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Friedrich Nietzsche (Röcken, 15 ottobre 1844 Weimar, 25 agosto 1900)

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Friedrich Nietzsche (Röcken, 15 ottobre 1844 – Weimar, 25 agosto 1900)

Risorse in rete

• http://www.nietzschesource.org/

• http://umano-troppo-umano.blogspot.it/

• http://www.emsf.rai.it/biografie/anagrafico.asp?d=46

Bibliografia critica

S. O'Hara, P. Sensi, Nietzsche alla portata di tutti, Armando ed. Roma 2007.

Gianni Vattimo, Introduzione a Nietzsche, Ed. Laterza, Roma - Bari 1985

Gianni Vattimo, Il soggetto e la maschera, Bompiani 1974

Domenico Losurdo, Nietzsche, il ribelle aristocratico. Biografia intellettuale e bilancio critico, Bollati Boringhieri (2004).

Lezione di Gianni Vattimo (video – formato wmw)

http://www.asia.it/adon.pl?act=doc&doc=259

parte 1 parte 2 parte 3

Lezione di Massimo Cacciari (audio – formato mp3)

http://www.arcoiris.tv/modules.php?name=Flash&d_op=getit&id=8898

La nascita della tragedia dallo spirito della musica (Die Geburt der Tragödie aus dem Geiste der Musik)

1872

Un progetto culturale ridicolizzato. Nietzsche disegna un percorso parallelo tra la storia della tragedia e quella della società greca – un percorso di ascesa e decadenza, e stabilisce i termini di un grandioso progetto di rivoluzione artistica e spirituale nella società tedesca. Il principale nemico del tragico è l’ottimismo socratico, che ha affermato il valore dell’illusione fenomenica ed ha portato la riflessione del singolo, distruttiva, nella bella comunità greca, retta dagli istinti vitali e dal fondamento mitico. Sullo sfondo di questa impostazione c’è la concezione schopenhaueriana di una contraddizione tra l’unità metafisica originaria e la colpevole individuazione fenomenica (l’apparenza). Questa colpa che coinvolge l’esistenza, ha bisogno, secondo La nascita della tragedia, di una redenzione estetica. La contraddizione originaria si riflette nell’opposizione di Dioniso e di Apollo all’interno della natura e della vita degli uomini. Apollo divinizza il principio di individuazione, della forma, della bella apparenza, del sogno e in questo modo libera dalla sofferenza. La cultura apollinea si presenta come una maschera per sopportare la tragicità dell’esistenza, come un grande tentativo di velare, attraverso la costruzione di forme stabili e rassicuranti, il fondo dionisiaco. Dioniso è invece l’espressione immediata dell’ebbrezza, dell’istinto e della forza primitiva che abbatte l’individuo e lo riassorbe nell’unità originaria. Egli riproduce continuamente la contraddizione come dolore dell’individuazione, ma la risolve in un piacere superiore in quanto l’individuo stesso partecipa della sovrabbondanza dell’Ur-Ein. Questo è il principio, già presente in Schopenhauer, della “consolazione metafisica”: «in realtà noi per brevi momenti siamo esso stesso l’essere primordiale, e ne sentiamo l’indomito desiderio e piacere di esistere»

Apollineo Dionisiaco

«Questi nomi li prendiamo in prestito dai greci, i quali rendono percepibili all’intelligenza le profonde dottrine della loro visione estetica non già per il mezzo di concetti astratti, ma con raffigurazioni chiare ed incisive della mitologia. Alle loro due divinità che simboleggiavano l’arte, Apollo e Dioniso, si riallaccia la nostra teoria, che nel mondo greco esiste un contrasto, enorme per l’origine e i fini, fra l’arte plastica, cioè l’apollinea, e l’arte non plastica della musica, cioè la dionisiaca; questi due istinti così diversi camminano l’uno accanto all’altro, per lo più in aperto dissidio, stimolandosi reciprocamente a sempre nuove e più gagliarde reazioni per perpetuare in sé incessantemente la lotta di quel contrasto, su cui la comune parola di "arte" getta un ponte che è solo apparente: finché in ultimo, riuniti insieme da un miracolo metafisico prodotto dalla "volontà" ellenica, essi appaiono finalmente in coppia e generano in quest’accoppiamento l’opera d’arte della tragedia attica, che è tanto dionisiaca quanto apollinea.»

Impulso apollineo

armonia misura

equilibrio illusione

sogno

(difesa nei confronti del dionisiaco)

Impulso dionisiaco

vita istinto caos

ebbrezza

(principio realmente originario)

conflitto

Tragedia attica come sintesi dei due principi musica e coro = dimensione dionisiaca

trama e dialogo = dimensione apollinea

La tragedia rivive nel dramma musicale wagneriano, con una nuova funzione catartica dell’arte. La nozione di ‘arte’ è ampia: essa viene intesa in contrapposizione alla razionalità e alla metafisica. L’unica metafisica ammessa è una metafisica d’artista, secondo cui l’unica giustificazione del mondo e dell’esistenza è di natura estetica.

Le aspre polemiche e la freddissima accoglienza de La nascita della tragedia presso gli ambienti accademici fece probabilmente comprendere a Nietzsche la grande estraneità tra le sue idee e visioni e la cultura dominante nelle Università europee.

Nella primavera del 1879 rassegnò le dimissioni dall’insegnamento per motivi di salute. Non aveva ancora 35 anni. L’Università di Basilea gli concede una pensione, circa 2/3 del suo stipendio, con cui avrebbe condotto nei successivi dieci anni un’esistenza errabonda e inquieta tra Germania, Svizzera, Francia del sud e Italia (soggiornò anche a Recoaro), alla ricerca di un luogo per lui adatto. Così N. descrive le sue condizioni in quell’anno:

«Continue sofferenze, per parecchie ore del giorno una sensazione molto simile al mal di mare, una semiparalisi che mi rende difficile la parola; a ciò si alternano accessi terribili (l’ultimo mi ha costretto a vomitare per tre giorni e tre notti – invocavo la morte). Non posso leggere, scrivo pochissimo, non vedo nessuno, non posso ascoltare musica! Solitudine, passeggiate, aria di montagna, dieta a base di latte e uova… Mi è già capitato di rimanere a lungo privo di coscienza… Dall’ultima visita i miei occhi sono notevolmente peggiorati.»

Sull'utilità e il danno della storia per la vita (Vom Nutzen und Nachteil der Historie für das Leben)

1874

Critica della miseria culturale della Germania

Nietzsche mette a critica lo storicismo, in particolare la filosofia della storia hegeliana, secondo cui il presente va guardato come un punto di arrivo, e il processo che ha condotto al presente come a un necessario compimento. «In verità, la credenza di essere un epigono di altri tempi è paralizzante e deprimente… Hegel… ha istillato nelle generazioni da lui lievitate quell’ammirazione di fronte alla ‘potenza della storia’, che si trasforma a ogni istante in nuda ammirazione del successo e conduce all’idolatria del fatto.» L’idolatria del fatto è la malattia di cui soffre la cultura occidentale, non più in grado di esprimere vitalità e progettualità, incapace ormai di creare qualcosa di nuovo. Invece il genuino bisogno di storia nasce dalla necessità di collegare storia e vita, storia e azione, di fare della storia qualcosa di utile per la vita. La vita e l’attività richiedono comunque una dimensione storica per poter conservare, difendersi o liberarsi dal passato, purché questo non ostacoli o soffochi la vita stessa; da qui derivano tre approcci di cui Nietzsche sottolinea i vantaggi e i limiti. La storia monumentale guarda al passato per cercarvi la grandezza che può alimentare nuove aspirazioni; il danno può derivare da una mitizzazione acritica del passato e dal rischio del fanatismo conseguente. La storia antiquaria è l’approccio conservatore con cui si vuole far rivivere il passato nel presente, impedendo qualsiasi creazione o novità. Se è importante il sentirsi eredi della grandezza del passato, il rischio è l’immobilismo che si oppone alla vita, al suo divenire e alla necessità vitale del cambiamento. La storia critica vuole liberarsi del passato, azione necessaria per poter costruire il cambiamento; lo slancio creativo ha bisogno anche di oblio (che non è ignoranza, ma è saper dimenticare), senza tuttavia essere unicamente negativo nei confronti del passato.

Umano, troppo umano. Un libro per spiriti liberi (Menschliches, Allzumenschliches. Ein Buch für freie Geister)

1878 - 1879

Il distacco da Schopenhauer e Wagner. Entra in crisi l’idea di poter tornare, attraverso la tragedia e più in generale l’arte, alle origini vitali di una cultura e a una metafisica fondata sull’estetica. L’arte non viene più contrapposta alla scienza come suo rimedio. Non è più possibile interpretare la cultura dell’epoca in termini di ‘decadenza’. La crisi della cultura non appare più a N. in riferimento a una condizione ‘non decaduta’, ma come invito a un compito decostruttivo, un impegno a fare la ‘genealogia’ delle forme culturali dominanti presentate come ‘fisse’ e ‘eterne’, e smascherarne l’origine storica e ‘umana, troppo umana’. N. prende di mira i temi principali della tradizione filosofica: la filosofia come metafisica la libertà del volere la teoria della conoscenza l’istituzione e i concetti della moralità. «La credenza nella libertà della volontà è un errore originario di ogni essere organico… la credenza in sostanze incondizionate e in cose uguali è del pari un errore originario, altrettanto antico… In quanto perciò ogni metafisica si è di preferenza occupata di sostanza e di libertà del volere, la si può definire come la scienza che tratta degli errori fondamentali dell’uomo – però come se fossero verità fondamentali» Mentre Hegel aveva raffigurato la filosofia come la nottola di Minerva che si leva in volo sul far del crepuscolo (cioè alla fine della civiltà), N. annuncia la “filosofia del mattino”, che apre l’alba di una nuova epoca.

«I problemi filosofici riprendono oggi in tutto e per tutto quasi la stessa forma interrogativa di duemila anni fa: come può qualcosa nascere dal suo opposto, per esempio il razionale dall'irrazionale, ciò che sente da ciò che é morto, la logica dall'illogicità, il contemplare disinteressato dal bramoso volere, il vivere per gli altri dall'egoismo, la verità dagli errori? La filosofia metafisica ha potuto finora superare questa difficoltà negando che l'una cosa nasce dall'altra e ammettendo per le cose stimate superiori un'origine miracolosa, che scaturirebbe immediatamente dal nocciolo e dall'essenza della 'cosa in sé'. Invece la filosofia storica, che non é più affatto pensabile separata dalle scienze naturali, ed è il più recente di tutti i metodi filosofici, ha accertato in singoli casi (e questo sarà presumibilmente il suo risultato in tutti i casi), che quelle cose non sono opposte, tranne che nella consueta esagerazione della concezione popolare o metafisica, e che alla base di tale contrapposizione sta un errore di ragionamento: secondo la sua spiegazione, non esiste, a rigor di termini, né un agire altruistico né un contemplare pienamente disinteressato, entrambe le cose sono soltanto sublimazioni, in cui l'elemento base appare quasi volatilizzato e solo alla più sottile osservazione si rivela ancora esistente. Tutto ciò di cui abbiamo bisogno e che allo stato presente delle singole scienze può esserci veramente dato, è una chimica delle idee e dei sentimenti morali, religiosi ed estetici, come pure di tutte quelle emozioni che sperimentiamo in noi stessi nel grande e piccolo commercio della cultura e della società, e perfino nella solitudine: ma che avverrebbe, se questa chimica concludesse col risultato che anche in questo campo i colori più magnifici si ottengono da materiali bassi e perfino spregiati? Avranno voglia, molti, di seguire tali indagini? L'umanità ama scacciare dalla mente i dubbi sull'origine e i princìpi: non si deve forse essere quasi disumanizzati per sentire in sé l'inclinazione opposta?» Con il termine “morale” N. intende ora non solo le dottrine che riguardano le azioni volontarie degli uomini, ma più in generale tutte quelle concezioni che ammettono un’origine sovrastorica e principi assoluti. Principi in base ai quali gli uomini credono di poter afferrare l’essenza immutabile della realtà e di poter orientare il loro comportamento secondo i criteri invariabili di bene e male. Con il termine “errore” N. intende il rovescio del termine “morale”: la pretesa di considerare “verità” eterna e oggettiva ciò che invece è costruito storicamente. I fenomeni metafisci e morali vanno da N. interpretati come dei “composti” di alcuni elementi di base: istinto di sopravvivenza, ricerca del piacere, allontanamento dal dolore, bisogno di sicurezza nella variabilità delle vite individuali e dei rapporti sociali. Tutto si riconduce a utilità: la morale «è originariamente l’utile sociale… contro tutte le utilità private». Posizione influenzata dalla lettura dei filosofi moralisti, Montaigne e Pascal, e dalle correnti utilitaristiche e scettiche, Hobbes e Hume. La scienza per N. rimpicciolisce ciò che sembra grande, relativizza i giudizi, distrugge le consolazioni. Tuttavia rimane una domanda: chi è colui che si accorge del carattere illusorio delle pretese della metafisica? Si può parlare ancora di un “io” e di un “soggetto”? Che è che giudica? Sembra che niente o nessuno si sottragga alla filosofia storica, cioè all’analisi genealogica, che smascherando le verità fondamentali della morale finisce per erodere dall’interno lo stesso soggetto che giudica.

Nelle Meditazioni metafisiche Descartes aveva indicato già nella forma della ‘meditazione’, quanto essenziale sia nella nuova filosofia l’analisi critica della soggettività e delle sue possibilità conoscitive e morali. Questo soggetto non è l’individuo, ma la struttura generale della soggetività, la medesima analizzata nelle Critiche kantiane. Questa tradizione viene demolita: N. ritiene che la conoscenza di se stessi sia un’illusione: noi «siamo ignoti a noi stessi» (Genealogia della morale). La grande illusione della metafisica, della teoria della conoscenza e della morale consiste nell’avere assunto la soggettività e la coscienza a luogo centrale della certezza, della conoscenza, dell’agire. Il soggetto è in realtà qualcosa di “mitologico”, la credenza nella libertà del volere è un’illusione, lo stesso volere rientra nella determinazione universale come tutti gli eventi naturali.

«Difetto ereditario dei filosofi. Tutti i filosofi hanno il comune difetto di partire dall’uomo attuale e di credere di giungere allo scopo attraverso un’analisi dello stesso. Inavvertitamente «l’Uomo» si configura alla loro mente come una æterna veritas, come un’entità fissa in ogni vortice, come una misura certa delle cose. Ma tutto ciò che il filosofo enuncia sull’uomo, non è in fondo altro che una testimonianza sull’uomo inun periodo molto limitato. La mancanza di senso storico è il difetto ereditario di tutti i filosofi; molti addirittura prendono di punto in bianco la più recente configurazione dell’uomo, quale essa si è venuta delineando sotto la pressione di determinate religioni, anzi di determinati avvenimenti politici, come la forma fissa dalla quale si debba partire. Non vogliono capire che l’uomo è divenuto e che anche la facoltà di conoscere è divenuta; mentre alcuni di loro si fanno addirittura fabbricare, da questa facoltà di conoscere, l’intero mondo. Ora tutto l’essenziale dell’evoluzione umana è avvenuto in tempi remotissimi, assai prima di quei quattromila anni che all’incirca conosciamo e durante i quali l’uomo non può essere gran che cambiato. Ma nell’uomo attuale il filosofo vede “istinti” e suppone che essi appartengano ai fatti immutabili dell’uomo e possano quindi fornire una chiave alla comprensione del mondo in generale: tutta la teologia è basata sul fatto che dell’uomo degli ultimi quattro millenni si parla come di un uomo eterno, al quale tendono naturalmente tutte le cose del mondo. Ma tutto è divenuto; non ci sono fatti eterni: così come non ci sono verità assolute. Per conseguenza il filosofare storico è da ora in poi necessario, e con esso la virtù della modestia.»

La critica del soggetto

La gaia scienza (Die fröhliche Wissenschaft)

1882

Poeta e scienziato davanti al grande annuncio della morte di Dio e dell’eterno ritorno.

Il titolo proviene da un'espressione coniata da trovatori tardo-provenzali (Consistori del Gay Saber) per definire l'arte della poesia. L’espressione era stata usata, tra gli altri da Ralph Waldo Emerson. «…il concetto provenzale della gaya scienza, quell'unità di cantore, cavaliere e libero pensatore con cui la meravigliosa precoce cultura provenzale si staglia su tutte le culture dell'ambiguità… si danza al di sopra della morale…». N. Intende suggerire una prospettiva che si apre dall’analisi degli errori e della metafisica e della religione fino a un sapere in cui «il riso sia alleato alla saggezza», e la tragedia venga superata in burla. La ripresa dello stile aforistico de Umano, troppo umano e Aurora introduce riflessioni sulla dottrina di Spinoza (la negazione del male e del libero arbitrio, della verità delle finalità morali, dell'ordinamento morale del mondo), e un primo annuncio delle dottrine dell'eterno ritorno e della morte di Dio.

Il grande annuncio (La gaia scienza, af. 125)

L’uomo folle. – Avete sentito di quel folle uomo che accese una lanterna alla chiara luce del mattino, corse al mercato e si mise a gridare incessantemente: “Cerco Dio! Cerco Dio!”. E poiché proprio là si trovavano raccolti molti di quelli che non credevano in Dio, suscitò grandi risa. “È forse perduto?” disse uno. “Si è perduto come un bambino?” fece un altro. “0ppure sta ben nascosto? Ha paura di noi? Si è imbarcato? È emigrato?” – gridavano e ridevano in una gran confusione. Il folle uomo balzò in mezzo a loro e li trapassò con i suoi sguardi: “Dove se n’è andato Dio? – gridò – ve lo voglio dire! Siamo stati noi ad ucciderlo: voi e io! Siamo noi tutti i suoi assassini! Ma come abbiamo fatto questo? Come potemmo vuotare il mare bevendolo fino all’ultima goccia? Chi ci dètte la spugna per strusciar via l’intero orizzonte? Che mai facemmo, a sciogliere questa terra dalla catena del suo sole? Dov’è che si muove ora? Dov’è che ci moviamo noi? Via da tutti i soli? Non è il nostro un eterno precipitare? E all’indietro, di fianco, in avanti, da tutti i lati? Esiste ancora un alto e un basso? Non stiamo forse vagando come attraverso un infinito nulla? Non alita su di noi lo spazio vuoto? Non si è fatto piú freddo? Non seguita a venire notte, sempre piú notte? Non dobbiamo accendere lanterne la mattina? Dello strepito che fanno i becchini mentre seppelliscono Dio, non udiamo dunque nulla? Non fiutiamo ancora il lezzo della divina putrefazione? Anche gli dèi si decompongono! Dio è morto! Dio resta morto! E noi lo abbiamo ucciso! Come ci consoleremo noi, gli assassini di tutti gli assassini? Quanto di piú sacro e di piú possente il mondo possedeva fino ad oggi, si è dissanguato sotto i nostri coltelli; chi detergerà da noi questo sangue? Con quale acqua potremmo noi lavarci? Quali riti espiatòri, quali giochi sacri dovremo noi inventare? Non è troppo grande, per noi, la grandezza di questa azione? Non dobbiamo noi stessi diventare dèi, per apparire almeno degni di essa? Non ci fu mai un’azione piú grande: tutti coloro che verranno dopo di noi apparterranno, in virtú di questa azione, ad una storia piú alta di quanto mai siano state tutte le storie fino ad oggi!”. A questo punto il folle uomo tacque, e rivolse di nuovo lo sguardo sui suoi ascoltatori: anch’essi tacevano e lo guardavano stupiti. Finalmente gettò a terra la sua lanterna che andò in frantumi e si spense. “Vengo troppo presto – proseguì – non è ancora il mio tempo. Questo enorme avvenimento è ancora per strada e sta facendo il suo cammino: non è ancora arrivato fino alle orecchie degli uomini. Fulmine e tuono vogliono tempo, il lume delle costellazioni vuole tempo, le azioni vogliono tempo, anche dopo essere state compiute, perché siano vedute e ascoltate. Quest’azione è ancora sempre piú lontana da loro delle piú lontane costellazioni: eppure son loro che l’hanno compiuta!”. Si racconta ancora che l’uomo folle abbia fatto irruzione, quello stesso giorno, in diverse chiese e quivi abbia intonato il suo Requiem aeternam Deo. Cacciatone fuori e interrogato, si dice che si fosse limitato a rispondere invariabilmente in questo modo: “Che altro sono ancora queste chiese, se non le fosse e i sepolcri di Dio?”.

(La gaia scienza, af. 343): Noi filosofi e “spiriti liberi”, alla notizia che il vecchio Dio è morto, ci sentiamo come illuminati dai raggi di una nuova aurora; il nostro cuore ne straripa di riconoscenza, di meraviglia, di presentimento, di attesa, finalmente l’orizzonte torna ad apparirci libero, anche ammettendo che non è sereno, finalmente possiamo di nuovo sciogliere le vele alle nostre navi, muovere incontro ad ogni pericolo; ogni rischio dell’uomo della conoscenza è di nuovo permesso; il mare, il nostro mare, ci sta ancora aperto dinanzi, forse non vi è ancora mai stato un mare così “aperto”.

Il protagonista dell’aforisma 125 della Gaia scienza (1882) è un pazzo che annuncia la morte di Dio Egli è modellato sul filosofo cinico Diogene e, mentre quest’ultimo cercava l’uomo, l’uomo folle cerca Dio. Ma poi rivela alla folla, sconcertata e divertita, che Dio è morto perché gli uomini lo hanno ucciso. La folla non lo sa, non si rende conto del gesto che ha commesso, ma con la scomparsa di Dio l’orizzonte umano è cambiato, la luce si è spenta, tanto che il folle porta con sé una lanterna accesa anche se è pieno giorno. Se per la prospettiva platonico‐cristiana la morte di Dio coincide con la morte della verità, perché Dio è identificato con essa, per Nietzsche l’esito è tuttavia l’opposto: “Il mare, il nostro mare, ci sta ancora aperto davanti, forse non vi è ancora mai stato un mare così ‘aperto’” (La gaia scienza, 343, Adelphi, Milano 1967, p. 205). L’uomo senza Dio è l’uomo liberato da un’ingombrante tutela e finalmente libero, anche se all’inizio è sconvolto dalla caduta dei bimillenari valori su cui finora si era basato e da cui era stato rassicurato. Nietzsche non intende dimostrare propriamente l’inesistenza di Dio: a poco vale enfatizzare le ragioni che ci devono dividere dalla religione, perché nessuno ha mai avuto ragioni autentiche e profonde per aderire a essa. Ma l’ateismo autentico ha una portata più ampia, perché equivale a rigettare sia il Cristianesimo sia il platonismo: non rifiuta semplicemente Dio, ma ogni senso e ogni verità. Se ci opponiamo alla dicotomia di fatto e valore, se riteniamo che la verità sia un concetto pragmatico (è “vero” ciò che si mostra maggiormente atto ai nostri scopi), dobbiamo rigettare tutte le fedi, anche quella nei valori morali e nella scienza, dobbiamo liberarci dal concetto stesso di verità. Ma come uscire dalla religione? A differenza di Marx, Nietzsche non propone alcun “rimedio” concreto e attivo che non sia quello di attendere il tramonto della religione – come pure della metafisica – portandola alle sue estreme conseguenze, che si risolveranno nella sua autodistruzione. Non c’è alcun modulo dialettico di tipo hegeliano: la religione si supera semplicemente lasciandola da parte e sostituendo al vecchio uomo sempre in cerca dei valori l’oltre‐uomo che vive il fatto senza cercare altrove il suo valore. da Boniolo‐Vidali, Argomentare, vol. IV

La morte di Dio è ‐ morte, non assenza di Dio ‐ fine del simbolo (Dio) di ogni fondamento ‐ crepuscolo degli dei: metafisica, morale, scienza non hanno più fondamento ‐ accettazione del nichilismo ‐ liberazione dell'umano e sua accettazione totale

Il peso più grande (La gaia scienza, af. 341)

«Che accadrebbe se un giorno o una notte, un demone strisciasse furtivo nella più solitaria delle tue solitudini e ti dicesse: “Questa vita, come tu ora la vivi e l’hai vissuta, dovrai viverla ancora una volta e ancora innumerevoli volte, e non ci sarà in essa mai niente di nuovo, ma ogni dolore e ogni piacere e ogni pensiero e sospiro, e ogni indicibilmente piccola e grande cosa della tua vita dovrà fare ritorno a te, e tutte nella stessa sequenza e successione - e così pure questo ragno e questo lume di luna tra i rami e così pure questo attimo e io stesso. L’eterna clessidra dell’esistenza viene sempre di nuovo capovolta e tu con essa, granello della polvere!". Non ti rovesceresti a terra, digrignando i denti e maledicendo il demone che così ha parlato? Oppure hai forse vissuto una volta un attimo immenso, in cui questa sarebbe stata la tua risposta: "Tu sei un dio e mai intesi cosa più divina"? Se quel pensiero ti prendesse in suo potere, a te, quale sei ora, farebbe subire una metamorfosi, e forse ti stritolerebbe; la domanda per qualsiasi cosa: “Vuoi tu questo ancora una volta e ancora innumerevoli volte?” graverebbe sul tuo agire come il peso più grande! Oppure, quanto dovresti amare te stesso e la vita, per non desiderare più alcun'altra cosa che questa ultima eterna sanzione, questo suggello?»

L'eterno ritorno è Una certezza cosmologica e insieme una critica dell'idea progressiva del tempo una ripresa del senso antico dell'eterno ritorno ... ... ma lo supera a) nella dimensione della "fedeltà alla terra" b) perché 'E.R. va deciso non riconosciuto. Significa vivere ogni istante volendo che esso si ripeta uguale, infinite volte. E' un estremo dire di sì alla vita.

L' essenziale della dottrina è che il futuro è frutto di una decisione: l'anello si chiude nell'attimo che è il centro del contrasto. L'eternità non è quindi qualcosa di esteriore e di eternamente uguale, ma è nell'attimo, che è lo scontro di futuro e passato e che determina il modo in cui tutto ritorna. L'attimo è la cosa più breve ma al tempo stesso più compiuta, in cui si può afferrare la totalità del ritorno: nell'immagine usata nello Zarathustra, questo è l'anello vivente del serpente.

Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno (Also sprach Zarathustra. Ein Buch für Alle und Keinen)

1883-1885

Vi scongiuro, fratelli, restate fedeli alla terra e non credete a quelli che vi parlano di sovraterrene speranze!

Definito dallo stesso Nietzsche come "il più profondo che sia mai stato scritto", il libro è un denso ed esoterico trattato di filosofia e di morale. Non è un saggio, né una raccolta di aforismi, bensì una sorta di “poema in prosa”, un “pensiero poetante” in tono profetico, denso in immagini e parabole. È evidente l’intenzione di N. di scrivere un testo sul modello dell’antica letteratura sapienziale e della rivelazione. Dal punto di vista contettuale, i temi dell’opera sono sostanzialmente: • L’Übermensch • La volontà di potenza • L’eterno ritorno. Zarathustra (Zoroastro) fu un profeta iranico vissuto tra l'XI e il VII secolo a.C. che Ahura Mazda, il dio creatore di ogni cosa e sommo bene, decise di inviare agli uomini per guidarli e salvarli dalla malvagità che avvolgeva il mondo. Lo Zarathustra di N. profetizza invece l’oltrepassamento di ogni religione, è il creatore di nuovi valori.

L’Übermensch

"Io vi insegno l'oltreuomo. L'uomo è qualcosa che deve essere superato. Che cosa avete fatto voi per superarlo? Tutti gli esseri hanno finora creato qualcosa al di sopra di se stessi: e voi volete essere il riflusso di questo grande flusso e tornare piuttosto all'animale che superare l'uomo? Che cos'è la scimmia per l'uomo? Una risata o una dolorosa vergogna. E proprio ciò dev'essere l'uomo per l'oltreuomo: una risata o una dolorosa vergogna. Voi avete fatto la strada dal verme all'uomo, e molto c'è ancora in voi del verme. Una volta eravate scimmie, e ancora adesso l'uomo è più scimmia di qualunque scimmia. Ma anche colui che è più saggio tra voi, non è che un dissidio, un essere ibrido fra la pianta e lo spettro. Ma vi ordino io di diventare spettri o piante? Vedete, io vi insegno l'oltreuomo! L'oltreuomo è il senso della terra. La vostra volontà dica: sia l'oltreuomo il senso della terra! Vi scongiuro, fratelli, rimanete fedeli alla terra e non credete a quelli che vi parlano di speranze ultraterrene! Essi sono degli avvelenatori, che lo sappiano o no. Sono spregiatori della vita, moribondi ed essi stessi avvelenati, dei quali la terra è stanca: se ne vadano pure! Una volta il sacrilegio contro Dio era il sacrilegio più grande, ma Dio è morto, e sono morti con Dio anche quei sacrileghi. Commettere sacrilegio contro la terra è ora la cosa più spaventosa, e fare delle viscere dell'imperscrutabile maggior conto che del senso della terra! Un tempo l'anima guardava al corpo con disprezzo: e allora questo disprezzo era la cosa più alta: essa lo voleva macilento, orribile, affamato. Così pensava di sfuggire ad esso e alla terra. Oh, quest'anima era essa stessa ancora macilenta, orribile e affamata: e la crudeltà era la voluttà di quest'anima! Ma anche voi, fratelli, ditemi: che cosa rivela il vostro corpo della vostra anima? Non è la vostra anima povertà e sporcizia e un miserabile benessere? In verità, un fiume lutulento è l'uomo. E bisogna essere un mare, per poter accogliere un fiume lutulento senza divenire impuri. Vedete, io vi insegno l'oltreuomo: esso è questo mare, in cui può inabissarsi il vostro grande disprezzo. Qual è l'esperienza più grande che potete fare? Essa è l'ora del grande disprezzo. L'ora in cui anche la vostra felicità vi nausea, e così pure la vostra ragione e la vostra virtù. L'ora in cui dite: "Che importa la mia felicità? Essa è povertà e sporcizia, e un miserabile benessere. E la mia felicità dovrebbe giustificare la stessa esistenza?” L'ora in cui dite: "Che importa la mia ragione? Ha essa fame di sapere come il leone del suo pasto? Essa è povertà e sporcizia e un miserabile benessere!” L'ora in cui dite: "Che importa la mia virtù? Essa non mi ha reso ancora furibondo. Come sono stanco del mio bene e del mio male! Tutto ciò è povertà e sporcizia e un miserabile benessere!” L'ora in cui dite: "Che importa la mia giustizia? Non vedo che io sia brace ardente. Ma il giusto è brace ardente!“ L'ora in cui dite: "Che importa la mia pietà? Non è la pietà la croce sulla quale viene inchiodato colui che ama gli uomini? Ma la mia pietà non è una crocifissione”. Parlaste già cosi? Gridaste già così? Oh, se vi avessi già sentito gridare cosi! Non il vostro peccato, ma la vostra moderazione grida vendetta al cielo, la vostra avarizia nello stesso vostro peccato, grida vendetta al cielo! Dov'è la folgore che vi lecchi con la sua lingua? Dov'è la follia che vi si dovrebbe inoculare? Vedete, io vi insegno l'Oltreuomo : esso è questa folgore, esso è questa follia! Quando Zarathustra ebbe così parlato, uno di tra la folla gridò: "Abbiamo ascoltato il funambolo abbastanza; adesso vogliamo anche vederlo!". E tutta la folla rise di Zarathustra. Da parte sua il funambolo, credendo che quelle parole fossero rivolte a lui, sì mise all'opera. (F. Nietzsche: Così parlò Zarathustra: Prefazione, §§3‐ 4; Della virtù che dona)

L'Oltreuomo è: ‐ non soggetto ma categoria dell'umano ‐ si oppone all'ultimo uomo ‐ sa accettare la vita nella sua interezza, nella sua

irrazionalità e casualità e accetta la dimensione dionisiaca dell'esistenza;

‐ vitalismo: fedeltà alla terra, dire di sì alla vita ‐ sa accettare la morte di Dio, l'annullamento di tutti i

tradizionali valori morali e sa rinunciare alla consolazione esistenziale offerta dalle fedi religiose;

‐ sa condurre la propria vita nella prospettiva dell'eterno ritorno del tempo, vivendo ogni istante con intensità totale, come fosse l'eternità.

Nietzsche si raffigura il cammino della coscienza dagli idoli della superstizione e dalle menzogne della morale al dionisiaco e al superuomo in tre tappe. La prima è quella del cammello, che rappresenta l’uomo che si piega davanti alla maestà di Dio. La seconda è quella del leone, che reagisce e combatte contro i falsi idoli. La terza è quella del fanciullo che dice sí alla vita e che esprime l’essenza dionisiaca della libertà umana.

«Tre metamorfosi io vi nomino dello spirito: come lo spirito diventa cammello, e il cammello leone, e infine il leone fanciullo… Ma là dove il deserto è piú solitario avviene la seconda metamorfosi: qui lo spirito diventa leone, egli vuol come preda la sua libertà ed essere signore nel proprio deserto… Fratelli, perché il leone è necessario allo spirito? Perché non basta la bestia da soma, che a tutto rinuncia ed è piena di venerazione? Creare valori nuovi – di ciò il leone non è ancora capace: ma crearsi la libertà per una nuova creazione – di questo è capace la potenza del leone… Ma ditemi, fratelli, che cosa sa fare il fanciullo, che neppure il leone era in grado di fare? Perché il leone rapace deve anche diventare un fanciullo? Innocenza è il fanciullo e oblio, un nuovo inizio, un giuoco, una ruota ruotante da sola, un primo moto, un sacro dire di sí.Sí, per il giuoco della creazione, fratelli, occorre un sacro dire di sí: ora lo spirito vuole la sua volontà, il perduto per il mondo conquista per sé il suo mondo.»

Il cammello rappresenta l’uomo che porta i pesi della tradizione. Il leone rappresenta l’uomo che si libera dai fardelli metafisici e morali all’insegna dell’”io voglio!”. Il fanciullo rappresenta l’oltreuomo, la creatura non risentita di stampo dionisiaco che sa dire “sì” alla vita. Per creare nuovi valori non basta stabilire una diversa tavola di ideali. Il punto cruciale è creare la propria libertà, impresa difficile. Il superuomo non è solo un creatore di valori, è un creatore di se stesso, uno spirito che vuole la sua volontà.

Il peso più grande, «il macigno che la volontà non può smuovere» è quello di non «volere a ritroso», cioè di non poter dominare su ciò che è già accaduto. L’eterno ritorno dell’uguale è agli occhi di Nietzsche la “vendetta” della volontà di potenza «contro il tempo e il suo “così fu”».

«E sapete voi cosa è per me «il mondo»? Devo mostrarvelo nel mio specchio? Questo mondo è un mostro di forza, senza principio, senza fine, una quantità di energia fissa e bronzea, che non diventa né più grande né più piccola, che non si consuma, ma solo si trasforma, che nella sua totalità è una grandezza invariabile, un'economia senza profitti né perdite, ma anche senza incremento, senza entrate, circondata dal «nulla» come dal suo limite; non svanisce né si sperpera, non è infinitamente esteso, ma inserito come un'energia determinata in uno spazio determinato, e non in uno spazio che in qualche punto sia «vuoto», ma che è dappertutto pieno di forze, un gioco di forze, di onde di energia che è insieme uno e molteplice, di forze che qui si accumulano e là diminuiscono, un mare di forze che fluiscono e si agitano su se stesse, in eterna trasformazione, che scorrono in eterno a ritroso, un mondo che ritorna in anni incalcolabili, il perpetuo fluttuare delle sue forme, in evoluzione dalle più semplici alle più complesse; un mondo che da ciò che è più calmo, rigido, freddo, trapassa in ciò che è più ardente, selvaggio, contraddittorio, e poi dall'abbondanza torna di nuovo alla semplicità, dal gioco delle contraddizioni torna al gusto dell'armonia e afferma se stesso anche nell'uguaglianza delle sue vie e dei suoi anni, e benedice se stesso come ciò che deve eternamente tornare, come un divenire che non conosce né sazietà, né disgusto, né stanchezza. Questo mio mondo dionisiaco che si crea eternamente, che distrugge eternamente se stesso, questo mondo misterioso di voluttà ancipiti, questo mio «al di là del bene e del male», senza scopo, a meno che non si trovi uno scopo nella felicità del ciclo senza volontà, a meno che un anello non dimostri buona volontà verso di sé -- per questo mondo volete un nome? Una soluzione per tutti i suoi enigmi? E una luce anche per voi, i più nascosti, i più forti, i più impavidi, o uomini della mezzanotte? Questo mondo è la volontà di potenza -- e nient'altro! E anche voi siete questa volontà di potenza -- e nient'altro!»

La volontà di potenza N. Identifica la volontà di potenza con l’”intima essenza dell’essere”.

La volontà di potenza interpreta A ben vedere anche in Nietzsche esiste, allora, un “soggetto” dell’interpretare, ben diverso da ciò che intendiamo con soggetto nella cultura moderna, semmai più affine ad una forza vitale, che attraversa cose e pensieri, un po’ come la volontà di vita schopenhaueriana. Anche Nietzsche, insomma, pur negando oggettività al mondo, pur affermando che solo l’interpretazione domina la nostra conoscenza, è poi costretto a ricondurre alla energia vitale il compito di dare senso al mondo: “La volontà di potenza interpreta” (Frammenti postumi 1885‐1887, 2 [148]). Tuttavia, pur con questo rilievo critico, dobbiamo riconoscere a Nietzsche di aver portato alle sue estreme conseguenze l’intuizione che sta alla base di tutta l’ermeneutica. Non solo i testi richiedono interpretazioni, non solo i discorsi o le esperienze spirituali, ma ogni atto umano è inserito in un flusso e in un conflitto di interpretazioni. Interpretare, con Nietzsche, diventa la normale dimensione del nostro rapporto con la realtà. E, si badi bene, senza che ciò implichi il richiamo ad un’interpretazione vera, autentica. Le interpretazioni non sono un modo storicamente determinato per pensare il fondamento del reale. Tale fondamento, infatti, non c’è.

Genealogia della morale. Uno scritto polemico (Zur Genealogie der Moral. Eine Streitschrift)

1887

Morale dei signori e morale del gregge «Siamo ignoti a noi medesimi, noi uomini della conoscenza, noi stessi a noi stessi: è questo un fatto che ha le sue buone ragioni. Non abbiamo mai cercato noi stessi - come potrebbe mai accadere, un bel giorno, di trovarsi?» Mettere in discussione la morale stessa attraverso categorie non morali (psicologia, storia, ecc.) è paradossalmente il risultato di un atteggiamento morale: la volontà di verità. SI tratta quindi di un’auto-soppressione. La genealogia della morale mostra che l’origine dei concetti e delle istituzioni della moralità non è morale, ma storicamente determinata. «L’uomo ha attribuito a tutto quanto esiste un rapporto con la morale e ha appeso alle spalle del mondo un significato etico. Ciò finirà per avere altrettanto valore, e non più, di quanto abbia oggi la credenza nel genere maschile o femminile del sole». In realtà c’è soltanto un’interpretazione morale dei fenomeni, ovvero una lettura morale dei fenomeni del mondo.

Valutazione morale Il problema morale rientra nel generale problema della valutazione e del valore. (Nel lessico filosofico, il concetto di “valore” proviene dall’economia politica, e diventa significativo proprio con N.) La moralità non è un elemento originario; al contrario, la valutazione (ossia l’attribuire un valore) è sempre stata parte della storia dell’uomo. I valori quindi non sono oggettivi, vengono attribuiti dagli uomini e dipendono dagli uomini. Termini come ‘buono’ e ‘cattivo’ furono originariamente impiegati da uomini forti, superiori, per connotare, ossia valutare, se stessi, e distinguersi da ciò che non è ‘buono’, ossia debole, plebeo. Questo modo di valutare è fondato sul «pathos della distanza»: i forti non hanno rancore verso i deboli, ma nella sopraffazione semplicemente affermano se stessi. La valutazione aristocratica non funge da guida di condotta, né è impersonale e universale, caratteristiche invece della valutazione morale. L’origine della moralità è in un sistema di valutazione del tutto diverso da quello aristocratico. Con l’ebraismo e il Cristianesimo si è prodotta una rivoluzione del sistema dei valori dai forti ai deboli («rivolta degli schiavi»). Alla base di questa rivolta c’è un fattore psicologico: il risentimento come forma di rancore dei deboli verso i forti. La reazione è l’unico modo in cui i deboli possono agire: è un agire “reattivo” del debole che cerca di affermare se stesso solo in opposizione ad altri. Così ha origine il sistema della moralità, come modo di vita e valutazione in cui i valori aristocratici vengono ribaltati.

Modo di valutazione non morale

• modo originario di valutazione • buono = forte = aristocratico • valutazione riferita agli individui • affermazione del proprio valore • ordine gerarchico tra gli uomini (forti > deboli)

Modo di valutazione morale

(civiltà ebraico-cristiana) • modo derivatodi valutazione • buono = debole = umile • valutazione riferita alle azioni • uguaglianza tra gli uomini

Risentimento dei deboli nei

confronti dei forti

Negazione del predominio dei forti e

rovesciamento dei valori aristocratici

La morte di Dio è la negazione dell’oggettività dei valori e la consapevolezza che la civiltà europea ha bisogno di una radicale trasvalutazione (riorientamento) dei valori.

Nichilismo: manca il fine; manca la risposta al "perché?". Che cosa significa nichilismo? – che i valori supremi perdono ogni valore. (VIII, Il, 12) Secondo Nietzsche il nihilismo è un fenomeno ambivalente. La morte di Dio, cioè il venire meno dei valori tradizionali, diventa il filo conduttore per: • interpretare la storia occidentale come decadenza • fornire una diagnosi critica del presente • aprire la possibilità di una nuova posizione di valori Nietzsche interpreta sempre più nettamente questo processo storico in termini di «nichilismo». Il nichilismo è dunque la «mancanza di senso» che subentra quando viene meno la forza vincolante delle risposte tradizionali al «perché?» della vita e dell'essere, e ciò accade lungo il processo storico nel corso del quale i supremi valori tradizionali che davano risposta a quel «perché?» - Dio, la Verità, il Bene - perdono il loro valore e periscono, generando la condizione di «insensatezza» in cui versa l'umanità contemporanea. Scrive Nietzsche in uno dei frammenti stesi per la prefazione alla progettata opera La volontà di potenza: «Descrivo ciò che verrà: l'avvento del nichilismo (...). L'uomo moderno crede sperimentalmente ora a questo, ora a quel valore, per poi lasciarlo cadere; il circolo dei valori superati e lasciati cadere è sempre più vasto; si avverte sempre più il vuoto e la povertà di valori; il movimento è inarrestabile - sebbene si sia tentato in grande stile di rallentarlo. Alla fine l'uomo osa una critica dei valori in generale; ne riconosce l'origine; conosce abbastanza per non credere più in nessun valore; ecco il pathos, il nuovo brivido». (VIII, II, 266-65). E in un rifacimento dello stesso brano si chiede: «Perché infatti è ormai necessario l'avvento del nichilismo? Perché sono i nostri stessi valori precedenti che traggono in esso la loro ultima conclusione; perché il nichilismo è una logica pensata sino in fondo dei nostri grandi valori e ideali - perché dobbiamo prima vivere il nichilismo, per accorgerci di quel che fosse propriamente il valore di questi “valori”» (VIII, II, 393-94). Secondo Nietzsche il processo della svalutazione dei valori è il tratto più profondo che caratterizza lo svolgimento della storia del pensiero europeo, che è quindi la storia di una decadenza: l'atto originario di tale decadenza è già presente nella fondazione della dottrina dei due mondi a opera di Socrate e Platone, vale a dire nella postulazione di un mondo ideale, trascendente, in sé, che in quanto mondo vero è sovraordinato al mondo sensibile, considerato invece come mondo apparente. «Non è lecito interpretare il carattere generale dell'esistenza né col concetto di "fine", né col concetto di 'unità", né col concetto di "verità ”». Si finisce per inibire ogni principio organizzatore e ogni trascendenza e per ammettere come unica realtà il mondo nel suo eterno fluire e divenire: il problema è che quest’ultimo appare privo di senso e di valore.

Solo con il maturare di quello che Nietzsche chiama il nichilismo completo viene distrutto, insieme ai vecchi valori, anche il luogo che essi occupavano, cioè il mondo vero, ideale, soprasensibile. •Tale nichilismo è dapprima un nichilismo passivo, cioè un segno di «declino e regresso della potenza dello spirito», incapace di raggiungere i fini finora perseguiti. La sua manifestazione per eccellenza è la trasformazione e l'assimilazione del buddhismo orientale nel pensiero occidentale, con la coltivazione dello struggimento nel Nulla, già presente nei romantici ma alimentato soprattutto dalla filosofia schopenhaueriana. •Il nichilismo completo si manifesta successivamente come nichilismo attivo, cioè come un segnale della «cresciuta potenza dello spirito» la quale si esplica nel promuovere e nell'accelerare il processo di distruzione (VII, n, 12-13; n. 9 [35]).

Nietzsche chiama estrema la forma di nichilismo attivo che toglie di mezzo non solo i valori tradizionali, quindi la visione morale del mondo e lo stesso valore di verità, ma anche il luogo soprasensibile che tali valori occupavano: La forma estrema del nichilismo sarebbe il sostenere che ogni fede, ogni tener per vero sia necessariamente falso: perché non esiste affatto un MONDO VERO. Dunque: un’illusione prospettica, la cui origine è in noi {avendo noi costantemente bisogno di un mondo ristretto, abbreviato, semplificato) (VIII, II, 15). Solo con l'abolizione del luogo ideale dei valori tradizionali si fa spazio alla possibilità di una nuova posizione di valori. In riferimento al fatto che in tal modo il nichilismo estremo crea spazio e viene allo scoperto, Nietzsche parla pure di nichilismo estatico (VIII, II, 222). Il carattere negativo che inerisce al nichilismo come tale assume qui una declinazione positiva nella misura in cui tale nichilismo rende possibile la nuova posizione di valori basata sul riconoscimento della volontà di potenza quale carattere fondamentale di tutto ciò che è. Giungendo ad aprire di nuovo la possibilità dell'affermazione, il nichilismo supera la sua incompletezza e diventa compiuto; diventa nichilismo classico. È questo il nichilismo che Nietzsche rivendica come proprio quando dice di essere «il primo perfetto nichilista d'Europa, che però ha già vissuto in sé fino in fondo il nichilismo stesso - che lo ha dietro di sé, sotto di sé, fuori di sé» (VIII, II, 393).” Perché infatti è ormai necessario l'avvento del nichilismo? Perché sono i nostri stessi valori precedenti che traggono in esso la loro ultima conclusione; perché il nichilismo è una logica pensata sino in fondo dei nostri grandi valori e ideali - perché dobbiamo prima vivere il nichilismo, per accorgerci di quel che fosse propriamente il valore di questi «valori» (VIII, II, 393-94).