodella parrocchia di Ronco nella cam-pagna a nord di Faenza, già qualcheanno fa ci aveva inviato un’interes-sante serie di termini e modi di direcaratteristici della zona (v. la Ludla, n.8 del settembre 2014).Alla fine dell’anno appena trascorsoè uscito il suo libro E’ mónd quandch’a sera znén (Tempo al Libro, Faen-za, 2017, pp. 256) in cui l’autore rie-voca il mondo della sua giovinezzaattraverso una serie di capitoli dedica-ti agli usi, alle tradizioni e al dialettoche caratterizzarono i primi anni del-l’ultimo dopoguerra.Scrive Emiliani nella prefazione, effi-cacemente resa in romagnolo con iltitolo di Tant par cminzê:“La mia lingua è il dialetto, l’italianol’ho imparato a scuola. Le mie figlie ildialetto lo capiscono, ma non lo par-lano. I miei nipoti - undici anni ilmaggiore e sette l’altro - sanno più diinglese che di dialetto. L’inesorabiletramonto della nostra parlata statutto in questa constatazione. Mi dispiace e temo non ci sia rime-dio. L’è fadiga fê andê l’aqua in so,direbbero sconsolati i miei vecchi. Midispiace e tento di fare il poco cheposso per ritardare il più possibilequella che considero una perditagrave, della quale in futuro forse nonsi renderanno neppure conto. Col dialetto non si perderà soltantoil linguaggio proprio della nostraterra, quello col quale hanno pensatoe comunicato per secoli le generazio-ni che ci hanno preceduto, ma anchela straordinaria ricchezza espressivagenerata in questo angolo di mondo.Una lingua nella quale si è sempreriflesso ogni aspetto della vita quoti-diana: i sentimenti, il lavoro, l’am-biente, i rapporti sociali, la religiositàe le superstizioni, il sapere tramanda-to di padre in figlio. In definitiva lacultura. […]Qui da tempo si commette l’errore diritenere il dialetto una parlata grosso-lana e plebea, sconveniente in moltiambienti e da non usarsi al cospettodi persone di riguardo. Un errore,appunto. Perché dovremmo vergo-gnarci del nostro modo di esprimercie di chi siamo?Proprio perché sono convinto di

appartenere all’ultima generazioneche considera il dialetto la sua lingua- e prima che si faccia tardi - ho deci-so di raccogliere e riordinare i ricordi.Miei, ma soprattutto quelli dei mieinonni, di mio padre e di mia madre.E di riandare con la memoria aglianni vissuti nel mondo dal qualevengo e che in gran parte già non esi-ste più. Un mondo che non sarebbepossibile raccontare se non con la suaparlata, le sue espressioni, le sueparole ormai morte perché riferite aoccupazioni, arnesi e consuetudinigià scomparse.”Dobbiamo dunque essere gratiall’autore per averci conservato que-ste preziose testimonianze dellanostra cultura popolare, delle quali

diamo un saggio presentando unascelta dalle sezioni dedicate alle fila-strocche, ai proverbi, ai modi dire edai modi di fare.

Al filaströch

Fiuléna bëla prega la tu mama che la mi tòja me par sarvidór, me par sarvidór e te par dama fiuléna bëla prega la tu mama.

Fanciulla bella prega la tua mamma /che la mi prenda me per servitore, / io perservitore e tu per dama / fanciulla bellaprega la tua mamma.

Dirindéna pan gratêmet’m a lët ch’a so ‘malê, cusm’un ôv, una pulpèta ch’a farén cantê Lisèta. Lisèta la cantarà e Pepino e balarà e balarà pian pian ch’u ne sénta e’ barbagiàn e’ barbagiàn l’è d’drì da l’òss ch’u i tireva quatar cosp, quatar cosp e una pianëla dirindina dirindela.

Dirindéna pangrattato / mettimi a lettoche son malato, / cuocimi un uovo, unapolpetta / che farem cantar Lisetta. /Lisetta canterà /e Peppino ballerà / balle-rà piano piano / che non lo senta il barba-gianni / il barbagianni è dietro l’uscio /

Angelo Emiliani

E’ móndquand ch’a sera znén

di Bas-ciân

la Ludla 7Febbraio 2018

che gli tirava quattro zoccoli, / quattro zoc-coli e una pianella / dirindina direndella.

A sera int e’fióm che vneva la fiumanao sunadór sunìm la viniziana, a sera int e’fióm che vneva di malghëz o sunadór sunìm i bergamësch.

La viniziana l’à un bël fior in boca viva la viniziana e chi ch’la toca, la viniziana l’à un bël fior in spala viva la viniziana e chi ch’la bala.

Ero nel fiume che veniva la fiumana / osuonatore suonatemi la veneziana, /eronel fiume che venivano dei malghëz (stelidel granturco) / o suonatore suonatemi ibergamaschi. // La veneziana ha un belfiore in bocca / viva la veneziana e chi latocca, / la veneziana ha un bel fiore inspalla / viva la veneziana e chi la balla.

Chicchirichì la mój de gall’è caschêda da cavall’an s’è miga rota e cölmo l’à mèss e’ cul a möl

Chicchirichì la moglie del gallo / è cadu-ta da cavallo / non si è mica rotto il collo/ ma ha messo il culo a mollo.

Pruvirbi e mud ad dì

U s liga la boca a i sëch,

u n s liga la boca a la zent.Si chiude la bocca ai sacchi, / non si chiu-de la bocca alle persone. (Non si puòimpedire a nessuno di esprimere la pro-pria opinione)

I dscurs dla sera i n cumbena cun quidla matena.I discorsi della sera non coincidono conquelli della mattina. (Detto di chi cambiaidea nel giro di poco tempo)

E’ mêl e’ ven a caval e u s avèja a pè.II male viene a cavallo e se ne va a piedi.(È facile ammalarsi e difficile guarire)

E’ toca sèmpar a i schelz a andê prispenTocca sempre agli scalzi camminare suglispini (Sono i più deboli ad affrontare lesituazioni difficili)

E’ dura da Nadêl a Sa’ Stévan. Dura da Natale a Santo Sfefano. (Dettodi cosa che dura poco)

I bajóch i fa andê l’aqua in so. Il denaro fa andare l’acqua all’insù. (I

soldi possono far girare il mondo a propriopiacimento)

S’t’ vu pruvê al pèn d’inféran fa e’ furnér d’istê e l’urtlan d’inveran.Se vuoi provare le pene dell’inferno / fai ilfornaio d’estate e l’ortolano d’inverno.(Detto di lavori svolti in condizioni gravose)

Braz a e’ cöl e gamba a lëtBraccio al collo e gamba a letto (Riguar-darsi a seconda del malanno)

Mud ad fê

Atafagnê(r) – azzuffareAzapanê(r) – agguantare, sorprendereGighê(r) – scorrereImpiê(r) – rapprendere, si dice del gras-so e dei sughi che si rassodanoInsuifanê(r) – istigare in modo subdoloRandlê(r) – scagliare, scaraventareSbalarghê(r) – allargare in modo esage-ratoSbruchê(r) – capire, indovinareScanucê(r) – rovesciareSfrisê(r) – graffiare una superficieSgraplê(r) – causare un’abrasione,un’escoriazioneSmatzê(r) – darsi da fare, indaffararsi Srunê(r) – dividere, separareTrucê(r) – succhiare rumorosamenteZaflê(r) – mangiare da ingordiZinquantê(r) – perdere tempo

E’ mónd quand ch’a sera znén è ricco di numerose fotografie che illu-strano la vita in campagna nella prima metà del secolo scorso.A sinistra, la trebbiatura cun la zerciaSopra, una ragazza seduta ins e’ baroz

la Ludla8 Febbraio 2018

A caval de’ vintzencv, Rumeo, det “e’Meo”, e’ staseva a Sânta Marì Nôva,int ‘na fameja ad cuntaden, cun igenitori e do surëli piò zôvni: lò l’erade’ 1906, óna de’18 e cl’êtra de’ 21.E’ ba Sizarì, l’era de’ 1876, e u s’era fatsët èn ad suldê: tri ad leva, in cavalarì,e cvàtar int la gvëra de’ cvends e zdòt,a guidêr i cavël ch’i spusteva i canon. La mâma la jera dl’82 e la javeva avùöt fiul, mo u j era armëst sol chi tri inbona saluta cun spirânza ch’i putescampê. Chj êtar j era murt da znin,cm’è sucideva spes da chi dè. La piògrânda, la Mariâna, ch’la javeva scvesivent èn, la jera môrta par la “spagnô-la”, cl’influenza ch’la s-ciupè döp a lagvëra de’ zdöt e ch’u i fo piò murt a lèch’n’è in tot la gvëra. E’ Meo l’aveva duvù smètar d’andê ala scôla de’ cvends, döp a la terza ele-mentêra quând che e’ su ba, ch’l’ave-va cvesi quarânt’en, l’era duvù andêint i suldé, e lò insen cun la mâma ela surëla Mariâna, j aveva da tirê avân-ti e’ sid pr’arivêr a campê.Döp ch’e’ fo turnê e’ su ba d’int isuldé, e’ Meo e’ dicidè ad fêr e’ mura-dór, ch’l’era un lavór ch’u j piasevauna masa, u s ciapeva una bona pêgae l’avleva imparê ben l’amstir. Piò ad dis èn döp e’ truvè da lavurê aLa Zisa, int la vela ad Baltramël, d’inche e’ scritór Antonio l’era môrt dapôch, e la su surëla Marì la javleva fnirun fabrichêt nôv, fat a la giapunesa,det La Sizëla, int e’ pêrch dla vela, chee’ su pôr fradël l’aveva za inviê. E’ Meo l’andeva a lavurêr in bicicleta:partend da Sânta Marì Nôva e’ pasevada Carpnëla, La Rota, sena a La Zisa.L’avreb putù pasê nench da la sumurósa, la Leja, a Sa’ Rinêld, slun-ghèndla un pô, mo l’aveva sèmpar pri-sia.Sèmpar da chi dè e’ Meo l’aveva dicisad fê fumê e’ su camen e, pr e’ fatch’e’ truveva da luvurê cvasi sol cundal Dit de’ furlés, i dicidè d’andêr astê da chi chént. Al su do surëli, nêdidöp a la gvëra, agl’era znéni e e’ bal’avreb putù fêr e’ sbrazânt agrècul.I cumprè un löt ad tëra a Sa’ Zôrz adFurlè, int la Brugnôla, par fês unacaseta a piân d’tëra, grânda asé daputej stê do famej: cvela di genitoricun al surëli e la nôva che lò l’avevaintenzion ad met sò.

Par fôrza sta ca nôva la jera da fê scve-si a temp pers, e i la tirè sò lavurend ala sera e int i dè ad fësta, parchè e’Meo u n smitè mai e’ su lavór da upa-reri muradór.Fê la ca nôva u n era un lavór brigós:i fundament fët ad gêra e calzéna; almuraj ad pré, ch’u li druvè nench parfê e’ curnison mitèndan do mân asbêlz e una terza ad ponta int e’ mëzpar bleza; la cvartura a do acv cun trévd’legn, zavaron, tavël, cop e pu al doz;al sufet ad garzôla e zez; al stablidurint al muraj e i salghé ad amzanëli. U n s’useva fê l’impiânt dla lus odl’acva, mo sol dal cân da camen perputé mètar cvelca stufa, piò un’urôlae una scafa igna cusena. Ad dri da ca u j era e’ bascömud, lastala de’ caval e e’ cës, ch’l’era e’ sòlitcasöt d’un métar cvêdar. E’ poz l’era ad davânti e u s tireva sòl’acva cun la zirëla e e’ sec atachê a lacadéna cun la ciaveta. E’ cës e e’ poz jera i du sarvizi ch’i avneva fët parprem cvând ch’u s faseva una ca nôva,pr avé sòbìt l’acva e una latréna.Par j uparéri la stmâna la jera ad cva-rântöt ór e la giurnêda nurmêla spesla jandeva un pô piò in là, ad môdche de’ temp u j n’avanzeva un pôpôch. Un pô piò ad temp u l putëva avé e’ba, Sisarì, mo u n era un muradórtânt pradgh, e da par lò e’ faseva cvelch’e’ puteva.Da lè a un ân, una pêrta dla ca nôvala jera abastânza avânti, e i dicidè d’in-trej, tânt parchè l’era piò dri a La Zisa,mo nench parchè Sisarì, stasend a lè,e’ puteva fê un cvelch lavurtin ad piò.E pu u s’avsineva l’invéran e e’ viaz inbicicleta l’era mânch scòmud, nench

se, andendi da Sa’ Zôrz, u j era da tra-varsê e’ fiom de’ Ronch sora la pasarë-la ad legn, che al fiumân al la purtevavi una ciöpa d’vôlt a l’ân, e alóra bsu-gneva andêr a pasê da la Cuclì.L’invéran l’andeva vers a la fen e a laSizëla u s cminzeva a fê chi lavurtinpiò fen, ch’i sareb avanzé in vesta parsèmpar; (che pu u n fo acsè parchè itudesch, in ritirata de’ 44, i la fasèsaltê döp avej tnu e’ cmând, parchèl’era un pöst bël e impurtânt).E’ Meo u l turminteva e’ pinsir adcme fêr un êrch a râmpa ch’e’ cule-gheva do culon cun tot i su culega-ment e curnis.L’era un lavór da “tirêr a rafet” sorado guid, ch’l’aveva vest a fê da dimuradur prëdgh, piò inzien, mo dapar lò u n l’aveva maj fat.E’ saveva ch’l’aveva da fê una sêgumaad lamira, artajêda ad pricision cun e’dsegn dla curnisa, d’in ch’u j era unlistël par dsóra, una sgôla, un tond eun listël par dsota. Döp, sta lamira lajandeva inciudêda un pô spurgentaint un’ësa smusêda, cun la stesa sêgu-ma, d’môd che, cvând ch’la curevaavânti e’ smos dl’ësa e’ stindes la cal-zéna, (fata ad ziment e calzéna biân-ca), e cvând ch’la turneva indrì lalamira la lisces, acsè che, a fôrza adpasëg e artoch, e’ lavór l’avnes fnì parben.Tot cvest l’era da fê int un êrch chel’aveva du zéntar, parchè l’andevasóra un râm d’schêla. E’ partiva da‘na culona piò basa pr andêr a fnì intun’êtra piò êlta, tot do cun i su capi-tel sagumé int e’ stes môd.D’in ch’u n saveva cme fê, l’era int laprema pêrta dl’êrch, dimondi stés,cun e’ zèntar sota a e’ piân de’ salghê,

L’êrch a râmpa

di Mario Maiolaninel dialetto di Forlì

Illustrazione di Giuliano Giuliani

Racconto secondo classificato alla nona edizione del concorso e’ Fat 2017 organizzato dalla nostra Associazione

la Ludla 9Febbraio 2018

d’in ch’u n puteva arivej. La curnisaint la pêrta êlta, d’in che l’êrch l’erapiò stret, e’ puteva invézi tirêla far-mend la sêguma int e’ su zéntar cun‘na ciudëla, e fêla zirê.Ins al culon, cvêdri e rivestidi admêrum a macia averta, i du capiteldret e curt, ch’i vulteva apéna un pôad qua e ad là, i n i daseva incionadificultê. E’ pinseva sèmpar e sol a stal röbi ch’èque. L’avleva fê bëla figura, tânt par lasgnóra Marì cme pr e’ su padron, e punénch par lò che, acsè zóvan, u s’insareb instimê.Cme se cvest u n bastes, u j saltè furaun êt fat, ch’u n puteva armandê eche e’ bsugneva dêj ment: j aveva zàideja ad maridês apéna ch’la fos pron-ta la ca nôva, mo la su murósa, laLeja, la l’ublighè a dês d’atórna par-chè la javleva avé fameja, ch’i n sl’aspiteva.Tânt a ca dla Leja cme a ca de’ Meo is’inzgnè par tot i preparativ de’ spusa-lizi, senza che lò e’ duves preocupêsgrânché, e acsè u s’arivè a la svelta ache dè, che par lò, cun e’ dafê ch’l’ave-va a ca su e a La Zisëla, l’era sol temppers.I dicidè ad maridês un sàbat matena,

a l’óra prëst, apena ch’e’ fos pront e’Prit, parchè lò, fni la funzion, l’avlevaturnêr a lavurê a La Zisa, pr avdé sel’ideja nôva ch’u j era avnù int chi dè,la fos la bóna.Int e’ mes d’abril de’ 1933, int la cisaad Sant’Andréj ad Frampul, i fasè e’spusalizi, che e’ Meo e’ supurtè smi-gnend, e cvând che e’ Prit u j cmandès l’era d’acôrd ad tus la Leja par moj,u j arspundè, sórapinsir: “PARDIO!”E’ Prit u l’arciamè a stêr int al régul:“No. No, a l’avì da dì par ben”, e stescardent u s duvè curèzar dsend pröpi“Sè” cm’u s dev.Fnidi al furmalitê e’ Meo e’ turnè inprisia a e’ su lavór a La Zisa e e’ su ba,Sisarì, e’ carghè int la barachina,lustrêda e infuriêda par l’ucasion, laspósa nôva par purtêla a ca su a Sa’Zôrz.Sisarì l’ha sèmpar tnù di cavël piotöstad fugh, abitué a còrar fôrt, batend e’pas cun grân gost, mo cla vôlta u l fasèandê ad tröt alzir. A vut ch’e’ fôs par spët a l’òbligh d’an-dê pianin o parchè u j arbules l’erbafresca ingulêda intânt ch’l’aspitevafura da la cisa, fat sta che e’ caval u smitè a scurzê senza rigvêrd vers a quide’ baruzen, d’in ch’u s sinteva la böta

e pu l’ariveva sòbit e’ vigór. Sisarì, che ad cavël l’aveva grân prad-ga, e’ zarchè ad fê rasunê mej sta bes-cia, vest nench l’ucasion, (sta bon,ch’u j è la spósa!!), mo e’ caval, tistêrd,e’ lutè senza rimision a sfiadê, sgond ala trutêda: (tach-pruf…tach-pruf).Int ‘na mëz’urtena j arivep a ca e döpzéna i du spus nuv i putè stêr insenfen’a la matena in libartê, senza e’cuntröl dla mâma Malvina, ch’la jave-va sèmpar zarchê ad badej mo che,vest cum la jera andêda a fnì, u n j erazuvê grânchè.E’ viaz d’nöz, il fasè la dmenga dop-mezdè, cun un grân zir di pré ad Sa’Zôrz infena a Barisân, fat sèmpar cunche caval, mo cun piò rigvêrd e piòghêrb. Int al stmân döp l’êrch arâmpa e’ fo fnì cun sudisfazion, insencun êtri fniduri ch’al faseva bëla figu-ra.E’ pasè tot l’instê. I lavur a La Zisaj era fnì cun di cumpliment e lapadrona la fasè la magnêda dla ben-fnida, ch’i fo cuntent tot cvent. Int laca nôva ad Sa’ Zôrz u n’i fo la stesabandega e la vita la ciapè piân pianine’ su andament nurmêl.Sempr’ in cla ca, int e’ stes ân de’ spu-salizi, zencv mis döp, fiôl de’ Meo edla Leja, a so nê d me.

la Ludla10 Febbraio 2018

Ormai è risaputo che il linguaggioforbito, e in particolare tecnicismi enomi scientifici, incutano timore,tanto più in casi di gravità, come lamalattia. Ecco che il dialetto roma-gnolo, con le sue locuzioni più omeno colorite, spesso funge da pal-liativo, quasi a voler stemperare lagravità del male stesso.Partendo allora dal ‘male dei mali’,la morte, è risaputo come i Roma-gnoli usino di rado questo termine,preferendovi delle colorite espres-sioni idiomatiche: un uomo inRomagna non è mai morto, ma u s’èaviê, l’ha steð i zampet, l’è pas ad là. Lamorte porta, a seconda delle areeliguistiche, i nomi bizzarri di Malve-na, Gnafa, Jacmena.La malattia incurabile, quasi sempreun tumore, è semplicemente un brötmêl (un brutto male) e anche lemalattie infettive come ‘pertosse’ e‘parotite’ se la cavano con una tösscativa e j urcion, termine quest’ulti-mo che ricorda anche una saporitapasta fatta in casa come i tortelli conripieno di formaggio fresco espinaci, conosciuti anche come‘orecchioni alle erbe’.Altre patologie dai nomi impronun-ciabili, come l’herpes zoster, l’esofagiteda reflusso e la calcolosi o litiasi, inromagnolo se la cavano rispettiva-mente con e’ fugh ad Sânt Antôni, e’mêl de’ cech, e e’ mêl dla prê, laddoveappaiono chiari riferimenti al quoti-diano, al santo patrono degli anima-li, al singhiozzo dei polli e alle pietreusate nelle aie, un mondo conosciu-to ai più e che, quindi, dovrebbeprocurare meno timore.Il nostro dialetto è capace di rendere

simpatici anche i peggiori malannise si pensa che i geloni diventano ipasarött (i passerotti), l’alluce valgo lazola (la cipolla), mentre si paragonauna persona piena di acciacchi alfamigerato sumar o caval ad Scaja,così malandato che da la boca u s vede’ buð de’ cul.Di persona molto miope, si usa direscherzosamente che u n ved un pritint la nev (non vede un prete nellaneve), mentre per indicare una per-sona cagionevole di salute si diceche u j dà dânn e’ vent de’ dvanadur(gli dà fastidio perfino l’aria prodot-ta da un dipanatoio per la lana).Ma laddove il dialetto romagnolo sisupera in fantasia, è nei mali del-l’anima, come la nostalgia, la depres-sione e il pessimismo. La malinconiaspesso nostalgica dei romagnoli è e’magon, mentre un disturbo depressi-vo si trasforma in un’ânma caduda,traduzione letterale di ‘anima cadu-ta’, che poeticamente fa pensareall’anima deputata a volare leggeranel cielo che improvvisamente rovi-na a terra.Il pessimismo cosmico romagnolo è

controbilanciato da alcuni scherzosima eloquenti modi di dire, quali: S’am met a fê e’ caplêr, la þent la néss senzala tësta ‘se mi metto a fare il cappel-laio la gente nasce senza testa’,oppure Quând che e’ Signor l’ è pas adistribuì al sgrëzi, a ca tu u s’j’è s-ciantêe’ sach ‘quando il Signore è passato adistribuire le disgrazie, a casa tua glisi è rotto il sacco’.Perfino gli incubi notturni sonoingentiliti dagli spiriti folletti: a chiha avuto un sonno agitato e ha fattobrutti sogni, si dice che u t’è vnu atruvê e’ Mazapégul, il folletto dispet-toso delle favole romagnole, le cuivessazioni si possono arrestare sola-mente rubandogli il berretto di lanarossa e buttandolo nel pozzo.Insomma, queste ‘belle parole’ olocuzioni dialettali hanno unchiaro scopo apotropaico o, perdirla in romagnolo, j ha da dê l’erbacascia a e’ mêl, a e’ giêval, al diavoloforiero di ogni male. Anche perché,come recita un altro detto: Tempbon, salut e quatren i n stofa mai ‘beltempo, salute e quattrini non stan-cano mai’.

I modi di dire romagnoli:

un antidoto contro il male

di Silvia Togni

Un fermoimmagine di E’ ventde’ dvanadur uno dei quarantafilmati, presenti su YouTube,di Romagna Slang. In rumagnôl us dis... La serie, prodotta dallaSchürr, illustra termini emodi di dire romagnoli.Da sinistra: Alfonso Nadiani,Marco Grilli, Cristina Vespi-gnani. Fra le stecche de’ dvana-dur il piccolo Leonardo Donati.

la Ludla 11Febbraio 2018

brèv: in ital. bravo. Il dizionarioCortelazzo-Zolli riporta due etimipossibili, il primo dei qualideriverebbe dal ribaltamento in posi-tivo del lat. pravus, ‘pravo’, ‘malvagio’:e tale anche per Dante. Il dizionariocita pure lo studioso che avrebbe sco-vato pravus già positivo in un fram-mento di Seneca, De Ira I 18: vir amultis vitiis integer, sed pravus et cuiplacebat pro constantia rigor (uomolibero da molti vizi, ma ‘pravo’ a cuipiaceva il rigore al posto della coeren-za). Ma, se diamo il giusto pesoall’avversativa senza limitarci a leg-gere il frammento, scopriamo che,seppur ‘privo di molti vizi’, costui daadirato era tutto fuorché brèv e bòn.Infatti ordinò di giustiziare tre per-sone: un innocente1 già da lui con-dannato a morte; il reo che nel frat-tempo aveva confessato sua sponte2; ilcenturione che aveva sospeso l’ese-cuzione del primo dopo la confes-sione del secondo. Quel tale non era‘bravo’: era solo caperbi3, incaponito,una gran carogna4, poiché il rigoreassoluto o la parola che non cambiadi fronte a fatti nuovi è difetto grave,non virtù.5 Purtroppo chi scovò la

frase di Seneca isolandola prese unabbaglio, come ogni tanto càpita atutti: è bene perciò non fidarsi a oc’sré, neppure di noi stessi.6 Tuttaviaalla fine il ribaltamento da pravus a‘bravo’ ci fu, ma preparato da frasicome: l’è brèv a rubé, a dì dal busìi,o per altre abilità moralmente neutreo negative, ben lontane dalla bontà.Vi sono poi i contraddittorî brèv ano fè gnint e brèv in tot i ’mstir(mestieri), for che chi bon. A questopunto, una volta svanita l’idea dellalimitazione, il ribaltamento era com-piuto.7

Note

1. Inuzent è l’adulto senza colpe, maanche il bimbo incapace d’intendereil male che può fare. Tra i modi didire: no fasì sti scurs daventi a uninuzent; l’è inuzent cumpagna unanþulin de’ Signór; oppure pôr inu-zintìn; no vnim adès a fè l’inuzent. Equando era notevole la morìa infan-tile, in ogni cimitero c’era l’àngol diinuzent o di ènþol, un riquadro diterra riservata a loro.2. È difficile stabilire se sponte osponta (u fa incosa ad su sponta) siapresente nel dialetto fin dalle originio sia un latinismo diffuso dai preti.Viene talvolta legato per errore all’e-timo di spunté o spuntéla ‘spuntar-la’. Le false etimologie, se talora con-tribuiscono a complicare le spie-gazioni di una parola, talaltra nehanno fatto la fortuna: in ogni modol’etimo di sponta va cercato nel verbolat. spondere ‘rispondere’, indicando‘adesione libera da coercizioni’. È lastessa radice di spoð: gli sposi avreb-bero dovuto sposarsi entrambi suasponte. Ma per la sposa – e talora pureper lo sposo – ci si mettevano dimezzo la classe sociale, la dote, laricerca di parentele influenti odanarose ed anche rivalità e odi trafamiglie. 3. Capèrbi deriva da ‘capo’ (lat. càput‘testa’). Il suffisso fa pensare checapèrbi abbia preso a modellosupérb. Tarquinio il Superbo colpìcol bastone le piante che superavanola massa dell’erba. Non disse nient’al-tro, ma il figlio capì e fece ammazzarei capi dei vinti: debellare superbos.Sinonimo di ‘caparbio’ è tistèrd ‘te-

stardo’: ‘testa’ + il suffisso francesiz-zante -ard, come in busèrd ‘bugiardo’,gaiérd‘gagliardo’, ‘vegliardo’, ecc.S’usava pure finghérd ‘infingardo, dafenþ, fingere (lat. e ital.), che, prima disparire, indicò anche lo sfaticato che‘finge’ di lavorare. 4. Carògna: in italiano ‘carógna’,‘cadavere’ di uomo o animale cheimputridisce abbandonato alleintemperie, poi ‘uomo malvagio’, dicui Dio permette la sconfitta’. Vieneda un tardo latino *carónia, dacarne[m]. ‘Carnaio’ è collettivo edindica i cadaveri dei soldati lasciatiimputridire sul campo: è toponimotra S. Sofia e S. Piero in Bagno. Tragl’insulti: carogna, carugnaza, puzécumpagn a ’na carogna; avé adòs uncarugnìsum for d’imbsura; ess brèv afè sol dal carugnédi; ecc. 5. Per la parola che non ammetteripensamenti, si chiede talvolta: Mo’s’è ’l, la paróla de’ rè?6. Un prete di campagna precisava:Tot a sbaiem, fors enca me: ma a lafen la porta de’ purgatori avdrì ch’ala truvem. Di front al fiambi de’purgatori enca al corni li peða menc.Infine, come si usa dire, u càpita atot, enca ai furb, la bòta de’ quaiòn.Ovvero, a tot i furb ui menca unpont. In quanto a fidarsi del prossi-mo, un padre oculato raccomandavaal figlio: T’he semper da cuntè ibaioc sota i oc’ ad ch’i ti dà, enca s’ati dèg me, parchè, me a putréb avéðbaié. A no cuntèi a lé par lé sota e’so nèð, si menca, u s’ ha da pinsé chet’he rubé.7. Talvolta si cerca l’etimo di ‘bravo’nel lat. barbarus, attraverso *brabus;poiché pure i barbari erano ‘pravi’,specie quando non riuscivano astarsene tranquilli. Questa volta nonsi può escludere un incrocio. Nelmestiere, anche i ‘bravi’ di donRodrigo ‘ci sapevano fare’ a inti-morire o ammazzare. L’originario si-gnificato negativo sopravvive in bravè‘rimproverare’ usato soprattutto inpianura; riaffiora pure nell’ambiguobravèda: che oltrepassa la misura, siaspacconata, sia atto malvagio gra-tuito.Infine, ‘bravo!’ è ormai un’esclama-zione indeclinabile, grazie alla musicaitaliana dei secoli passati.

Rubrica curatada Addis Sante Meleti

da Civitella

la Ludla12 Febbraio 2018

Luigi Benelli (1865 – 1939) è statoun cantastorie forlivese. Noto comeGigì ad Savador (o Salvador), famosissi-mo nei primi decenni del secolo scor-so, oggi sarebbe quasi completamentedimenticato se non fosse per la recen-te pubblicazione di uno studio su dilui ad opera di un suo discendente,Valerio Benelli, del cui bisnonno Gigìera fratello.Della sua produzione restano pocopiù di una ventina di zirudelle, stam-pate come era costume su fogli volan-ti. La piccola raccolta presente nellaBiblioteca Comunale di Forlì recauna nota manoscritta di AntonioMambelli in cui si dice fra l’altro diGigì: “Non sa leggere né scrivere,compone poesiole in vernacolo chefa stampare e poi vende egli stesso neigiorni di mercato, dopo averle decla-mate in modo veramente colorito epittoresco. Ha sempre intorno unagran folla e il suo nome, si può dire,è popolare in tutta la Romagna.”Diversamente da altri zirudellariromagnoli, come Giustiniano Villa oGiovanni Montalti (Bruchin), Benellinon si interessa delle problematichesociali o politiche, ma si limita adescrivere personaggi locali o fattisalienti della cronaca, romagnola onazionale, sempre in termini osse-quiosi o celebrativi del potere costi-tuito. Riportiamo qui come saggio del-l’opera di Gigì la poesia dedicata adAntonio Beltramelli, datata 1929.L’autore era, come detto, analfabeta:la trascrizione pare essere della sorel-la di Beltramelli, Maria. Si noteràanche come la forma della zirudellasia gravemente scorretta: gli ottonarisono sovente zoppi e le rime baciatenon sempre rispettate, ma si sa chequesti dicitori riuscivano nella recita-zione a mascherare le falle che sareb-bero state evidenti nella grafia.

E pueta BeltramelL’ultum ad zogn, una dmenga bela, A so andé da Beltramel Par cantei al mi puvesì Che dal screti an’ aveva si.E sta a la Sisa1 in tum bel post L’à un bel ort e un bel zarden Ca lo vest l’è fiuri ben;L’à una vasca Beltramel

Cla iè posta in trì ranel La iè tonda cmè un palon intorna, intorna un iscrizion Sta iscrizion la iè in latèn Cun la capes i cuntaden.Me am prisintep a un cuntaden L’è Ruseti cui sta avsen.Ma e pueta un n’era a ca.L’era a ca su surela2

Con la Giapunesa bela3.Al m’amnep in t’un salot E d’intorna un bel cumplot Patron, serva e servitur,Zardinir cun e pitor.Im mitep in tna pultronaCam pareva e Pepa a Roma.Ai cuntep al mi puisì E lo tot quent in armunì Aglium vus fè di cumpliment Aglium dasè de vè spumant E parchè ch’ai turnes neca Aglium rigale quends french Cleta dmenga ai sò turnè E pueta a lo truvè Am cavep e mi capel:El 1ô e pueta Beltramel?L’era ferum in te su ôs;Chi sit te che me an t’ cnos?A so Gigi ad SalvadorUn manvel da murador A iò fat dal puvesì Ca sò avnù fegli sintì.Lo un fasep una gran festa:E tu capel tenal intla testa Parchè nuitar a sè dal zent Can nin vlè di cumpliment E quant scor cun BeltramelFa cont parlé cun tu fradel Me aiaveva un po’ ad timor A parlè cun un scritor Quant ca iò vest clè acsè zintil Um se avert cor e zil.Ai contè al mi puvisi Tot in fila aien dsè sì

Lò um’arspond: Questi al va ben A li vlè mander a Musolen.E sareb un grand unor Par Gigì ad Salvador.E pu e ciamep e cantinir:Va a tu e fiasch cun e bichir Dai da bè che por sgraziè L’è do or sempar a parlè.Me al ringrezi Beltramel Mo e bè al mitè in te garganel.E pu um carghè in tna LanciaUm pareva d’esar in Francia Da la gran velocitè An no cnunsù din ca so pasè Av sicur le un gran bò sgnor L’è poeta e le scritor Cavalir e comendator E sun fos na testa fena un sareb a l’Academia.Si vo savè chi chl’è l’autor L’è GIGI AD SALVADOR

1. Borgata in destra Ronco, fra Forlì eRavenna.2. Maria.3. La moglie, Fausta (Cichita) Yoshito.

Il poeta Beltramelli

L’ultimo giorno di giugno, una bella domenica,Sono andato da Beltramelli Per raccontargli le mie poesie Che di scritte ne avevo sei.Abita a Villa Sisa in un bel posto Ha un bell’orto e un bel giardino; L’ho visto, è fiorito bene; Ha una vasca Beltramelli Divisa su tre livelli È tonda come un palloneIntorno, intorno un’iscrizione. Quest’iscrizione è in latinoChe i contadini non la capiscono.Mi presentai a un contadino È Rosetti, che abita vicino a lui, Ma il poeta non era a casa.

Valerio Benelli

Se a vlì savè chi c’lè l’autor, l’è Gigì ad Savador

di Bas-ciân

13la Ludla Febbraio 2018

Era a casa sua sorella Con la giapponese bella.Mi fecero entrare in un salotto E attorno un bel contorno Padrone, serva e servitori, Giardinieri con i pittori.Mi misero in una poltronaChe mi sembrava di essere il Papa a RomaGli raccontai le mie poesie E loro tutti in armonia Mi vollero fare i complimenti Mi diedero del vino spumante E perché tornassi ancora Mi regalarono quindici lire.La domenica successiva sono tornatoHo trovato il poeta Mi tolsi il mio cappelloÈ lei il poeta Beltramelli?Era fermo sull’uscio di casaChi sei tu che non ti conosco?Sono Gigi ad Savador Un manovale da muratore Ho fatto delle poesie Che sono venuto a farle ascoltare. Lui mi fece una gran festa:

Tieni il cappello in testa Perché noi siamo gente Che non vuole complimenti E quando parli con Beltramelli Fai finta dii parlare con tuo fratello. Ma avevo un po’ di timore A parlare con uno scrittore

Quand’ho visto che è così gentile Mi ha aperto cuore e cielo.Gli raccontai le mie poesieTutte in fila ne dissi seiLui mi rispose: queste vanno beneLe vogliamo mandare a Mussolini.Sarebbe un grande onorePer Gigì ad Salvador.Poi chiamò il cantiniere.Va’ a prendere il fiasco col bicchiereDai da bere a quel povero disgraziatoSon due ore che parla Io la ringrazio Beltramelli Ma il vino lo misi nella gola.Poi mi caricò in una Lancia Mi pareva d’essere in Francia Per la gran velocità Non ricordo da dove son passato Vi assicuro è un gran buon signore È poeta ed è scrittore Cavaliere e commendatore E se non fosse una testa fina Non sarebbe all’Accademia.Se volete sapere chi è l’autore È GIGI AD SALVADOR

Cun la guêrgia êlta, ciuða, e mêgar e e’ ros i s þirevad’atorna cun di saltel, i s stugieva da un bël pô, mo sóld’ogni tânt i partiva cun di culp lêrgh a guanton avirt,fiëch, ciapamoschi. L’alenadór u i spruneva: “So burdel,so… daðiv da fê… so donca…” A un zert pont, stof ad chebalet, e saltè int e’ ring: “Basta…basta… a m’avì rot l’ân-ma pr un mes ch’a vliva cumbàtar e incu ch’a v’ j ò mesa fasì i balaren…a que a n sen miga a la Schêla… a que us fa a cazot, no i figuren… va ben ch’a si amigh e a n deghch’a v’aviva da sbudlê…, parò s a vlì fê la böx bðogna ch’ai mitiva dl’impegn sinò agl’è toti mesi da môrt e a m faðìpèrdar de’ temp e basta… a so stê ciêr?” E’ dgè ðlazend iguanton a e’ mêgar, mèntar che l’asistent in cl’êtar ângulu j ðlazeva a e’ ros. I s’infilè tot du int e’ spogliatoimóg, móg e in silenzi: un fiê ad pen spurch e ad sudóre’ stagneva int l’êria. E’ ros u s cavè la maja e i calzun-zen mustrend e’ côrp ðnël da la pëla biânca in cuntrastcun la faza rosa e pina ad rèmul. U s’invstè a la svelta eu s n’andaðè salutend a malapena. E’ mêgar u s gvardèint e’ spëc, gnânca un grafi, sol ‘na buladina ad ros sorala zeja, un colp ad stres, tot a lè. Incruðê i guanton par la

prema vôlta senza un segn, un taj, ‘na frida da mustrê,coma ch’e’ faðeva a racuntê un incòntar batajê a i suamigh de’ Bðdalet?Alora e’ cavè un ziröt d’int e’ portafoj e u s e’ mitè sorala zeja, dri a la bulêda rosa e pu u s butè la saca in spalae e’ scapè da la palëstra.

E’ zirötTesto e xilografia di Sergio Celetti

la Ludla14 Febbraio 2018

Rondoni Itala (Italina per gli amici eper tanti conoscenti) è una donna dalsorriso mite e dall’aspetto vigoroso,nonostante abbia raggiunto la rag-guardevole età di 88 anni e il suounico mezzo di locomozione sia ora-mai la sedia a rotelle.Ha sempre lavorato la terra, fin daragazza: che altro poteva fare se i suoiparenti che pure le volevano bene (erarimasta orfana di entrambi i genitori)le ripetevano che aveva le mani “cion-che” buone a null’altro che ad esegui-re i lavori più grossolani?Al contrario Italina ha sempre avutouna spiccata passione per il cucito e ilricamo, che apprendeva con facilità emi ha confessato che da bambina, seaveva risparmiato qualche spicciolo,invece di un giornaletto si comprava“Mani di Fata”.È nata a Coccolia, una borgata fraRavenna e Forlì – che si è fregiata neiprimi del ‘900 anche di una fermatadel tranvai – e si è trasferita ad Oste-ria, in aperta campagna, in occasionedel matrimonio.La sorte non è stata benigna con lei.È rimasta vedova a sessant’anni, poile è morto prematuramente uno deitre figli. Le gambe non erano piùquelle di una volta e allora Italina hacoltivato la sua passione per il ricamoesprimendo la sua capacità creativa ela sua pazienza, e i suoi capolavorisono stati esposti prima nei mercatinie nelle fiere locali, poi nell’Italia Cen-trale, suscitando dovunque stupore emeraviglia fino ad interessare Rakam,la rivista più specializzata del settore,che ha addirittura realizzato unadocumentazione della sua interaopera «… trasforma bracciate di stoffain lunghe trine traforate, primatende, lenzuola, cuscini, centrini…poi scialli, stole, tovaglie ornamenta-li, prodotti incantevoli che evocanoscenari del passato, case ombrose elussuose, abbellite da tali manufatti».Alcune creazioni sono adatte, a mioparere, anche per impreziosire del-l’abbigliamento moderno: jeans, top,giubbotti.Gli anni scorrono, muore un altrofiglio e la capacità manuale fineabbandona le sue magiche mani. Ita-lina non sa stare senza far niente. Lanuora Liliana, giovane vedova, che

l’ha sostenuta nel lavoro di cucito,invece di chiudersi nel suo personaledolore la sprona:– Ma voi sapete anche raccontare edunque, scrivete, non in italiano, main dialetto, quello che ricordate delvostro paese d’origine!E Italina scrive. Dotata di una memo-ria ferrea, racconta tanto della suaCoccolia, senza indulgere a sentimen-talismi, ma facendo scorrere conchiarezza davanti agli occhi del letto-re luoghi di lavoro artigianale e botte-gucce per ogni tipo di attività (il fab-bro, il maniscalco, lo spaccio, ilmacellaio, il fioraio, la cartoleria, lasarta da donna e il sarto da uomo, lamagliaia, i generi alimentari, la Far-macia, l’Ufficio postale, il barbiere, ilsellaio …) senza contare i birocciai, icontadini, i braccianti; mette in rilie-vo la nascita di piccole industrie,alcune delle quali diventerannofamose a livello nazionale. Nondimentica i centri ove ferve la vita

sociale: la scuola, la chiesa, l’osteriadove una targa, con tanto di data,racconta che lì, grandi bevute di San-giovese hanno intrattenuto la gendar-meria del posto di blocco, così cheGaribaldi coi suoi ha potuto procede-re indisturbato verso Forlì.Poi ci descrive la gente: personaggiautorevoli, altri umili, della borghesiae del popolo, ne fa dei bozzetti e dellecaricature, sapendo cogliere di ognu-no i tratti più caratteristici, ironici,anche i difetti, ma con una parolabuona per tutti e la sua positivitàrende gradevole e lieve la lettura e iricordi affiorano alla mente dei letto-ri, giovani e meno giovani.Quando parla della sua infanzia, deilavori agricoli che scandiscono ilritmo delle stagioni, della fatica delvivere quotidiano, quando mette aconfronto con poche righe il passatoe il presente, si esprime in modo cosìconciso, così chiaro e toccante dacreare stralci di poesia come questi:..

E’ temp

Un vëc tavulen tot tarlê cun sora unabocia d’inciöstar rinsichida, una penaspuntêda e un quadéran dai foj inþalì. Testimoni d’un temp ch’l’è pasê e u ntorna piò indrì.

Scôla

Quand ch’a séra babina andéva a scôla,la mestra la m’insignéva a fêr i bachet.La i avléva sèmpar piò dret, i þéro sèmparpiò tond.Li la dgéva che i éra impurtent par fê labëla caligrafì.I temp i è cambié: adëss i burdel i va ascôla cun e’ computer e e’ telefonin, i n àpiò gnint da imparê!?

Italina Rondoni

La Cuclì, e’ mi paés

di Rosalba Benedetti

la Ludla 15Febbraio 2018

Accoppiate a ciascuna delle sei figuredi sinistra una di quelle di destra cheabbia con essa attinenza. Scrivete poi a fianco di ciascunaimmagine il suo nome, scegliendolodall’elenco qui a fianco pubblicato.

A cura di Rosalba Benedetti

I fiurE’ disc jockeyE’ palonLa pompaLa scarpinaLa róvraLa gendaE’ daquadorI deschLa bicicletaCenerentolaLa réd

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Pr i piò

znen

Zent piò zent e zent incórae pu sânta e zencv par zontapar ciumpì tòta la conta:mo ignatânt i n basta e alóraa i n met un êtar sóra.

Cento più cento e cento ancorae poi sessanta e cinque in aggiuntaper completare l’intero conto;ma ogni tanto non bastano ed allorane metto un altro sopra.

Due indovinelli

I giorni dell’anno

Longa fila ad casincun finëstar e purtisin,passa vi’ cun grând fragortraspurtend e’ viazadorpar campâgna e par zitê.Chi l’indvena l’è un scienziê.

Lunga fila di casinecon finestre e porticine,passa via con gran fragoreper campagna e per città.Chi l’indovina è uno scienzato.

Il treno

la Ludla16

«la Ludla», periodico dell’Associazione Istituto Friedrich Schürr • Editore «Il Ponte Vecchio», Cesena • Stampa: «il Papiro», CesenaDirettore responsabile: Pietro Barberini • Direttore editoriale: Gilberto Casadio

Redazione: P. Borghi, R. Gentilini, G. Giuliani, A. S. Meleti • Segretaria di redazione: V. Focaccia Errani

La responsabilità delle affermazioni contenute negli articoli firmati va ascritta ai singoli collaboratori

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Febbraio 2018

Per un complesso di cause che sono state e saranno integra-tiva causa d’indagine da parte di estimatori più qualificati eattendibili, è ormai manifesto che i linguaggi dialettali,sotto diversi aspetti in disuso, negli ultimi tempi abbianoiniziato a ricomporsi da efficace e asciutto codice di relazio-ne a emozionale strumento di poesia. Ne consegue, se non altro per via del circoscritto numerodi fautori determinati comunque ad avvalersene, che si fac-cia man mano evidente il loro declino verso un disillusotramonto cosicché, proprio in risposta alla fase di precarie-tà in cui si barcamenano, è comprensibile che i dialetti stia-no avvertendo la necessità di mobilitare l’interesse e la con-siderazione del prossimo, e altrettanto logico, in seguito atale esigenza, che ogni gesto idoneo a promuovere consen-so possa svelarsi prezioso quanto inderogabile. Analizzando la situazione, e il conseguente stato di allarme,da una prospettiva che dia giusto credito alla produzioneletteraria dialettale, potrebbe se non altro arginare il citatocrepuscolo l’appoggio di una sintomatica cerchia di poetiodierni i quali, consci dell’appello e determinati a fornire illoro sostegno, trovano modo di dedicarsi anche all’oggiinnovando linguaggio ed espressioni, e scansando unavolta per tutte il ribadirsi eccessivo e anacronistico di ormaiattempati concetti e delle accluse nostalgie. Come ogni espressione dell’uomo anche la poesia, per non

declinare col tempo, necessita di nuovo fervore, in sostan-za di un adeguamento all’oggi, immemore nei confronti dichiunque non sia in grado di palesarsi in sintonia con leoccorrenze in atto. Stràz, l’ultimo lavoro di Gilberto Bugli, è parte fondata diun novero di raccolte liriche in romagnolo che risultanopalesemente adeguate allo scopo, concorrendo di conse-guenza al prestigio e alla rivalutazione del nostro idioma,anche di là dai confini regionali. Ogni traccia o vicenda ritenuta idonea alla raccolta, e dun-que operativa nell’indole e nell’impegno del poeta, è statada lui schematizzata in un singolare archivio autentico del-l’esistenza, al cui interno gli eventi reali e quelli della mentee dell’estro, concorrono unanimi alla definizione conclusi-va del progetto poetico. Le pagine del libro figurano percorse con efficacia da sinto-matiche effigi femminili e maschili, icone che bussano assi-due alla memoria dell’autore con la toccante partecipazio-ne che soltanto una creatività intensa e spontanea è poi ingrado di ritrasmettere. Alla stessa maniera il suo estro e la sua complice presenzaemotiva, ricompongono in Stràz una poesia rivelatrice diuna personale e salda confidenza con l’insieme di ciò checoncerne la gente e i luoghi, le relazioni e gli affetti, la con-cretezza e l’immaginazione, il tutto compendiato in unamalgama espressivo e protetto all’interno di una memoriavigile e tutrice di un passato che egli, comunque, non fre-quenta in modo declamatorio e con abusata faciloneria,bensì come strumento di connessione a un oggi dinamicoquanto imprescindibile.

Paolo Borghi

Memória

Ste casèt ch’ e’ péuntae u n s’ vò ciéud,l’è cme me:trop pin ad robach’a n so piò arcnòse ch’ u m’ tucarà butè vis’a n’ vóji pérd l’arcórdad tott i sbaji ch’ò fat

Memoria Questo cassetto che s’impunta \ e non si vuole chiudere \ è come me: \ troppo pieno di cose \ che non so più ricono-scere \ e che dovrò buttare via \ se non voglio perdere il ricordo \ di tutti gli sbagli che ho fatto

Gilberto Bugli

Stràz