Vol xii - Del metodo sociologico (1959) - Studi e polemiche di sociologia (1933-1958)

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DEL METODO SOCIOLOGICO

1950

STUDI E POLEMICHE DI SOCIOLOGIA

1933-1958

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O P E R A O M N I A D I

L U I G I S T U R Z O

P R I M A S E R I E

OPERE

VOLUME XII

DEL METODO SOCIOLOGICO

1950

STUDI E POLEMICHE DI SOCIOLOGIA

1933-1 958

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9 DEL METODO SOCIOLOGICO

STUDI E POLEMZCHE

DI SOCIOLOGIA

ZANICHELLI BOLOGNA

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L'WITORE ADEMPIUTI I DOVEBI

ESEPCITEBÀ I DIRITII SANCITI DALLE LEGGI

Tipografia Luigi Parma S.p.A. - Bologna I - 1970

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PIANO DELL' OPERA OMNIA DI LUIGI STURZO PUBBLICATA A CURA DELL'ISTITUTO LUIGI STURZO

PRIMA SERIE: OPERE

I - L'Italia e il fascismo (1926). I1 - La comunità internazionale e il diritto di guerra (1928). I11 - La società: sua natura e leggi (1935). IV - Politica e morale (1936). - Coscienza e politica. - Note e sug.

gerimenti di politica pratica (1952). V-VI - Chiesa e Stato (1939). VI1 - La Vera vita - Sociologia del soprannaturale (1943). VI11 - L'Italia e l'ordine internazionale (1944). IX - Problemi spirituali del nostro tempo (1945). X - Nazionalismo e internazionalismo (1946). XI - La Regione nella Nazione (1949). XII - Del metodo sociologico (1950). - Studi e polemiche di sociolo-

gia (1933-1958).

SECONDA SERIE: SAGGI . DISCORSI - ARTICOLI

- L'inizio della Democrazia in Italia. - Unioni professionali - Sintesi sociali (19W1906). - Autonomie municipali e problemi amministrativi (1902-1915). - Scritti e discorsi durante la prima guerra (1915-1918). - I1 partito popolare italiano: Dall'idea al fatto (1919). - Riforma - statale e indirizzi politici (1920-1922). - I1 partito popolare italiano: Popolarismo e fascismo (1924). - I1 partito popolare italiano: Pensiero antifascista (19241925). - - La libertà in Italia (1925). - Scritti critici e bibliogafici (1923-

1926). - Miscellanea londinese (1926-1940). - Miscellanea americana (1940-196). - La mia battaglia da New York (1943.19%). - Politica di questi anni. - Consensi e critiche (1946-1959).

TERZA SERIE: SCRITTI VARI

I - I1 ciclo della creazione (poema drammatico in quattro azioni). Versi. - Scritti di letteratura e di arte.

I1 - Scritti religiosi e morali. I11 - Scritti giuridici. IV - Epistolario scelto. V - Bibliografia. - Indici.

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AVVERTENZA

Il saggio Del metodo sociologico - Risposta ai critici D, è stato fra i primi ad essere pubblicato i n italiano, dopo i l ritorno d i Luigi Sturzo dall'esilio.

Nel 1950 infatti esso apparve nell'edizione dell'lstituto Zta- liano Edizioni Atlas d i Bmgamo di cui qui di seguito riportiamo la prefazione, scritta da Sturzo stesso e che fa la storia del con- tenuto del volume.

Nella presente edizione, i n considerazione del carattere d i Opera Omnia, non si è ritenuto opportuno riprodurre i saggi d i Paul H. Furfey e di Robert C. Pollock, che comparivano nella citata edizione del 1950. Si riporta invece i n nota la recemione di Giuseppe Marche110 sulla « Sociologia storicista di Luigi Sturzo in quanto essa era stata la causa del Post-Scriptum che costituisce i l cap. VI1 della K Risposta ai crìtici n.

Nella seconda parte sona stati poi raccolti i saggi d i carattere sociologico che Sturzo ebbe a scrivere i n anni che vanno dal 1933 al 1958. Alcuni di questi (ad esempio i saggi sul corporativismo) hanno numerosi e precisi riferimenti alla situazione politica del momento. Tuttavia la particolare angolazione sotto cui gli avve- nimenti vengono comiderati, hanno fatto preferire la loro col- locazione in questo volume piuttosto che in quello d i saggi sto- rico-politici, che pure farò parte dell'opera Omnia.

Le note a pié di pagina sono dell'dutore. La collazione degli scritti è stata curata da Maria Tmesa Ga-

rutti Bellenzier.

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PREFAZIONE ALLA la ED. ITALIANA (*)

Questo volume nacque così: la Luigi Sturzo Foundation for Sociological Studies aveva promosso nel 1945 due serie d i lezioni sulla mia sociologia: una a Washington e l'altra a New York.

Ne fu decisa la pubblicazione e mi fu chiesto uno studio ori- ginale, che io feci dandovi il titolo: Del metodo sociologico. In- tanto vennero pubblicate due recensioni critiche sul mio: Inner Laws o f Society, la prima su The American Catholic Sociological Review (Chicago, luglio-ottobre 1943) e la seconda su T h e Tho- mist (Washington, ottobre 1945), alle quali credetti bene rispon- dere con lo studio: Ai miei critici.

Il volume che ne venne insieme ad altri saggi sociologici, do- veva veder la luce a New York, nel 1947, ma per una serie d i rinvii da parte della casa editrice (che non ha mai voluto ricon- segnare il manoscritto) il libro è rimasto fin oggi inedito.

Così questo libro, diretto al pubblico americano, è i n Italia che viene fuori nella sua parte originale e senza l'aggiunta d i quei Saggi che nella presente collezione avranno posto i n altro volume.

Questo è il settimo della Serie la dell'Opera Omnia. Invece di seguire l'ordine della serie si è creduto darvi preferenza per- chè gli scritti che lo compongono sono strettamente legati al l o volume già pubblicato: La società, sua natura e leggi, tanto per i miei due lavori quanto per l'impostazione data ai loro scritti dai due studiosi americani, che hanno rivolto l'attenzione sulla mia teoria sociologica.

Il primo è preside clella facoltà di sociologia all'università cattolica di America in Washington, Dr. Paul H. Furfey, autore

( I ) Istituto Italiano Edizioni Atlas, Bergamo, 1950.

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d i varii volumi d i sociologia assai d i fus i i n America (l). Egli, in due lezioni tenute ad MacMahon Auditorium d i Washington, espose il mio pensiero sociologico su due punti fondamentali: la società i n concreto e il fattore soprannaturale nella società umana. Piazzandosi sul terreno sociologico e mostrando la legit- timità e completezza della mia teoria quale vera sociologia, tenne a escludere qualsiasi svalutazione d i quegli altri studi sociolo- gici, tanto i n voga in America, che prescindono da implicazioni teoretiche e che si attengono all'analisi dei fatti sociali, alla de- scrittiva morfologica, alla fenomenologia sociale, alle classifica- zioni statistiche e simili. Allo stesso tempo, dando rilievo al mio pensiero, si opponeva alla corrente concezione positivista della sociologia, che induce o a trascurare o a negare i valori trascen- dentali dell'uomo, sia naturali che soprannaturali.

Il dott. Robert C. Pollock, ordinario d i storia della filosofia alla Fordham University ( 2 ) nelle sue tre lezioni tenute nella sede della New Graduate School di New York , cercò di rilevare il lato filosofico e storico della mia sociologia inquadrandolo nei tre punti: l'uomo come individuo sociale - la storia come pro- cesso di razionalità e di liberazione - il cristianesimo e la libe- razione storica e sociale dell'uomo.

Egli scrisse pure un'introduzione al volume che dovrà ancora apparire i n America, introduzione che viene premessa alle tre lezioni che prendono il titolo de L'uomo nella società e nella storia.

Mentre i l dr. Furfey tiene presente da u n lato i sociologi po- sitivisti e dall'altro i sociologi cattolici americani, e il suo scritto te& a dare cittadinanza americana alla mia sociologia, che si diferenzia dalle due correnti che ormai si dividono i l campo; il dr. Pollock ha presente nel suo scritto da u n lato la corrente naturalista e pragmatista della filosofia americana che fa capo

(2) I più noti sono: Three Theories of Soeiety (New York: Macmillan 1937); - A History of Social Thought (New York: Macmillan 1942); - The Mystery of Zniquity (Miiwaukee: Bruce 1944).

(3) Notevole ii lavoro su William James' Thought (The Devin Adair Company, in The Great Boohs); in corso di pubblicazione: The Baris of a Philosophical Anthropology.

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al vecchio filosofo John Dewey e dall'altra a quello spiritualismo a tipo astrattista, che si mantiene lontano dallo studio delle realtà concrete o che tende a trascrivere il concreto in formule astratte che lo evaùono.

Per quanto i due lavori del Furfey e del Pollock siano ma- turati i n clima americano, e quindi prospettino i n tale luce la funzione della mia sociologia, non sono a f atto estranei agli orien- tamenti del pensiero italiano, che dopo le due esperienze, la po- sitivista prima e la idealista dopo, ambedue afet te da congenito astrattismo, va in cerca di u n realismo sia filosofico che storico, che meglio soddisfi le esigenze teoretiche e pratiche dell'attività umana.

Se il Blondellismo può dare una propria e caratteristica ri- sposta all'istanza filosofica d i pensiero e azione, la sociologia sto- ricista ( o integrale) della quale io m i son fatto assertore, può rispondere, in se& propria, alla stessa istanza trasportata dal mondo della speculazione a quello delle realizzazioni.

È per questo che il presente volume, nelle sue due parti, la metodologica e polemica d i chi scrive, la espositiva e orienta- trice dei due studiosi americani, acquista u n valore di attualità per quanti reputano che la sociologia debba in Italia essere riva- lutata e rimessa i n linea con le acquisizioni sociologiche degli altri paesi, nel suo carattere integrale e stoncista, quale scienza della cc società i n concreto 1).

Roma, 4 dicembre 1949.

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DEL METODO SOCIOLOGICO

RISPOSTA AI CRITICI

1. Srnezo - Del i\lctodo Sociologico

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Cap. I

RICERCHE ED ESPERIENZE

Si può dissertare sul metodo in generale e fissarne i criteri accettabili per tutte le scienze; ma nessuno può negare che ogni tipo di scienza ha un metodo proprio e che ogni autore può adottare un particolare metodo ai fini del suo lavoro. Per quanto nessuno possa facilmente abbandonare i criteri metodologici co- munemente accettati in data epoca, in dato paese, per data scien- za, senza distaccarsi dalla comunità di pensiero e quindi per- dere efficacia presso il pubblico a cui dirige i suoi scritti, pure c'è un margine - più o meno largo - di iniziativa privata (chia- miamola così) che non può trascurarsi, e può anche riuscire utile, col tempo e per sopraggiunti consensi, a dare cittadinanza a nuo- vi metodi nella comunità scientifica o letteraria.

Per introdurre nel sistema e darvi una giustificazione di fatto, penso che sarà utile descrivere la strada da me percorsa, nelle varie ricerche sociologiche, non certo con l'idea di trovare un metodo (a l quale io non pensavo affatto) ma allo scopo di stu- dio e di ricerca.

Prendo uno dei vari tentativi giovanili non condotti a ter- mine perchè interrotto da altre preoccupazioni di vita: lo studio sul socialismo. Siamo al 1898; tornato da Roma in patria fui nominato professore di filosofia ; più tardi mi fu affidato un corso di sociologia. In quel periodo il socialismo interessava in Italia molti studiosi: Antonio Labriola ne era i l filosofo; Benedetto Croce lo seguiva per poi distaccarsene ; Giuseppe Toniolo vi con- trapponeva l'organizzazione corporativa del lavoro.

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La mia prima idea fu di scrivere sul socialismo dal punto di vista filosofico. Antonio Labriola era astruso e seducente; la li- nea mi sembrava tracciata dal mio presunto antagonista. Ma la- vorando e scrivendo mi accorsi che la filosofia mi portava lon- tano dal dibattito del momento. Scelsi allora come terreno con- creto d i studio quello delle organizzazioni professionali operaie, e pubblicai un primo volume dedicato a Toniolo (l) . Ebbe un certo successo e Toniolo stesso m'incoraggiò a dedicarmi ancora di più ai problemi sociali dal punto di vista pratico. Allora, in pieno lavoro filosofico, questa proposta non mi seduceva: io cer- cavo le soluzioni filosofiche dei problemi sociali e lo studio che ne venne fuori l'anno appresso fu: Lotta d i classe legge d i pro- gresso )) ('). La tesi, ardua ma realistica, era basata sulla doppia visione del processo storico che i l cammino dell'umanità verso la realizzazione è fatto di lotte, e del concetto sociologico che l e lotte storiche s'incentrano in quella che modernamente è chia- mata lotta di classe n. Lo studio era assai più sul piano delle teorie filosofiche che su quello delle esperienze storiche; ma tenendo per base la concezione spiritualistica cristiana contro quella materialista di Marx, mettevo in luce (tentativamente al- lora) quella che nei miei lavori sociologici della maturità do- vevo chiamare legge di immanenza-trascendenza (3).

In questi e altri tentativi sentivo già la debolezza del sistema di alimentare troppo i miei studi sociologici di teorie filosofiche, attribuendo a queste un'eccessiva efficacia sulla realtà storica.

Di ciò mi accorsi studiando le basi del socialismo. Cominciai col riassumere le idee dei recenti precursori da Saint-Simon in poi e fermandomi su Icarl Marx. Che quello fosse il socialismo pratico ed effettivo dei partiti e dei sindacati, proprio quello che interessava le masse, non mi risultava chiaro, sia nell'atti- vità organizzativa d i operai e contadini nelle cooperative e nelle leghe, sia nell'investigazione delle debolezze di miei oppositori

(l) LUIGI S ~ u n z o , L'organizzazione d i classe e le unioni professionali, Roma, 1901. Ora in Sintesi sociali, Bologna, 1961, pp. 131-189.

(2) Milano, 1903, poi ristampata nel volume u Sintesi sociali n, Roma, 1906; ora in Sintesi sociali, Bologna, 1961, pp. 24-56.

(3) Vedi: LUIGI STURZO, La società, sua natura e leggi. Bologna, 1960.

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socialisti. Anzi avevo ragione a credere che il marxismo pro- fessato dai capi fosse per la grandissima maggioranza una ban- diera di rivolta, non una convinzione scientifica o politica.

Quel mio schizzo sulle teorie socialiste restò fra gli appunti senza alcun seguito; mi diedi, invece, a cercare quali in mezzo secolo erano stati gli effetti pratici della teoria marxista nel pen- siero scientifico, nella vita politica e nell'organizzazione operaia. Le ricerche e gli studi che mi imponeva il tema erano troppo vasti; una grave malattia che mi portò agli estremi e mi obbligò per lunghi mesi a riposo forzato, interruppe i miei piani. Gli eventi successivi mi sbalzarono in pochi anni nel turbinio della vita pubblica locale e nazionale. Ciò non ostante l'idea fissa nelle mie ore di studio e di ricerche fu quella di indagare la realtà « sociale », e in essa trovare l'influsso delle idee sui fatti, e stu- diare quale fosse il tramite effettivo, psicologico e morale, di tale influsso.

I1 primo risultato metodologico che ne ottenni, solo come at- teggiamento mentale divenuto quasi abituale, fu di non guardare le teorie filosofiche sulla società (quelle allora mi interessavano d i più) come schemi assoluti, e sub specie aeternitatis, ma nel loro quadro storico, come riflesso dell'ambiente nel quale si era- no sviluppate e come semi di altre teorie e loro applicazioni. I1 mio storicismo nacque di là.

Temevo di prendere cattiva strada e finire in un relativismo inconcludente e pernicioso, e quindi mi tenevo aggrappato ai principi fondamentali della filosofia cristiana, pur seguendo l a tendenza storica dei miei studi.

I1 tema principale delle mie ricerche era sempre il sociali- smo, non solo come fenomeno particolare dell'industrialismo moderno, ma come tendenza delle masse, in relazione all'eco- nomia sociale delle varie epoche, dall'antichità ad oggi.

Da un lato mi risultava evidente che le grandi masse lavo- ratrici erano state sempre e sotto ogni regime economico og- getto di sfruttamento delle classi possidenti, e dall'altro lato, che senza grandi crisi, rivolte o guerre, esse mai avevano otte- nuto seri miglioramenti.

Due teorie allora prevalevano nel campo del pensiero laico: quella dei liberali, che in nome della libertà e autonomia indi-

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viduale affidavano il miglioramento al libero gioco delle forze sociali; l'altra, la marxista, che in nome del materialismo sto- rico trovava la via liberatrice nella lotta di classe.

Di fronte a queste teorie, che già espenmentavano la loro potenzialità, i filosofi.cristiani avevano buon gioco nel criticarne le premesse e lo spirito, ma mancavano di presentare una teoria che potesse ottenere l'adesione degli studiosi o eccitare l'aspet- tazione delle masse così duramente colpite.

I1 provvidenzialismo, sia quello della chiesa - nella sua lun- ga varia e importante funzione storica - come quello dello stato tenuto sempre dalle classi alte e medie, ripugnava allo spi- rito di libert,à e autonomia individuale ed era insufficiente di fronte all'ingigantirsi dei problemi sociali che la stessa libertà politica aveva portato nel dibattito pubblico.

Evidentemente, i l provvidenzialismo sociale non ha mai ces- sato di funzionare; gli stessi liberali furono costretti dalle agi- tazioni operaie e dall'intervento d i forze morali - corpi religiosi e culturali, società umanitarie - a proporre delle leggi sociali e a provvedere ai crescenti bisogni del proletariato; e dall'altra parte i socialisti e partiti affini quali i democratici cristiani, so- stennero aspre battaglie perchè lo stato intervenisse nella stessa economia privata a proteggere i diritti dei lavoratori. La diffe- renza fra il tradizionale provvidenzialismo e i l moderno inter- ventismo è assai profonda: in quanto il primo si appoggiava a motivi di pratica politica ( lo stato) o di carità religiosa ( la chiesa), mentre i liberali limitavano il diritto d'intervento alle funzioni pubbliche dello stato (istruzione, igiene, tassazione); i socialisti ne facevano uno strumento di perequazione economica e di livellamento sociale; i democratici cristiani un dovere so- ciale delle classi dirigenti.

Liberalismo, lotta d i classe, provvidenzialismo, interventi- smo erano mezzi pratici che domandavano una teoria della so- cietà nella quale venissero inquadrati, una filosofia che l i ani- masse. Lo stesso materialismo storico di Marx non poteva essere preso come una dialettica ciclica, senza sbocco. E la dialettica d i Hegel (da cui Marx derivava traducendo u l'Idea » in u Fatto economico) mal si adattava alla credenza nel u Progresso », alla quale credenza si collegava la teoria della u evoluzione », ap-

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plicata alla società, quasi come un processo infallibile verso un migliore futuro dell'umanità. A questo futuro si invocavano la scienza (disimpegnata dalla teologia e dalla filosofia); la 1ibert.à (sciolta dai vincoli religiosi e perfino etici); l'economia socializ- zata e messa a servizio del popolo (senza privilegi di classe e monopoli di stato).

L'opposizione a simili teorie veniva in primo luogo dai cat- tolici, che facevan valere la funzione del libero arbitrio indivi- duale, contro qualsiasi forma anche implicita di determinismo, ma anche dagli storici, che facevano notare come la tendenza al progresso pur generica e insita in tutte le attività umane, non era mai stata nè costante, nè lineare, nè ugualmente attuata. Vi fu contrapposta la teoria della creatività storica e dello stori- cismo idealista, la quale, pur sembrando di assegnare all'attività individuale una vera efficienza storica e sociale, finiva con ridurla a fenomeni dell'« Idea » che si realizza, e dello « Spirito » che si attua, del quale lo Stato-potenza sarebbe (alla Hegel) la espres- sione più completa.

Era naturale che, non soddisfatto delle teorie predette, e ri- conoscendo da filosofo il bisogno di una teoria a cui riferire i fatti storico-sociali (nel caso mio: il socialismo), riprendessi al punto ove l'avevo lasciata la ricerca d i quella legge sociologica atta a spiegare il complesso dei fenomeni sociali che incidevano sulle condizioni delle classi lavoratrici.

Storicamente era evidente che gli uomini per progredire do- vessero lottare fra di loro; ma era pure evidente che ridurre tutte le lotte ad un fatto economico che ne fosse l'unico occulto o palese movente, era non solo contrario alla psicologia umana e alla complessità dello spirito, ma anche antistorico. Sotto que- sto punto di vista, la mia concezione giovanile della lotta sociale quale legge di progresso doveva essere superata da un principio più generale e più rispondente al carattere dell'uomo.

I1 significato d i questa lotta perenne fra gli uomini era la mia ricerca dell'ora, perchè se si fosse eliminata la lotta, l'umanità sarebbe caduta in una stagnazione, dove ogni progresso verrebbe

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fermato, dove le crisi non avrebbero avuto sbocchi, dove i re- gressi non avrebbero avuto reazioni, come in certo modo può riscontrarsi nel sistema delle caste chiuse. Così, continuando gli studi e le ricerche, leggendo libri stimolanti come quelli del Sorel o del Mosca o densi di dati ma deprimenti per le teorie e per l'orientamento come quelli del Max Weber o di Pareto, arrivai alla tesi che in ogni società, grande o piccola, iniziale o progredita, mano a mano che si sviluppa nell'organizzazione e nella cultura, stanno in contrasto in tutti i campi due forze, quel- la conservatrice e quella progressiva; la prima che può arrivare ad essere reazionaria e la seconda rivoluzionaria. Senza queste due forze in azione nessuna società può progredire; dall'altro lato, se non si arriva a formare un equilibrio tra la conservazione e i l progresso, la società o cade nella stagnazione e diviene sterile, ovvero passa alla crisi convulsiva delle guerre e delle rivoluzioni.

La classifica di forze conservatrici e forze progressive era co- mune; altri le chiamava reazionarie e liberali, ovvero organiz- zative e mistiche, ovvero realistiche e idealistiche. Nessuna ci- viltà sviluppata va immune di tali forze, la chiesa o lo stato, la società economica e la culturale, i regni e gli imperi e così via fino ai primi nuclei sociali: famiglie, classi, città.

Non si trattava di scoperta quasi fosse l'uovo d i Colombo; per me era il punto di partenza per allargare le verifiche socio- logiche a cui attendevo e per trovare la legge fondamentale alla quale potesse venire attribuito il fenomeno moderno del socia- lismo.

I1 polarizzarsi di forze nella società non portava necessaria- mente alla lotta antagonista, potendo tali forze anche entrare in collaborazione e in sintesi, sia pure temporanee, ovvero essere unificate in una istanza superiore, politica o ecclesiastica. Que- ste osservazioni confortate dai dati storici ed estese in campi diversi da quello dei rapporti economici fra le classi, mi fecero reintrodurre nello studio della sociologia l'elemento, spesso tra- scurato, della libertà sia individuale (da tradursi in libera ini- ziativa) sia collettiva come pre-condizione di attività politica e sociale.

Allora potei arrivare ad un dato che non mi pare sia messo molto in luce dai sociologi, che il gioco di forze sociali si svi-

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luppa normalmente dove c'è un sufficiente margine di libertà. Tutto al contrario di quello che i sostenitori del determinismo sociale possono concepire, la prova storica è dal lato della inizia- tiva umana in quanto libera, che trova campo a svilupparsi pro- prio in grazia di una precedente libertà, sia questa consentita dalle leggi, sia usurpata surrettiziamente, sia conquistata per audacia.

Così si spiega il fatto che le classi sociali operaie stiano arri- vando tardivamente e solo da un secolo a conquistare uguaglianza civile, posizione politica e partecipazione economica all'impre- sa; che la schiavitù e la servitù della gleba siano durate lunghi millenni e non siano del tutto scomparse; che antiche conquiste sociali, pur limitate, siano state perdute per lunghi periodi e poi riapparse sotto altra forma.

Ed ecco la necessità, per i miei studi, di accertare donde venisse che i margini di libertà, mentre erano grandi per alcune classi o gruppi o istituti sociali (nel tardo medioevo era in auge la classe universitaria e nella rinascenza la classe degli uma- nisti e artisti, in altri periodi le città libere e le gilde di mestiere, i mercanti, le compagnie di ventura o gli ordini religiosi) erano, per i contadini, braccianti agricoli, lavoratori non corporati e simili, addirittura infimi o inesistenti. Nel periodo semi-liberale del principio del secolo XIX, pur con la conquista di libertà politiche che segnò l'avvento della borghesia, le condizioni operaie erano in molti settori aggravate, in paragone di quelle dei secoli precedenti, dato lo sfruttamento che ne faceva la inci- piente grande industria la quale, dovendo per prosperare basarsi sul lavoro salariato, affermava la sua libertà a danno della clas- se operaia.

Ritornavo quindi a rifare lo studio dei gruppi antagonisti. T1 conflitto fra gli interessi prestabiliti ( e quindi da conservare) delle classi possidenti e quelli dei non possidenti che tendono a migliorare, nasce più che altro dal fatto della impermeabilità della loro struttura. Non c'è passaggio diretto da lavoratore a imprenditore, non c'è combinazione fra operaio salariato e padrone capitalista. Questa impermeabilità non è un fatto eco- nomico: in società primitive e in economia familiare tale con- dizione non è richiesta dal tipo di economia, ma solo imposta

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per pregiudizi sociali o per sfruttamento schiavista. I1 fatto è sostanzialmente extraeconomico e da classificarsi come <r poli- tico-sociale ».

I1 possidente per difendere il suo privilegio e mantenere il suo rango unisce il possesso al potere e lo fa valere sopra coloro che non possedendo sono mantenuti politicamente soggetti, e quindi privati di libertà economica. La proibizione, fatta a prin- cipio del secolo scorso in nome della libertà, perchè non fossero consentite associazioni per la tutela del lavoro, fu la più aperta violazione di quella stessa libertà che s'invocava. Saltava evi- dente agli occhi che la libertà individuale lasciava i l debole senza difesa e che la autonomia dei nuclei organici (come le gilde O

corporazioni o unioni di arti e mestieri) serviva a fissare troppe limitazioni tanto allo stato, come potere politico, quanto agli individui, impedendone le libere iniziative.

Lo studio dei rapporti fra classe politica (ruling class) e classi possidenti mi portò a costatazioni sociologiche interessanti circa la reciproca limitazione fra gli interessi privati (possesso di beni) e gli interessi pubblici (potere), e circa il reciproco aiuto per mantenere possesso e potere in gruppi determinati, dai quali normalmente erano escluse le classi lavoratrici.

Esposi questa tesi in un saggio, molto posteriore di tempo, pubblicato nel volume Politics and Morality col titolo Possession and Power, (4) mettendo in luce gli effetti della disintegrazione individualistica dell'economia e della politica avvenuta con le rivoluzioni dei secoli decimottavo e decimonono. I1 problema, così impostato, merita un maggiore approfondimento dal punto d i vista della sociologia. A me servì il richiamo per un più largo studio della struttura della società e delle sue leggi.

Lo stretto angolo dei problemi economici si allargò verso quelli politici; lo studio della struttura delle classi sociali mi condusse a quello della loro organicità e funzione storica; la necessità di penetrare il senso realistico delle teorie sociali dei vari tempi, antichi e moderni, mi obbligò a portare le ricerche sulle teorie filosofiche e il loro influsso in quelle economiche e politiche.

(4) London, B u m Oates and Washboum, 1938 - The Catholic World, New York, december 1938.

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La legge sociologica del dualismo di conservazione e riforma estesa a tutti i vari aspetti della vita sociale, mi diede la strada a sgombrare i residui del materialismo storico e a superare il monismo filosofico che, tanto l'uno che l'altro, hanno influito sulla cultura moderna. Ma, così formulata, non usciva fuori di una specie di flusso e riflusso di attività eventuali senza consi- stenza. Questa considerazione mi spinse a più mature riflessioni e a confronti storico-sociologici più approfonditi, che mi con- dussero alla constatazione che il dualismo di forze tende a cri- stallizzarsi nei gruppi, nelle associazioni, negl'istituti della so- cietà, secondo i tempi e i luoghi, formando una certa « diarchia » di poteri. Introducendo questo concetto nella fenomenologia storico-sociologica, non trovai altro termine più espressivo che diarchia: da allora in poi questo è stato accettato da certi stu- diosi per caratterizzare i rapporti fra chiesa e stato (7; ma il principio deve estendersi a tutte le concretizzazioni sociali. Tale diarchia non è sempre istituzionale o definita; essa ha molti aspetti e diverse fasi, e, per la natura stessa della società, tende verso forme di unificazione.

L'idea di trovare nella società l'elemento unificatore seduce molti; ne fui sedotto anch'io, non ostante che in filosofia fossi decisamente opposto al monismo sia naturalistico sia idealistico. Dovevo però constatare che la tendenza all'unificazione esiste anche se la realizzazione sia parziale tanto nel proprio piano che in un piano superiore, per quei passaggi di trascendenza, che allora non vedevo chiari ma dei quali più tardi arrivai a fissare la legge In qualsiasi fase della società mai è stata raggiunta una vera unificazione, non ostante i molti tentativi che la stona ci presenta e che han portato solo a unificazioni parziali e temporanee, spesso seguite da crisi tali da dissolverle in una pluralità di forze centrihghe. Ma il processo sociale non

( 5 ) Vedi: LUIGI STURZO, Chiesa e stato, vll. 2, Bologna, 1958-59. ($) Vedi: LUIGI STURZO, La vera cita, Bologna, 1960, La società, sua

natura e leggi, Bologna, 1960.

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si arresta; si ritorna sempre dalla pluralità alla dualizzazione, e sempre con tendenza all'unificazione, e così di seguito.

La formulazione di una legge che desse a questo dinamismo un carattere umano e non deterministico fu il mio lavoro di lunghi mesi di meditazioni e d i ricerche; perché il dinamismo mi sembrava evidente dai dati storici raccolti; notavo però che l'esperienza storica e i principi di sana filosofia contrastavano a quella che poteva sembrare una dialettica chiusa in sé ed esau- rientesi in sé stessa, una specie di ciclo di forze cieche senza finalità interiore.

Ripresi allora l5dea di progresso sociale, ma pur eliminan- done ogni carattere deterministico, pur accettando per parziali conquiste temporanee, non trovavo il rapporto con il ciclo della dialettica delle forze sociali quale sopradescritto. Sostituii la parola progresso con quella di processo accettandola non da Hegel ma da Croce e senza le implicazioni della teoria crociana ; eliminai la parola evoluzione usando l'altra di sviluppo allo scopo di caratterizzare il divenire storico, fatto di progressi e di regressi, di sviluppi e di involuzioni, di spinte e d i soste. Infine dovetti convenire che non esiste alcuna specifica differenza fra l'attività dell'individuo e quella degli individui uniti in so- cietà, l'una e l'altra fatta insieme di ragione e di istinto, di idea- lità e di passioni, di generosità e di belluinità.

In sostanza lbnico e vero agente della società è l'uomo indi- viduo in quanto associato con altri uomini a scopi determinati. Bisogna escludere l'idea che la società sia un quid tertium va- riamente nominato ora stato ora classe ora famiglia ora religione, che agisce o che determina lhomo ad agire. L'uomo che agisce è spinto dalla sua stessa natura ragionevole e sensitiva, si deter- mina da sè ad agire secondo i bisogni e le tendenze e le esigenze della sua vita.

In questa attività, individuale e sociale allo stesso tempo, l'uomo sprigiona le sue forze, concretizza le sue iniziative, at- tua i suoi piani, in un mondo che lo condiziona e lo limita; ma al quale egli sembra rispondere con i l suo operoso volere per superarlo e dominarlo.

Non volevo perdere i guadagni che credevo di aver fatto in compagnia dei sociologi positivisti alla Durkheim circa la natu-

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ra della società che essi presentavano come entità extra-indivi- duale; nè quelli fatti i n compagnia degli idealisti hegeliani cir- ca la dialettica del pensiero e dell'attività umana. Bisogna con- fessare che guadagni ne avevo fatti, ma tali da obbligarmi a mettere via i principii che sono alla base delle due teorie sia nel campo sociologico che in quello storico.

I1 primo problema che dovevo risolvere era proprio quello del condizionamento, sul quale insistono i sociologi positivisti. Essi, iorse senza accorgersene, dànno al condizionamento un va- lore extra-umano esistente per sè e determinante lo stesso uomo. I1 mio metodo di ricerca storica mi portava a conclusione assai diversa. I1 condizionamento dell'attività umana può essere di- stinto in fisico, storico e sociale; altro è il condizionamento del- la natura: per esempio, il clima polare o il clima mite o quello torrido, le condizioni di abitabilità sulle coste marine, o sulle montagne e così via; altro è quello storico: un popolo che si è ingrandito nei secoli ed ha acquistato il dominio del mondo: Roma antica, l'Inghilterra del secolo XIX, l'America del XX se- colo; altro è l'ambiente sociale: quello di una classe, la capita- listica, la lavoratrice, la intellettuale; o quello della famiglia, po- ligamica o monogamica, cristiana o paganeggiante e così via.

I1 dato costante che si può ricavare dallo studio sociologico sul condizionamento è che l'uomo individuo o vi si adatta o ne evade; o lo subisce ovvero ne ha la spinta a superarlo. Ma in qualsiasi modo l'uomo reagisca al condizionamento, di esso non può fare a meno per la sua attività; solo può sostituire l'uno al- l'altro, sia volontariamente sia involontariamente per quella se- rie di casi che cambiano in meglio o in peggio la vita umana. In sostanza l'uomo non può agire senza essere condizionato, ma egli trova in sè la spinta a superare una data condizione che gl'impe- disce di agire, e a crearsi quel condizionamento che meglio ri- sponde alla spinta verso il benessere.

Così due principi regolano l'attività umana: quello interiore

della razionalità che lo spinge verso il bene - in qualsiasi modo appreso e voluto - e gli dà la facolt,à di determinarsi da sè; l'altro esterno del condizionamento, che gli dà la materia, i l li- mite e la spinta per agire. Ma i l primo e il secondo principio obbligano l'individuo ad agire in unione con gli altri, non po-

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tendo egli raggiungere altrimenti gli scopi della vita presente. Fuori della società l'individuo è destinato a isterilirsi e perire.

Avevo fatto già un primo elenco dei punti fermi sui quali costruire una teoria sociologica; i più importanti erano i se- guenti :

a) che la società s'identifica con la coesistenza d i individui cooperanti insieme a fini comuni;

6) che l'attività degl'individui è diretta dalla razionalità ed è limitata, e allo stesso tempo, spinta, dal condizionamento;

e) che nè la razionalità nè il condizionamento sono fattori deterministici dell'azione; l'uomo, che dalla prima ha la libertà interna' e dal secondo le possibilità esterne, mantiene un mar- gine sufficiente per la iniziativa individuale e per le esperimen- tazioni sociali ;

d) che per via del dinamismo delle forze sociali che si spri- giona da tali iniziative e sperimentazioni, la tendenza storica- mente accertabile della società è quella di passare, per fasi pro- cessuali C con crisi ricorrenti, dalla pluralità alla dualità verso lknificazione e così di seguito.

Mi sembrava di avere superato lo scoglio del determinismo sociale sia sottolineando il carattere veramente individuale-so- ciale della società in concreto; sia mettendo in evidenza la fun- zione della razionalità nella formazione e nello sviluppo della società ; sia chiarendo la portata del condizionamento quale mez- zo necessario dell'attività dell'uomo.

Cercavo ancora di coordinare gli elementi umano-razionali con l e fasi storico-sociali che sviluppate sul piano della dualità tendono sempre verso la unificazione. Se questa coordinazione fosse venuta a mancare, la società sarebbe stata il risultato di una dialettica extra-umana e senza sbocco.

La società non può mancare di una finalità che l'animi e che valga a mantenere associati gli individui fra di loro. Essendo, però, ogni finalità comune intesa dagl'individui secondo i l pro- prio modo di accettarla e di attuarla, la nucleazione sociale è per sè stessa molteplice e si concretizza in una pluralità di so-

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cietà coesistenti e naturalmente anche contrastanti non solo per interessi particolari in urto, ma anche per più larghe e succes- sive finalità da attingere. Onde lo stesso elemento finalistico (sia pure singolarmente appreso dagli uomini associati insieme) che ha individualizzato le varie società, dà la spinta verso posizioni dualistiche in lotta per un bene ( o per un creduto bene) supe- riore. Senza finalità in contrasto non vi sarebbe lotta, e senza lotta la società non supererebbe mai lo stadio pluralistico di sua natura caotico e non progressivo. Ma poichè la lotta non è che uno stadio transitorio per finalità particolari da attingere, la for- za vincente tenderà sempre ad unificare in sè l e forze antagoniste rimaste fuori di ogni coordinamento o subordinazione.

I1 ciclo dialettico delle forze sociali non può essere cieco: perchè l'esperienza ce lo mostra finalistico: ottenere un bene reale o creduto tale, per il quale valga la pena agire e lottare. Diciamo: a un bene reale o creduto tale perchè il finalismo umano è segnato dalla razionalità che valuta, coordina ed espri- me i bisogni dell'uomo (materiali e spirituali) in un'istanza SU-

periore. Quella stessa ragione che coordina ed esprime tutta la vita personale di ciascun uomo, coordina ed esprime la vita col- lettiva degli uomini in società. L'uomo singolo può errare per ignoranza o per passione; così gli uomini associati insieme pos- sono errare per ignoranza e per passione. La razionalità - p i d a dell'azione - può divenire pseudo-razionalità o irrazionalità, pus mantenendo la sua posizione di guida alla finalità dell'azione individuale e collettiva.

Mi riusciva evidente che il ciclo dialettico non fosse deter- minato da forze extra-umane, nè dal condizionamento fisico, so- ciale e storico; sì bene realizzato dall'uomo che opera per fini particolari e generali, individuali e collettivi, sia adattando al suo volere il condizionamento, sia adattando il suo volere al condizionamento con libera decisione e per quella finalità che in dato momento gli risulta o gli sembra più favorevole o più ac- cettabile.

La responsabilità dei suoi atti rimane in mano dell'uomo, an- che quando egli sia costretto a dichiararsi vinto e impotente ad attingere i l fine prescrittosi. Ciò non altera il fatto che que- st'attività libera e responsabile produca l'allineamento delle forze

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sociali, ora come dissolventisi in pluralità caotica, ora riorganiz- zandosi in dualità di lotta, ora coordinandosi in particolari unità.

L'alternarsi nell'attività degli uomini della razionalità con la pseudorazionalità (irrazionalità), il contrastare l'una con l'altra, i l prevalere dell'una sull'altra, mi riuscivano evidenti nel quadro della storia. Da essa derivavo che i l progresso umano è segnato dal prevalere della razionalità. Non essendo la verità e il bene elementi deterministici nel concreto individuato da ogni sua azione, i l passaggio dall'irrazionalità o dalla pseudo-razionalità alla razionalità non è nè lineare, nè sempre progressivo, nè sen- za ritorni.

Le superiori considerazioni mi portarono ad insistere nello studio dei fatti di coscienza collettiva. Per quanto non manchi mai nella ricerca delle finalità sociali e nell'adattamento dei mezzi al fine quella riflessione che fa l'uomo cosciente del suo volere e della sua azione, pure si deve distinguere l'attività in istintiva e riflessiva, e la finalità in implicita ed esplicita. SU- perfluo dire che non vi può essere società organizzata senza che il fine d i essa sia coscientemente voluto. L'elemento di coscienza è così necessario ad animare la società e a renderla effettiva che senza di essa non può dirsi che esisia una vera società umana. Questa verità divenne tanto chiara alla mia mente che da allora in poi (siamo al 1932) divenne la chiave della mia teoria socio- logica (').

I1 fattore determinante della società è la coscienza, che noi chiamiamo inter-individuale e collettiva solo per avere una for- mula comprensiva; né1 fatto, questa non è che la coscienza stes- sa di ciascuno di noi che si riflette in quella degli altri per via della ricerca e per l'attuazione di un fine comune.

Si afferma che è il bisogno a farci unire insieme perchè l'uomo solo sarebbe impotente e destinato ad isterilire e perire; è dalla natura che ci viene 1'impuIso alla socialità. Nè i l bisogno nè la natura possono essere presi per delle forze cieche e istin-

( 7 ) Essai de sociologie, Paris, 1935.

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tive; si tratta di elementi atti a indicare l'uomo nel suo com- plesso di ragione e di sensi, di bisogni sia spirituali che mate- riali, di impulsi intimi e di creatività, di attività libera e allo stesso tempo condizionata. La società può essere presa, come spesso si fa, quale condizionamento dell'individuo che agendo la concepisce come esterna, altro da sè; allo stesso modo si può considerare il corpo umano come un condizionamento a che la mente pensi e la volontà voglia, riducendo l'uomo a una specie di anima imprigionata nel corpo del quale essa si serve e al quale è soggetta. L'idea platonica di un'anima imprigionata nel corpo, scindendo l'unità umana, rende l'uomo estraneo alla vita dei sensi ( e quindi anche lo impoverisce per la vita dell'intelletto); allo stesso modo l'idea anarchica che la società sia più o meno una prigione, un fatto esterno e pressochè ostile all'uomo, di- stacca gli individui dai legami di solidarietà, di azione e d i fine comune nell'organicità sociale.

La verit.à è ben altra; come noi quanto più siamo consci del nostro essere umano, spirituale e corporale, e della sua unifica- zione in persona vivente ( 3 ) , tanto più viviamo una vita com- prensiva ed elevata; così, quando noi siamo consci dei valori che ci porta la società nelle sue varie forme, e li approfondiamo, ar- riviamo a vivere una vita collettiva multipla e intensa.

Che cosa è questa coscienza collettiva se non l'approfondi- mento della realtà che ci si rivela come verità e amore? Infatti, solo coloro che comprendono e amano arrivano a trasformare la realtà in valori interiori. Così famiglia, parentela, amicizia, classe, scuola, cittadinanza, nazionalità, internazionalità, umani&, reli- gione, sono diversi modi affettivi » di contatto con gli uomini. Chi l i rigetta, non ha coscienza del valore che contengono, non apprende la bontà che se ne sprigiona, non arriva a trasfondere in sè l'anima degli altri, non può dirsi che raggiunga i fini del vi- vere sociale. Gli anarchici, tutti gli anti-sociali, i puri egoisti rispondono che la società è odiosa, è una cloaca ; che l'uomo è un lupo per 1'aItro uomo; che bisogna fuggire il vivere sociale e chiudersi in sè stesso per respirare con libertà. Ciò dirà il vinto della vita; ma chi è normale, pur conoscendo come in questa

(a) u e i'uomo divenne persona vivente n Gen. 2.7.

2. Srrnzo - Del Metodo Sociologico

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vita i l bene sia misto al male, arriva a comprendere che solo chi possiede la verit,à o cerca di possederla, solo chi è pieno d'amore o cerca d i riempire i l cuore di amore, ed ha coscienza che solo verità e amore hanno valori inesauribili nella vita - vince il male che lo circonda e lo trasforma in bene, seguendo il precetto paolino: noli vinci a mulo sed vince in bono mabm. Tutta la vita sociale, che è il nostro contatto con gli uomini e la nostra attività associata, ha in queste parole la norma maestra.

Non sono mancati coloro che hanno mosso obiezioni e criti- che alla mia teoria della coscienza quale fattore essenziale di vita sociale. Quando il primo capitolo dell'lnner Laws of Society (') fu pubblicato dalla Revue interrmtionale de Sociologie di Parigi, il direttore pose una nota di dissenso alla mia affermazione che gli animali non costituiscono società, perchè manca ad essi la coscienza. Egli era nell'errore : l'unione sessuale o la compagnia in torma, la distinzione di funzioni a determinati effetti non ba- stano a fare dell'attività animale una società, si bene una coope- razione istintiva a carattere sensitivo. L'uomo supera l'istinto, ri- conosce la necessità del vivere sociale, ne definisce i diritti e i doveri, ne sviluppa i valori, si muove verso i l fine da attingere in unione con gli altri sotto l'aspetto di un bene comune.

Quali che siano i punti di vista dai quali è possibile studiare la società - l'etico, lo psicologico, il politico, il sociale, il reli- gioso - risulterà sempre che tanto più stabile, efficace e pro- grediente è una società, quanto più i suoi membri hanno co- scienza d i essa, della sua natura, dei suoi fini e del vantaggio che ne ricevono tutti i consociati. Questo punto vale lo stesso per tutte le forme di società dalla famiglia allo stato. Non c'è società, anche la meno effettiva e la più transitoria, sia sportiva o economica, che possa realizzare i suoi fini senza che i soci ne abbiano piena conoscenza e vi diano volontaria adesione, in una parola ne abbiano coscienza mutualmente effettiva, quella che usualmente si chiama u coscienza collettiva 1).

(9) lnner Laws of Society: La società, sua natura e leggi, cit.

18

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A conferma di questa tesi, si possono studiare varie istanze sociali fra le più evidenti. I1 sottoporsi degli uomini all'autorità civile nelle sue varie forme è uno dei fatti di convinzione dei più rimarchevoli nella vita collettiva; la convinzione deriva da ragione e da esperienza; il sottoporsi è atto volitivo; uniti in- sieme costituiscono quello che sociologicamente chiamiamo « co- scienza collettiva ». Invero, se la soggezione civile e politica non fosse un fatto collettivo, ma solo individuale, vi mancherebbe il senso e la realtà sociale.

Per comprendere la portata di questo impressionante fatto di coscienza guardiamo il quadro opposto: un largo gruppo di cittadini che rifiuta obbedienza ad una data persona costituita in autorità, perchè la crede o illegittima o tiranna o perchè è convinta che il suo comando sia immorale. In tal caso, i l rifiuto di obbedire è proprio un atto di coscienza.

I1 sociologo può omettere il giudizio etico se, per esempio! gli obiettori di coscienza degli Stati Uniti e dell'hghilterra du- rante la prima e la seconda guerra mondiale fossero nel giusto o no; se i confinati nei campi di concentramento perchè anti- nazi fossero nel giusto o no; se gli antifascisti italiani che per più di venti anni negarono la adesione al governo di Mussolini fossero nel giusto o no; ma i l sociologo non può non constatare che nei tre casi il fattore prevalente di tali movimenti era un distacco di gruppi dalla prevalente coscienza collettiva quale formatasi in dati stati e per date finalità.

A noi del secolo scorso, che abbiamo così viva la coscienza nazionale, può sembrare strano che questa si sia formata così lentamente attraverso i secoli, e che in certi periodi non sia apparsa affatto, mentre erano più vivi altri stati di coscienza collettiva, quali la municipale e la religiosa.

Lo studio dello sviluppo della coscienza collettiva negli Stati Uniti di America dà, in molte istanze particolari, dei risultati significativi. I1 fatto del negro, prima schiavo, poscia libero ma segregato, quindi entrato a far parte della comunità nazionale ma non ancora sul piano dell'eguaglianza di diritti e di consi- derazione, è prova evidente che la coscienza collettiva ameri- cana su questo problema non si è definitivamente formata ed ha progredito lentamente e attraverso forti contrasti. Se il n e g o

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è ancora in America un ospite non gradito, tollerato o mal trat- tato (secondo i casi), ciò si deve più che a questa o a quella legge, a una mancanza parziale ma effettiva di formazione di coscienza collettiva al riguardo. Coloro che sostengono i diritti dei negri influiscono a formarla; coloro che vi si oppongono, resistono a che tale coscienza si formi; il conflitto durerà ancora finchè la unificazione morale e civica fra le due razze, la bianca e la negra, potrà realizzarsi allo stesso tempo come convinzione e come iegge. Ma la legge senza la convinzione diviene lettera morta; la convinzione senza la legge stenta a farsi valere nelle zone di resistenza.

L'unificazione d i coscienza nazionale in America è stata resa più o meno difficile dal flusso migratorio di masse compatte - tedesche, polacche, italiane, messicane - che han mantenuto lingua e tradizioni proprie ed han cercato d i difendersi, e non sempre con successo, dallo sfruttamento economico e dalla su- bordinazione di razza. Le due guerre mondiali, la formazione d i grandi eserciti, lo spirito nazionale che ne è risultato, hanno contribuito a elevare il tono dei figli degli emigrati che si sono sentiti veramente americani. Ma si deve percorrere lungo cam- mino, per la completa unificazione di coscienza civica che superi le diffidenze istintive e le discriminazioni abusive fra le varie comunità di recente emigrazione.

Passiamo ad altra istanza di carattere internazionale. 11 fallimento della Società delle nazioni è stato certo causato dal- l'assenteismo degli Stati Uniti d'America, dalle politiche diver- genti della Francia e dell'Inghilterra, dalle aspirazioni impe- rialistiche del fascismo, dallo spirito di rivincita del nazismo, dalla paura assai diffusa del bolscevismo. Alla radice .di queste tendenze disgregatrici vi era un dato sociologico importante: l a mancanza di coscienza internazionale presso i paesi civili che avevano costituita la Società; non sopravvisse lo spirito anima- tore di Wilson che l'aveva fatta nascere, non ostante le grandi speranze allora destate nel mondo. Avere coscienza della SO- cietà e del suo valore storico e politico voleva dire conoscerla e amarla, sentirne l'importanza, partecipami, sacrificare per essa quel che si reputava avesse un valore inferiore.

Quanto abbiamo detto si applica al presente tentativo inter-

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nazionale. Se la Organizzazione delle nazioni unite fallirà o riu- sci& dipende sì dai suoi promotori, sia politici che tecnici; ma più che altro dipende dalla coscienza collettiva. Se questa non si è ancora formata, se è debole e diffidente, se tentenna, se tende verso il conflitto delle grandi potenze, si avrà un secondo falli- mento più preoccupante del primo. Se, invece, si formeranno attorno all'ONU quelle correnti di coscienza dette mistiche che eccitano i popoli alle grandi imprese, il nuovo organismo arri- verà a consolidarsi e a coordinare le forze internazionali sopra un piano veramente umano. La via sar,à lunga, ma se consideria- mo la via che è stata percorsa in vari secoli, nei paesi di cultura occidentale, per la formazione, lo sviluppo e la generalizzazione della coscienza nazionale nei singoli paesi, ci renderemo conto che una delle più difficili imprese umane è vincere lo spirito individualista, personale e collettivo, non con la forza che non è utile al caso, ma per quella convinzione efficace, che arrivi, attraverso un lungo processo, a divenire coscienza collettiva.

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Cap. I1

LE LEGGI SOCIOLOGICHE

Potrei continuare ad esporre i dati della mia lunga ricerca dei principi e delle leggi della società; basta quel che ho già accen- nato per indicare il metodo, e passo a rispondere ad un quesito che più volte mi è stato fatto da alunni, da studiosi e da critici, se veramente esistano leggi sociologiche e quale ne sia la natura. Che esistano non può mettersi in dubbio sol che si consideri il carattere organico della società. Però le leggi sociologlche non ostante certa analogia non sono della stessa natura delle fisiche o matematiche; ma debbono essere messe in linea con Le leggi storiche e morali. Anche le leggi fisiche sono spesso approssima-

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tive e col tempo subiscono l'usura della prova e vanno sommerse in leggi più generali; spesso sono delle ipotesi che servono a far progredire la scienza, dando agli sperimentatori un trampolino per saltare, finchè si arriva a quella scoperta che illumina tutto un processo che sembrava confuso o inesplicabile.

La legge sociologica si fonda sulla natura stessa dell'uomo e del suo vivere e agire sia come individuo che come essere socie- vole, singolo e multiplo, libero e condizionato, ordinato e tu- multuoso, intelligente e istintivo. Ne consegue che le leggi inte- riori di questo vivere e agire in società sono così complicate e complesse, ed hanno tanti diversi aspetti, da non riuscire a tro- varne il bandolo, a esplicarne i legami e la cooordinazione, e a metterne in evidenza la portata.

Bisogna notare che la sociologia è una scienza recente, che per molti non è arrivata ad avere la dignità d i scienza autonoma con propri principi e metodi. Si sogliono applicare ad essa prin- cipi eterogenei o analogici, derivati ora dalla meccanica, ora dal- la biologia o dalla psicologia, dall'economia, dalla politica, dal-

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l'etica, dalla filosofia e dalla storia. I1 sociologo moderno spes- so ha trascurato d i studiare la sociologia in sè, e si è dato alla specializzazione dei soggetti e allo studio analitico dei fenomeni sociali, senza curarne molto l'insieme che suole indicarsi ine- sattamente come filosofia della società.

Quando il sociologo è spiritualista accentua il lato etico dei problemi sociali ; quando è materialista dà più evidenza al lato economico. Poche battute bastano a dirci che la società è un bi- sogno di natura, basata sull'istinto dell'uomo, più o meno iden- tico a quello degli animali. Si crede che la legge che presiede alla concretizzazione delle società particolari sia l'associazione (senza accorgersi della tautologia); si accentua il carattere imi- tativo dell'agire umano; si abbonda in dati psicologici circa la comunicazione parlata, la formazione delle tradizioni locali, e così via. In tal maniera i problemi sono guardati alla super- ficie, in base ai fenomeni sia similari che contrastanti; e le stesse intuizioni acute e utili non vengono approfondite. Le teo- rie sociologiche sono alterate dall'influsso di scienze collaterali o a5ni , dando all'analogia il carattere di similarità e perfino il valore di causalità. Bisogna tentare altra via, cercando le leggi della società nella s0ciet.à stessa e quindi nell'agire umano in società e per la società.

Questa ricerca è di un'irnportanza eccezionale. Bastano alcuni rilievi per vederne la portata. In ogni analisi scientifica si fa sempre distinzione fra l'elemento attivo e quello ricettivo o pas- sivo, e si mette in rilievo la loro reciproca reazione per arrivare a precisarne la natura, le caratteristiche e il valore. Questo do- vrebbe farsi nell'esame della società. Si sa bene che il fattore attivo e finalistico della società è l'uomo individuo. Si sa bene che l'uomo non è un'idea astratta ma una realtà vivente in mezzo ad altre realtà di diversa natura, condizionato nella sua esistenza, nel suo agire individuale e collettivo. I1 punto interessante da raggiungere nelle nostre ricerche si è se egli, tutto sommato, sia padrone della sua esistenza e della sua attività, ovvero sia soggetto e subordinato al condizionamento esterno.

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Più sopra abbiamo notato che il condizionamento in concreto di dato paese, data epoca, data classe, data famiglia, è sempre prodotto o modificato dall'attività umana. Se non ci fossero stati gli studi scientifici del passato a condizionare la scienza del pre- sente (quale ne sia il passato o il presente) l'uomo non avrebbe alcuna possibilità di fare un passo avanti; ogni individuo do- vrebbe rifare tutto il percorso fatto dall'umanità. Così in ogni altro ramo della teoria e della pratica.

Oggi si studia scientificamente l'ecologia dei nuclei umani, come si studia l'ecologia del grano e dell'arancio, del cavallo o del bue, e di ogni altro essere vivente in un dato suolo e clima. È uno studio piacevole e utile allo stesso tempo; così come si può studiare il miglioramento della razza bianca, gialla, o nera dal punto di vista della salute, longevità, produttività e ripro- duttività. Non mancheranno coloro che arriveranno a derivare l'educazione umana dalla « zoologia » umana ; la tendenza non manca. Speriamo che ogni scienza, o pseudo scienza, venga man- tenuta nel suo posto e col suo carattere, senza darvi il posto che non le spetta.

Noi non ce la prendiamo nè con l'ecologia o la geografia umana, nè con la scienza delle razze umane e ogni altra scienza che dia contributo alla comprensione dell'uomo e del suo am- biente. Ma dal punto di vista sociologico noi siamo obbligati a tenere il punto centrale: quali gli effetti dell'ambiente su l'uo- mo e quale la reazione dell'uomo sull'ambiente nei riguardi spe- cifici del vivere in società.

La pura fenomenologia descrittiva non è scienza; si arriva, in molte istanze, al determiniamo ambientale come spiegazione dei prodotti d i civilizzazione. Accetta questa specie di ~assivi tà umana solo chi è convinto che la natura umana sia un semplice prodotto psico-sensitivo, in cui l'elemento volitivo esce dalla sfe- ra degli istinti indeterminati solo quand'è esternamente deter- minato. Così la fenomenologia ambientale fa riscontro alla feno- menologia psico-somatica; l'iniziativa umana è trattata come pura apparenza senza realtà; l'uomo non ha in sè nè spintua- lità nè libertà; egli è un animale ~ i ù evoluto e complicato de- gli altri: ecco tutto.

I1 sociologo positivista non ci dice questa o altra cosa simile,

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egli aborre dalle teorie filosofiche; però tratta i fenomeni socio- logici come se la concezione materialista dell'uomo fosse un da- to indiscusso e accettato dalla comune cultura moderna. Le leggi sociologiche che ne derivano non sono leggi dell'uomo che pen- sa, vuole e agisce, sono leggi materiali dell'ambiente che foggia l'esistenza della collettività umana, ne forma le civilizzazioni, ne determina il declino e l'eliminazione.

Per esempio, il sociologo ecologista ci dirà che le tempera- ture medie e i climi asciutti sono più adatti allo sviluppo delle civilizzazioni culturali; egli citerà l'antica Grecia, Magna Gre- cia e Roma. Ma egli, restando sui dati economici, non ci ~ o t r à dire perchè con lo stesso clima la Grecia medievale e moderna non ha dato gli stessi prodotti del sesto o quinto o quarto se- colo avanti Cristo, o perchè l'Italia ebbe periodi di arresto e di decadenza nella produzione artistica e culturale durante i suoi tre mila anni di civi1t.à; o perchè l'Irlanda di ben altro clima ebbe epoche di eccezionale cultura e altre opache o oscure; O

perchè Inghilterra, Olanda, Scandinavia, paesi che non godono usualmente clima moderato e asciutto, ebbero ed hanno così alta cultura scientifica, artistica e re1,igiosa.

Nel dire ciò non neghiamo che anche i l clima sia un condi- zionamento dello sviluppo umano, tanto è vero che le zone fred- dissime o caldissime sono poco popolate e molto limitata è l'attività di coloro che vi abitano e vi si sono (C acclimati D. Ma chi ha negato che l'uomo sia un animale, abbia un corpo che anch'esso può essere considerato quale condizionamento della sua attività? Quel che interessa al sociologo di conoscere è se e come e in che misura l'uomo, tutto l'uomo, reagisce al suo con- dizionamento, lo utilizza e lo vince.

Un Gregono Magno che, con una salute debolissima, riesce a scrivere ed agire come fece, si da dominare il suo secolo, fu un uomo che utilizzò e superò i l suo condizionamento fisico per altezza d i intelligenza e forza di volontà. Di persone che supe- rano un condizionamento ostile, digcile, opprimente, sia indi- vidualmente che in società, ve ne sono state e ve ne saranno, sol che abbiano volontà decisa e quell'opportunità che la propria o l'altrui volontà può creare e crea di fatto.

E vero che ci sono nella società i vinti e i vincitori ; ma tante

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volte i vinti han contribuito alla civiltà, più dei vincitori: i mar- tiri cristiani e Cristo stesso, storicamente e fisicamente parlando, furono dei vinti che divennero vincitori, dando vita alla civiltà cristiana. Gregorio VII, vinto e fuggiasco, nel dire: u amai la giustizia, odiai l'iniquità e perciò muoio in esilio » segnava la vera vittoria della sua lotta per una chiesa più pura e più libera.

Se l'attività umana in società non avesse le sue leggi, se la società stessa non manifestasse le sue norme costanti, se la vit- toria, parziale ma progrediente, dell'uomo sull'ambiente non fosse assicurata, noi dovremmo rinunziare a parlare di leggi so- ciologiche, e limitarci a segnare la sconfitta di una pretesa scien- za che non esiste: noteremmo solo le leggi esterne all'uomo, del clima, del suolo, dell'alimentazione, della razza e simili, senza mai trovare le leggi vere della sociologia « umana D.

La prima indagine va quindi diretta allo studio della natura della società tessa; se veramente sia un quid tertium, come so- steneva Durkheim e come si può derivare dalla concezione hege- liana dell'idea che si realizza e che trova la sua perfetta espres- sione nello stato, ovvero sia « proiezione multipla, simultanea e continuativa degli individui come sostiene chi scrive (l0). Uno dei più colti dei moderni sociologi, R. M. MacIver scrive: « so- ciety is the system of social relationships in and through which we live » ("). Tale definizione può essere accetta tanto al feno- menologista, per il quale essa riesce una constatazione di fatto senza una spiegazione che potrebbe essere filosofica e quindi da evitarsi; quanto al sociologo posivista, a cui l'idea di u sistema 1) e l'altra « nel quale noi viviamo » darebbe il carattere di un quid tertium al di fuori degli individui presi come tali. Ma MacIver non è nè l'uno nè l'altro, e la sua definizione non è che descrittiva, dando alla parola u system 1) lo stesso valore di com- plesso di relazioni. Però MacIver inclina a pensare che anche gli

('O) Vedi: La società, sua natura e leggi. (11) u La società è il sistema di relazioni sociali nel quale e per il quale

noi viviamo a.

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animali formano società, cosa che non fece Aristotile quando definì l'uomo un animale socievole, mettendo l'animalità come genere comune a tutti gli animali, compreso l'uomo, e la società come differenza specifica, solo per l'uomo. (Figurarsi se Ari- stotile non teneva al rigore della logica).

Parlare di società presso gli animali è usuale, ma non è esat- to; si tratta solo di analogia antropomodica. Noi per intenderci attribuiamo agli animali e alle cose parecchie delle qualità, dei costumi e dei caratteri umani. La cooperazione fra animali per l'istinto di conservazione dell'individuo o della specie è data dal- la loro natura di animali; ma la società umana supera la pura funzione dell'istinto ed è un fatto di coscienza. Chi dirà mai che c ' è piena società fra il bambino nato d'un giorno e sua ma- dre? La diciamo società incipiente perchè sappiamo che sarà sviluppata in seguito; per ora è solo la madre che conosce il bambino ; questi fino a che non arriva ad una tal quale conoscen- za umana non fa con la madre una vera società; è la madre che sdoppiandosi fa società col bambino. Chi dirà che c'è società fra un uomo e la donna da lui violentata? Forse ci potrà essere in seguito, ma per quel fatto non c'è altro che una violenza mentre l'altra parte rifiuta di consentirvi. Non C' è neppure società fra uomo e donna che occasionalmente si uniscono in un bordello. Al contrario due sposi, distaccati dall'oceano o dalla prigione, fanno società non solo civile, ma anche morale e vivente.

Non insistiamo sulle parole; se si vuole usare il termine so- cietà anche per gli animali, si dovrà fare sempre differenza fra « società animale n e « società umana come due cose di natura diversa, in quanto l'una è basata su istinti sensitivi, e l'altra è specificata e caratterizzata dalla razionalità. Se questo punto non è accettato dal sociologo vuol dire che egli accetta l'altro, che anche la società umana sia effetto di istinti sensitivi. Se poi evita di pronunziarsi su questo punto, se professa un ostentato agno- sticismo sotto la scusa che egli studia i fenomeni sociali, l i clas- sifica, li confronta, ma è indifferente alle tesi filosofiche dei sen- sisti o degli intellettualisti, egli accetta implicitamente la tesi materialista o inclina ad essa.

Ogni determinismo, sia dall'estemo e ambientale sia dall'in- timo e istintivo, ridurrebbe la società umana ad agglomerati fissi

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senza auto-determinazione, senza attività creatrice, senza idealità intellettive e morali. L'uomo individuo, scoronato dalla moderna scienza antropologica e sociologica, deve ritornare a1 suo posto di autore e organizzatore della società in cui e per cui egli vive.

L'idea che la società sia un organismo che si sviluppa dalle forme semplici alle complesse è antica quanto è antica la spe- culazione umana. Ci furono filosofi che fecero larghe disserta- zioni sul carattere similare dell'organismo sociale con l'organi- smo corporale dell'uomo, mescolando analogie puerili con osser- vazioni acute. Uno degli errori degli organicisti è quello di con- siderare la società come morfologicamente fissata una volta per sempre, di non osservarla storicamente tanto nelle fasi progres- sive o negli arresti subitanei, quanto nelle forme variabili per tempo, luogo e civiltà. L'altro errore comune agli organicisti del passato, identico a quello degli istituzionalisti dell'epoca presen- te, è quello di riguardare « l'organo o « l'istituto » come stanti per sè stessi e al di fuori della volontà dell'uomo che l i ha formati.

I due errori possono essere superati se si adotta la teoria delle forme sociali, primarie e secondarie, nelle quali si concretizza e si finalizza ogni società umana - forme primarie, la familiare, la politica e la religiosa; forme secondarie, le economiche, le ci- viche e la internazionale e ogni altra formazione a fini partico- lari e a tipo volontario. Lo studio delle forme sociali e relativi caratteri, rapporti reciproci, sviluppo e contrazione rende chiaro i l valore vitale multiplo e coordinante di tutte le società guardate nel concreto del loro esistere e svilupparsi (12). Attraverso tale studio arriviamo a meglio comprendere quello stesso che gli or- ganicisti, pur con idee infantili, cercavano di analizzare, la orga- nicità e i l finalismo della società.

È tanto vasto e profondo il fattore organico della società - nel suo duplice aspetto di fine e di mezzo e nel passaggio del- l'uno all'altro - che l'individuo vi si perde di vista. Anche nella

(9 Vedi: LUIGI ST-, h societò, sucr natura e leggi, Parte prima.

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società più individualista quale quella moderna, l'individuo è assorbito dall'organismo sociale; se certi nomi di grandi uomini vengono registrati dalla storia o dalle cronache locali, è appena per indicarli come dei nuotatori dei quali si e no le onde fanno vedere ora la mano che si muove, ora la testa che scuote le acque.

Pure è l'uomo la cellula attiva ed efficiente di ogni organismo sociale; non C' è una squadra di cacciatori senza il cacciatore, nè un p p p o di navicelle di pescatori senza il pescatore. Così la famiglia ha il marito e la moglie, i genitori e i figli; lo stato ha i1 capo, i senatori, i cittadini, i militari. L'uomo che si muove, che pensa, che vuole, che crea, che reagisce, che si perpetua e che muore. Quest'uomo non può agire da solo ; egli è parte di un organismo, che egli stesso forma e riforma, inizia e continua, di- strugge e rifà. Lascino, pertanto, gli organicisti e gl'istituziona- listi di pensare solo per nomi collettivi astraendoli dalla realtà; famiglia, classe, stato: gli uomini individui, ed essi soli, agendo e reagendo dànno agli istituti sociali finalismo, essere e vita.

I filosofi cercheranno nella società la ragione universale, espressa come d'uso nelle quattro cause di classifica tradizionale: efficiente, finale, formale e materiale. Sarà il loro speciale stu- dio; la società è vista da loro sub specie aeternitatis negli ele- menti metafisici, presi e astratti dalla realtà concreta. I moralisti cercheranno come e in quanto la legge morale si applica alle azioni umane fatte collettivamente o a scopo di utilità collettiva, e quali le regole etiche da potersi applicare a certi fenomeni sociali quali la schiavitii, la guerra, la poligamia e simili. Gli eco. nomisti, i politici, gli educatori, guarderanno la società dal loro punto di vista e con i loro metodi scientifici e pratici, e ne trar- ranno leggi economiche, politiche, educative.

Perchè il sociologo trovi le leggi sociologiche, deve guardare l a società sociologicamente, cioè nella sua concretezza e com- plessità. Nella società in concreto si trovano fusi politica ed eco- nomia, morale e religione, etnografia e storia, perchè essa è la risultante di tutte le attività umane presenti e passate. Se tale risultante non è caotica, nè cieca, ma ha una realtà razionale, un significato umano, deve avere le sue leggi. Se ancora non ne ab- biamo scoperto che poche e approssimative, spesso come ipotesi d i studio, ciò è dovuto al fatto che la sociologia è una scienza di

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fresca data, e per giunta talmente impacciata d i mille altri oggetti da perdere di vista il vero oggetto che scientificamente la specifica.

Non è il caso qui d'insistere sulla idea di società in concreto. Questa è acquisita allo studio di tutti i sociologi moderni che si occupano talmente dei fatti da perderne spesso i l significato, il valore e la complessità degli elementi che vi dànno essere e con- sistenza. Ma altro è studiare i fatti e i fenomeni sociali in singolo e nei propri aspetti pratici, altro è studiare la società nel suo complesso esistenziale e storico, nella sua morfologia e nel suo dinamismo. Attraverso un tale studio si può arrivare ad inserire nella sociologia il problema del soprannaturale come è apparso e come si è svolto storicamente, quale uno degli elementi fonda- mentali dei tanti fattori della socialità, senza venir meno al ri- gore scientifico della sociologia (l3). Coloro che escludono siffatto studio ritenendo il soprannaturale un intruso nella realtà socio- logica, riducono arbitrariamente la concretezza della società e ne alterano i contorni storici e i valori effettivi.

Anche coloro che, non ammettendo il soprannaturale, credo- no di dovere spiegare naturalmente molti dei fatti religiosi e quei dogmi sui quali tali fatti si appoggiano, non possono tra- scurarne lo studio per arrivare a conoscere la società in concreto. Non c'è una società per i sociologi e un'altra per i teologi, ce n'è una sola nella sua interezza per tutti gli studiosi.

Di questa società cerchiamo le leggi sociologiche con lo stesso diritto con il quale altri studiosi cercano le leggi politiche ed economiche. Come sarebbe follia trovare queste leggi senza conoscere I'homo politicus o l'homo oeconomicus, così sarebbe follia cercare le leggi sociologiche senza studiare l'uomo in so- cietà, cioè la società in concreto.

Confrontando dati, provando induzioni, verificando elementi di fatto, penetrando lo spirito della storia, si arriverà alla con- clusione, per quanto provvisoria, che certe leggi non sono che - ipotesi di studio, altre, approssimazioni verosimili, altre, elemen- t i costanti da tenere in conto, finchè non si arriva a consacrarle teoricamente come vere a leggi sociologiche.

Ma come è avvenuto per tante altre scienze che non poche

('3) Vedi: LUIGI STUEZO, Lo vero vita, eit.

30

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teorie sono state scoronate perchè basate su leggi che non erano tali, lo stesso potrà capitare anche agli scopritori e assertori delle leggi sociologiche. Ciò non ostante esse saranno state di. spinta a migliori studi ed a più profonde ricerche.

Ecco perchè l'autore di queste pagine non ha esitato a par- lare di leggi sociologiche che non sono state sinora canonizzate come tali, e che sembravano estranee del tutto all'idea che si ha della sociologia corrente, e intanto sono servite a creare nuovi angoli visuali per lo studio della società in concreto.

Altri invece di « leggi crede sia meglio chiamarle C( costan- ti », cioè elementi o modalità che si mantengono identici, o quasi, quali ne sia i l condizionamento e l'ambientazione. La pa- rola « legge » applicata alle scienze è un traslato che pur per- dendo il suo significato originario di comando o di norma di autorità, mantiene il significato sostanziale e finalistico di ordine e di valore. Passata poi alle scienze morali, alla sociologia, alla storia la parola « legge » è divenuta doppiamente analogica, sia in rapporto a leggi etiche e giuridiche che in rapporto a leggi fisi- che e matematiche. Manteniamo in sociologia la parola ((leggi)) invece di ((costanti per indicare il fatto umano - individuale ed associativo - e il dato normativo di ordine finalistico intrinseco.

Dal punto di vista delle nostre indagini, il valore di ipotesi d i studio e quindi di guida alle indagini sociologiche è il primo che si presenta.

Leggendo gli indici analitici dei miei due volumi: La società, sua natura e leggi e La vera vita, il lettore troverà il seguente elenco di leggi sociologiche, derivate dai due testi.

Nel primo: Legge dell'autonomia e dell'interferenza - Legge delle correnti mistiche ed organizzative - Legge della coscienza sociale . Legge delle forze liberatrici - Legge del moto verso la razionalità . Legge della purificazione - Legge delle risoluzioni - Legge d i solidarietà - Legge d i trascendenza - Legge d i unifi- cazione - Legge della dualità.

Nel secondo: Legge di realizzazione o conquista - Legge d i coercizione sociale - Legge della coscienza di gruppo - Legge del, le correnti mistiche e organizzative . Legge dei « cicli critici D Legge delle forze liberatrici . Legge della libertà e del condizio- namento - Legge d i vita, conoscenza, amore » . Legge della pu-

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rificazione catartica - Legge della razionalità Leggl della soli- darietà umana e cosmica - Legge della solidarietà del male - Legge della trascendenza.

I1 lettore a prima vista crederà che si trovi di fronte a indi- cazioni astrattiste e dirà che si tratti di filosofia. Ma poi andrà a leggere, per esempio, il capo X della Società, dal titolo: e Dualità e diarchia 11, e si renderà conto che tanto la legge della dualità che quella della unificazione sono dati realistici del con- creto sociologico e niente affatto astrazioni metafisiche. Così per tutte le altre.

Si tratta di riguardare un complesso imponente di fenomeni sotto l'angolo di movimenti psico-sociali, che superando da un lato la libera volontà individuale e dall'altro la limitazione del condizionamento, arrivano ad assumere aspetti costanti.

La riduzione di questi movimenti ad un elemento normativo potrebbe essere arbitrario da parte del sociologo, se non trovasse quella giustificazione di logica interiore che mette in risalto gli elementi realmente umani della vita associata.

La paura di cadere in una costruzione aprioristica e fittizia va cessando man mano che si presentano nella loro realtà con- creta quegli stessi dati che, per rigore di ricerca scientifica, ri- sultano sempre presenti ad ogni aspetto del concreto che si rea- lizza nel processo storico.

Se ci mancasse questa specie di schematizzazione d i regole, norme, costanti, leggi, non potremmo più renderci conto della realtà associata dell'uomo, e dovremmo ritenerla, come si usa oggi da molti, quale serie di fenomeni senza connessione, in un com- plesso poco conoscibile, tranne attraverso indici statistici che riducano i fatti alla più piatta indicazione quantitativa.

Se la sociologia contribuisce alla conoscenza dell'uomo i n s o - cietà, (anzi ne è la scienza specifica) ciò avviene solo per la pos- sibilità di una conoscenza scientifica qualitativa e d i valore sia nella formazione morfologica sia nel processo storico della so- cietà. A tale conoscenza contribuisce la ricerca di leggi normative e costanti. Se lo stadio di tali ricerche è ancora inziale, giove- ranno se non altro le ipotesi di studio e le leggi provvisorie, più O meno come mezzi di ricerca per ulteriori conquiste della non ancora pienamente esplorata realtà della società umana.

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Cap. I11

NORME METODOLOGICHE

Occorre cominciare con la più comune, direi banale, delle norme: « conosci il tuo soggetto ». Non è esagerato dire che tut- tora la sociologia soffre troppo della mancanza d i precisazione dell'oggetto, del metodo, del carattere e dei limiti di scienza. Molti han fatto cadere il nome di sociologia usando quello di scienze sociali. L'aggettivo « sociale si può applicare a qualsiasi branca e qualsiasi attività pratica che tocchi la società ( e qual'è quella che non la tocca?); così nessuna meraviglia se si sono in- trodotte nella sociologia metodi e teorie di altre scienze e se altre scienze sono state colorite di sociologia.

Noi teniamo a due punti che caratterizzano tutto i l nostro metodo :

1) che per sociologia o scienza della società s'intende quel- la che studia la natura, le forme e le leggi generali della società in concreto. Nel dire così intendiamo che natura, forme e leggi da studiare siano effettivamente quelle che non soffrono ulteriore risoluzione in altra natura, forma o legge cpalsiasi; 2) che la fenomenologia sociale sia presa nel carattere rivelatore proprio della società e che la verificazione fenomenologica sia fatta col doppio metodo dello studio del fenomeno in sè e dello studio del fenomeno in rapporto al complesso sociale.

Col porre tali limiti si evita l'inconveniente di fare della so- ciologia una scienza extra-sociologica, come è stato in uso appli- cando alla sociologia l'apparato d i altre scienze, la meccanica, la biologia, la psicologia, l'etica, la politica, l'economia, sì da svi- sarne il carattere specifico e la sua ragion d'essere. Un altro in- conveniente si eviterebbe che oggi è più comune, quello di indul- gere nell'analisi dei fenomeni sociali senza penetrarne la realtà.

:J. S ~ c n z o - Del Afrtodo Sociologicr

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Ciò accade specialmente quando si volge lo studio della socio- logia a scopi pratici immediati. Non si nega che ci siano varie branche di sapere che pigliano la figura di sociologia applicata. Ogni scienza può avere e deve avere il suo lato pratico; questo presuppone il lato teorico, ma non lo sostituisce, nè l'oltrepassa. Ci sono studi d i fisica applicata alle industrie o alla vita dome- stica, di psicologia applicata alla medicina, di sociologia econo- mica o politica; e così all'inverso ci sono studi di economia so- ciale o d i politica sociale. Ma la sociologia-scienza evade da scopi determinati, dovendo studiare la natura della società, i suoi ca- ratteri, le sue leggi, il suo processo, il suo finalismo. La socio- logia, come ogni altra scienza, è anzitutto scienza teoretica, con proprio oggetto, metodo appropriato, carattere specifico.

Alcuni temono che l'accentuazione che si dà al carattere teo- retico della sociologia porti a trascurare i dati e i fatti della so- cietà, a seguire costruzioni ideologiche, filosofiche spesso aprio- ristiche, che secondo essi sono o arbitrarie o appartenenti ad un metodo non scientifico e oltrepassato. Non è questa la nostra idea. Noi partiamo dallo studio dei fatti, dalla raccolta dei dati, dal- l'esperienza storica, per amvare alla formulazione teoretica dei principi, alla ricerca delle leggi fondamentali, alla discussione delle ipotesi sociologiche. Bisogna tener presente che essendo l'uomo individuo - da solo e associato con altri individui in con- tinua formazione d i nuclei sociali - proprio quello che agisce nello spazio e nel tempo, il risultato della sua azione non può es- sere quantitativo ma qualitativo, non generico ma specifico, non in serie ma individuato. Perciò nello studio della sociologia oc- corre evitare, per quanto è possibile, la trasposizione della qua- lità nella quantità.

È facile cadere in tale equivoco con l'abuso della statistica. È

questa uno strumento assai delicato, che usato senza le dovute cautele può portare ad apprezzamenti illogici e a conclusioni erronee. La statistica nello studio dei fenomeni sociali è basata sui criteri della costanza, della ricorrenza e della variabilità di determinati fatti sotto date circostanze e in dati limiti di tempo

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e spazio. Ciò contribuisce alla conoscenza quantitativa dei fatti secondo tipi e categorie prestabiliti. Tipi e categorie come tali semplicizzano i fatti concreti e li presentano in termini astratti; perciò la conoscenza qualitativa e realistica dei fatti ne risulta ( in tale specchio) impoverita e spesso anche alterata. Poco aiuto ci dà la statistica nell'identificazione dei fatti e nell'accertamento della loro coincidenza e connessione.

Prendiamo per esempio il fenomeno della limitazione delle nascite. Statistica alla mano, si potrebbe dimostrare che motivo prevalente ne siano le difficili condizioni economiche. Purtroppo, statistica alla mano, si può amvare alla conclusione che le fami- glie più ricche e benestanti hanno un numero di figli minore di quello delle classi operaie. Con la statistica possiamo anche pro- vare che è l'industrializzazione che ha accentuata tale limita- zione; ma la statistica stessa ci può rispondere che nelle zone agricole della Francia, specialmente del sud e dell'ovest, la po- polazione è stata per mezzo secolo così infeconda da vedersi vil- laggi intieri senza più infanzia, che ne tenga vivi i focolari. Pa- recchi villaggi di tali zone furono ripopolati prima de117ultima guerra dall'emigrazione estera, specialmente italiana. Molti ac- centuano, con dati statistici alla mano, il carattere morale del fenomeno; ma anche la statistica ci rivela che le famiglie catto- liche di oggi hanno una media di figli inferiore a quella di mez- zo secolo fa, mentre popolazioni non cristiane e di un livello morale assai basso hanno una media di nascite molto elevata.

Ad ogni risultato statistico se ne può contrapporre un altro; cosa che prova che il dato quantitativo non è affatto probante e che la cosidetta (C causazione sociale » non può essere sempliciz- zata sì da potere trovare il suo responso in risultati statistici. L'uomo è così complesso che la sua azione non può non essere riguardata come una causazione n a carattere fisso ripetentesi all'indefinito: l'uomo non è una macchina nè una stampiglia. I dati quantitativi che ci forniscono le statistiche debbono subire i l vaglio di una minuta rivalutazione che vada dall'astratto ( la statistica è un'astrazione) al concreto, passando per tutte le ipo- tesi, dalle più semplici alle più complesse, che diano al risultato il suo valore qualitativo e individuato. Nell'uso pratico, la sta- tistica non ha altro valore che quello di darci, per indicazioni

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approssimative, non il carattere del fenomeno ma solo la fre- quenza e l'importanza presa nell'aspetto estensivo nel tempo e nello spazio.

Lo stesso orientamento positivista, che attribuisce alla stati- stica un valore scientifico che non ha, attribuisce al fatto-in-sè un valore probante che non contiene. I1 fatto che parla da sè non esiste, perchè il fatto, come ogni fenomeno, non parla da sè. Se in fisica si fosse adottato il criterio del fatto che parla da sè, sa- remmo ancora alla fisica di tre o quattrocento anni fa.

Oggi abbiamo un fatto nuovo: la bomba atomica. Questo fatto ci apre una serie di nuovi problemi della vita sociale al punto che si è inclini a dare all'epoca apertasi nel luglio-agosto 1945 il nome di epoca atomica N. La bomba atomica è stata usata per finire la guerra col Giappone; da qui una discussione se era ne- cessario tale uso, se era utile, se doveva evitarsi in nome della morale o per ragioni politiche e così via. La preoccupazione chè la forza atomica possa cadere in mano di persone o di poteri irresponsabili e divenire una minaccia permanente sull'umanità, oltre che un mezzo distruttivo di guerra, è generale. Da qui molti studi, proposte, discussioni di politica internazionale e che inte- ressano la libertà scientifica.

Il fatto della bomba atomica è così complesso ed ha tante im- plicazioni che superano i l fatto stesso e rivelano il finalismo del- l'agire dell'uomo, del quale i fatti ( o risultati) dànno l'idea di pietre miliari. Lo studioso può analizzare questo o quel lato del fatto e metterne in evidenza le connessioni storiche, le cause oc- casionali, le conseguenze probabili, secondo il tema delle sue ri- cerche; ma i l fatto bruto, i l fatto-in-sè, cioè i l fatto messo fuori dell'azione umana, è neutro.

Chi vorrà studiare gli scioperi negli Stati Uniti d'America do- po la prima guerra mondiale e metterli in confronto con quelli di dopo la seconda guerra mondiale, avrà avanti a sè un tema largo e interessante. Ma quei fatti non parlano da sè, bisogna farli parlare cercandone i fattori e studiandone le implicazioni, secon- do i molteplici punti di vista dai quali possono essere guardati:

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l'economico, i l politico, lo psicologico, il classistico, l'etico, il le- gale e così via. Sapere che nel 1919 ci furono, per ipotesi, cento scioperi e nel 1945 cento venti, è una di quelle notizie che fanno pendant con quelle altre date dai giornali che W. Wilkie fece in tanti giorni tante migliaia di miglia in aeroplano o che nella prima settimana del gennaio 1944 ci furono nello stato X.. . mille incidenti di strada con 200 morti, e nella stessa settimana del 1945 e nello stesso stato ce ne furono mille e cento con 210 morti: dati questi senza nessuna correlazione e destituiti di valore. Se piace, si potran contare le foglie di un albero di olmo e quelle di un acero e sapere quante migliaia ce ne stavano in tal giorno, in tal posto, in tale albero. Lo sforzo sarebbe vano e la cono- scenza senza significato. I1 fatto che parla-da-sè scientificamente non esiste.

Se un sociologo vuole studiare i fatti di Detroit del 1943 quando ci fu un conflitto aperto con morti e feriti, tra bianchi e negri, a causa degli alloggi di negri in quartiere abitato da bianchi, non gli basterebbe il fatto in sè, quale la cronaca gior- nalistica o la cronaca giudiziaria lo diedero in quei giorni. Do- vrebbe arrivare ai motivi immediati del conflitto, a quelli pros- simi e a quelli remoti; studiare l'ambiente delle comunità di Detroit interessate nel fatto; rendersi conto delle implicazioni economiche ( la svalutazione delle case in un quartiere cittadino dove veniva inserito un grande alloggiamento per negri), il per- chè di tale svalutazione che non avrebbe veri motivi economici ma psicologici ; e ancora, come si sia formata una tale psicologia sì da influire sui prezzi delle case e rispettive rendite, e se non vi furono anche delle interferenze politiche o degl'inffussi di spe- culazione privata e segreta.

Che cosa sono, di fronte a questo gruppo di indagini, i fatti che parlano da sè D? Ebbene, occorre persuadere il mondo moderno, che come non ci sono statistiche che parlano da sè così non ci sono fatti che parlano da sè. Lo studio di un fatto è così complicato, come è complicato i l fatto stesso.

La ragione fondamentale di tale mentalità è dovuta alla sup- posizione che un fatto possa essere il prodotto di una causa sola o d i una causa prevalente. Ricordo un mio amico a Londra, storico in cerca di fatti, che voleva sapere da me se Pio XI (al-

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lora vivente) era stato favorevole o contrario al partito popolare che io avevo fondato. Voleva da me un si o un no che fissasse il fatto: ma io non potevo dare allo storico che diversi fatti dai quali potere trarre la conclusione che sotto certi aspetti e in dato periodo Pio XI guardò con simpatia il partito popolare e in altro si disse che ne avesse delle preoccupazioni. Tentavo quindi di analizzarne le ragioni, ma egli m'interruppe dicendo che questo per lui non era il fatto, ma erano solo cc mie perso- nali considerazioni ».

Lo spirito critico, dalla rinascenza ad oggi, ha dato la smen- tita alla credenza assoluta nel fatto; la storia si fa e si rifà in tutte le epoche, in tutti i paesi, per tutti i soggetti, proprio per il bisogno che ha l'uomo di superare cc i l fatto e arrivarne alla radice e darsi conto di quel che giace sotto i l fatto. La ra- gione è chiara: sia il fatto noto agli storici, sia quello che gli storici esumano, essendo un prodotto umano - di agenti indi- viduali liberi e reciprocamente condizionati in società - è per sua natura singolo, unico, non ripetibile, con quelle circostanze, con quella figura, così come ciascuno di noi, piccolo o grande, significante o insignificante, siamo un'individualità non ripe- tibile mai più. Tale esistenza unica, come tale fatto unico, può non avere valore per la comunità e quindi essere perduto per sempre (si dice: un numero con gli altri, ma anche così non avrà mai il valore di numero storico); e al contrario, potrà di- venire importante e degno di studio dei contemporanei o dei posteri, non per sè, ma per i significati e i valori che vi si col- legano. Così mille prigioni furono nel passato storico prese ed abbattute da folle rivoltose, ma solo la Bastiglia si ricorda co- me fatto storico, a cui francesi e non francesi attribuiscono l'im- portanza di un simbolo. Andate a spiegare il fatto della Bastiglia, e vedrete quale complesso d i elementi ne salta fuori. La critica storica ha fatto ormai giustizia del « semplicismo fattuale »; così la critica sociologica farà giustizia dello stesso metodo di inconcludente superficialità, applicato allo studio della società in concreto.

La sociologia guarda i fatti (siano o no essi riportati dalle storie politiche, civili, religiose o letterarie) dal punto di vista della loro connessione sociale. È perciò che uno degli studi più

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adatti alla sociologia è quello della cosidetta « causazione' so- ciale » dei fatti, cioè quale l'influsso esercitato dall'ambiente sociale nella concretizzazione dei fatti presi a studiare e quale la portata sociologica dei fatti stessi nel processo storico.

Nello studio della « causazione sociale » dei fatti spesso si inclina a sopravvalutare l'influsso dell'ambiente o quello delle idee e a minimizzare la volontà creatrice dell'uomo. Fra gli studiosi moderni la maggiore parte si soddisfa di spiegazioni deterministiche dei fatti storici e loro implicazione sociale. Siano coloro che credono più scientifico mostrare che l'uomo, piccolo e grande, è un prodotto dell'ambiente, siano quegli al- tri che addirittura negano la autonomia e la libertà alla persona umana, e infine quelli che pur non essendo positivisti e deter- ministi, trovano soddisfacente - per inerzia mentale o igno- ranza o gusto di generalizzazione - di attribuire i fatti a cause imponenti e quasi indiscutibili; tutti costoro inclinano a ri- durre gli eventi ad una connessione storica d i cause ed effetti, meccanizzando senz'altro la società umana e il suo processo.

Niente di tutto ciò. Quella che si dice « causazione storica o « causazione sociologica » non è una vera causazione nè in senso fisico nè in senso metafisico. In questo caso le parole causa o causazione sono prese in senso analogico e largo, sì da non implicare una necessaria connessione e un rapporto costante. Perchè un gruppo di fatti, dello stesso valore e portata, non producono affatto una guerra? Per ogni evento storico possiamo domandarci se quei dati che appelliamo cause furono per sè sufficienti a crearlo. Allora ci rendiamo conto che l'evento sto- rico è singolo, atto creativo dell'uomo e che tutta la cosidetta causalità storica non si risolve ad altro che a precedenti che fa- vorirono quella soluzione che poteva anche non avvenire o av- venire diversamente. Di qui le cosidette ipotesi storiche, che dimostrano come quelle stesse « cause » potevano darci l'evento opposto o un evento diverso.

Nel 1940 l'Inghilterra resistette alla Germania che minac- ciava l'invasione. L'eroe di quella resistenza fu W. Churchill. Supponiamo che egli in quel periodo fosse ammalato o che N.

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Chamberlain avesse fatto prevalere la sua idea di trattare la pace (cosa che fu discussa e quasi accettata prima che egli la- sciasse il posto di primo ministro): il dominio della Germania sul mondo sarebbe stato assicurato. La supposizione è dentro l'ordine della causalità storica, ma non avvenne perchè Churchill stava bene in salute e potè convincere gli altri ministri che Chamberlain non aveva ragione, così egli prese il bastone di comando e salvò l'Inghilterra.

La causalità sociologica differisce da quella storica; questa rivela le connessioni processuali di ciò che si storicizza; la pri- ma, invece, quel che può avere ripercussioni nel campo dei rap- porti sociali. Che Roosevelt sia morto è un fatto storico che ebbe conseguenze politiche; per esempio la successione di Truman; che avesse avuto anche conseguenze sociali poteva o non poteva darsi. Supponiamo che Truman avesse iniziato una politica an- tilaburista; la causa D indiretta, occasionale, ne sarebbe stata la morte di Roosevelt, cioè niente affatto una causa ma una coincidenza. Invece, i trasferimenti di popolazioni, quali quelli che avvennero nel centro europa nel 1945 e 1946, furono conse- guenza politica della guerra vinta dai tre (C grandi D, che in SO-

stanza nulla fecero per evitarli. Tali trasferimenti hanno avuto effetti sociali imponentissimi, che la sociologia potrà esaminare e discutere. Ma nè la guerra in sè, nè il regime nazista come

"t tale, nè la concezione comunista, nè le democrazie capitaliste, furono vere cause storiche di tale trasferimento di popolazione; possono riguardarsi come concomitanze, circostanze favorevoli. opportunità, condizionamento, nel quale la volontà decisa di una dittatura potè essere realizzata.

Molto comune è l'idea della cosidetta causalità occulta ». Ci sono delle parole che in ogni epoca e in ogni paese indicano la pretesa causa prevalente di ogni male. Tali parole sono nella mentalità generale così ferme, che il sociologo ha tutto l'obbligo di rendersene conto per arrivare a vedere quali fatti sociali hanno prodotto e possono ancora produrre. Al primo posto sta il co- mune pregiudizio che l'ebreo sia la causa di molti mali; ch'egli abbia un'organizzazione occulta, un potere che copre il mondo. penetra la politica, tiene in mano l'alta finanza, ha la stampa, trova amici tanto nelle chiese come presso i nemici delle chiese.

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Anche coloro che non sono affetti di antisemitismo cronico sen- tono che dovrebbe esserci qualche cosa di vero in tale idea così diffusa e costante. Riportandoci ad epoche antiche e a quelle moderne che non hanno alcun rapporto con l'antisemitismo nazista, troviamo che la paura dell'ebreo è stata nella storia uno dei motivi psico-sociali di molti avvenimenti e di molti crimini.

Per molti cattolici la massoneria è stata negli ultimi due secoli il potere occulto-ostile al centro delle congiure anticat- toliche e antivaticane. Perfino in America (dove la massoneria ha ben altro carattere di quella europea) non manca affatto si- mile mentalità. Naturalmente gli anticattolici e i protestanti tradizionali mettono avanti lo spettro del Vaticano o dei gesuiti il cui potere occulto insidia la libertà del mondo. Gli uni e gli altri ne sono convinti.

Potrei continuare in questo elenco, sia cercando dati storici del passato, sia allargandoli agli avvenimenti presenti.

Questa pseudo-causalità è un risultato di psicologie popolari primitive e povere. Per difficoltà di individuare l'origine di un male ci si orienta istintivamente verso un potere occulto. Quan- to più lontano e inafferrabile l'influsso maligno delle stelle, il fato, il destino, e simili, tanto meno individuale. Al contrario, nel mondo sublunare e umano, la individuazione si concretizza nel « nemico D, quello che è « potente D, che ha mezzi, che na- sconde la sua attività col segreto, che arriva con la congiura e con le frodi. La personificazione è fatta dall'unione di elementi veri e di creazioni fantastiche. Le reazioni popolari ali'« ebreo D. ali'« untore », al « gesuita D, alla « strega », all'« anarchico », al- l'« antinazionale », specie quando l'individuo designato non è in condizioni di difendersi, sono feroci.

I governi di dittatura e di polizia si sono serviti spesso di questa psicologia elementare a scopi politici. Celebri i progrom antiebraici nella Russia degli Czar, quelli antianarchici in An- dalusia e Catalogna del secolo scorso.

I1 sociologo e lo storico han materia di studio per arrivare a convincere il pubblico che questi poteri occulti non esistono, o non sono così forti ed estesi. Sono i miti che se ne creano che possono divenire, e divengono di fatto, pericolosi e creano delle

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psicosi collettive che si rinnovano per motivi spesso insigni- ficanti.

A proposito della idealizzazione o generalizzazione d i forze occulte, c'è anche la generalizzazione delle forze collettive a cui si attribuisce spesso pensiero ed azione, idealità ed attività, come persona vivente. Quando noi parliamo di chiesa nella usua- le generalizzazione con cui diciamo anche stato, nazione, Russia, Francia, America, capitalismo, socialismo, comunismo, demo- crazia, popolo, attribuendovi pensiero e azione, diamo al nome collettivo il carattere dell'uomo personale. In questo fraseggio la chiesa è presa per i suoi capi, il papa, i cardinali, il ceto epi- scopale di un paese - la chiesa di Francia o di Spagna - il suo potere e influsso nella vita pubblica o in relazione alla CO-

munità religiosa. L'uso è corrente, accettato, e serve a sempli- cizzare il fraseggio dei giornali; si dice Francia, Inghilterra, America per il governo o i l popolo; stato, per il potere pub- blico o la forma politica e così di seguito. Quando si passa dal giornalismo allo studio dei fatti storici e dei dati sociologici, si deve omettere un fraseggio così equivoco e inesatto, e si deve precisare di quale forza collettiva si parla, analizzarne i fattori, arrivando agli uomini, da soli o associati, che sono veramente gli agenti in azione, che parlano, agiscono e assumono le re- sponsabilità della vita collettiva.

Sul tema delle generalizzazioni antiscientifiche si può scri- vere molto. Non possiamo fare a meno d i accennare qui al me- todo exroneo d i attribuire alle teorie un effetto diretto e im- mediato sui fatti sociali, nonchè all'importanza pratica che si dà all'influsso di certi autori sui cambiamenti, i progressi o le ri- voluzioni morali e politiche. Tali autori, spesso per i l loro ge- nio o per una serie di fatti concomitanti divengono degli espo- nenti, dei simboli, dei nomi che sintetizzano un movimento complesso sviluppantesi da lunga data. Altre volte le loro opere vengono tardivamente a galla come quelle di precursori igno- rati. I n ogni caso non c'è affatto rapporto di causa ad effetto, come sembra si assuma comunemente.

Ricordo che un professore anticattolico durante un discorso storico pieno insieme di acute osservazioni e di banalità, si ri-

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volse a me dicendo: Quel che non seppe e volle fare la chiesa, lo fece lo stato laico abolendo la schiavitù ». Gli risposi senza altro che nè la sua accusa alla chiesa nè il suo elogio allo stato laico, nel caso della schiavitù, avevano base storica e criterio sociologico. Gesù non venne a far che gli schiavi divenissero di colpo liberi cittadini di uno stato, ma predicando la fratellanza e l'amore del prossimo pose le basi di una civiltà senza schiavi, l a cristiana; lo stato laico non trovò più la schiavitù istituzio- nale, e dove la trovò (America del nord) dovette affrontare una guerra civile, non bastando nè la filosofia umanitaria nè una legge federale a persuadere i rappresentanti politici degli stati del sud ad aderire alla proposta emancipazione dei negri. Biso- gna aggiungere che in questi e altri simili casi i l distacco dei fatti sociali dai principi etici è reso quasi insuperabile da vari fattori psicologici, politici ed economici, degni d i studio e d i valutazione (l4).

Assai comune è l'uso di attribuire ad un uomo, ad un libro, a d una teoria degli effetti mirabili; il che è tanto erroneo quanto è erroneo il suo contrario, quello di sommergere l'azione delle persone nell'anonimato della collettività. Ma nei due modi di rappresentare la realtà c'è in fondo un errore di metodo, quello d i ridurre le « cause multiple ad una sola e di fissare fra prece- dente e conseguente un legame determinante che arriva ad essere deterministico.

Karl Marx divide con Rousseau gli onori di essere la causa del bene e del male della società moderna, come un tempo tale onore spettava a Lutero o a Calvino, a Giansenio o a Voltaire. Ma chi può mai credere che senza Rousseau e il Contratto so- ciale non ci sarebbe stata democrazia in Francia? Chi può dire che davvero la democrazia francese, sia quella del 1789 o del 1848, sia quella del 1875 o del 1945, sia stata calcata sul piano d i Rousseau?

Così per Karl Marx. I1 movimento socialista trovò in lui un

(14) V e d i : LUIGI STURZO, The InfEuence of Social Facts on Ethical Con- ceptiom, New York, Thought, 1945; ripubblicato nel presente volume, pp. 214 sgg.

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teorico, ma più che il teorico, un ~ ro fe t a . Come teorico fallì nei suoi vari aspetti, il filosofico, il politico e l'economico, ma diede però uno strumento: la lotta di classe teorizzata, che servì a spingere il nascente socialismo europeo all'organizzazione me- todica, e trasferì sul piano messianico (la dittatura del prole- tariato) le aspirazioni elementari delle classi lavoratrici. Marx o non Marx, non mancavano allora teorie sociali e tentativi di pratica rivoluzionaria, perchè la vera spinta al socialismo era data dalle aspre condizioni del lavoro in regime detto liberale quando l'industrialismo nascente per reggersi contava sullo sfrut- tamento dell'operaio.

Non si negano gli effetti delle idee nuove o messe a nuovo, delle iniziative dei pionieri e delle opere degli uomini di genio; si nega la tendenza a farne la causa prima, la causa unica, anzi a farne una causa. Non si ha la pazienza di esaminare dati, fatti e motivi che han reso possibile che quegli uomini siano dive- nuti esponenti di movimenti sociali o politici; di conoscere il vero perchè si siano essi inseriti nelle correnti riformatrici del 'momento e vi abbiano inoculato quelle idee-forza (poche O

molte) che ne hanno reso possibile la utilizzazione. Questo deve essere, ed è di fatto, il lavoro di storici seri e di

sociologi colti e di larghe vedute, i quali sanno apprezzare e mettere in giusta prospettiva il lavoro personale dei grandi ri- formatori e il significato delle loro idee che furono inserite nella realtà storico-sociale, o che servirono ad interpretare in maniera superiore alla media umana, i bisogni e le tendenze, i sentimenti e le idealità sociali, dandovi la vitalità di ritmi che sembrano imperituri.

I1 complesso ideologico, che serve di guida all'umanità nel suo processo storico, si va formando con ritmo proprio secondo il grado di cultura e di sviluppo delle varie popolazioni e del loro influsso reciproco. Esso penetra in profondità e dà anima a quei cicli di vita collettiva che si chiamano civilizzazioni n. Lo studio di tali cicli non può essere solamente storico nè sola- mente sociologico, ma deve essere complessivo. Perchè tanto la

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struttura morfologica della società appartenente ad un ciclo di civiltà quanto il processo temporale si influenzano reciproca- mente.

Ogni civiltà - perchè sia tale - è così radicata nei gruppi sociali e nello spirito dei popoli che la compongono e che si succedono di epoca in epoca, che è impossibile confonderla con altre contemporanee o precedenti, non ostante che i l tipo uomo sia sempre lo stesso nella sua natura. Non si tratta di diffe- renze di razza o di condizionamento, si tratta di differenze ideali e pratiche che sono radicate nei sentimenti, nelle abi- tudini, nelle convinzioni di popoli anche diversi per tempo e spazio ma viventi nello stesso ciclo di civiltà. Questa è tanto più elevata quanto più gli uomini vivono largamente e profon- damente la loro vita associata per nuclei ed organismi sempre più estesi e complessi. Sicchè non è un'esagerazione affermare che le civiltà progrediscono col progredire del vivere civile non solo delle élites sociali ma di tutto il popolo, e in tutti i rami dell'attività collettiva.

Essendo, pertanto, la sociologia la scienza della società in concreto ( a parte gli elementi comuni delle varie civilizzazioni), ci dovrebbero essere tante sociologie particolari quante civiltà, essendo che ogni società in concreto appartiene a quella deter- minata civiltà e non ad altra. Invero, se vogliamo studiare la s0ciet.à classica greca e romana, o qualsiasi società antica, ne ri- veleremo i dati in rapporto a quelle civiltà. Forse che l'uomo di allora non era lo stesso dell'uomo di oggi? Certo che si, ma le disposizioni responsive dell'uomo ai dati esterni e allo sviluppo sociale erano diverse perchè idee e fatti, principi e realizzazioni, filosofia e religione erano diversi e, quindi, diversa ne era l'or- ganizzazione sociale e l'espressione morale dell'epoca. Così do- vrà dirsi delle altre « civilizzazioni », la cinese, la cristiana, la indù, la maomettana.

Ogni civilizzazione è legata ad una filosofia della vita e ad una religione che ne riassume il contenuto etico e sociale. I1 fatto non è senza significato perchè solo la razionalità dà il fi- nalismo all'uomo e solo la religione ne esprime l'eticità. I posi- tivisti, gli agnostici, i filosofi della natura, sostengono che la civiltà cristiana va ad esaurirsi o si è esaurita, e una civiltà -

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puramente naturale - va a prenderne i l posto. I1 tentativo d i scristianizzare la società, e anche d i toglierle ogni senso del reli- gioso e del mistico, continua da due secoli nel mondo della cul- tura così come negli strati politici. Si cerca di dare all'idea d i stato, umanità, nazione, razza, classe di lavoro, un carattere fi- nalistico definitivo. Siano questi nomi fatidici inseriti in un ci- clo dialettico rinnovantesi, ovvero siano presi come termine d i u n processo Lvolutivo, o si realizzino per progresso indetermi- nato che si determina nei fatti, ci troviamo di fronte ad una concezione di naturalismo panteistico che va invadendo la SO-

cietà a civilizzazione cristiana. I1 sociologo, pur non interessandosi alla filosofia come tale

nè alla religione come tale, non può non notare questa tenden- za naturalistica della civiltà presente e deve poterne classificare i fatti secondo schemi ipotetici o tipi approssimativi che gli ser- vono di aiuto nelle sue ricerche. Se egli tralascia d i studiare questo fatto, ha già tolto alla sua sociologia una materia rile- vante di studio rendendola incompleta e inconsistente, ovvero limitandola all'analisi di alcuni fatti sociali di secondaria im- portanza, senza arrivare al centro della valutazione della società presente.

Al sociologo che studia la civilizzazione presente dei paesi occidentali non può sfuggire l'importanza del cristianesimo e del suo sviluppo; così come i l sociologo indii o maomettano o cinese farà lo stesso nel valutare gli elementi fondamentali della propria civiltà. Egli lascerà ai polemisti di dirci se i l cristiane- simo sia in aumento (basandosi sulle statistiche di censimento) o in decadenza (basandosi sugl'indici della cultura, moralità e pratica religiosa); lascerà ai profeti di predire se nel futuro ci sarà ancora maggiore sviluppo religioso O invece decadenza. . -

Egli come studioso, non della religione come tale ma del carat- tere e del ritmo delle civilizzazioni, deve penetrarne la natura e analizzarne l'influsso nella vita sociale, per rendersi conto di quel che è vivo come spirito e d i quel che si va trasformando come istituzione. Altrimenti egli perderà di vista la funzione della sua scienza, e il carattere teorico e illuminativo di essa. Si accorgerà anzitutto che tutta la sociologia moderna, pur nata nel clima del positivismo naturalistico e divenuta agnostica, è

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dentro la stessa civiltà cristiana e ne subisce l'influsso e la vi- talità. Quel che si dice della sociologia si può applicare alla filosofia, all'etica, all'orientamento scientifico, politico e sociale moderno.

Non sembri strana questa mia affermazione, che il comples- so « laicista n del pensiero moderno non poteva svilupparsi che in una società « cristiana » sia come spinta alla riforma di molte cristallizzazioni sociali che pur nate sotto l'ispirazione cristiana, se n'erano distaccate; sia come negazione parziale dei principi religioso-etici del cristianesimo; sia come negazione pretesa to- tale, che totale non è pur avendo assunta l'apparenza di un'apo- stasia completa dalla stessa civiltà cristiana.

Come l'eresia non poteva nascere se non col dogma e pel dogma, così la civiltà di oggi - pretesa laica e anti-cristiana - (se civiltà possa essere lo diremo più sotto) - non poteva na- scere che in paesi già impregnati di cristianesimo, e se ne av- vantaggia in quello che crede sia sua propria realizzazione: fra- tellanza universale, giustizia sociale, libertà politiche, autono- mia scientifica, educazione indipendente, arte libera, economia pianificata e molti altri aspetti della presente società.

Ma chi voglia darsi la fatica, per ciascuno di questi punti presi in astratto, di cercarne il nascere e studiarne il processo ideologico e quello ben distinto di attuazione, comprese le stasi e le crisi, si accorgerà che non sono invenzioni dell'oggi, come superficialmente possono apparire, ma hanno circolato come veri fermenti d i socialità per due mila anni di cristianesimo.

Un dato solo tende a differenziare l'oggi dall'ieri, gli stessi principi e valori di oggi da quelli di ieri, la mancanza di rife- rimento religioso, e ciò non perchè l'uomo sia oggi meno reli- gioso di ieri, ma perchè si è cercato di evadere Dio (come as- soluto su cui poggiare e a cui tendere) con dei relativi esisten- ziali o nominali quali la nazione, lo stato, la classe, la razza: l'umanità e altri simboli della realtà umana.

I1 sociologo positivista non crede a taIe mitizzazione, ma è convinto della possibilità di una nuova civilizzazione senza reli- gione, utilizzando però i valori sociali del cristianesimo. Anche nel caso che egli non arrivi a formulare un'idea simile e si man- tenga sul terreno della pura fenomenologia, egli l'avrà per pre-

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supposto al quale inclina il suo modo di pensare e di esprimersi. Ogni uomo è filosofo anche senza sapere di esserlo.

Ebbene, si va davvero verso una nuova civilizzazione, una civilizzazione che derivi dal cristianesimo e lo superi? Ecco il problema che si presenta tanto al filosofo che allo storico e, per quel che di filosofia e storia (volere o no) c'è nella sociologia, anche al sociologo che studia le civilizzazioni e i loro cicli. Se noi rispondiamo di no a tale domanda, saremo accusati di aprio- rismo o di insufficiente osservazione dei fatti concreti. Ma noi abbiamo due prove per rispondere di no. La prima storica, che non è esistita e non esiste civilizzazione che non sia basata sopra un complesso ideologico espresso come filosofia - morale - reli- gione, che serva di nesso connettivo e d i regola comune dei nu- clei sociali e di idealizzazione dei dati stessi della vita. L'altra sperimentale, che i l complesso laico-areligioso della cultura moderna rimane sul piano negativo, disgregante, e non ha pro- pri dati positivi per costruire una filosofia, un'etica e una reli- gione comune. Per questo i culti della ragione (rivoluzione francese), dell'umanità (Comte), della nazione (Fichte), della classe (Lenin), dello stato (Mussolini), della razza (Hitler) sono caduti come la statua di Nabuccodonosor. La morale, dall'altro lato, non si può trovar fuori della tradizione mosaico-stoico-cri- stiana, una morale che resista alle passioni umane e le superi. I sociologi positivisti tendono a ridurre l'etica a una specie di concordanza o simpatia sociale o di condotta comune, priva di ogni valore razionale. Come sarà possibile che costoro siano i pionieri di una nuova civilizzazione?

Che per le invenzioni scientifiche e per l'organizzazione eco- nomica del mondo, vi sia oggi maggiore benessere materiale, e ve ne possa essere di più in seguito (salvo le crisi), è cosa acqui- sita. Ma la scienza come accresce i mezzi di vita accresce anche i mezzi di morte: la bomba atomica ne è un saggio; ma non C'&

bisogno della bomba atomica per credere ciò; bastavano i gas asfissianti e le cento invenzioni scientifiche atte a uccidere intiere popolazioni, Ma che possa esservi una civiltà puramente mate- riale in cui tutto il mondo avrà lasciato le concezioni religiose e anche soprannaturali e avrà adottato una concezione di vita fi- nalmente senza Dio, senza chiesa e senza morale comune, questo

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sarà impossibile per quella stessa libertà sociale e politica, per quella iniziativa individuale e associata, che sono a base del vi- vere civile moderno. Ci saranno sempre gli assertori e difensori della vita religiosa, anche se inviati in campi di concentramento, anche se martirizzati, come fecero i romani dei primi secoli del cristianesimo. Se il mondo futuro risponderà all'appello del cristianesimo come nei secoli passati o in maniera diversa, è quello che non può essere preveduto da nessun sociologo; ma finchè un uomo è un essere libero e razionale, nessuno potrà sopprimere con la forza o con la propaganda lo spirito religioso dell'uomo. Pertanto, finchè la concezione di vita basata sulle teorie materialiste prevalenti oggi nel mondo della cultura non si presenta nè altamente morale nè spiritualmente religiosa, non si potaà avere una civilizzazione che possa pretendere di sop. piantare quella basata sul cristianesimo.

Questa è stata una digressione al problema del metodo, non però tale da dirsi estranea a! presente discorso. Lo studioso di sociologia che analizza i cicli delle civilizzazioni, dovrà com- prenderne la natura, esplicare il fatto storico costante del fat- tore religioso che dà la caratteristica prevalente alle civilizza- zioni nel loro contenuto culturale, etico e strutturale. Solo così si renderà conto del valore degli scismi, delle eresie, del frazio- namento dei culti, delle loro similarità e discrepanze, e del conflitto delle religioni con i poteri civili, ora sottostando, ora soverchiando, ora differenziandosi (l5). È molto importante che lo studioso anche non sociologo, acquisti l'abito di valutare i fatti storici nel loro aspetto sociologico.

Ho più volte nei miei scritti parlato del rapporto tra storia e sociologia, dando rilievo all'aspetto importante della storia, che presa nel significato di processo dell'attività di ogni singolo popolo, manifesta i l processo di una determinata s0ciet.à organiz- zata che si svolge nel tempo. Infatti, la società non esiste nè può esistere senza la dimensione temporale, come non può esistere

('5) LUIGI STURZO. Chiesa e stato, op. cit.

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senza la dimensione spaziale: la società vive nel tempo e nello spazio. Studiare la società come se fosse fissa, senza dinamismo e senza processo, è fare uno studio analitico, morfologico e per- ciò astratto dalla realtà. Nulla si oppone, dal punto di vista del metodo, a che i l sociologo studi il tale o il tal altro fenomeno, limitandosi allo schema morfologico di una data società. Ma chi non ha l'abitudine mentale e gli studi sufficienti per com- prendere la vera natura di una società nel suo ambiente storico, dentro il ciclo della sua civilizzazione, non sarà neppure capace di studiare e mettere in giusta prospettiva la morfologia e la fenomenologia di una data società.

Molti credono che la storia dia solo un certo aiuto alla so- ciologia; vi sono quelli che pensano che la storia falsifichi la sociologia e il suo carattere scientifico. Costoro concepiscono la storia come semplice enumerazione di fatti e di dati di carat- tere civile e politico. Ma quella non è storia nel senso vero della parola, è solo la materia di cui si fa la storia, indicazione di una realtà sottogiacente e che deve rivelarsi come attività complessa e continua dell'uomo in quanto organizzato nella e per la so- cietà. Onde la storia deve essere concepita e studiata come una attività collettiva, dalla quale emergono uomini responsabili, significativi, simbolici, capi, pontefici, condottieri e tribuni, geni e scienziati, che sintetizzano ed esprimono in modo creativo i bisogni, i sentimenti, le aspirazioni dei popoli. Più intima e necessaria scienza non esiste per la sociologia, anzi la storia può essere riguardata come l'aspetto concreto e dinamico della so- ciologia, come la materia vivente della esperienza sociologica.

Non ogni sociologo dovrà trattare la società nella sua dimen- sione temporale e nel suo aspetto dinamico; ma nessun socio. logo, - sotto pena di non essere affatto un sociologo - può trascurare lo studio della storia come connessa e intima alla sua scienza, anzi come uno degli aspetti più importanti della so- ciologia.

Va1 la pena riassumere quelle norme di metodo che si cre- dono indispensabili per ogni studioso di sociologia, quale essa

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sia o possa essere la sua specializzazione, dovendosi da ogni spi- rito aperto dare alla sociologia un po' del proprio tempo per conoscere meglio la societ,à nella quale si vive.

1) L'oggetto proprio della sociologia è la società in con- creto, nelle sue varie forme, nel suo sviluppo, nel suo dinami- smo. Lo studio della società in astratto potrà essere dominio della filosofia, dell'etica, del diritto, dell'antropologia, dell'eco- - - nomia o della politica o di qualsiasi altra scienza, non mai della sociologia.

2) Perchè la società in concreto sia bene conosciuta oc- corre studiarne il processo storico, cioè la dimensione tempo- rale nella quale essa si svolge attraverso i secoli.

3) La società dovrà essere studiata sotto l'aspetto di cc CO-

scienza individuale-collettiva », quale elemento essenziale per la concretizzazione della socialità in forme, organi, istituti, sintesi: che l'uomo in società realizza, crea, sviluppa, abbatte e rinnova.

4) A bene conoscere e valutare il ritmo del dinamismo so- ciale e la sua effettività, occorre analizzare i motivi di conser- vazione e quelli di riforma che animano i gruppi sociali e pon- gono gli uomini in contrasto fra di loro, contrasto d'interessi e di classi, contrasto di popoli e di nazioni, contrasto di gruppi di cultura e di chiese, contrasto di minoranze e di maggioranze, e così di seguito.

5) Non essendo altro la società in concreto che il realiz- zarsi dell'attività associativa dei singoli uomini, chi ne intra- prende lo studio deve avere completa conoscenza dell'uomo e delle teorie che lo riguardano, e basare le sue ricerche sociolo- giche su metodi chiari, anche se egli tenti di prescindere da qual- siasi ricerca teoretica e si limiti alla pura fenomenologia sociale. Del resto ogni studio analitico dei fenomeni sociali non può ave- re consistenza e serietà senza conoscenza piena e reale di quel che è la società in concreto e del valore dell'attività dei singoli associati e operanti insieme.

6) Non può concepirsi una società in concreto nè l'attività associata degli uomini senza leggi interiori della natura asso- ciativa degli uomini, che perciò chiamiamo leggi sociologiche. Dovrà evitarsi l'attribuzione alla sociologia di leggi estranee alla sua particolarità scientifica, come fan coloro che si appog-

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giano sulle analogie con altre scienze, quali la meccanica, la bio- logia, l'economia, la politica, l'etica, il diritto, la filosofia.

7) La ricerca delle leggi sociologiche è un lavoro assai de- licato, data la mancanza sia di chiara tradizione scientifica sia d i rigore metodologico. È perciò consigliabile di non attribuire alle leggi che si discoprono alcun carattere definitivo prima di una sufficiente sperimentazione; ammetterle solo come ipotesi di studio, come linee di confine, come punti di orientamento, finchè, per studio personale o per consenso di scuole, si potrà arrivare a ritenerle come vere leggi sociologiche ovvero a ri- gettarle del tutto.

8) Le leggi sociologiche sono sempre leggi dell'agire in so- cietà; il condizionamento non è regolato da leggi sociologiche, ma da altre leggi - fisiche e storiche - secondo la natura !a- ria delle condizioni poste dall'esterno all'agire umano.

9) Lo studio di ogni condizionamento all'attività dell'uomo in società fa parte integrante della sociologia, non come branca autonoma, nè come studio di causalità deterministiche, ma come complesso condizionale e indeterminato, che l'uomo agendo ca- ratterizza, specifica e realizza.

10) I fatti e i dati dell'esistenza dell'uomo in società - sia del passato che del presente - formano materiale di studio del sociologo. Ma sarà impossibile utilizzarli scientificamente senza Io studio del fatto nella sua complessità, nei' motivi che l'hanno reso possibile e con i caratteri che lo individualizzano e lo di- stinguono da altri fatti in apparenza simili, in modo da poterne afferrare il significato sociologico e conoscerne le eventuali im- plicazioni storiche, etiche, economiche e politiche.

11) Per lo studio della cosidetta causalità, o causazione sociale H, il puro fatto astratto dalla realtà non ha alcun signifi- cato, essendo che i l fatto sociale è prodotto di una lunga serie d i antecedenti che lo hanno reso possibile nella sua complessità. La causalità sociale (termine abbastanza equivoco in sè) non è affatto deterministica, nè i fatti sociali possono riportarsi ad una sola causa efficiente che non sia la volontà degli uomini indivi- dui che l i hanno prodotti.

12) La statistica, in quanto applicata ai fatti sociali, non può essere probativa, dato che si mettono sotto il medesimo de-

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nominatore fatti apparentemente simili ma qualitativamente di- versi. Occorre quindi essere accorti, limitandone l'uso a scopo di accertamento provvisorio, indicativo e classificatorio, evitan- do ogni conclusione scientifica che derivi da una pretesa simila- rità e da una creduta frequenza. Quali e quante possano essere le classifiche in cui si mettono i dati numerici dei fatti, non po- tranno mai darci il loro complesso reale, ma solo una serie di dati astratti dalla realtà individuata.

13) Per la stessa ragione che i paragoni storici se spinti al di 1.à di un valore analogico portano a falsificare la realtà dei fatti messi in correlazione, così i paragoni sociologici che si ri- levano dalla storia tendono a far deviare dal giusto apprezza- mento della singola realtà. Questa norma metodologica si appli- ca allo studio delle civilizzazioni, nelle quali si ricercano i dati similari dei vari tipi sociali, come la famiglia, lo stato, la reli- gione, l'economia e ogni altro aspetto della società in concreto.

Lo studio comparato delle civilizzazioni ha un valore illu- strativo e serve ad approfondirne i dati messi a raffronto, a patto che ciascuna sia mantenuta nel suo quadro, e per ciascuna si trovino le leggi proprie a mezzo delle quali poterne tentare lo studio sociologico sistematico.

14) Noi sosteniamo una tesi che può sembrare azzardata, che il sociologo mentre è abile a trovare la natura e le leggi della civiltà in cui è nato e vive, non sarà allo stesso modo abile e completo interprete di altra civiltà, anche se tenta di spogliarsi degli abiti mentali e sociali della prima per vestirsi degli abiti mentali e sociali della seconda. Tale sociologo resterà sempre un osservatore dal di fuori che arriveri a comprendere molto della civiltà estranea alla sua, ma non ne potrà penetrare lo spi- rito. Qualsiasi sforzo di adattamento abbiano fatto missionari. scienziati, uomini e donne di carità, uomini d'affari o spioni po- litici, che han tentato di vivere in centri di civiltà diversa e assi- milarsi a quei popoli, il loro pensiero, il lavoro e la vita stessa sono stati sempre in funzione di un'altra civiltà e di scopi estra- nei a quelli delle popolazioni presso le quali son vissuti.

D'altra parte, la sociologia come scienza è un prodotto della mentalità occidentale moderna, cristiana nel ceppo e laica nelle foglie. I sociologi indiani, cinesi, giapponesi, maomettani non

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potrebbero fare che delle imitazioni estranee alla loro menta- lità, e solo dall'esterno. C'è di più: anche fra gli occidentali, i sociologi positivisti e senza fede stentano a penetrare l'ambiente cristiano e a dare una sociologia soddisfacente, proprio per la difficoltà di permeazione e di assimilazione di un mondo che non è i l loro.

15) Al sociologo, quale che sia la civiltà cui appartenga, non può sfuggire lo studio dei problemi religiosi e della inser- zione del soprannaturale nella storia e quindi nella società (l6),

data l'enorme massa di fatti e di elementi che se ne traggono dalla vita sociale dei popoli. Infatti, abbiamo un'interessante letteratura sociologica su tale tema. Sventuratamente, lo scien- tismo e i l naturalismo moderno hanno indotto i sociologi ad ac- ce t tane ciecamente i postulati, trasportandoli nella sociologia che ne è rimasta, come scienza autonoma, alterata.

I1 problema proprio che può avere importanza per la socio- logia resta al di fuori della problematica scientista vertendo sul- la ricerca della natura, la consistenza e il valore della religione nella vita associata - non presa questa in astratto ma in rap- porto ad ogni religione positiva nel complesso di ogni partico- lare civilizzazione. Verrà fuori un dato storico impressio.nante - che la sociologia dovrà verificare ed esaminare - che non è esistita alcuna civilizzazione o ciclo di civilizzazioni senza reli- gioni positive, di tipo realmente o apparentemente sopranna- turale; e per di più, che è proprio la religione a caratterizzare, sintetizzare ed unificare ogni civilizzazione.

Se il sociologo è allo stesso tempo uomo religioso e vive inti- mamente la doppia - unica vita, naturale e soprannaturale, egli comprenderà per esperienza propria come il soprannaturale si sia inserito nella storia umana, ed egli avrà un titolo di più (se è vero scienziato) a darci una sociologia integrale corrispondente alle presenti condizioni delle società che appartengono al ciclo della civilizzazione cristiana.

16) Alcuni obietteranno ( e l'eco m'è arrivata) che la parti- colanzzazione delle sociologie secondo le varie civilizzazioni esi- stenti - e per via d i induzioni e di approssimazione con le ci-

(16) Vedi: Lurcr STURZO, La vera vita: Introduzione.

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viltà esistite nel passato - dà motivo a credere che non vi sarà mai una sociologia (che forse sarebbe la vera) della società in generale. Chi avrà seguito il nostro metodo ed avrà letto i la- vori da noi pubblicati, avrà avuto agio d i notare l'insistenza messa a precisare che l'oggetto proprio della sociologia (che la distingue da ogni altra scienza) è la società in concreto, (del resto non esiste alcuna società in astratto), e che nel fatto ogni so- cietà esistente si sviluppa temporalmente entrando così nel pro- cesso storico.

Si dà per concesso che lo studioso delle società storiche tro- verà vari elementi similari fra tutte le società presenti e passate, ma se egli si ferma a questo stadio delle sue ricerche, potrà ten- tare una descrizione morfologica delle varie società, o darvi si- stemazione filosofica, e cercarne elementi di altra natura; ma non farà mai un lavoro scientifico di sociologia.

Se altri ama d i dare il nome di sociologia allo studio degli elementi analitici della società ovvero a quello dei principi astratti della realtà vivente e temporale, nessuno potxà certo im- pedirlo. Come nessuno potrà impedire che questa venga chia- mata pseudo-sociologia e non venga confusa con la vera sociologia.

Se ancora non si è d'accordo sull'oggetto specifico della so- ciologia, la colpa non è della scienza sociologica, ma di tutti co- loro che non hanno saputo o voluto distinguere la società in con- creto dalla società in astratto, e accettare solo la prima come oggetto specifico della sociologia, classificandola così come scien- za autonoma con proprie leggi e proprio metodo.

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RISPOSTA AI CRITICI

Nonostante che in altri saggi, specialmente nello studio sul Metodo sociologico, abbia qua e là toccato vari punti della mia teoria che hanno destato dubbi e provocato critiche da parte dei miei recensori dell'lnner Laws of Society (l), mi sembra oppor- tuno ritornarci d i proposito in questo scritto.

Non è questa una risposta polemica, sì bene esplicativa: la benevolenza da essi mostratami mi fa anche apprezzare le stesse critiche, che hanno la loro utilità nel provocare la chiarificazione delle idee. A tale fine serviranno molto anche le letture sulla mia sociologia date nel 1945 dal Dr. P. H. Furfey all'università Cattolica di America in Washington e dal Dr. Robert C. Pollock alla New School di New York.

Questo studio è principalmente diretto a John A. OaterIe T.O.P. e a Franz H. Muller, e potrà dare occasione ai lettori interessati alla mia sociologia a valutare meglio le ragioni della differenza fra le mie idee e quelle dei miei critici.

Capo I

SOCIETÀ IN ASTRATTO E IN CONCRETO

L'idea che io possa essere preso per nominalista mi ha fatto sorridere la prima volta che ne lessi l'accenno di Franz H. Mu1- ler (2), ma avendo visto che lo stesso Muller vi ritorna nella replica alla mia lettera pubblicata nel numero successivo della

( l ) LUIGI STURZO, La società, sua natura e leggi, rit. (2) The American Catholic SociologicaL Reuiew, July 1949.

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stessa rivista (3) e John A. Oesterle vi inclina nel suo studio ('), mi sono domandato quale motivo abbia io dato nei miei scritti da indurli a farne, un chiaro rimarco.

Oesterle arriva a credere che affermando io che « la società in generale è un concetto astratto » (3 dia l'impressione che « l'astratto sia una forma di ragionamento mentale, senza fonda- mento nella realtà » (6) . Questa supposizione di Oesterle non trova alcuna base nel mio libro che egli ha così largamente ana- lizzato (7, dove io tratto lungo tutta la prima parte della forme della socialità, del loro aspetto generale, che è dato dal fine na- turale di ciascuna di esse, e dello svolgimento storico, che rispon- de al carattere individuale di concretizzazione per ogni singola società.

Nel distinguere la nozione astratta di società dalla società esistente nella sua concretezza, io ho inteso precisare quale è i l vero oggetto della sociologia (e, si capisce, della mia sociologia); non ho inteso per questo entrare a discutere quale è i l carattere del passaggio mentale dalla società in concreto alla società in astratto. Ma avendo dimostrato che nel concreto esistono non solo questa o quella società ma forme diverse di società, non ho messo alcun ostacolo al filosofo di procedere dal concreto al- l'astratto e dal particolare all'universale.

Se io, come suppone Oesterle, avessi inteso per astratto qual- che cosa di (( unreal » o di « misleading », una delle due: o io avrei negato la concretezza della società (mentre la mia socio- logia sostiene i l contrario), ovvero avrei negato la possibilità di un'astrazione dalla realtà (il che non è affatto rilevabilel da nes- suna delle mie affermazioni anche se prese fuori dal loro con- testo).

Fra me e cotesti miei critici c'è, nel fondo, una differenza di vedute circa la natura della società che va più in là di una

(3) October 1945. (4) The Thomisì, October 1945. (5) H The society in genera1 is merely an abstract eoncept D. (6) H The abstract is associated with the unreal or the misleading, or

that the abstract is a form of reasoning in the mind apart from a foundation in reality n.

( l ) LUIGI STURZO, La società, sua natura e leggi, cit.

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malpiazzata questione di a universali n ; per questo la mia con- cezione della u società in concreto )) desta dei dubbi.

La mia posizione è netta: contro i u sociologisti )) alla Dur- kheim, che fanno della società un'entità per sè stante, contro gli a istituzionalisti n alla Haurion, che fanno dell'istituzione un'en- tità per sè stante, contro gli ur organicisti 1) di tutti i tempi, che fanno degli organismi sociali delle entità per sè stanti, io so- stengo che la società in concreto è la coesistenza degli individui cooperanti coscientemente ad un fine comune, e che nè la società nè le sue istituzioni o i suoi organi sono un qui& tertium, una ipostasi vivente, una realtà distinta dalla realtà degli individui associati ed operanti ad un fine comune.

Sfido i miei critici a trovare nella società in concreto altri elementi fuori d i quelli da me posti nei seguenti termini: a) l'uo- mo individuo nella sua concretezza e pluralità (un uomo solo non fa società); - b) un fine comune, naturale o derivato da na- tura; - C) la coscienza comune formata nel mutuo riflesso delle coscienze individuali; - a') il processo temporale, anche a l d i là dei limiti della vita individuale, se e quando la coscienza della società in concreto (tale società) venga partecipata alle nuove generazioni.

Così viene chiaro che gli agenti in società non sono altro che gl'individui; fuori d i essi non si può trovare nè una finalità co- mune (che è razionalità); nè una coscienza comune (che è ra- zionalità e volontà in atto); nè un processo storico (che è la continuità temporale d i tale finalità e 'di tale coscienza).

Perfino il condizionamento - che noi apprendiamo come esterno a noi, che è per noi limite all'agire ed elemento da su- perare, - si trasforma, per quel che l'individuo v'incide della propria finalità sociale, in valore umano e attivo; così che il con- dizionamento porta attraverso le epoche l'impronta dell'attività delle generazioni che passarono,

Quali altri fattori presenta una società in concreto, che siano ultimi e non risolvibili in questi sopra indicati?

Franz H. Muller afferma che u il filosofo sociale deve dare una risposta alla domanda, quale senso abbiano le frasi: la so- cietà agisce e reagisce. Se noi diciamo che in realtà solo gl'indi- n d u i agiscono e reagiscono, la società non sarà, in verità, che un

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puro nome » John A. Oesterle anche lui insiste dicendo «Noi dobbiamo comprendere la natura della società come disegnata formalmente dalla sua concreta esistenza che ci dà una reale entità distinta dagli individui e, ragionevolmente, con relazione agli individui che formano la società » (9). Se i miei critici nel dire ciò intendono riferirsi solo alla nozione di universalità d i società, cioè a quello che gli scolastici chiamano essenza come distinta dall'esistenza, niente di male a concedere loro che que- sta essenza esiste in re ed è proprio quella che io, con uno di quei termini fuori uso, ho chiamato socialità. Anzi ho sostenuto che questa è solo una caratteristica umana razionale e non ani- male (l0). Onde la mia concezione di socialità è a&e alla defi- nizione aristotelica che l'uomo è animale sociale.

Ma dove si trova questa essenza attuata ed esistente3 proprio negli individui associati ad un fine comune naturale (naturale nell'uomo vuol dire fondamentalmente razionale). Come l'uma- nità si trova attuata in ogni singolo uomo così la socialità si trova attuata in ogni singola società: uomo, in concreto - so- cietà in concreto. La socialità non ha altra esistenza tranne quella ndzionale nella nostra mente, a parte l'esistenza archetipale ne1 Creatore.

Ciò posto i l problema non è affatto quello affacciato da Muller, che vuole sapere se sia la società ad agire o reagire, CO-

me se fosse un essere vivente diverso dagli individui (un quid ter- t ium che non esiste), ma quello metodologico di Oesterle espres- so nei seguenti termini: « È vero di sicuro, che lo studio d i un soggetto come la sociologia va a finire all'ordine concreto d i so- cietà particolari, ma l'arrivo a tale stadio della nostra investi- gazione presuppone una solida comprensione della natura e del

(a) uThe social philosopher must give an answer to the question what i4 rneant when we say that a society acts or is acted upon. If we say that in reality only individuals act and are acted upon, then society does indeea appear as a mere mmen W.

(Q) a We mnst nnderstand the nature of society as drawn formally irom iia concrete existence which gives us a real entity distinct from, and of course related to, these individuals forming this society m.

(10) h società, sua natura e leggi. Capo I.

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carattere della società 1) t"). D'accordo; io uso a questo scopo il termine astratto di socialità dandone le caratteristiche della sua essenza e concretizzazione (capitolo I); Oesterle preferisce la parola società tanto per l'astratto (con fondamento in re) che pel concreto esistenziale; l'uso è comune ma equivoco. Nel ca- ratterizzare la socialità chi scrive ha fissato non solo i dati ne- cessari a costruire una teoria sociologica, ma anche il presup- posto filosofico derivante dalla «razionalità ». Anche qui ho usato l'astratto e non il concreto (l2) per indicare il principio generale operante in tutte1 le concretizzazioni sociali.

Oesterle qui introduce un nuovo elemento, quello del bene comune superiore al bene individuale, come specificativo della nozione di società presa come distinta dalla semplice coesistenza degli individui associati ad un fine comune. L'obiezione è virtual- mente confutata nella definizione, cioè quella di un fine comune naturale o derivato da natura. I l bene comune non è altro che

. il fine realizzato. Tratteremo la questione nel capo 111 di questo scritto, qui basta l'accenno.

In sostanza, i miei critici sarebbero lieti se, fuori del sociolo- gismo alla francese, fuori del vecchio e nuovo organicismo, po- tessero trovare qualche cosa di reale che dia consistenza propria alla società come distinta e a volte opposta agl'individui. Ma purtroppo, non troveranno altro che la socialità come i l termine universale, astratto dalla realtà. Chi agisce e chi pitisce sono gl'individui associati.

(n) u It is true, o£ course, that the study o£ a subject such as sociology terminates in the concrete order o£ the particular societies, but our arriva1 at that stage of investigation presupposes a sound understanding o£ the nature and o£ characteristie o£ society ... n.

(l2) Non SO perchè questi e altri astratti come physicity, intellectivity etc. abbiano trovato la totale disapprovazione di dom Kilzer, Orate Fratres - Febmary 25, 1945 e di altri i quali credono che siano di mia invenzione, il che è per lo meno inesatto; corrono in Europa da forse un secolo.

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Capo I1

ORDINE SOCIALE E RAZIONALITÀ

Oesterle crede che io abbia semplicizzato a tal punto gli elementi costitutivi della società da averne fatto « una serie di coscienze individuali associate » e aggiunge: « Non vi è quasi nulla qui che mostri come una società sia realmente una unione di persone raggiungenti una perfezione dell'essere non ottenibile dagl'individui ( in singolo), cioè un progresso qua- litativo e perciò d i un ordine superiore » (l3). Non sembra che chi ha scritto queste linee sia la stessa persona che ha letto il mio libro Znner Laws of Society facendone una lunga e cri- tica recensione. Egli ha dimenticato di sicuro che uno dei temi principali del libro è la funzione della razionalità nella con- cretizzazione sociale, nell'attuazione storica delle forme della socialità (primarie e secondarie) e nella formazione s nel dina- mismo delle sintesi sociali. Lo stesso Oesterle avrà avuto più volte occasione di notare, leggendo il mio libro, che la razionalità vi è intesa tanto come facoltà intellettivo-ragionativa di ciascun individuo, quanto come proiezione realizzatrice dell'attività so- ciale degli uomini. Avrà anche notato che questa razionalità si traduce, come movente e come finalità di azione, in verità e amore, si che la verità e l'amore restano sempre gli unici e perenni fat- tori di perfezione individuale e sociale. I1 paragrafo 39 porta que- sto titolo Ordine etico, ordine giuridico. Giustizia, onore, san- tità » (l4). LO stesso critico non poteva trascurare l'ide~a dell'inser- zione del soprannaturale nella storia (fraseggio inusitato e vivido che doveva destarne l'attenzione) che mi dà la chiave per il mio studio sulla sociologia del soprannaturale (l5). Lo stesso Oesterle, accennando al capitolo finale scrive: (C La parte importante del ca-

('3) (I A series of associated consciousness of individuals. There is hardly nothing in here which shows how a society is really a union o£ persons achieving a perfection of being unattainable by the individuals, that it is a qualitative advance and therefore of a high order ».

(l4) « Ethical order, juridical order. Foundation in justice, honor, sanctity n.

(l5) LUIGI STURZO, La vera vita, cit.

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pitolo, se non dell'intero libro, è il puntualizzare sulla finale tra- scendenza a un termine che comprende ogni altra cosa e che tutti gli uomini cercano spontaneamente. Questo termine e questa frui- zione di ogni società è Dio e la società che noi possiamo avere con lui » (l6).

Nonostante tanta evidenza che la mia teoria sociologica tende verso un « high order D, riesce poco comprensibile che John A. Oesterle abbia potuto scrivere che cc there is hardly nothing in here which shows how a society is really a union of persons achieving a perfection of being unattainable by the individuals, that is a qualitative advance and therefore of a high order ».

Può darsi che John A. Oesterle abbia inteso criticare solo la formula che descrive la società in concreto, presa fuori del con- testo e senza le implicazioni teoriche e pratiche quali risultano dal libro stesso. Se così fosse avrebbe dovuto dire che la sua cri- tica era limitata alla formulazione~ e non alla teoria. Egli, a l contrario, contesta la formula per la teoria che egli crede d i intravvedervi: mancanza di un ordine e mancanza di un movi- mento verso un ordine superiore, mentre il fatto contraddice alle sue opposizioni date le implicazioni sociologiche della mia teo- ria della razionalità.

Ma se il passaggio fatto da Oesterle dai termini della for- mula ad una teoria che non si trova nel mio libro, nè esplicita nè implicita, è del tutto arbitrario, è da supporre che ciò sia derivato dall'abitudine mentale, comune in molti, d i oggetti- vare i concetti e trattarli come entità reali sol perchè hanno i l loro fondamento nelle cose esistenti. Qui mi sembra che stia, a l fondo, la ragione principale della differenza fra me e i miei critici.

Secondo me, la società, come entità obiettiva non esiste in sè ma negli individui associati insieme: l'ordine sociale come entità obiettiva non esiste in sè ma nella razionalità vissuta e at- tuata dagli individui nel modo come hic et nunc è attuata; un

('6) u The important part of the chapter, if not of the entire book, is bis remarb on the fina1 transcendence to a goal comprehending al1 else and which ali men spontaneously seek. This goal, this fruition of al1 Society is God and the Society we can have with him n.

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ordine migliore come entità obiettiva non esiste in sè ma nella mente e nel cuore d i quegl'individui che lottano per attuarlo. Dall'altro lato, tutto quel che di idealità è stato attuato nel pas- sato fino ad oggi esiste nel condizionamento storico-sociale pre- sente, che in tanto è utilizzato in quanto gli individui viventi lo fanno proprio con la loro accettazione, qualificata dai nuovi at- teggiamenti della razionalità che li guida.

Ad ogni momento della storia, in ogni data zona della terra abitata da uomini, possiamo fare una sosta mentale e doman- darci se in quella data società vi era o vi è ordine o disordine, un ordine più alto o più basso dei precedenti, una conquista verso i l bene o una perdita; la risposta sarà sempre la stessa: c'è del- l'ordine e del disordine; c'è del meglio e del peggio; ci sono conquiste e perdite. Perchè, come abbiamo largamente spiegato in vari libri (l7), la razionalità (che è spinta e guida all'azione umana) spesso è soppiantata dalla pseudo razionalità ovvero dalla irrazionalità vedute l'una e l'altra sotto specie di razionalità. I1 che avviene (e ne abbiamo parlato nei nostri lavori) perchè o si oscura o viene a mancare quella coscienza sociale che rende possibili i maggiori progressi dell'umanità (l8).

I miei critici temono che così si accentui il lato soggettivo del- l'attività umana a spese' del lato obiettivo. I1 loro timore non è giustificato perchè la ragione umana, pure in mezzo a tenebre ed errori, può trovare la verità e trovatala deve seguirla. È per- ciò che san Paolo chiama inescusabili coloro che dal creato non arrivano al Creatore (l9). Chi studia la società nel concreto, sia nella sua struttura attuale che nella storia, non solo arriva a met- tere in evidenza gli elementi obiettivi della verità ( e perfino quelli soprannaturali come dato storico), ma trova nelle stesse leggi sociologiche gli elementi operanti nella società verso il mi- glioramento. Basta studiare alcune leggi tipiche quali quelle

(17) Confrontare: LUIGI STURZO, La comunità internazionale e il diritto di guerra, Bologna, 1954; La società, sua natura e leggi, eit.; La vera vita, cit., ecc.

(18) Vedere per questo nei vari libri e opuscoli dove io tratto della poligamia, schiavitù, servitù della gleba, vendetta di famiglia, guerre, tiran- nie, sistemi criminali e pena di morte e simili.

(19) Rom. 1, 20.

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della tendenza alla purificazione spirituale specie nella fami- glia e quella che ho chiamata di risoluzione e trascendenza (a). Stando nel concreto sociale storico, noi siamo costretti ad affer- mare che la società è sempre perfettibile e mai perfetta.

Coloro che amano studiare la società negli elementi schema- tici che rispecchino un ordine definitivo, sia esso etico, politico o economico, che lo facciano pure; sarà utile sforzo per eccitare gli uomini a lavorare in quel senso. Ma sappiano che possono fare dei lavori utopistici, pur contenendo molte verità, come quelli di Platone, d i Tomaso Moro o d i Campanella; ovvero dei lavori dinamici, non sempre basati sulla verità, come quelli d i Rousseau o d i Marx. Potranno fare anche studi filosofici molto interessanti e completamente fondati; ma il loro lavoro non avrà per oggetto la società in concreto, e non potrà avere la pretesa d i essere uno studio di sociologia.

Capo 111

BENE COMUNE FINALISMO SOCIALE

E SUA RISOLUZIONE SOCIOLOGICA

John O. Oesterle non solo distacca individui e società e in certo senso li oppone, ma anche distacca e oppone bene comune o sociale e bene privato o individuale. E poichè io, usando altra terminologia più adatta al mio tipo di studio, affermo che la società si risolve negli individui che la compongono, arriva ad attribuirmi l'idea che io subordini il bene sociale al bene indi- viduale. L'avere trovato nella mia teoria tracce di edonismo fa il paio con l'altra precedente di avervi trovato l'odore del no- minalismo.

(a) Vedere La società, sua natura e leggi, pp. 38-42 e 270-282. Miiller nella replica alla mia lettera scrive: u In view of the vitalism and sensatio- nalism so prevalent in modern sociology it is indeed imperative to stress the rationality o£ social life n. E' legittimo domandargli se egli ha mai incon- trato un libro di sociologia dove la funzione della razionalità sia stata messa in maggiore evidenza quale in La società ... cit.

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È vero che il lettore dei miei libri non incontrerà spesso la frase (C bene comune » o simile, ma vi troverà invece i termini di fine, finalità, finalismo, come nei seguenti passi: « L'elemento finalistico non è altro che la stessa natura del soggetto guardata come tendenza o esigenza a realizzarsi e a perfezionarsi » (21).

CC L'articolarsi di ogni società concreta si sviluppa sempre per un fine essenziale, il quale di sè investe tutto il complesso delle attività individuali-sociali » (9. La distinzione delle società per le loro forme è fatta per la diversità specifica dei fini: « Le for- me sociali segnano i fini naturali dell'attività umana (""'1). Ed è stata mia cura chiarire il fine d i ogni forma di socialità se- condo i loro caratteri intrinseci, rispondenti a natura. Più volte ho sottolineato che i l vero finalismo è dato da natura e non è arbitrariamente imposto dalla volontà dei singoli, e che in so- stanza si identifica con la stessa natura nel suo moto verso ogni agire attuante (a4).

I fini naturali delle varie forme di socialità non si possono ottenere una volta per sempre; ma si realizzano parzialmente e temporaneamente per gradi e per sezioni; sarebbe innaturale ridurre la società umana (che è attività perenne) ad una condi- zione statico-nirvanica. In tal processo finalistico noi troviamo evidente e continuo il passaggio del fine a mezzo e del mezzo a fine, per un travaglio continuo di realizzazioni che è interes- sante studiare dal punto di vista sociologico. Per esempio: i l fine della famiglia è la mutua integrazione degli sposi (duo in carne una), la filiazione (perpetuità della specie), i l mutuo aiuto. Ad ottenere questi fini gli sposi si uniscono in legittimo matri- monio; quell'atto è un fine, che ottenuto diviene mezzo per gli

(ai) La società, sua natura e leggi, pag. 6. (22) Ibid., pag. 42. ( B ) Ibid., pag. 44. (m) Molto è stato scritto contro l'uso di attribuire al fine una casualità,

perchè non ne è stata compresa la portata. Non si tratta di una aggiunta arbitraria alla realtà, una nostra intenzione attribuita alle creature non in- telligenti per tendenza antropomorfica. La causa finale, che io preferisco chia- mare finalità, non è altro che « l a stessa natura guardata nella sua profondità da un essere intelligente che ne ha la percezione n. Vedi: La vera vita: Finalità - Finalismo.

5. SNRZO - Del Metodo h'ocioiogico

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altri fini. Essi avranno dei figli; i figli sono un fine che di- viene a sua volta un mezzo per l'ulteriore perpetuazione della specie e per il conseguimento dell' aiuto familiare. Questo è un fine, ma ogni particolare aiuto è un mezzo a questo fine, e così via.

Bene: a chi ridonda il bene della famiglia quando esso è ot- tenuto superando le difficoltà della vita? Agli sposi e a i figli in- dividualmente; l'ultimo termine risolutivo del benessere fami- liare sono i componenti la famiglia; se ad essi mancherà il be- nessere (come di fatto può avvenire) il fine della famiglia non sarà stato raggiunto, parzialmente o totalmente secondo i casi, ma solo virtualmente nella sua interiore possibilità.

L'individuo è sempre l'ultimo termine della risoluzione so- ciologica: la chiamo così per distinguerla dalla risoluzione lo- gica e da quella matematica. In lingua italiana del rinascimento si direbbe risoluzione effettuale, cioè che ha effetto nella realtà. Se non fosse così, il bene sociale resterebbe solo un bene vir- tuale, mai un bene attuale goduto dagli uomini nella loro unica realtà capace di vera partecipazione ad un bene, che è quella individuale.

Oesterle crede che così io subordini i l bene comune al bene individuale. No: io non ammetto che ci sia bene comune che non si risolva in bene individuale, nè bene individuale che come tale sia opposto a l bene comune. I1 linguaggio ordinario è ingan- nevole quando oppone individuo a società, bene individuale a bene comune. Invero non esiste nè può esistere mai un individuo solo, e dove sono più individui (ne bastano due) la società è formata. Quando un individuo si leva contro la società a cui appartiene diviene o un ex-lege o un criminale o un anarchico; si mette da sè, moralmente, fuori della società. Allo' stesso modo un bene individuale che sia opposto al bene comune non è e non può essere vero bene, ma un bene falso o apparente o inficiato. I1 bene individuale che è vero bene (sia il più soggettivo possi- bile come la scienza o l'onestà) diviene per se stesso bene comu- ne. Una delle mie tesi favorite è che anche il pensiero non an- cora esternamente comunicato ha carattere sociale, perchè vir- tualmente può produrre un bene o un male alla società attraverso l'effetto ch'esso ha o può avere sull'individuo pensante.

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Prendiamo un esempio pratico: una fontana pubblica viene costruita in un villaggio. La fontana è un bene comune che si risolve nel bene di coloro che vanno ad attingervi l'acqua. Se la fontana fosse - per abuso d i potere - chiusa al pubblico con cancelli di ferro, la cui chiave fosse nelle mani di pochi o d i un solo, cesserebbe d i essere un bene pubblico, ma neppure diver- rebbe un bene privato; quel fatto si tradurrebbe moralmente in atto d i prepotenza, giuridicamente in violazione d i un diritto della comunità, psicologicamente in motivo di risentimenti e d i vendette.

Quale onesto filosofo può affermare che il cittadino che froda l'erario ottiene un bene individuale? Abbiamo forse due nozioni d i bene, una per i ladri e i furfanti, l'altra per i probi e gli onesti? Bonum ex integra causa; malum ex quocumque defectu, dicevano gli antichi. È vero bene privato quello che non con- traddice al bene pubblico. Se vi contraddice esso sarà un bene

-

relativamente o essenzialmente falso, perchè va contro il fina- lismo della natura razionale. Gli sposi artificialmente infecondi non procurano nemmeno il bene individuale: quello ch'essi cre- dono un bene è'già inficiato in radice.

Qualcuno mi obietterà che il soldato che muore in guerra procura il bene pubblico, non il suo proprio bene. Così ogni al- tro che si sacrifica per la comunità. Ma crede costui veramente che chi si sacrifica per la comunità non curi il proprio bene? .

La verità è che tutti coloro che rettamente lavorano e si sacri- ficano per la comunità cercano un bene superiore - il bene che loro deriva dal sacrificio - invece di un bene inferiore, cioè un vivere quieto e appartato, lasciando che i l mondo vada male, che dominino i furfanti, che vincano i tiranni e così via.

I1 caso della guerra merita una riserva, perchè la guerra ap- partiene ad una fase barbarica dell'umanità, è un fatto di pseudo- razionalità, più o meno giustificato per le circostanze di fatto. L'olocausto di vite umane che la guerra impone (non importa se di cento, cento mila o cento milioni) può tradursi i n bene in- dividuale solo eticamente, come ubbidienza ai poteri legittimi per una guerra creduta giusta, come volontario sacrificio al bene e alla grandezza della patria (spesso un bene non unito a cri- teri di giustizia che sfuggono al giudizio privato e alle passioni

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collettive). Ma per la collettività la guerra non è mai un bene, non si traduce in bene comune, ma in danno della società e de- gli individui; sia per la catena di altre guerre, sia per le ingiu- stizie che consuma, sia per gli effetti psicologici ed economici assai dannosi e d i lunga portata ('7.

La teoria, pertanto, della risoluzione sociologica del bene comune in bene individuale (e quindi l'altra tesi che la società è un fine dell'attività umana che si trasforma in mezzo per il vantaggio degli associati) sono intimamente legate alla teoria che la società in concreto non è altro che la proiezione attuosa e coo- perante degl'individui uniti per un fine comune.

Dalle forme primitive le più semplici - una società tempo- ranea per la caccia o la raccolta delle frutta - ad una forma complessa e moderna (la Società delle nazioni o l'O.N.U.) la ricerca del bene comune, o meglio l'attuazione del finalismo che le specifica, è fatta sempre in funzione del bene dei singoli asso- ciati. Se questo manca la società ha mancato al suo scopo. Gli americani del nord che nel secolo decimottavo conquistarono li- bertà e indipendenza per loro stessi, non ne fecero partecipi nè gli schiavi d i colore nè gl'indiani. Queste popolazioni non par. teciparono al bene comune; cioè per essi il bene non fu comune. In una famiglia nobile dell'ancien régims solo i l primogenito ereditava i beni stabili dei genitori, non gli altri che non par- tecipavano al bene comune. E così in molte istanze sociali. Gli esclusi non possono riguardare come bene comune quello ai quale non partecipano. Così, oggi, in regime di masse prole- tarie, se queste nonostante le libertà politiche e l'economia in- dustrializzata, non hanno un salario adeguato, hanno il diritto di affermare che per esse la società civile ha mancato ad uno dei suoi fini.

I1 principio d i risoluzione del benessere sociale in benessere individuale è così evidente, che non mi rendo conto come abbia

(n) I 1 lettore che non accetta queste tesi è pregato di leggere: LUIGI S~uazo, La comunità internazionale ..., cit.; Les guerres modernes et la pensée catholique, Montreal, 1942 (vedere anche The Review of Politics, Notre Dame, 1941).

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Oesterle potuto immaginare che io sia fra coloro che « would place the individua1 good above the common good » (9.

Capo IV

LA COSCIENZA SOCIALE

Ed eccoci al punto capitale delle obiezioni di Muller e di Oesterle riguardante la coscienza sociale come fattore prepon- derante della società nelle sue forme e nelle sue sintesi.

Anzitutto, si assicurino i miei critici che la coscienza di cui parlo non è lo stesso che « la personalità umana (Oesterle af- faccia un tale dubbio), nè è una semplice avvertenza psichica (che può essere anche negli animali); e neppure un surrogato della sociabilità dell'uomo. Franz Muller teme che (C overstres- sing consciousness might lead the reader to believe that the rea- lity of entities consists merely in their being apprehended by reflection: esse est percipi (Berkeley) D. Ma egli poteva assicu- rarsi che u n tale lettore non esisterebbe sol che avesse fatto at- tenzione al capitolo I - La concretizzazione della socialità e spe- cialmente al par. 5: La coscienza principio della concretizza- zione della socialità Noto un passaggio capitale: « Come senza

(26) Oesterle forse non si è accorto che in questa e altre simili frasi il termine « good » è usato non univocamente, ma equivocamente; perchè un bene individuale che sia superiore al bene comune non esiste: o è falso bene il primo o è falso bene il secondo. Il cristiano accusato di violare la religione dei padri (ebraica o pagana) veniva condannato perchè violava il bene comune; egli invece metteva sopra di quel creduto bene comune il suo bene individuale, la fede. E' un bene falso quello che cerca l'individuo che nega la giusta paga agli operai per aumentare i suoi averi; mentre il con- trario è i l vero bene. Solo quando il bene individuale non contrasta al bene comune, i due termini di bene sono univocamente posti. Nello stesso errore di ((mancanza di elenco » cade Oesterle quando usa equivocamente i termini di individuo e di società. Infatti, se individuo è opposto a società i due ter- mini sono astratti dal reale e dovrebbero tradursi in individualità e socialità. Se invece individui e società fanno uno, allora hanno il significato concreto cioè di individui uniti ad un fine comune. In questo caso, individui possono essere tanto questi >i individui, quanto individui ipotetici o tutti gli indi- vidui possibili.

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coscienza di sè non è valutabile l'individualità umana - cosa che avviene nel deficiente mentale o nel bambino non ancora arrivato alla più elementare conoscenza - così senza coscienza della società in cui si vive, del suo valore e della sua continuità, non si dà una vera società, ma solo accostamenti, accoppiamenti più o meno occasionali o forzati. Manca l'elemento di comu- nione, che è quello che dà la coscienza del vivere sociale. La società è in fondo comunione: il suo termine più esatto è comu-

nità, coscienza dei singoli di essere in comunione fra loro (=). Fino a quando una coscienza collettiva (coscienza d i gruppo,

coscienza nazionale, coscienza storica ecc.) non è formata o è mal formata, la società o non esiste o non funziona o funziona male. Studiando gl'inizi della Confederazione americana, si può no- tare che nonostante la rivolta, la guerra e la conquista dell'in- dipendenza che ne seguì, vi era deficiente una vera coscienza confederale che tenesse riuniti i tredici stati insieme; e fu merito dei fondatori quello di avere sviluppato questa nuova coscienza

attraverso notevoli difficoltà e penose esperienze. I1 popolo ebreo superando lotte, difficoltà, persecuzioni, di-

spersioni, massacri, ha mantenuto salda la coscienza di razza e anche quella di religione (per quanto alterata dall'indifferen- tismo), mai però una coscienza politica nazionale, che neppure oggi può artificiosamente essere valorizzata. Altri popoli del le- vante, di minore consistenza e numero degli ebrei, pur avendo subito persecuzioni e stermini, hanno più sviluppata la loro co- scienza politica, come i libanesi e gli armeni. Due popoli ad alta coscienza politica non hanno mai avuta sommersa la loro perso- nalità: l'irlandese e il polacco, non ostante i tentativi di assimi- lazione, la perdita per secoli della libertà e dell'indipendenza.

È superfluo insistere sul valore sociale imprescindibile della coscienza collettiva, (è bene ricordare ch'essa non è altro che la coscienza degl'individui mutualmente riflessa per l'attività sociale) della sua formazione spirituale e storica, del suo fon- damento etico-religioso, della sua efficacia che supera quella delle forze materiali.

Ma i miei critici hanno un'obiezione da fare: questa coscienza

(n) La società, sua natura e leggi, pag. 29.

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collettiva è troppo invadente nella sociologia d i don Sturzo, di- viene una specie d i deus ex-machina; ~ e r f i n o l'autorità, la li- bertà, la legge, la democrazia si traducono i n coscienza collet- tiva. E perchè no? Se la coscienza è il principio della concretiz- zazione della socialità, ce la troveremo sempre davanti in tutti i processi collettivi per i quali si forma, si sviluppa e si articola tale concretizzazione.

Muller concede che « l a coscienza è condizione necessaria per l e società umane in particolare », ma aggiunge che « per- tanto è difficile dire che ciò ne sia una causa formale » (28). IO mi sono ben p a r d i t o d i chiamarla « forma1 cause » sia perchè la frase non è dello stile del libro, sia perchè in materia di ana- logie ( e nel caso parlare d i causa formale della società è far uso analogico del principio scolastico della forma) bisogna andare cauti. Quella che egli chiama condition of human association io la chiamo principio di concretizzazione &lla socialità. Forse egli non avrà fatto attenzione all'uso dell'astratto: socialità e al valore del termine: concretizzazione (che potrebbe dirsi anche individualizzazione di ogni società « particolare D). Se due, uo- mo e donna, si amano e vogliono sposarsi bisogna che si cono- scano, accettino il fine del matrimonio, eseguano la decisione presa e così via. Muller dice che aver coscienza di questo atto sociale è condizione della società, io dico che è il principio della concretizzazione.

Vediamo con la controprova chi usa migliore definizione. Son sicuro che i miei contraddittori non avranno obiezioni se io affermo che la prevalenza dei divorzi e la diffusione del con- trollo artificiale delle nascite nella società americana (e in altre nazioni civili) dipende dall'impoverimento della coscienza fa- miliare. Di questo passo si arriverà alla disintegrazione non solo della famiglia ma anche della stessa nazione. Cause economiche? civili? educative? religiose? Sicuro; un complesso d i cause o d i motivi coopera alla deformazione della coscienza familiare, ma vi sono anche i mezzi idonei a correggere tali cause e a rivalu- tare tale coscienza. Se questi mezzi non sono applicati da coloro che sono convinti del danno enorme che recano alla famiglia il

(a) Amerkan Catholic Sociological Review, October 1945.

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divorzio e il controllo artificiale delle nascite, vuol dire che anche costoro hanno affievolita la coscienza del loro dovere

« Vigilanti jura succurrunt », dicevano gli antichi giuristi; questa attività fatta di sforzi e di sacrifici, è quella che rende vivente e operante una comunità atta ad attingere i suoi scopi, a progredire, a tendere verso costanti miglioramenti. La coscien- za di gruppo (si dica pure coscienza collettiva o sociale) è neces- saria tanto ad una famiglia, ad una società industriale, a un or- dine religioso, a un'unione di lavoro, ad una città, come pure allo stato e alla federazione di stati. Se, al contrario, i m,embri si disinteressano della società perchè non ne sentono il vincolo, l'importanza, l'utilità, il valore, la necessità, in sostanza non ne hanno coscienza, la società andrà a decadere e a disfarsi.

Trovino pure i miei critici altra parola che esprima lo stesso concetto di coscienza, nel senso da me attribuitovi. Oesterle, ri- ferendosi ad Aristotile, suggerisce « rational nature D. Ma se per natura s'intende l'astratto che deve concretizzarsi (io la chiamo razionalità) quale ne sarà il principio d i concretizzazione? La sola ragione che conosce i l fine non basta; bisogna aggiungere la volontà che vuole. il fine proposto da natura e più ancora la coesistenza comunicativa dei membri per concretizzare la so- cietà: in sostanza la coscienza collettiva. Purtroppo il vocabo- lario delle lingue è povero per tutte le idee e le nuances delle idee che passano per la mente degli uomini, Chi avrebbe detto ai romani antichi che fides, spes, caritas, avrebbero avuti i si- gnificati dativi dai vangeli e dalle epistole? I greci classici non potevano supporre che ecclesia avrebbe assunto un significato

(29) I cattolici per la disciplina religiosa cui sono legati resistono meglio dei protestanti all'influenza ambientale (coscienza collettiva allo stato dif- fuso) a favore del divorzio e della limitazione artificiale delle nascite. L'ele- mento dirigente delle comunità cattoliche è il più attivo e deciso a sostenere le tesi contrarie e a farle valere nella legislazione degli stati (esempio, il rigetto dell'emendamento sul birth contro1 da parte della maggioranza del- l'elettorato del Massachusetts nelle elezioni del 1944). Ma le statistiche mo- strano l'estendersi dei divorzi e la diminuzione delle nascite anche presso certe zone delle popolazioni cattoliche. Ciò è segno che gli elementi reagenti e attivi della coscienza collettiva vanno perdendo di dcac ia . Quali ne siano le cause occasionali, la risoluzione di esse nello stato di coscienza è il fatto più serio che la fenomenologia sociologica possa segnalare.

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così imponente. Passando alle cose profane forse che evoluzione, rivoluzione, dittatura avevano nel passato i significati moderni? Così è avvenuto per coscienza sociale o colkttiva.

Traducendo il termine latino conscientia in inglese ho usato consciousness al posto di conscience pur avendo il termine con- science anche il senso d i consciousness, percliè conscience è usato prevalentemente in senso morale; mentre consciousness ha il doppio senso di aggregate of the conscious state in a single or- ganism or a group of persons » e l'altro di « any form of intellec- tua1 activity or its product in direct and conscious knozoledge whether of external or interna1 object » (=).

Qualcuno teme che consciousness possa far pensare ad uno psichismo irrazionale, dato l'uso corrente presso gli psicologi e gli psicoanalisti. Costui non ha riflettuto che non solo il termine consciousness ma ogni termine astratto o concreto può essere im- pregnato di teorie diverse e opposte. Non useremo forse i ter- mini « spirito n, « idea », (C pensiero D perchè Hegel e altri vi hanno dato il significato di un principio inconscio delle esi- stenze coscienti fenomeniche che siamo noi uomini? Vero è che ai tempi del liberalismo dominante certi cattolici avevano paura di parlare anche di libertà, ma fu colpa loro se i liberali tentarono di monopolizzare la libertà per le loro teorie. Forse che S. Tommaso non parlò di intelletto possibile sol perchè Aver- roè aveva sostenuto l'unicità di tale intelletto? E Aristotile e gli aristotelici non parlarono più di idee perchè Platone aveva dato all'idea una consistenza extra-umana e perpetua?

Avendo gli uomini le stesse parole per indicare cose ben di- verse, il metodo aureo per comprendere quel che un autore vuole significare con le parole comuni è quello di trarne i significati dal contesto, e non mai quello di non usare più tali .parole. Oesterle osserva che « the free use of terminology such as this suggests Marxian and Hegelian notions of being and becoming even though this is quite remote from don Sturzo 's intention n. Era più esatto dire che il mio libro è utile per gente che è abi- tuata alla terminologia dei marxisti e degli hegeliani, per inten- dere meglio la critica o l'utilizzazione che io fo di quelle teorie

(30) Funk & Magnalls: Practical Standard Dictionary.

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e il valore che io dò alle teorie tradizionali. Non si tratta che sia lontano dalle mie « intenzioni D il marxismo e l'hegeliani- smo; si tratta che io li combatto in tutti i miei scritti, metten- domi nelle posizioni più adatte ad una critica comprensibile an- che per tali avversari (31).

Dall'altro lato, avendo insistito in gran parte dell'lnner Laws of Society sulla funzione della razionalità, nessuno potrà pensare che la coscienza di cui parlo sia priva di razionalità; avendo presupposto, con chiari accenni, il principio del libero arbitrio, nessuno potrà dubitare che la coscienza sia avulsa dalla libera volontà; avendo insistito sull'interiore finalismo delle forme del- la socialità che è concretizzato per la coscienza, nessuno può essere così poco intelligente da supporre che la coscienza sia fuori del raggio del finalismo sociale.

A me sembra che la difficoltà che hanno i miei critici ad ac- cettare la tesi della funzione della coscienza nella concretizza- zione sociale derivi da una visione schematica e oggettivata della società, come un ordine stabilito, anzicchè come una concretiz- zazione dinamica per un ordine da stabilire. Essi mettono sotto lo schema di ordine morale e sociale prestabilito e sotto la cate- goria deontologica del dovere essere (=), quello che invece è processuale, realizzantesi parzialmente e faticosamente nel tem- po e nello spazio. Mi sembra che per essi non abbia importanza lo studio della concretizzazione sociale e del suo processo e quin- di non ne valutano il principio catalizzatore che è la coscienza degl'individui associati, nè cercano come tale coscienza possa essere formata, alimentata e resa e6cace.

Ma se questo non è forse un problema per filosofi, è certo un problema per sociologi. Dico forse perchè nella mia opinio- ne, anche i filosofi dovrebbero rivedere certe posizioni al lume

(31) Franz Muller scrive: u There are many other things which this reviewer would like to diseusc, such as Stuno's interpretation of Marxism ... D. Certo Marx è un autore oscuro; ma non credo di aver equivocato sui punti che io ho creduto rilevare e criticare nei miei libri.

(a) Franz A. Muller in nota domanda: a or what deontological meant? n Nel mio testo di Znner Laws of Society c'è la risposta u The should be (the deontological) presses upon us in the guise of rationality n (pag. 15). I fran- cwi dicono deuoir- &tre ed i tedeschi sollen in opposizione a sein.

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degli studi della sociologia senza per questo venir meno al- l'autonomia della loro scienza (33).

Hanno mai riflettuto i miei critici sulla nuova impostazione da me data alla sociologia, fissandone le forme e le sintesi della socialità? Forse essi avranno creduto trattarsi di semplice siste- mazione didattica della materia del libro; essa è invece il ten- tativo di interpretare i fatti sociologici nella loro vitalità inte- riore perpetuantesi nel processo storico, nelle leggi perenni, e nel costante orientamento dato dalla razionalità umana verso un ideale da realizzare come superiore alla realtà stessa.

I1 fatto più interessante che risulta dalle forme e dalle sin- tesi sociali e dal loro intrecciarsi, svilupparsi, rifarsi, ritornare ad essere in perenne travaglio, è proprio l'elemento costante e superiore, da cui parte e in cui si risolve l'attività umana: la coscienza di realizzare una vita sociale verso un migliore destino cui tende l'intima nostra natura.

Cap. V

DUALISMO E MONISMO

Non mi sarei mai aspettata la critica di Oesterle, fatta di dub. bi e di sospetti, alla tesi della diarchia sociologica. L'applica- zione che ne feci nello studio sui rapporti fra chiesa e stato (9 incontrò larghi consensi, ed oggi è riguardata in certi circoli di studio come la teoria sociologica più rispondente alla realtà sto- rica e niente in contraddizione con la teologia. Questa teoria fa parte di altra più larga e comprensiva, quella del dualismo so- ciale che si cristallizza storicamente in varie diarchie più o me-

(33) Per quel che può interessare i filosofi, un modesto tentativo in questo senso è stato fatto da chi scrive, nella 1' parte del volume: Problemi spirituali del nostro tempo, Bologna, 1961. Anche i giuristi han cercato di utilizzare la sociologia per rivedere le loro teorie. I1 giurista e sociologo francese Maunce Haunon diceva: « un peu de sociologie éloigne du droit et beaucoup de sociologie y ramene n. (GEORCLLS GURVITCH - Eléments de so- ciologie juridique), 1940.

(3) Chiesa e stato, cit.

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no durevoli. Cercai di precisarla nel mio Essai de Sociologie (=) che è lo stesso volume pubblicato in inglese sotto il titolo di Znner Laws of Society e in italiano di La società, sua natura e leggi.

La mia ricerca è di carattere storico e sperimentale. C'è sta- ta e c'è di fatto una dualità di forze nella società e nelle diverse forme? deriva da un dualismo inerente ovvero è superficiale e transitoria? E se è permanente, come si articola e si cristallizza? Giova o nuoce al progresso sociale? Impedisce o favorisce la coo- perazione delle varie forze che sprigiona? Siamo nel campo del- la interpretazione sociologica di fatti storici assai complessi, che per essere messi in chiaro devono essere schematizzati e catego- rizzati in modo da darne il quadro fisiologico e valutarne i l po- tere dinamico.

Non dico clie la mia interpretazione sia la definitiva, che non possa avere degli emendamenti, che non incontrerà mai altra intrepretazione contrastante; la mia è un'interpretazione degna di studio. Che cosa vi oppongono i miei critici di costruttivo sia nel campo storico che in quello sociologico? Nulla. Essi provano delle difficoltà ad accettare la mia teoria, perchè così concepita la società sarebbe troppo dinamica e mancherebbe di consisten- za, passando per un incessante processo da uno ad altro stadio senza arrestarsi; la società mancherebbe di unità.

Secondo la mia opinione la società si svolge in forme cicli- che passando dalla nucleazione multipla alla dualizzazione del- le forze per insito dualismo esistente sia dentro i nuclei sociali che nei rapporti internucleari; la sistemazione più o meno sta- bile si fa normalmente in forma di diarchia (due poteri contra- stanti o collaboranti, uno dei quali tende ad unificare in sè il suo potenziale antagonista). Ma la tendenza all'unificazione si realizza solo parzialmente e in campi definiti e cessa di funzio- nare quando, per disintegrazione periferica o per crisi di potere, la societ,à unificata si dissolve in una nuova molteplice nuclea- zione, che svilupperà altro dualismo dinamico, il quale a sua volta creerà nuove diarchie con propria tendenza all'unificazio- ne. Questo processo non è lineare, nè contemporaneo in tutti i

(35) Paris, Bloud et Gay, 1935.

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rami della vita sociale, nè rigorosamente fisso sì che non si dia che l'unificazione preceda la diarchia o che !a diarchia sussista durante il processo di disintegrazione.

I miei critici, che non possono negare il travaglio sociale nel suo processo storico, mostrano di essere contrariati dalla tesi di un movimento ciclico incessante ; mentre a loro sembra più utile mostrare la società come stabilizzata nell'ordine e procedente dall'imperfetto al perfetto. Oesterle sembra negare, se ho ben capito, che il dualismo sia quello che impedisce la unificazione sociale, e mi sembra che egli arrivi a concepire la unificazione come realizzabile nella conformità della società con i principi etici politici e teologici, mentre il dualismo deriverebbe dalla mancanza di tale conformità.

Per me il primo elemento del dualismo individuale e sociale è il libero arbitrio. Ne usò Adamo quando era non solo nella pienezza della natura umana ma anche elevato allo stato sopran- naturale, e ne usò male: il dualismo contrastante di bene e di male entrò nella sua coscienza e invase l'umanità. Si suole affer- mare che il male nella società deriva dal peccato di origine; ma quando Adamo ed Eva (che facevano società) disubbidirono, o meglio, quando decisero di disubbidire, il peccato originale non esisteva; erano puri ma erano liberi, e in quanto liberi peccarono.

L'altro dato interiore che accentua i l dualismo della società viene dalla stessa natura di società che è formata da individui uniti ad un fine. Oesterle cerca il termine di fermata, (C of rest D, del movimento sociale nel suo « fulfillment N. Egli Scrive: « il divenire non può esistere nè essere compreso senza l'essere n. D'accordo: sventuratamente l'essere d i società è dato dalla mol- teplicità deglYindividui (individualità multipla per usare la for- ma astratta) associati ad un fine. I1 fine da conseguire è i l ter- mine unificatore. I1 fine è dato dalla natura razionale (è la mia tesi) e si riduce ultimamente a « its conformity with divine pro- vidence )) come dice Oesterle.

Tutto andrebbe bene. Purtroppo l'individualità multipla nel concreto si risolve in individui umani godenti del libero arbitrio, così la dualizzazione dentro i nuclei stessi è un fatto naturale e non arbitrario. Di più, la razionalità può essere contraffatta (an- che in buona fede) dalla pseudo-razionalità e dalla irrazionalità,

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e la conformità della razionalità alla provvidenza divina può essere diversamente appresa e diversamente attuata. Dall'altro lato, forme e nuclei sociali si moltiplicano sulla terra e nel re- ciproco contatto di dualizzazione per contrasti e si diarchizzano cooperando, sempre per la stessa forza interiore della raziona- lità e del libero arbitrio. Tutto tende all'unificazione come tutto tende alla stabilizzazione. Ma la sorte umana, in tante migliaia di anni, è stata sempre quella delle unificazioni parziali tem- poranee e contrastate. Altro non troviamo che la tendenza più o meno inappagata.

Coloro che professano i l monismo sociale, che ha per spiega- zione più che per base uno dei tanti monismi filosofici, credono che l'unificazione umana sarà fatta o dalla scienza o dal pro- gresso economico o dalla forza politica. I cristiani credevano che l'unificazione sociale potesse essere fatta dalla e nella chiesa, la quale nel medio evo tentò di attuare una specie d i unificazione superiore in quella che fu detta « la cristianità ». Ma quella non fu mai una vera unificazione: non ecclesiastica, dato lo scisma greco e le eresie dei catari, albigesi e simili; non politica, data la esistenza di regni al di fuori dell'impero (come quelli d i Francia, d'Inghilterra e d i Aragona); non sociale, data l'esistenza della schiavitù e della servitù della gleba; non morale, date le continue guerre fra gli stessi cristiani; e neppure universale, data l'esistenza di zone pagane e maomettane che coprivano la maggior parte della terra. Perfino la tesi dell'unificazione giu- ridica, che subordinava i poteri civili a quelli ecclesiastici e fa- ceva derivare la sovranità politica da Dio attraverso la chiesa - tesi sostenuta da ultimo da papa Innocenza W - fu rigettata dalla scolastica rappresentata da S. Tommaso d'Aquino che so- stenne anche lui la tesi dell'autonomia originaria ed effettiva del potere civile.

Venne a sua volta lo stato, anche in paesi cristiani, a preten- dere all'unificazione politica e, più che politica, sociale e mo- rale. Sono sei secoli di tali tentativi; ma nessuno stato moderno ha ottenuto un'unificazione che sia la risoluzione nella società politica delle altre forme di società e della stessa personalità individuale (stato totalitario); nè potrà riuscirvi perchè tale unificazione sarebbe contro natura, dato che la società è la stessa

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coesistenza degl'individui associati a fini determinati, che ne specificano le forme e ne moltiplicano i nuclei. Al contrario, quanto più lo stato ha voluto monopolizzare, più che unificare, tutta l'attività degl'individui e dei nuclei viventi dentro la sua sfera (chiesa compresa) ha creato nuovi e profondi motivi di disgregazione sociale e politica.

Questi dati storico-sociologici ci obbligano a rivedere certe concezioni usuali circa lo stato e la così detta « società civile D. Lo stato, secondo noi, non è altro che la organizzazione giuridica della forma politica della socialità (36). La formula società ci- vile » serve ad indicare i l complesso di tutte le forme di socialità esistenti in una nazione o in uno stato come ordine temporale. Se ammettiamo (come di fatto è) la simultanea realtà dell'or- dine soprannaturale, un puro ordine temporale non esiste in con- creto, come non esiste in concreto un puro ordine soprannaturale, ma i due operanti e cooperanti insieme.

È bene avvertire che l'uso della qualifica di società perfetta che si dà allo stato e alla chiesa (in senso largo, alla società temporale e alla società spirituale) è puramente giuridico e serve ad indicare che tanto l'uno che l'altra posseggono i poteri su- premi o sovrani detti altrimenti legislativo, giudiziario ed ese- cutivo (9. Non importa se i poteri sono attribuiti, nell'un caso e nell'altro, sia ad organi diversi, sia a diverse entità politiche (od anche ecclesiastiche). Così in America e in Svizzera e in al- t r i paesi a sistema federale, ogni stato o cantone condivide il suo potere sovrano con gli organi federali che sono i supremi; e nella chiesa, vescovi, arcivescovi, patriarchi coordinano o su- bordinano i loro poteri (secondo i casi) con quelli del papa.

Ma lo stato - o federazione di stati - non è in concreto società politi~ame~nte o socialmente perfetta, anzi è piuttosto imperfetta; e neppure eticamente perfetta dovendo fare e rifare le sue leggi e i suoi ordinamenti, sostenere guerre e rivolte, lotte interne ed esterne, nel contrasto degli uomini fra di loro, in ogni

(8) Riscontrare: La società, sua natura e leggi, Capo 111, La forma politica.

(3) Vedere: Littera Eneyelica Pii Papae Undecimi, Quam Primus, 11 dec. 1925.

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stadio dell'organizzazione civile, per tentare e ritentare quella unificazione sia organica che spirituale a cui tende incessante- mente come ad un proprio fine mai completamente raggiungibile.

Oesterle fa un paragone puramente analogico fra I'unifica- zione in Cristo per la grazia che circola nella sua chiesa, e quella della società politica ( the polity) per la realizzazione o£ the civil common good N. Ma nella chiesa (secondo la teologia cat- tolica) Cristo è i l capo e vivifica i singoli membri a lui aderenti per la grazia; nella società civile (o politica) c'è solo la razio- nalità umana che designa e anima la finalità sociale; razionalità, che non è una persona divina, nè è quel divino impersonale che sarebbero lo Spirito e l'Idea di Hegel o l'Intelletto d i Averroè; personale è solo in ciascun di noi; purtroppo quot capita tot sen- tentiae. L'attuazione della razionalità nella società non è uni- voca, nè deterministica, nè completa, ma libera e mista con l'ir- razionalità e col male.

Lo stesso del resto accade, per quel che c'è d'umano, nella chiesa d i Cristo come associazione visibile, e non potrebbe es- sere diversamente, sì che la storia ci presenta periodi d i svi- luppo e periodi d i decadenza, scismi, eresie e riforme, sistemi giuridico-economici diversi per tempi e luoghi, tolleranza di mali insopprimibili sotto date circostanze, grandi dispute teo- riche e pratiche, dissensi anche fra i santi. Perchè anche nella chiesa - per la parte umana - c'è la nucleazione molteplice, il dualismo dinamico, la tendenza unificatrice, che mai si ade- guano a l ritmo umano. E se. oggi abbiamo nella chiesa cattolica un'unificazione gerarchica e canonica stabile e disciplinata quale mai si ebbe nei secoli scorsi, abbiamo anche l'apostasia dalla chiesa di molte zone delle classi sociali, la laicizzazione spesso antireligiosa della « società civile », i l materialismo agnostico dominante nelle scuole di stati nomiaalmente Ò storicamente cristiani e di popolazione a maggioranza cristiana.

Non è il totalitarismo fascista che mi fa combattere l'unifica- zione nello stato d i tutte le attività sociali, e che mi fa sostenere la risoluzione sociologica della società nell'individuo (come pen- sa Oesterle); queste tesi ho sostenuto sin da mezzo secolo fa (da insegnante d i filosofia teoretica e d i sociologia prima che scrit- tore, giornalista e organizzatore) per la esperienza che andavo

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acquistando nella vita pubblica dell'invadenza dello stato mo- derno, contro la quale non esiste altro antidoto che il metodo d i libertà con tutti i suoi inconvenienti (*). Oesterle del resto si accorgerebbe facilmente leggendo i miei scritti che non solo non ho atteso di vedere gli orrori del totalitarismo moderno per denunziare l'accentramento o unificazione statale, ma ho dimo- strato, credo, con evidenza che alla sorgente degli errori sta il monismo filosofico e politico che ha portato alla deificazione dello stato (9.

La vera unificazione è individuale e trascendentale e. supera i limiti di ogni unificazione sociale (che è sempre parziale e con- trastata e subisce l'usura delle proprie forze unificanti), perchè l'individuo è il termine d i ogni risoluzione sociale, e perchè egli, ed egli solo, può raggiungere, anche su questa terra, quella ve- rità e quell'amore di cui si alimentano e la vita razionale natu- rale e quella mistica soprannaturale.

Capo VI

CHE SCIENZA È LA SOCIOLOGIA?

Nell'introduzione di Znner Laws of Society non volli dism- tere se e quale scienza fosse la sociologia, non perchè io dubi- tassi del suo valore scientifico (come sembra a Oesterle) ma pcr- chè volevo, con la prova del mio tentativo, dimostrare quale scienza essa fosse. Perciò all'edizione francese del libro (40) posi il titolo di Essai che in tutte le lingue ha i l significato di Saggio o Tentativo. Se nell'edizione americana ho posto il sottotitolo di a New Sociology non è stato per la presunzione di presentare

(38) Oesterle mi ha criticato perchè al metodo di libertà ho dato tinte più favorevoli che al metodo di autorità. Non credo di avere mancato di oggettività non ostante le preferenze; ma forse ad evitare malintesi sarebbe meglio abbandonare il fraseggio usuale e chiamarli: metodo di convinzione e metodo di coercizione.

(39) Vedere: LUIGI STURZO, Politics and fiiorality, London, 1938. (9) LUIGI STURZO, Essai de Sociologie, Paris, Bloud et Gay, 1935.

Fi. Srrr~zo - Del Afetodo Sociologica

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un tipo nuovo di sociologia, ma per marcare il carattere di ten- tativo.

Discorrendo del Metodo sociologico ho esplicato quale ca- rattere io dò alla sociologia per distinguerla da altre scienze e quali i suoi rapporti con la filosofia e la teologia. E sono andato ancora più in là d i qualsiasi altro sociologo tentando d i scrivere una sociologia del soprannaturale (41) che fa parte integrante della mia concezione sociologica.

Le tesi d i subordinazioni e gerarchie scientifiche e altre si- mili non sono oggi correnti fra gli scienziati, perchè tali tesi avrebbero l'aria d i sottoporre la libertà della ricerca scientifica ai controlli di altri tempi. L'autonomia scientifica che si affer- ma è o può essere un presupposto metodologico e non mai una negazione delle interferenze delle scienze. speculative fra di loro. Di fatti, non ci possono essere nel pensiero dei compartimenti- stagni.

Non si nega ai filosofi una specie di diritto ad esigere che scienziati ed intellettuali, scrittori ed artisti, tengano la filosofia per larga guida del loro pensiero e delle loro creazioni. Nessuno può farne a meno, neppure i l politico e l'economista. Anche l'uomo comune senza avere studiato la tecnica filosofica, deve avere quel nucleo di idee direttive pratiche che presuppongono teorie filosofiche ed etiche, delle quali egli non ha spesso la possibilità di dare una dimostrazione soddisfacente, e pure re- stano nel fondo del suo pensiero.

Ma i filosofi debbono saper distinguere quel che è loro par- ticolare tecnica o loro speciale teoria, da quel che è il patrimo- nio della filosofia comune o perenne, sulla quale è fondata la nostra civiltà. Tanto più che la filosofia moderna si è straniata dalla tradizione del pensiero classico e cristiano sì da produrre . tale disintegrazione del pensiero comune che riesce poco utile, per non dire dannosa, a coloro che non sono in grado d i vagliarla e fame la critica.

La sociologia, come ogni altra scienza, può dirsi autonoma in quanto ha un suo oggetto specifico, « la società in concreio n, che è ben distinto dall'oggetto dell'etica sociale: a leggi morali

(a) LUIGI STUBZO, LO vera vita, cit.

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della società >, o dalla politica generale : principi di governo n, e da qualsiasi altra scienza speculativa sullo stesso oggetto. Ma poichè la società in concreto è complessa, organica, dinamica e processuale, la sociologia ne coglie e ne studia tutti gli elementi costitutivi, nella loro formazione e combinazione, compresa quindi tutta la cultura (anche filosofica e teologica) nel suo in- flusso sulla società.

I1 sociologo, come ogni altro scienziato, cercherà nella filo- sofia quel lume circa i principi generali che è utile alle sue ri- cerche, affinchè non devii nè cada in errori extra-sociologici, che possono influenzare i risultati delle sue ricerche. Ma egli anche offre al filosofo una quantità di fatti e di leggi che potranno essere utili alle speculazioni teoretiche sull'uomo e la società, sull'etica individuale e collettiva.

Diciamo ciò per delineare i limiti delle due scienze, l'anti- chissima, la filosofia, e la nuova venuta, la sociologia; limiti ge- nerici, che rispettando l'autonomia di ciascuna scienza, come oggetto e come metodo, non ne impediscono l'interferenza frut- tuosa che matura i grandi progressi del pensiero.

Non è certo accettabile per i l sociologo (come per ogni altro scienziato moderno) quel che mi sembra il pensiero di Oesterle, di agganciare la sociologia ad un sistema filosofico prestabilito: partire per esempio dal principio del libero arbitrio per arrivare alla constatazione del male nella società. I1 sociologo deve par- tire dalla constatazione del male e dei suoi effetti nella società per derivare le leggi sociologiche; il principio del libero arbi- trio gli servirà quale mezzo di confronto delle sue esperienze e come verifica extra-sociologica. Oesterle ci avverte che « pren- dere luce dalla filosofia e dalla teologia non vuol dire dare la facciata di una sociologia filosofante e teologizzante ». Ma af- fermando che «i l lavoro di sociologia prende le mosse da fon- dati principi presi dalla teologia e continua anche col fare uso di tali scienze nelle proprie analisi n, egli ha già rovesciato i l metodo sociologico impoverendone la posizione scientifica.

A questo punto, affermando egli che il mio tentativo sarebbe stato parzialmente in accordo alla linea da lui fissata per la so- ciologia, ha aggiunto che « Don Sturzo appears in his book (Znner Laws of Society) primarily as an immersed sociologist and only

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incidentally as a theologian 1). Se egli avesse letto il mio The True Life probabilmente avrebbe detto il contrario, e se avesse letto Church and State avrebbe detto che io principalmente ne sono stato uno storico e parlando del mio Znternational Com- munity and the Right of War avrebbe forse ripetuto la critica fattami da altri di avere concepito il libro più in termini di di- ritto che di sociologia. ' I miei libri non sono libri d i testo per scuole nè libri legati strettamente ad una classifica prestabilita. Da moltissimi anni, la mia principale cura è stata quella d i presentare una interpre- tazione sociologica della struttura e del processo storico della società quale deriva dalla esperienza dei fatti e dal confronto con le teorie che l i hanno influenzati o ne sono stati il riflesso. Così ho dovuto raccogliere e interpretare una enorme quantità di fatti e d i teorie, filosofiche, teologiche, giuridiche, etiche, po- litiche, economiche, letterarie e storiche. Ho sperato contribuire efficacemente a rivalutare la sociologia, caduta nella morta gora del positivismo e resa inconsistente e sconnessa dal pragmatismo e dalla esagerata specializzazione (&).

(Q) Paul Honigsheim recensendo Inner Laws of Society per u American Journal o£ Sociology » (se~tember 1945), dopo averne dato un sunto molto approssimativo aggiunge: « the dependence o£ the author upon forerunners is not easy to state £or references are not given. Nevertheless, the following is obvious: Large parts of the system correspond to the leading Catholic Neo-Thomistic social philosophy o£ the Dominicans and Jesuits. Eliminated are the traditional theory o£ social contract and o£ the evolution o£ state authority out o£ the paterna1 power; maintained is the right o£ the individua1 within about the same limits as in almost every Catholic school. Emphasis is given to the role o£ love in social life and in acquiring linowledge, an originally Platonic - Augustinian element, now appearing again in Neo- Thomism; incorporated is the concept that the history of primitives is part o£ the whole o£ History. The examples used denote the influence o£ the culture historical anthropological school o£ Father Schmidt, itself based on a Catholic Platonism D. E aggiunge: u Even non partisans o£ the author's philosophy can adhere to his theories that genera1 rules can be conceived only being based on history and that the history o£ primitives and history, strictly speaking, must both he incorporated in to the one historical science n.

Dopo di che, egli, invece di esaminare il valore scientifico del mio lavoro, ne vede uno strumento di influenza del cattolicesimo che si adatta alle condizioni politiche ed economiche moderne e che, per via della larga

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I1 compito attribuito alla sociologia, come è da me concepita, è veramente ambizioso, perchè la società in concreto non ha solo carattere naturale ma è impregnata di soprannaturale. Si avverta bene che io non ritorno affatto alle origini della socio- logia, quando Augusto Gomte ne fece una « pan-sociologia » o «scienza totale D, assorbendo in essa ogni altra scienza: storia, diritto, filosofia e teologia; divenendo l'espressione culturale di quella religione dell'umanità che doveva soppiantare il cristia- nesimo (43. E neppure imito quella « Sociologia generale » di Durkheim che egli pose al terzo grado delle discipline socio- logiche (il primo essendo la « Morfologia sociale » e il secondo la « Fisiologia sociale ») quale interpretazione in profondità del- l'essere sociale, cioè della coscienza collettiva; perchè Durkheim fece di tale coscienza un'entità extra-temporale, quasi come lo Spirito o l'Idea di Hegel, senza i l soffio dialettico che Hegel vi diede.

Nel mio metodo c'è qualche cosa di Max Weber, il quale, però, inclinava alla tipologia sociale, che è ben diversa dalle forme della socialit*à quali da me concepite. Egli limitava la so- ciologia alla constatazione soggettiva dei fatti, tipi e simboli, lasciando alla filosofia la verificazione obiettiva dei significati. Da un lato la sociologia fu impoverita agevolando così la ten- denza dei positivisti, e dall'altro fu largamente favorita la in- trusione della sociologia nelle varie scienze speculative.

Rimettendo il sociologo nel suo vero regno, ((la società in concreto », gli si dà l'opportunità anche di approfondirne i mo- tivi teoretici, sia filosofici che teologici, senza i quali la stessa società diverrebbe incomprensibile. Non c'è da aver paura che il sociologo tratti, da un punto di vista proprio e con proprio metodo, tutto il materiale che egli ha in mano, purchè non ignori quella altre scienze, filosofia compresa, il cui ausilio gli è ne-

concezione economica, può venire a intendersi anche con i sovieti. E' spera- bile che coloro che sono all'altra sponda del pensiero e del metodo scienti- fico usino per noi (cattolici) la stessa misura di apprezzamento dell'apporto scientifico dei nostri scritti, nella loro obiettività e nel loro valore.

(a) A. Comte diede anche alla sociologia altro compito più moderato: quello di «scienza positiva dei fatti sociali n, che è poi la concezione COI-

lente.

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cessario alla retta e completa comprensione dei fatti sociali e relativa interpretazione.

Per questo nessuno deve presumere d i sè stesso. I miei libri e saggi di sociologia debbono essere riguardati come tentativi per una via nuova, e come tali giudicati nel loro complesso e nella particolarità dei vari soggetti presi a studiare. Spero che i l Saggio sul metodo sociologico varrà a mettere in migliore luce il mio travaglio di cinquant'anni, sempre diretto a questo scopo.

Sono grato ai miei critici dei loro rilievi, non'ostante le di£- ferenze d i vedute. Sono grato anche d i più a quelli che già hanno cercato di illuminare con le loro letture universitarie i l mio pen- siero e renderlo di più facile comprensione al pubblico ameri- cano. E soprattutto a coloro che col promuovere l a Luigi Sturzo Founclation for Sociological Studies han dato la spinta a trat- tare la sociologia nella sua pienezza scientifica e nella più larga comprensione della società in concreto.

Cap. VI1

POST - SCRIPTUM

I1 prof. Giuseppe Marche110 è stato uno dei pochi che nel suo scritto, Storicismo e spiritualismo: La sociologia storicista d i L. Sturzo (9, abbia dato importante rilievo al carattere sto- ricista della mia sociologia, sia come sistema che come metodo, accettando la posizione razionale (egli preferisce chiamarla spi- situalista) dello storicismo (come da me inteso) e i suoi limiti, che non sono altro che i limiti dell'uorno che crea la storia.

Di ciò gli sono molto grato anche per la spinta data a riesa- minare la mia posizione e a svilupparla nelle molteplici appli- cazioni della problematica storicista, superando in questa mate- ria tanto l'immanentismo senza sbocco quanto il pragmatismo a-razionale.

(a) V. il testo alle pagg. 99-106 del presente volume.

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Ciò ammesso, il Marche110 si domanda se la mia sociologia storicista « abbia garantita un'autonomia scientifica D. Egli af- ferma che « il giudizio sociologico nella sua concreta risoluzio- ne storicista, per entro a quella determinazione pregnante (spi- ritualistica e dualistica) dello storicismo che vedemmo elabo- rata dallo S., non è affatto autonomo nè scientifico in senso pro- prio, bensì è giudizio filosofico: la enucleazione della sociolo- gia come filosofia sociale, o problema sociale della filosofia, sem- bra a noi il risultato positivo ( e questo davvero non contesta- bile) a cui il discorso dello S. perviene in realtà, anche se l'A. non lo avverta direttamente ed anzi lasci pensare che intenda difendere la problematicità (meglio che autonomia) teoretica della sociologia come autonomia scientifica. Ed è questa, del ri- manente, l'unica conclusione a cui ci autorizzi, fuori di ogni ambiguità pseudo-filosofica, un coerente spiritualismo 1).

Questo modo di impostare il problema deriva dal come si concepisce l'autonomia di una data scienza, e nel caso nostro della sociologia. Secondo me, autonoma è una scienza che abbia un oggetto di studio specificamente individuato e un valore nor- mativo proprio.

Non credo di andare errato, che a poco a poco si vada facen- do strada la mia tesi che oggetto specifico della sociologia è la società in concreto. Dal punto di vista della realtà esistenziale dell'oggetto, della sua individualità specifica e della sua sistema- bilità scientifica non c'è altra disciplina che possa rivendicare per sè la società in concreto tranne la sociologia (&).

Perchè l'autonomia scientifica sia ottenuta occorre che la so- ciologia abbia anche un valore normativo proprio, derivato dal- la natura stessa dell'oggetto di studio. E qui sarà bene fare delle distinzioni molto chiare. La sociologia così detta descrittiva, em- pirica, morfologica, positiva, che si limita al rilievo dei dati e dei fatti, con tentativi di classifiche, di riduzioni a elementi fon- damentali (o pretesi tali), con coordinamenti a particolari scien- ze pratiche, quali l'economia, l'amministrazione, l'ecologia uma- na, la geopolitica e simili, non sarebbe certo una scienza nor-

(e) Ved i : LUIGI STURZO, La società, sua natura e leggi, cit., confronta anche i capp. I1 e VI del presente libro.

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mativa. Oggi si preferisce il nome complessivo di scienze sociali anzichè sociologia, proprio per la molteplicità degli aspetti em- pirici della società.

I cultori di tali scienze sono per lo più positivisti; rifuggono da teorie, da leggi normative, da generalizzazioni comprensive, non hanno molta fiducia nella storia, che reputano più o meno un'intrusa nel loro campo di osservazione.

Non ho mai negato che i cultori della sociologia empirica abbiano dato notevoli contributi che servono e serviranno al complesso pratico delle scienze sociali. Però, la sociologia scien- za autonoma con propria normatività è ben altra cosa.

Lo stesso avviene a tutte le altre scienze che riguardano l'uomo e che perciò son dette scienze morali, quali l'etica, la religione, i l diritto. Non mancano lavori espositivi, descrittivi, con dati storici e statistici, con rilievi di fatto, nei quali viene accuratamente evitata ogni normatività, ogni deduzione razio- nale, ogni ricerca sistematica, che possa di lontano sapere di <C contaminazione filosofica e dogmatica.

11 valore scientifico di questi studi sta solo nell'accuratezza delle ricerche e delle raccolte dei dati di esperienza e in quel che è sottinteso, cioè l'orientamento dell'autore, se tale orien- tamento riesce a non alterare il significato veramente umano dei dati e dei fatti.

I1 prof. Marche110 non poteva riferirsi a siffatti studi, socio- logici o no, che occupano i l novanta per cento degli specialisti in tali materie, ma a quelli del piccolo gregge, il dieci per cento, che ancora insiste sul valore specificatamente umano della so- ciologia e delle altre scienze morali.

L'oggetto generico di tali discipline, sociologia compresa, è l'uomo e la sua natura razionale e sensitiva, la sua esistenza tem- porale individuale e collettiva, la sua origine, i suoi limiti, il suo destino. I1 moralista, il religiografo, il giurista, il sociologo, lo storico, e perfino l'etnologo, il filologo, il geografo, l'econo- mista, lo statista, che aderiscono ad una concezione materiali- sta, costruiscono la loro scienza orientata verso i l materialismo; così sarà anche per l'agnostico, il razionalista, il naturalista, lo idealista, lo spiritualista, il tradizionalista e per ogni altro che, anche senza essere filosofo di professione, segue un complesso di

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idee filosofiche riguardanti il soggetto del suo studio che è l'uomo. Ricordiamoci che ogni uomo è filosofo anche senza saperlo.

Ciò posto, bisogna decidersi: o negare l'autonomia (non la chiamo problematicità) a tutte le discipline morali o concederla a tutte, a condizione che dal proprio sistema possano estrarre le leggi interne dell'oggetto studiato con proprio metodo e propria finalità.

I1 fatto che premesse o teorie filosofiche, o credute tali, en- trino nel sistema specifico di una data disciplina, non deve fare arrivare a negarne l'autonomia scientifica, sia perchè la suppo- sizione o la dimostrabilità sono poste in luce con metodo pro- prio e non sono imposte dall'esterno (cade così qualsiasi dogma- tismo, che Marche110 del resto esclude per la mia sociologia); sia perchè i vari aspetti del soggetto-uomo nel suo complesso razionale e attivo, sul quale vertono tutte le discipline morali, sono necessariamente collegati e sostanzialmente inscindibili.

È punto centrale della questione in esame i l rigore sistema- tico di qualsiasi disciplina scientifica; principi e leggi debbono ricavarsi dal proprio oggetto e con proprio metodo e risolversi in ulteriori istanze coerenti al sistema, senza appropriazioni di elementi eteronomi ed evitando qualsiasi estrapolazione.

So bene che si contesta dai filosofi la possibilità di arrivare a conclusioni probative che non siano filosofiche, al punto che l'etica diviene filosofia morale o filosofia della moralit.à, e i l di- ritto diviene filosofia del diritto, e così la sociologia dovrebbe essere filosofia della società, l'interpretazione storica filosofia della storia e così via. Ma a parte che l'orientamento culturale varia di epoca in epoca, e le specificazioni scientifiche seguono o precedono le esigenze del pensiero e della vita, se le scienze morali sono veramente scienze sistematiche e normative, debbo- no potere raggiungere i loro fini specifici con propria autonomia.

Posso consentire che gli elementi razionali e il processo me- todologico di ogni singola scienza non mettano nella luce com- pleta quegli elementi (per esempio la razionalità) che in altre discipline hanno migliore e più piena comprensione; ma questo avviene in tutte le branche del sapere umano.

Non credano i filosofi che essi arrivino a conoscere la realtà nella sua completezza; spesso restano sul piano ragionativo e

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nozionale, mentre altre scienze (delle quali poi faranno essi tesoro) arricchiranno le stesse nozioni filosofiche e daranno I'aire a trovare la via a ulteriori vedute che prima mancavano. È il caso dell'influenza delle scienze fisiche e psicologiche sulla filo- sofia, e, secondo me, anche della stessa sociologia sulla filosofia, e viceversa (*). Non vogliamo nella cultura compartimenti-stagni: ma non vogliamo neppure gerarchie scientifiche che tolgono la libertà della ricerca e la singolarità delle conclusioni. Del resto, il rigore metodologico non vieta di mutuare elementi secondari e chiaritivi dalle discipline a 5 n i ; tutto sta a non alterare il ca- rattere scientifico della propria materia, e a non introdurvi te- mi, principi e leggi ad essa estranei (41).

Spesso siamo messi di fronte a dei principi dei quali la men- te umana intuisce l'evidenza in modo diretto, ovvero ne presup- pone l'evidenza per intuizione oscura e indiretta.

Questo lo sanno bene i filosofi spiritualisti quando parlano d i verità indimostrabili ed evidenti, delle quali l'uomo non può fare a meno se vuole procedere razionalmente alla ricerca della verità. Verità quindi assiomatiche, che, ciò non ostante, non so- no dogmi imposti dall'esterno alla nostra convinzione, ma dei quali siamo convinti senza un procedimento di dimostrazione ragionativa o in forza di un sistema filosofico.

Dall'altro lato c'è un'intuizione sempre presente in ogni no- stro atto conoscitivo quale ne sia l'oggetto immediato; intuizio- ne sì ma indiretta e oscura di un totale che trascende ogni li- mite e che tende verso un assoluto senza limiti (48).

Tutta la conoscenza umana è obbligata a muoversi dentro questi due pilastri di diversa evidenza intuitiva anche se noi non ce ne rendiamo conto e non ne abbiamo una percezione riflessa: mutuandosi le due intuizioni suddette valori di verità insoppri- mibili. Che meraviglia allora che queste verità premano e di- vengano elementi d i ogni scienza? Tutto sta a valorizzarle con proprio metodo e proprio limite.

(9 Vedi: LUIGI STUEZO, Problemi s p i r i d i &L nostro tempo, cit., pagg. 20-21.

(47) Vedi: Risposta ai critici, pagg. (a) Vedi: LUIGI STUBZO, Problemi spirirudi, cit., pp. 1514.

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Così la sociologia, ultima venuta nell'arengo delle discipline morali, non può essere sottratta all'influsso delle intuizioni in- tellettive, come vorrebbero i positivisti; nè può, per i valori non strettamente ragionativi ma certo spirituali che ne derivano, es- sere accusata di mancanza di autonomia scientifica; come non potrebbe essere accusata qualsiasi scienza morale che ha per og- getto l'uomo. e neanche tutte le altre scienze, dette generica- mente fisiche, quando passano dalla mera empiricità ad una co- struzione sistematica e alla ricerca di leggi generali.

I1 prof. Marchello, infine, avanza dei dubbi sulla mia teoria del « dualismo sociologico » come esigenza intrinseca del dina- mismo sociale.

Per la portata di tale teoria non ho che rimandare ai miei diversi lavori compresi gli scriki del presente volume.

I1 rilievo di Marchello è simile a quello di Oesterle, benchè espresso in termini diversi e sotto proprio angolo visuale. Egli invero ne fa una questione strettamente « speculativa », al di fuo- ri, quindi, dei dati dell'esperienza storica. I1 mio piano è quello dell'esperienza storica della società, dalla quale derivare le leggi sociologiche; leggi, come più volte ho detto, di approssimazione, spesso ipotesi di studio sì da essere rivedute, corrette o anche abbandonate, secondo che se ne dimostra o la incompletezza o la infondatezza.

Ma quando i dati storici concordano e le opposte tesi non possono darci nessuna o quasi nessuna istanza storica, nè elemen- ti di approssimazione, allora la tesi speculativa diviene tesi astrat- ta, che non ha nulla a vedere con ,la sociologia come da me concepita.

Marchello afferma che: « Non si può concedere nè che l'unità sociale sfoci necessariamente nel monismo statolatra, nè che il pluralismo sia per sè stesso atomistico e frammentano D.

Io non parlo mai di unità sociale, perchè, secondo me, tale unità non esiste nel concreto; la mia sociologia ha per oggetto la società in concreto ; mi rifiuto, quindi, d i considerare come og- getto della sociologia, qualsiasi, per me astratta, unità sociale.

La legge di unificazione che io esamino è tendenziale e ap- prossimativa. Anche lo stato totalitario, che pretende ad una ri- gida unificazione, non può raggiungerla mai, non cessando in es-

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so il dualismo sociale, pur se ridotto al minimo e reso apparen- temente inefficiente; perchè i nuclei umani extra-statali (fami- glia, chiesa, città, villaggi, associazioni economiche) avranno sempre la loro attività specifica. Dall'altro lato, quale potrebbe essere l'elemento atto a soffocare o a ridurre all'inefficienza tut- te le autonomie sociali se non una forza accentrata e tiraunica?

Le antiche teocrazie per imporsi e divenire espressione uni- ficata della società dovevano assumere anche il potere politico ovvero dovevano condividere col potere politico quello religio- so, pur distinguendone le competenze. Ciò non ostante il duali- smo, anche se tradotto in regolare diarchia, esistette in ogni fase storica.

Il papato cattolico, pur nelle fasi di maggiore potenza nel campo civile e politico, non divenne mai unico potere unifica- tore della società. La teoria che prevalse anche nel secolo deci- moterzo, sostenuta da S. Tommaso, fu quella della originalità dell'autorità civile, e non quella di Innocenza IV della trasmis- sione dell'autorità al potere civile per mezzo della chiesa (49).

I1 prof. Marche110 aggiunge che « La possibilità del libero svolgimento della iniziativa sociale - e in concreto la difesa contro gli eccessi del monismo politico, il cui pericolo incom- bente è denunciato con così scoperta insistenza dallo S. - pos- sono garantirsi in modo molto più efficace articolando il pro- cesso di unificazione secondo i due principi paralleli e comple- mentari del pluralismo delle forme e del loro orientamento ge- rarchico all'unità dell'ordine; che sono, del resto, i due motivi tradizionali della dottrina sociale cattolica, del pluralismo SO-

ciale di indirizzo cattolico quale, ad esempio, fu illustrato dal Toniolo 1). Ma, secondo me, non si tratta delle modalità di ga- ranzie, cosa che appartiene alla fenomenologia storico-sociolo- gica; si tratta di ben altro. Primo: se la pluralità dei nuclei SO-

ciali p0tr.à esistere senza coordinazione strutturale organica; il che storicamente è da escludere. Secondo: se la pluralità dei nu- clei può arrivare all'unificazione gerarchica senza la mediazione dualistica; il che storicamente è da escludere. Ogni tentativo

(49) Vedi: LUIGI STURZO, Chiesa e stato, cit. -

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di unificazione della pluralità porta per sè la dualizzazione nei vari aspetti dell'attività umana.

« L'orientamento gerarchico all'unità dell'ordine » è un idea- le a posteriori, coltivabile in istanza speculativa, in tesi di etica sociale, nelle costruzioni teoriche, siano o no u to~is t iche ; ma non possono far parte di una sociologia storicista, perchè non trovano base nei dati concreti della storia del processo umano.

Questi rilievi servono di controprova alla tesi dell'autonomia della sociologia, la quale non può accettare una teoria o una legge che non sorga dalla società in concreto quale ci è presen- tata dalla storia.

Sarei lieto, se il prof. Marchello, o altri, ripigliasse l'esame della mia sociologia nei punti fin ora controversi, per un più largo approfondimento, avendo cura d i evitare ogni estrapola- zione ai termini posti e accettati, fra i quali, i più decisivi: 1) che la societ.à in concreto è « la proiezione multipla, simulta- nea e continuativa degli individui associati ed operanti »; 2)' che la società in concreto si svolge in processo temporale e quin- d i storico; 3) che la sociologia è la scienza della società in con- creto nella sua formazione e nel suo processo.

Roma, 15 aprile 1950.

STORICISMO E SPIRITUALISMO LA SOCIOLOGIA STORICISTA DI LUIGI STURZO

Con la pubblicazione del primo volume delle «Opere complete di Luigi Sturzo, abbiamo finalmente il testo italiano e definitivo dello scritto in cui viene esposta, in forma sistematica, la sua teoria sociologica (l).

Lo scritto era già apparso sin dal 1935 in edizione francese, col titolo Essai de son'ologie; ed ebbe in seguito altre edizioni in lingua inglese e spagnola. I1 volume di cui parliamo riproduce il saggio del 1935 con quelle poche varianti e aggiunte ritenute necessarie per un testo definitivo n

(Pref., p. XII); il titolo, invece, è nuovo: a La società, sua natura e leggi. Sociologia storicista n. Ci troviamo dunque di fronte ad un documento di pensiero particolarmente impegnativo, perchè - come si accenna nella Pre- fazione - i risultati che qui si presentano sono il fmtto di un cinquan-

(l) STURZO L., La società, sua natura e leggi. Sociologia storicista (« Opera omnia n, Serie I, vol. I). Bologna, Zanichelli, 1960.

9 3

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tennio di meditazione e di esperienza; e chi ricordi la singolarissima im- portanza dell'opera intellettuale e organizzativa dellYA. in ordine ai pro- blemi di una moderna sociologia cristiana, non può non attendere da questo libro un contributo di estremo interesse per i l chiarimento delia dottrina sociale nel suo significato intrinseco e nel suo rapporto con l'etica cristiana.

Diciamo subito che l'A. è pienamente consapevole di quanto si attende dall'opera sua; e non sfugge la responsabilità, per quanto ardua, di impo- stare sia dal punto di vista metodico sia dal punto di vista sostanziale il problema di una sociologia che si ponga autonoma nell'orbe intellettuale, storica e insieme normativa (si vedrà, poi, in che senso), atta a qualificare l'esperienza sociale nel suo fondamento personalistico e nel suo finalismo etico-religioso. Le grandi linee dell'interpretazione sociologica dello S. ri- prendono i motivi ben noti del personalismo sociale di indirizzo spirituali- stico: assunzione della persona come principio causale e teologico della società, in un orizzonte metafisico in cui la razionalità dell'ordine etico è postulato come lo stesso presupposto della persona umana. La polemica contro il monismo sociale sia positivo che idealistico rinnova l'apologia della libertà della coscienza, mentre la polemica contro l'esclusivismo giu- ridico e politico dello stato moderno rivendica la libertà delle forme so- ciali in cui la coscienza via via si esplica e si integra (dalla società fami- liare alla religiosa, civile, economica, internazionale). Ma questo schema ormai tradizionale non è solo riassunto in una affermazione vigorosa e coerente, ricca di sviluppi dottrinali, di grandiose aperture prospettiche nonchè di precisazioni polemiche di frequente assai felici; questo schema è addirittura portato ad illuminarsi in una insolita accentuazione del suo contenuto, per opera del nuovo principio metodico che S. adotta nella sua esegesi. E che si tratti di novità l'A. stesso è così consapevole da ricordare (Pref., p. XII) che nell'edizione americana diede a questo scritto-il sotto- titolo di u nuova sociologia, per differenziarla dalle due correnti prevalenti negli U.S.A.: la positivista e la etico-sociale (cattolica) n. I1 principio me- todico che innova lo schema della dottrina sociale spiritualistica è queno stesso che, nell'edizione definitiva da noi presa in esame, fa aggiungere all'A. il nuovo sottotitolo del lavoro: sociologia storicista, ed è ampiamente illustrato in tutta la Introduzione (p. 3 S.). Prineipio metodico della storieità, che incide in modo così profondo ed assorbente (se non esclusivo) nella ri- cerca sociologica da qualificarla come storicismo sociologico.

Bisogna riconoscere apertamente il pande merito dello S. nell'aver sa- puto individuare la storicità come principio metodico della ricerca sociolo- gica, perchè in sostanza con questa individuazione egli ha portato la dot- trina sociale spintualistica sul piano della consapevolezza critica moderna, affrancandola da quel fondo naturalistico-innatistico che ancora la inceppa così di frequente. L'interesse speculativo dell'esegesi elaborata dallo S. si fa a questo punto estremamente sottile, si vorrebbe dire pungente: il riferi- mento alla consapevolezza critica moderna, sotteso alla concezione storicista della sociologia, non potendo significare la rinuncia alle esigenze essenziali dello spiritualismo nel cui ambito si propone, conduce lo S. a chiarire i

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caratteri dello storicismo cui aderisce, che sono sinteticamente ì caratteri di uno storicismo duolistico (P. 18 sgg.). a Per noi il vero storicismo è la conce- zione sistematica della storia come processo umano, realizzantesi per forze immanenti, unificate nella razionalità, da un principio e verso un fine tra- scendentale-assoluto D (p. 23). Questa formulazione conclusiva esprime nel modo più esplicito che si possa desiderare il punto di vista metafisico dal quale lo storicismo è assunto e legittimato: i limiti per entro ai quali si accetta il principio storicista sono indicati consapevolmente dal netto rifiuto del monismo che è proprio di una immanenza assoluta.

La consapevolezza critica di questo limite, mentre garantisce formal- mente la posizione metafisica della dottrina (chiarendone il presupposto essenziale), rappresenta un contributo di valore decisivo per la definizione della medesima dottrina sociale spiritualistica in ordine alla possibilità e insieme ai limiti della sua convergenza con l'atteggiamento tipicamente sto- ricista dal pensiero moderno. I1 beneficio che la dottrina sociale spirituali- stica può trarre da questo sforzo di comprensione dell'atteggiamento mo- derno e storicista è davvero immenso, e l'opera dello S. lo documenta nel modo più persuasivo. È tutta una nuova penetrazione dell'iniziativa sociale nelle sue mille guise via via attuate, nelle sue più recondite interferenze, nella sua mirabile continuità ideale, che il metodo storico consente di sco- prire, investigare, qualificare; è, soprattutto, l'individuaziene del processo costitutivo dell'espe~ienza sociale, assunta e totalmente risolta nel suo dina- mismo storico, che fa intendere l'immanente razionalità e umanità delle forme e degli istituti in cui la coscienza individuale realizza se stessa socia- lizzandosi.

Il processo della formazione storica della socialità, in funzione e per iniziativa della persona ossia della coscienza individuale, è studiato con intenso, insistente interesse dallo S. che, definendolo come u il dinamismo della concretizzazione della socialità n, vi dedica uno dei capitoli teorica- mente più robusti e più felici della sua opera (p. 27-47). La concretizzazione, ossia la realizzazione storica della socialità, è intesa come processo il cui principio dinamico è costituito dalla persona, dalla razionalità individuale: si fanno qui evidenti e sono portati al loro più scoperto risalto quelli che ben possiamo chiamare i caratteri differenziali della concezione spirituali- stica dello storicismo, cioè il fondamento personalistico e il presupposto metafisico razionale della stessa esperienza storica, cioè ancora - cogliendo i due termini nel vincolo che li unisce - il principio metafisico-razionale della persona come fondamento della storia. Ripetiamo, è merito incontesta- bile dello S. aver portato questa esigenza dottrinale nella sua individuazione più netta e criticamente consapevole, e averla altresì formulata con la mag- giore spregiudicatezza.

I motivi e le conseguenze pressochè innumerevoli di questa imposta- zione della problematica sociale costituiscono la nervatura di tutta la co- struzione sociologica dello S.; sia nel suo intento positivo e sistematico, sia nel suo aspetto polemico (si pensi alla critica del principio monistico dello stato u totalitario n, cui è dedicato l'intero capitolo XI), costruzione di grande

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r ia e insieme aperta al senso vivo, dinamico della storia. È da notare che simili caratteristiche, che potrebbero anche apparire antinomiche, divengono aspetti complementari nella esegesi dello S. grazie al principio della razionalità storica che interamente li media: il senso della novità, dell'infinita possibilità dell'iniziativa umana nella storia come inizia- tiva razionalizzatrice della storia è sempre presente, e detta all'A. una vi- sione virilmente positiva, o se si preferisce cristianamente fiduciosa, del- l'opera attraverso la quale l'uomo si incivilisce e si socializza (cfr., a questo riguardo, le pp. 34-39 dedicate al concetto di progresso, e le pagg. 277-282 dedicate al finalismo interiore e razionale della socialità nel suo processo storico).

Non potendo seguire l'A. nell'esame delle singole determinazioni della sua sistematica, preferiamo piuttosto completare il cenno sommario sul carat- tere e il contenuto di questa nuova indagine sociologica, sottolineando come gli elementi positivi (che sono molti e degni del più attento rilievo soprat- tutto per quanto riguarda l'indicazione metodologica veramente magistrale sui presupposti e le possibilità concrete di uno storicismo a base spiritua- listica e di una conseguente dottrina della società) non vadano tuttavia scompagnati da alcune difficoltà e richieste di delucidazioni, che è appunto compito della critica individuare con serena franchezza.

Innanzi tutto, è da contestare che la sociologia, nell'impostazione adot- tata dallo S., abbia garantita una autonomia scientifica. I1 giudizio sociolo- gico nella sua concreta risoluzione storicista, per entro a quella determina- zione pregnante (spiritualistica e dualistica) dello storicismo che vedemmo elaborata dallo S., non è affatto autonomo nè scientifico in senso proprio, bensì è giudizio f i los~fi~o: la enucleazione della sociologia come filosofia sociale, o problema sociale della filosofia, sembra a noi il risultato positivo (e questo dawero non contestabile) a cui il discorso dello S. perviene in realtà, anche se l'A. non lo avverta direttamente ed anzi lasci pensare che intenda difendere la problematicità (meglio che autonomia) teoretica della sociologia come autonomia scientifica (Pref., p. XIII-XV). Ed è questa, del rimanente, l'unica conclusione a cui ci autorizzi, fuori di ogni ambiguità pseudo-filosofica, un coerente spiritualismo.

D'altro, lato, che si tratti di un vero e proprio giudizio filosofico che motiva ed awalora, e non di un giudizio meramente descrittivo della scienza, pare sia riconosciuto dallo stesso S. quando qualifica come razionalità il principio dinamico della concretizzazione, ossia della formazione storica, del- l'esperienza sociale. La concretezza, il processo di realizzazione storica, in- tesi nel loro segreto significato razionale e nell'apertura immanente di una coscienza individuale che è libertà, non possono certo farsi oggetto di una descrizione-esplicazione meramente fenomenica come è quella della scienza, ma debbono risalire al principio interiore che informa e rende possibile la stessa esperienza sociale: e questa scoperta del principio interiore non è altro, appunto, che giudizio filosofico. L'insufficienza di uno studio descrit- tivo della società a nelle sue note caratteristiche esteriori o nei suoi fattori materiali n è ben presente all'A. e costituisce anzi uno dei motivi tipici della

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sua impostazione metodologica, avversa ad ogni ' ogni riduzione positivistica della ricerca sociologica (

Questo chiarimento, che non è solo metodico ma incide nella stessa sostanza del giudizio sociologico, vale anche a rispondere ad un'altra dif- ficoltà che affiora, o sembra affiorare, all'esame della critica: la teoria ela- borata dallo S. ~ u ò dirsi veramente immune da presupposti dommatici, os- sia estranei al processo di totale motivazione in cui appunto si esprime il giudizio filosofico? Dopo quanto abbiamo precisato sullo storicismo duali- stico proposto dallo S., è ben facile la tentazione di vedere in esso un re- siduo dommatico; ma, in realtà, può dirsi dommatico il rinvio ad un pre- supposto metafisico, quando sia inteso come la suprema implicazione del processo attraverso il quale l'esperienza si fa consapevole a se stessa e radi- calmente si motiva e si avvalora? Si potrà bensì discutere, sul piano filo- sofico, se tale prospettiva sia la più idonea ad esplicare la dialettica dell'c- sperienza, e si potrà anche desiderare - nell'ambito dell'impostazione di una filosofia spiritualistica - un più intimo e radicale problematizzarsi del principio metastorico come suprema implicazione del discorso attraverso il quale l'esperienza si motiva e si avvalora; ma imputare di dommatica la metafisica dello spiritualismo per se stessa è una illazione che può esser valida solo per chi escluda la possibilità di problematizzare il principio metafisico, ossia di assumerlo come lo stesso problema essenziale della dia- lettica dello spirito. L'ammissione o meno di questa possibilità è ciò che distingue, in radice, lo spiritualismo (per quanto critico) dalla filosofia del- l'assoluta immanenza; ma, comunque si risolva il dilemma metafisico, per noi è chiaro che anche l'opzione contraria non può non riconoscere che - per entro al sistema dello spiritualismo - tale possibilità è un'esigenza pienamente valida. Non si richiede altro per escludere che il principio me- tafisico nel sistema razionale dello S. - che è, appunto, un sistema spiri. tualistico - debba essere necessariamente dommatico.

Liberato così il terreno della discussione da questo primo aspetto, me. tafisico, del dommatismo, dobbiamo tuttavia domandarci ancora se alla teo- ria sociale elaborata dallo S. possa elevarsi l'accusa di dommatica, nel senso più ristretto e specifico per cui essa non si limita a a descrivere m la vita complessa della società, ma intende scoprire la legge razionale del suo svi- luppo e appunto in questo sforzo esegetico si dimostra una teoria normativa. Non c1è alcun dubbio che la sociologia dello S. sia una sociologia normativa, fondata com'essa si presenta sul processo di realizzazione storica (concretiz- zazione) della coscienza ossia della razionalità. Ma questo carattere è se- condo noi inevitabile per una teoria sociale che si ponga sul piano ed in funzione dello spiritualismo filosofico, teoria sociale speculativa e insomma giudizio filosofico e non scientifico. Anche qui, tuttavia, l'accusa di domma- tismo non sembra affatto pronunciabile da parte della critica: la possibilità di esplicare razionalmente il divenire sociale può apparire un atteggiamento dommatico solo a chi abbia preventivamente rinunciato ( o sia persuaso di aver rinunciato) ad intendere la storia sociale dell'uomo come problematica della coscienza, e abbia sostituito al criterio (filosofico) dell'esplicabilità

7. Srvnzo - Del Metodo Sociologice

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interiore il criterio (scientifico) dell'esplicazione meccanica ed esteriore, insomma deterministica, dell'esperienza sociale.

Stabilita con la massima nettezza la posizione dello S. di fronte a quello che può ben ritenersi i l problema metodico fondamentale della sociologia, si deve peraltro aggiungere subito che lo sforzo costante deli'A. nell'appli- care i principi di questa m a prospettiva è rivolto a rendere duttile e pene- trante lo schema al continuo imprevedibile variare dell'esperienza storica; e questa sua preoccupazione di riscattare il canone speculativo da ogni rigi- dezza per fame dawero un principio di interna esplicazione del divenire storico può ben riconoscersi legittima in quanto la normatività della ragione non è imposta o ritrovata dall'esterno, soprannuotante al vivo processo della storia, ma è colta a l suo formarsi per entro al combattuto e aleatorio dina- mismo sociale, criterio informatore del processo di realizzazione storica (con- cretizzazione) della socialità. (Sono decisive, a questo riguardo, le delucida- zioni intorno al razionale relativo, al semi-razionale nel processo di forma- zione storica della socialità: cfr. per i l concetto p. 3439, per le applicazioni ai diversi momenti del divenire sociale p. 55-57, 136 sgg., 159 sgg.). Del resto, una riprova del carattere non affatto preconcetto, e in senso deteriore raziona- listico, dell'esegesi, è la sua apertura all'influsso del volere economico nella formazione e nella qualificazione della società: infatti lo S. ammette espli- citamente che l'economia condiziona le forme di socialità, così da divenire uno degli elementi di struttura e persino uno dei fini immediati dell'attività associata (p. 108).

In una concezione della razionalità sociale così aperta a l dinamismo problematico della storia ed al senso inesauribile della sua novità - ci sia consentito quest'ultimo rilievo - riesce peraltro di5cile intendere l'imma- nenza del principio dualistico, della u diarchia D come legge fondamentale della formazione storica della società (v. p. 229 sgg.). Ben si comprende che la polarizzazione dualistiea, l'opposizione delle forze e delle forme sia ele- mento indispensabile dello stesso dinamismo dell'esperienza sociale, ma non si scorge - da un punto di vista concretamente speculativo, come è quello adottato dallo S. - perchè il movimento dialettico della storia si cristallizzi nell'ipostasi dualistica. Non si può infatti concedere nè che l'unità sociale sfoci necessariamente nel monismo statolatra, nè che il pluralismo sia per se stesso atomistico e frammentario (v. p. 239).

Non faremo il torto allo S. di incriminare la sua concezione della u diar- ehia sociologica D come una concezione deterministica: egli ha ragione di difendere la propria teoria da questa accusa (p. 238). E siamo pronti a ri- conoscere che il principio della diarchia tende a garantire l'apertura dia- lettica della socialità e insomma il carattere libero e problematico del pro- cesso storico. Ma, a nostro modesto avviso, la possibilità del libero svolgi- mento dell'iniziativa sociale - e in concreto la difesa contro gli eccessi del monismo politico, il cui pericolo incombente è denunciato con così scoperta

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insistenza dallo S. - possono garantirsi in modo più efficace articolando il processo di unificazione secondo i due principi paralleli e complementari del pluralismo delle forme e del loro orientamento gerarchico all'unità del- l'ordine; che sono, del resto, i due motivi tradizionali della dottrina sociale cattolica, del pluralismo sociale di indirizzo cattolico quale, ad esempio, fu illustrato dal Toniolo.

Tanto più che questa prospettiva dell'esperienza sociale, pluralistica e insieme ordinata all'unità, perchè fondata su l'azione della persona in quanto si articola storicamente in una finalità sociale organica, è in sostanza quella stessa prospettiva che lo S. riafferma con rinnovato vigore per entro a tutta la sua esegesi imperniata, come s'è visto, su la essenziale coincidenza del processo di realizzazione storica della persona e del processo di concretiz- zazione della socialità (cfr. p. 30-34, 74, ecc.). Quella stessa prospettiva, in fine, nella quale - se non andiamo errati - sembra che possa valorizzarsi al massimo la dottrina della non-eteronomia dell'autorità a cui evidente- mente, e con ragione, lo S. annette tanta importanza (ul'autorità non è eteronoma, non derivando da un principio extra-sociale ... l'autorità è la stessa coscienza individuale-sociale in quanto è direttiva permanente responsabile e sintetica D (p. 167): dottrina che risolve sul piano di una considerazione personalistica concreta il problema più disputato della filosofia politica di ogni tempo, perchè è il centro drammatico della condotta politica, ossia il problema della coincidenza di libertà e autorità.

Se'vogliamo raccogliere sinteticamente il senso che può trarsi dalle o s servazioni sparse e necessariamente frammentarie che precedono, non ab- biamo che da sottolineare l'estremo interesse del contributo recato da que- sto scritto dello S. alla definizione teoretica della dottrina sociale di indi- rizzo spiritualistico, nei suoi caratteri differenziali e soprattutto ne[ suo aspetto metodologico (problema del metodo storicista assunto sul piano me- tafisico dello spiritualismo). È sufficiente indicare la gravità e l'urgenza d i questi interrogativi, per intendere i l valore di un'opera che abbia saputo dame una adeguata formulazione teoretica; anche se i1 carattere rigida- mente sistematico della trattazione, pur conferendo alla lucidezza del di- scorso, abbia tuttavia reso impossibile l'esame diretto e approfondito della complessa situazione dottrinale (prevalentemente awersa all'indirizzo spi- ritualistico seguito dallo S.) che la sociologia contemporanea presenta e discute.

Menda, questa, che tanto più colpisce in un'opera che - si è detto e ripetuto - ha il merito indiscutibile di aprire la dottrina sociale spirituali- stica ad uno degli interessi più tipici della problematica culturale moderna, la storicità. Menda, peraltro, resa ancor più grave, se così possiamo espri- merci, dalla mancanza pressochè assoluta di ogni riterimento alla storia interna dello stesso storicismo spiritualistico; laddove i l richiamo al pen- siero, poniamo, di Vico avrebbe potuto chiarire, e validamente confermare,

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i l significato più profondo della costruzione proposta. E trascegliamo fra i tanti nomi che si potrebbero citare quello del Vico, non solo per l'alta sug- gestione della sua dottrina, ma proprio perchè nel seguire lo sforzo generoso con cui lo S. interpreta il dinamismo sociale e l'ideale continuità della ragion storica per entro al rinnovarsi inesauribile degli eventi, si awerte ben spesso di trovarsi su la linea di sviluppo dello spiritualismo storico vichiano. (Diciamo, fuori di ogni polemica interpretativa posteriore, del Vico intenzionalmente spiritualista).

Perchè dunque l'invito, che VA. rivolge al pensiero italiano per u un ritorno alla sociologia e, allo steso tempo, per una revisione di indirizzi e di metodi B (Pref., p. XIV-XV), si traduca in una realtà di cultura veramente proficua, occorre che il programma delia dottrina sociale spiritualistica (illu- strato in modo così probante e volenteroso in quest'opera dello S.) esca dal riserbo, e quasi vorremmo dire dall'isolamento della sua pura sistematicità, per sostenere il confronto e il fecondo dibattito con gli altri indirizzi che hanno contribuito alla formazione del pensiero contemporaneo.

GIUSEPPE MABCHELLO Professore nell'llniversità di Torino

Da Rivista internazionale di scienze sociali. Gennaio-Febbraio 1950.

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PARTE SECONDA

SCRITTI DI CARATTERE SOCIOLOGICO

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LO STATO CORPORATIVO

Ci sono delle frasi che fanno fortuna, o perchè contengono qualche verità che di tanto in tanto torna ad affascinarci, OV-

vero perchè ciascuno crede d'intendere quella frase nel modo che meglio corrisponde alle proprie simpatie.

Io non dirò per quale delle due ragioni oggi incontra il gu- sto di molti la frase di stato corporativo D. Solo noto che fra coloro che mostrano di crederci si trovano insieme sindacalisti puri, capitalisti reazionari, fascisti statolatri, cattolici sociali, so- cialisti nazionali e così via. La compagnia non è omogenea; cia- scun gruppo, così diverso ed opposto, crede di trovarvi una parte del proprio ideale, o una garanzia dei propri interessi.

Fermandoci all'opinione dei cattolici sociali (non tutti, per fortuna) a noi sembra che costoro siano disposti a vedere nel- lo stato corporativo l'ideale cristiano della collaborazione di clas- se, quale era nelle medievali gilde o corporazioni d'arte, nonchè un mezzo efficace per sbarrare la via ad esperimenti socialisti.

L'accenno fatto da Pio XI nell'enciclica Quadragesimo Anno sulle corporazioni in corso d i formazione in Italia ( e non sullo stato corporativo) e le riserve fondamentali di Sua Santità accen- nate circa l'ingerenza eccessiva dello stato e la burocratizzazione degli organismi, hanno servito spesso tanto agli entusiasti quanto ai critici, tirando him et inde le parole del papa ad un signifi- cato polemico di approvazione o di censura che non possono ave- re. L'accenno fatto, secondo noi, conduce solo ad un accurato esa- me dell'iniziativa fascista, per conoscerla ed apprezzarla nella sua portata reale.

È quanto obiettivamente faremo in questo studio, lontani da un qualsiasi preconcetto favorevole o contrario.

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eIT'esame dell'esperimento fascista (che og- gi va divenendo anche esperimento nazista) occorre sgombrare la mente di certi lettori cattolici ( e forse anche di non cattolici) dell'equivoco che desta il richiamo al medioevo, per il ripetersi che si fa della parola corporazione o corporativismo. I cattolici sono affezionati all'idea medievale della corporazione di arte e la ritengono tutta propria, perchè all'inizio del nostro movimen- to sociale per l'organizzazione del lavoro, fu ripresa da molti, e Leone XIII la consacrò nella sua Rerum Novarum. E come co- loro che hanno assai caro il ricordo di una persona perduta, quasi s'illudono di rivederla nel viso di quelli che hanno le stes- se fattezze, o portano lo stesso nome o le stesse vesti o cantano la stessa canzone, cosi essi, tali cattolici, si sono commossi al sentir sussurrare i l vecchio nome di corporazione.

Però la corporazione medievale era basata sopra elementi politici, morali ed economici così differenti da quelli di oggi, che sarebbe grave illusione credere che artificiosamente e per virtù di un nome possa oggi rinascere. La parola è presa a prestito dal passato (ed è questa la sorte di molte parole), ma ha per- duto quasi ogni significato originano. I1 concetto corporativo si basava, allora, su tre principi insopprimibili : quello dell'or- ganismo sociale; quello dell'autonomia di ogni singolo organi- smo entro il quale l'individuo partecipante godeva i suoi diritti; quello infine della cooperazione libera fra gli organismi. Da qui la cura gelosa dei diritti, che noi chiamiamo sociali, politici ed economici, di ogni singolo organismo, (sia esso Ia gilda operaia o l'università di studi, ovvero i l comune libero ecc. tutti a siste- ma corporativo); da qui le barriere infrangibili giuridiche ed economiche che garantivano l'esistenza autonoma di ogni sin- golo ente; da qui la necessità di affidare gli enti deboli agli enti forti, sopra un principio di lealtà reciproca e con l'aiuto di una minutissima casistica di diritti particolari, che formavano la feu- dalizzazione (non solamente terriera) di tutto il congegno socia- le del medioevo.

Pu r non volendo stabilire dei nessi assoluti e deterministici fra politica, economia e morale, nessuno negherà che la struttu- ra della società del medioevo rispondeva al tipo di economia artigiana del lavoro manufatturiero, alla condizione agricola dei

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servi della gleba, al sistema dei territori vincolati da barriere commerciali, all'uniformità religiosa ammessa da tutti, come re- gola di fede e di costumi.

Oggi noi abbiamo lo stato politico ben diverso dalla comunità o corporazione del medioevo; come unità economica non abbia- mo più la gilda o il comune, ma la nazione, anzi andiamo piìi oltre e arriveremo ad unit,à economiche più complesse e più lar- ghe che non la nazione stessa. Per giunta, oggi non abbiamo più l'unità morale interiore, cioè in una comune religione o chiesa o almeno in una comune filosofia, ma abbiamo un contrasto di fedi, d i credenze e di filosofie: così che la unità morale si è trasformata in semplice conformità esteriore alla morale legale e codificata dello stato. Infine al sistema organicistico o corpora- tivo, è stato sostituito quello individualistico, che fin oggi resta alla base della struttura sociale moderna.

È vero: nella storia dei popoli la legge del dinamismo supe- ra quella dello staticismo; ma il dinamismo pulsa verso nuove esperienze, non ripete il passato nè torna indietro. Onde il pro- blema che ci si presenta alla mente si è se dati gli elementi mo- rali politici ed economici del presente, si possa andare verso un sistema corporazionistico che contenga i fattori dell'organicismo medievale adattato o sviluppato nell'ambiente moderno.

La formazione dei sindacati liberi, delle trade unions, delle unioni operaie e simili fu una reazione al regime liberalista; il quale, abolendo ogni vincolo economico e riducendo la società al solo fattore individualista, aveva esposto il lavoro operaio a tutti gli inconvenienti della concorrenza e a tutte le oppressioni della potenza del capitale. I1 problema era o trovare per i l la- voro operaio un sistema di equilibrio e di garanzia nel regime individualistico liberale, ovvero organizzare la società sopra un sistema economico diverso.

Donde la doppia corrente, quella sindacalista apolitica e la socialdemocratica. I l comunismo rappresenterebbe lo sbocco ra- dicale delle suddette correnti, la idealistica e la pratica. Fra le correnti intermedie e pratiche prende posto la cattolico-sociale

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o cristiano-sociale o democratica-cristiana, che ha voluto associa- re l'aspetto pratico ad un prevalente (ma non totale) apoliti- cismo.

Sarebbe lungo e superfluo seguire la storia di questi movi- menti e notarne i vantaggi e gli svantaggi, nello sviluppo spesso accelerato e perfino rivoluzionario dell' economia capitalistica moderna. Guerra e dopoguerra hanno turbato ab imis quel pra- tico adattarsi che si andava operando tra capitalismo industriale e movimento sociale, attraverso l'intervento dello stato.

C'interessa notare, allo scopo del nostro articolo, che mai, nè socialisti o social-democratici, nè sindacalisti puri, nè cristiano- sociali hanno affrontato sul serio e con intenti di realizzazione pratica il problema dello stato come strettamente legato al pro- blema della organizzazione del lavoro.

I sindacalisti puri, disinteressandosi dello stato e della po- litica dei partiti, sono sempre restati fermi ai problemi tecnici, ma di fronte alle più gravi resistenze della classe padronale o dello stato, cadevano spesso nell'anarchismo sociale.

I social-democratici, pur odiando lo stato borghese e capita- lista (almeno per l'uso delle folle) ne hanno sempre tirato tutti i vantaggi politici atti a rafforzare le trade unions, i sindacati operai, le leghe di lavoro, le cooperative, le mutue e ogni altra attività sociale. In sostanza, hanno usato del metodo liberale per creare gli organismi operai e inserirli nello stato democratico, sempre però con la mira politica di detronizzare lo stato bor- ghese per uno stato di classe.

I cristiano-sociali, come quasi tutti i cattolici, hanno negato lo stato liberale in nome dei loro principi religiosi, ma ne han- no accettato, con più o meno convinzione, i l metodo sia nel cam- po politico che in quello economico-sociale. Il loro distacco dal liberalismo è stato senza possibilità pratiche immediate, senza che essi fossero in grado di sostituire altra forma statale a quella liberale, Eccezion fatta per i cattolici monarchici francesi e altre frazioni d i destra per un ritorno allo stato monarchico-pater- nalista, per tutti gli altri cattolici c'è stato, fino all'avvento del fascismo ( e ora del nazismoj un adattamento più che un'adesio- ne (tranne per pochi) allo stato costituzionale liberale. Donde l a doppia difficoltà di non poter essi fare opera veramente ori-

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ginale e costruttiva sul terreno sociale operaio, nè poter dirigere efficacemente la politica statale, con propria fisionomia, a base organico-sociale. Nella maggior parte dei casi, tranne poche ec- cezioni, essi sono stati a rimorchio delle correnti liberali conser- vatrici sulle quali i cattolici non avrebbero potuto avere preva- lenza senza allearsi ai socialisti.

Dopo l'esperienza di più di mezzo secolo in tutta Europa, e dopo una non indifferente legislazione sociale, il problema so- pra indicato è rimasto nel suo carattere fondamentale. Ma men- tre fino alla guerra l'opinione comune ( a parte i sistemi belli e fatti) era che si potesse superare l'individualismo economico senza rinunziare all'individualismo politico e morale, oggi in- vece si pensa, dai nuovi riformatori politici, che bisogna rinun- ziare all'individualismo politico e morale per superare l'indivi- dualismo economico.

I1 bolscevismo russo, in uno stato enorme che non aveva su- perato nè economicamente nè politicamente il suo medioevo asia- tico, ha tentato d'instaurare un regime di classe, anzi una ditta- tura di classe sopprimendo le altre classi e formando un'econo- mia di stato, entro la quale sono state irregimentate le piccole economie domestiche. I1 fatto non interessa, in questa sede, che come semplice riferimento storico, che ha destato in Europa una ripercussione psicologica notevole. Ma la Russia non è passata nè attraverso l'economia nè attraverso la politica di libertà. I1 suo bolscevismo è anch'esso del medioevo asiatico, come lo era l'assolutismo dei suoi zar.

I1 tentativo che ha attirato l'attenzione del pubblico, special- mente cattolico, è stato quello fascista, che si è appellato cor- porazionismo, e che (fino ad oggi) nelle sue varie fasi in evolu- zione o in cambiamento, sembra star per realizzare l'idea dello stato corporativo.

Nei suoi tratti sostanziali, l'Italia fascista ha rinunziato al regime liberale politico e al regime economico individualistico (quello che con le correzioni d'intervento statale era attuato in Italia fino al 1933, simile a quello più o meno attuato fin oggi

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nel Belgio) per un regime caratterizzato come dittatura rivo- luzionaria. E se il fascismo non ha rinunziato alla libertà di pen- siero, di coscienza e di culto, sia nei rapporti con la chiesa cat- tolica e gli altri culti, sia nel campo scolastico, ciò non ostante, ad ottenere l'unificazione morale degli italiani ha fissato un pen- siero, una coscienza e un culto proprio, unico e obbligatorio per gli italiani, quello del nazional-fascismo. Onde in Italia oggi vi è la pretesa di una morale, di una fede e di una mistica fascista di stato, inviolabile e obbligatoria. E come ai tempi della stretta osservanza della religione di stato chi non era cattolico o pro- testante o anglicano, secondo i paesi, veniva espulso o privato dei diritti civili o imprigionato o messo al rogo, così oggi in Ita- lia, come in Russia, l'essere fascista o bolscevico è un atto di con- formismo politico-religioso; e il negare tale qualità ovvero op- porsi a tale affermazione, è un attentato alla comunità, degno d i punizione legale o anche extralegale.

Questo si nota qui, non per facile critica, ma per mettere in evidenza la correlazione che vi è tra politica economica ed etica di gruppo, come sistemazione concreta della vita sociale; onde soppressa la libertà individualistica in una sfera dell'attività so- ciale, la si deve poter sopprimere o alimentare in tutte le altre sfere per evitarne le ripercussioni e le reazioni.

I1 fascismo, per la sua concezione, che in Italia è detta tota- litaria, non poteva accettare i termini del problema quale ve- niva posto dalle correnti sociali del secolo XIX, e che anche oggi da alcuni viene ripresentato (con minore convinzione) e cioè: « superare l'individualismo economico, senza rinunziare all'indi- vidualismo politico e morale n ; ma ha tentato di superare I'indi- vidualismo economico e morale per istaurare un corporativismo politico, quello fascista.

Che la finalità fascista sia prevalentemente e intrinsecamen- te politica si vede dall'origine, dal carattere e dai metodi del regime ; questo importa solo alla valutazione del criterio preva- lente, nei vari esperimenti del sistema corporativo e delle sue attuazioni pratiche.

Ora avviene lo stesso in Germania. Qui è la morale-religione di razza ( la germana o ariana) che diviene la morale-religione dello stato, al cui conformismo sono obbligati tutti. Per gli estra-

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nei non c'è posto: o il bando, o il campo di concentramento o I'annullazione della personalità familiare e civile e se occorre anche di quella fisica. In Germania si cerca un'unità di razza alla quale si subordinano le funzioni politiche di uno stato uni- ficato. In esso si annulla il particolarismo dei vari stati germa- nici e da esso prendono esistenza e funzione le varie caratteri- stiche del popolo tedesco, sotto la parola Volkstum. Ma tale unità non sarebbe reale se ancora sussistessero i sindacati liberi socialisti o cristiano-sociali, che del resto in tale clima politico- mistico non potrebbero godere più di alcuna libertà. I1 vecchio sindacalismo operaio si deve quindi trasformare, anzi si va tra- sformando, in un corporativismo di stato.

Se si tiene presente questa inversione di caratteristiche fun- zionali nelle strutture di tali stati detti corporativi, nonchè la sovrapposizione alla morale e all'economia di una finalità poli- tica immanente, rappresentata da una vera casta di dominio, si vedrà come il punto di partenza necessario alla suddetta strut- tura corporativa è l'abolizione del principio di libertà indivi- duale politica e sindacale e di tutte le garanzie che questo prin- cipio comporta, compreso i l famoso e fondamentale Habeas corpus !

* * *

Guardiamo nelle sue linee fondamentali il corporativismo fa- scista. Alla base i sindacati padronali ed operai distintamente; essi sono locali e regionali. Al centro la confederazione nazio- nale che riunisce i sindacati padronali e operai della stessa ca- tegoria; infine la così detta corporazione o rappresentanza dei padroni ed operai come organizzazione unitaria delle forze del- la produzione nazionale. Un consiglio nazionale delle corpora- zioni e un ministero proprio formano l'organismo statale. Una magistratura del lavoro decide in ultima istanza delle vertenze non composte direttamente fra i rappresentanti dei sindacati lo- cali o regionali.

Questo schema derivante dalla legge 3 aprile 1926 e dalla suc- cessiva carta del lavoro del 1927 si è attuato per gradi (secondo alcuni), o a sbalzi e sotto una pressione politica e padronale (secon- do altri). Nel 1928 esisteva solo una confederazione sindacale dei

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lavoratori fascisti. Questa venne divisa in sette confederazioni: allora si temeva che sotto la guida del Rossoni, un'unica confe- derazione di lavoratori potesse divenire troppo potente e troppo esigente; divisa in sette avrebbe acquistato un carattere più tec- nico (agricoltura - industria - commercio . ecc.) e perduto quello di organizzazione di classe. Una nuova trasformazione: le confe- derazioni per categorie; così vi saranno i tessili, o i metallurgici, o i chimici e non più la confederazione dell'industria o dell'agri- coltura o del commercio.

A parte le varie modifiche di struttura e di funzioni sinda- cali che si sono avute dal 1927 ad oggi e altre che si avranno in seguito (si tratta di materia di adattamento sulla quale agi- scono interessi economici in contrasto e vivaci fattori politici che vogliono la prevalenza), quel che ci interessa rilevare si è che i sindacati e le loro rappresentanze di categorie O miste (queste ultime dette impropriamente corporazioni) sono di diritto e di fatto esclusivamente fasciste. Per quanto dalla legge siano previ- sti i sindacati liberi, pur senza diritti propri nè riconoscimenti da parte dello stato, nessuno ha mai potuto costituirli, anche per- chè economicamente ine5cienti e politicamente pericolosi. La stessa azione cattolica, che dopo lo scioglimento della confede- razione italiana dei lavoratori ( la bianca o democratica cristia- na che raggruppava più di un milione di operai e agricoltori, ol- tre i ferrovieri e i postelegrafonici) tentò di organizzare un isti- tuto sociale, dovette ridursi alla semplice educazione religiosa dei lavoratori escluso qualsiasi carattere professionale, per evi- tare urti facili e. pericolosi.

Fissato questo regime monopolistico di partito-stato, il fasci- smo è andato oltre, ha evitato che le assemblee avessero diritto di nomina dei propri rappresentanti e dirigenti, ed h a sottopo- sto i sindacati alla doppia vigilanza, quella tecnica e quella am- ministrativa, con un congegno assai complicato. L'ingerenza del partito fascista è completa, in quanto il partito si confonde con lo stato e in quanto è noto che le autorità amministrative dello stato sono soggette moralmente e politicamente ai gerarchi (è la parola tecnica in uso nel fascismo), ai gerarchi del partito.

Non è qui il caso di entrare in dettagli su questo regime as- sociativo, nel quale ogni iniziativa individuale e di classe è eli-

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minata; nel quale segretari e capilega, delegati o presidenti so- no tutti imposti dall'altro, nominati o mandati via senza altra garanzia che il beneplacito superiore ; nel quale ogni critica che possa sembrare come opposizione politica è proibita e punita.

C'è una funzione politica quadriennale attribuita alla orga- nizzazione corporativa, ed è la formazione della lista dalla quale il governo può (senza obbligo alcuno) scegliere i candidati al parlamento; elezioni che (sia detto en passant) si fanno dagli elettori votando con un si o con un no la lista definitiva del go- verno. Chi conosce i metodi fascisti e sa come siano andate le ul- time elezioni, comprenderà facilmente quali intrighi di corridoi e di anticamere, quale sfoggio di influenze personali d i capi e di gerarchi, quale insincera cortigianeria attorno al duce che tutto sa tutto vede e non si sbaglia mai, nel formare le liste che gli elet- tori sono chiamati a votare. Non si può attribuire alcuna impor- tanza ad un tale formalismo elettorale, che in sostanza si riduce alla scelta che fanno alcune persone che s'intendono col capo del fascismo. E anche se si trattasse di libera scelta dei sindacati ( i l che non è) questa non potrebbe avere nessuna importanza perchè la camera dei deputati sotto il regime fascista ha perdu- to qualsiasi autonomia e autorità. Recentemente il procuratore generale Longhi, che spesso interpreta i l pensiero del duce, h a lanciato l'idea di formare un sol corpo della camera dei depu- tati e del consiglio delle corporazioni. Non si sa se questo non sia stato un ballon d'essai.

Passiamo al sistema tecnico-sindacale. Qui anzitutto c'è un dato importante: lo stato riconosce i l sindacato (sia pure unico- monopolistico) agli effetti giuridici del contratto di lavoro; ri- conosce i contratti collettivi di lavoro che perciò hanno carat- tere di diritto pubblico o meglio collettivo, e quindi obbligano tutti i lavoratori e i padroni compresi nel temtorio e nella ca- tegoria indicata dal contratto. Inoltre, avendo proibito gli scio- peri e le serrate, lo stato ha istituito la magistratura del lavoro, che giudica del valore dei contratti e delle violazioni dall'una parte e dall'altra. Dall'annunzio recente della costituzione delle corporazioni di categoria si rileva che queste emetteranno giu- dizi in materia salariale-sindacale. Non si sa se perciò tale mate- ria verrà sottratta alla magistratura del lavoro.

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Questa struttura tecnico-sindacale, portata dentro uno stato dittatoriale e arbitrario, ne prende subito i l colore. Come po- trebbe essere altrimenti? Sono i sindacati operai e padronali li- beri di formare d'accordo un contratto collettivo? Sì; ma i rap- presentanti delle due parti non sono mai emanazione libera dei contraenti, bensì emanazione politico-burocratica del ministero o delle prefetture e in sostanza del partito. Allora, se c'è di mez- zo qualsiasi questione politica o influsso personale d i uomini politici (più spesso padronale che operaio) la contrattazione sindacale ne subisce tutte le oscillazioni senza la possibilità di reagire.

Avviene una vertenza? Questa gira per i gradi superiori pro- vinciali e regionali del sindacato finchè arriva o alla corpora- zione d i categoria o alla magistratura del lavoro. Sono liberi questi corpi di giudicare? Se non c'è di mezzo una questione politica, di partito o di personalità gerarchiche, possono essere liberi; altrimenti, no. Nella maggior parte dei casi, fin oggi la magistratura del lavoro ha preso i l la dal ministero o dalla pre- fettura o anche dal segretario del fascio. È il regime dittatoriale e di sospetto che comporta ed esige la soggezione politica anche dei corpi tecnici e della magistratura.

Queste affermazioni non sono campate in aria; derivano dal- la logica della struttura politica dello stato fascista e dalla espe- rienza pratica di un quinquennio, quale si può dedurre dai molti fatti studiati da amici e da avversari del regime. Gli stessi or- ganizzatori sindacali se ne accorgono, e quando essi possono avanzare qualche critica, o quando possono ( è più sicuro) ap- poggiare qualche loro critica sulle parole del duce, allora si la- sciano andare a interessanti confessioni. Ma parecchi hanno poi provato quanto costino tali audacie.

Nello stato corporativo fascista l'interventismo statale non è limitato alle leggi protettive del lavoro e alle istituzioni integra- trici della economia operaia; ma arriva alla valutazione degli interessi privati delle parti, alla tecnica della produzione, allo sviluppo o alla soppressione delle singole aziende.

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Tale ingerenza ha due obiettivi molto netti: uno politico, che tende a sottomettere qualsiasi attività particolare perchè es- sa non arrivi ad acquistare quella autonomia che la liberi dalla soggezione statale o di partito; l'altro economico, per un piano di coordinazione e di subordinazione dei fini particolari a un fine statale o ritenuto come statale.

La crisi economica, sviluppatasi in Italia due anni prima di quella generale, ha aiutato la tendenza politica verso un'econo- mia di stato. Questa un tempo, prima che venisse il fascismo, si chiamava in Italia socialismo di stato; oggi pudicamente si chia- ma economia regolata (économie dirigée); nè l'una nè l'altra frase esprimono completamente quel che oggi è l'economia fa- scista.

Certo è difficile separare quello che deriva dalla crisi in sè, da quel che deriva dal sistema interventista. I due fattori, crisi e sistema, si sono combinati insieme, in modo da produrre un nuovo tipo di stato economico, che a poco a poco assorbe, per quanto è possibile, tutta l'economia privata, svuotandola di con- tenuto. Molte ne sono le cause particolari, ma ogni singolo fatto concorre direttamente o indirettamente alla trasformazione eco- nomica statale.

I1 deprezzamento della proprietà terriera, degli armenti e dell'attrezzatura agricola fu enorme negli anni della rivaluta- zione della moneta. Questo fatto, nel quadro economico italiano, è servito non solo allo spossessamento dei proprietari indebitati e al gioco delle speculazioni (cosa che avviene dappertutto), ma ha dato occasione ad un intervento statale a mezzo di an- tichi e nuovi istituti sì da agevolare la costituzione di nuovi demani collettivi, sotto il controllo o con l'interesse diretto dello stato.

Coloro che ancora sono o sembrano essere i proprietari m- rali, non hanno più margini utili, perchè questi sono assorbiti dal fisco, dalle contribuzioni politiche e sindacali, dal lavoro obbligatorio, anche se non necessario. Infatti uno dei modi di ovviare alla disoccupazione dei lavoratori agricoli è quello di assegnare un numero fisso per ogni azienda, ne abbia o no la capacità, secondo le decisioni dell'ufficio di collocamento. D'al- tra parte, il fascismo, impedendo il libero movimento dei lavo-

8. S r c ~ z o - L)cl Metodo Sociofoqice

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ratori agricoli, dalla campagna alla città e da un comune ad un altro, non ha modo di rimediare agli inconvenienti di questo nuovo tipo di servi della gleba se non tornare all'assegnazione a ciascuna azienda di un numero determinato.

Questo congegno non può non pesare sul salario dei lavora- tori agricoli, che in Italia sono più di otto milioni. Tra il 1927 e il 1931 si sono avute le seguenti riduzioni di salario. Nel 1927- 1928 dal 10 al 20 per cento, secondo le regioni e le categorie. Nel 1930 un 10 per cento in via generale e nel 1931 altro 20 per cento. A contare come base il salario iniziale del 1927 (anno della carta del lavoro) si è avuta una riduzione che varia, se- condo le regioni e le categorie, dal 40 al 50 per cento. Altre ri- duzioni si sono avute qua e là nel 1932, al rinnovo dei patti agri- coli. Con la riduzione dei salari si sono avuti in molte regioni riduzioni dei giorni lavorativi, che del resto per i salariati agri- coli non sono mai superiori ai 200-220 per anno. I salari ridotti debbono quindi distribuirsi sopra un numero maggiore di giorni senza salario. .Se si tiene conto che i numeri indici del comune di Milano nello stesso periodo dal 1927 al 1931, danno una ri- duzione del costo della vita del 26 per cento, si vedrà di quanto è diminuita la mercede agricola in Italia, sia per la crisi e sia per la nuova struttura economica.

Quel che si è detto dell'agricoltura, con più ragione si può dire dell'industria. La maggior parte delle imprese sono o van- no passando in mano dello stato, attraverso una serie d'istituti artificiosi o fittizi detti parastatali, oppure attraverso la Banca d'Italia, garantita dallo stato. È recente l'operazione, per la qua- le la Banca commerciale (la più grande banca italiana) fu libe- rata dalla congelazione del suo portafoglio industriale, passando attività (ben poche) e passività (molte) delle industrie italiane sotto una nuova insegna, che copre, per coloro che non hanno interesse a vederlo, lo stemma dello stato. Lo stesso è il princi- pio e l'effetto della unificazione dei grandi cantieri navali e del- le società d i navigazione; e così di seguito.

Non fa eccezione l'attività bancaria, fino a ieri indipendente e oggi tutta dipendente politicamente ed economicamente dallo stato. E questo fa fallire quelle banche che (secondo interessi controllati) crede opportuno che falliscano; e salva, con larghi

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interventi quelle che pure (secondo interessi incontrollati) ere- de di dover salvare.

Oggi, industriali, banchieri, grossi speculatori corrono a Ro- ma, non solo per sapere quel che si vuole dai dirigenti della politica governativa o di partito; ma per sfruttare (fin dove è possibile) questa elefantiasi statale. Perchè, dove non c'è più luogo all'iniziativa privata, c'è sempre posto per l'intrigo, l'ar- rivismo, lo sfruttamento, tanto più facilmente, quanto minore è il controllo del pubblico.

Intanto la maggior parte del risparmio minuto degli italiani è in mano dello stato, a mezzo delle sue casse postali e dei suoi istituti. Su 36 miliardi di risparmio depositato, più di 30 mi- liardi sono in mano dello stato, che se n'& servito e se ne serve per le sue opere pubbliche o per sussidiare le varie inizia- tive parastatali.

In dieci anni il fascismo, consciamente o no, ha operato una redistribuzione di ricchezze, che forse neppure la guerra operò in Italia. Con l'aggiunta, che il primo e più grande beneficiario di questa redistribuzione è lo stato stesso, che può essere defi- nito un sindacato di affari, quale mai fu concepito simile, n è dalle vecchie monarchie paternaliste, nè dalle consorterie libe- rali-democratiche, nè dalle intraprese della social-democrazia con le sue nazionalizzazioni.

Non attribuiamo così larga trasformazione verso una preva- lente economia di stato, nè ad un piano preconcetto nè ad un ef- fetto diretto del corporativismo fascista. Ma l'intento politico, l'organizzazione corporativa hanno anch'essi contribuito ad ac- celerare le fasi di una simile rivoluzione economica.

I ceti capitalisti vi si sono facilmente adattati. Le ragioni di -

ciò sono diverse. Anzitutto per poter operare il salvataggio delle aziende cancrenose, a cominciare dal Banco di Roma nel 1923 per finire alla Banca commerciale nel 1932, quando questa ha ce- duto vantaggiosamente allo stato più di cinque miliardi di azio- ni industriali cadute in basso o di crediti congelati.

Altra ragione è stata quella di tenere a freno le masse ope- raie e contadine, le quali a mezzo della confederazione rossa (so- cialista) e quella bianca (democratica cristiana) avevano troppo alzata la testa e aspiravano ad una compartecipazione col capi-

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tale. Nelle industrie era l'azionariato operaio che si sosteneva o il controllo delle fabbrice; e nell'agricoltura il diritto di pre- ferenza ai contadini nelle compre-vendite delle terre. I capita- listi alla compartecipazione operaia preferiscono la comparteci; pazione dello stato. Questo lascia credere che i proprietari di aziende agricole o industriali siano ancora i padroni in casa loro, che tengono le masse soggette e che fanno quel che vogliono. Vana credenza, quando invece essi, nella maggior parte dei casi, sono passati automaticamente al rango di curatori di aziende in fallimento ovvero di semplici gestori per conto terzi.

Infine, altra ragione più interessante, che ha indotto i ceti capitalisti ad accettare questa economia d i stato, è quella di ave- re in mano, attraverso il partito, la direttiva politica, senza do- verne fare parte al ceto operaio ; sì da non perdere la posizione d i classe dirigente o meglio d i classe privilegiata.

Era naturale che sia per la tendenza incoercibile di ciascuno a partecipare in qualche misura alla classe dirigente o dominan- te o efficiente, sia per effetto dell'ingrossamento dello stato e del partito e del loro reciproco influenzarsi, il fascismo fosse costret- to ad ampliare i propri quadri organizzativi, burocratici, econo- mici e politici. Una enorme schiera di sempre nuovi vedenti, che tentano di occupare i posti vecchi e nuovi, in tutti i rami dell'attività pubblica e privata, ha invaso e invade la struttura dello stato fascista. Questo è un enorme Leviathan che sempre cresce, che tutto assorbe e non è mai sazio.

Oggi in Italia tutto dipende dallo stato, non solo politica- mente e moralmente, ma anche organizzativamente ed econo- micamente. Fa solo eccezione la chiesa cattolica: ma anche la sua attività organizzativa e sociale, dopo l'abolizione dei boy- scouts cattolici e dei sindacati cristiani e gli accordi sull'azione cattolica del settembre 1931, è limitata dallo stato,

L'esercito degli impiegati di questa immane organizzazione dello stato-partito-corporazione è enorme, ed è sempre scelto tra i fedeli aderenti al fascismo. Nei tempi antichi i vincitori distri- buivano le terre ai soldati, dopo averle occupate per diritto di vittoria; oggi si distribuiscono posti, dal sommo del controllo statale fino all'umile impiego del villaggio.

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Si ha diritto a domandare se in simile costruzione statale e con siffatta organizzazione sindacale-corporativa, la classe ope- raia e contadina abbia avuto dei vantaggi.

In via d i massima, non c'è sistema sociale che non presenti una somma di vantaggi con il contrappeso degli svantaggi. E poi- chè i l positivo e il negativo vanno sempre insieme nella società, così ciascun di noi può sviluppare sia i l tema dei vantaggi che quello degli svantaggi. Per giunta, ci sono vari punti di vista per cui lo stesso risultato può essere giudicato buono o cattivo, van- taggioso o dannoso.

Per esempio: è un vantaggio che non vi siano stati scioperi se non puramente occasionali e istintivi, subito repressi perchè proi- biti. Di fronte alla scioperomania del dogoguerra, questo è stato un vantaggio. Ma, in via assoluta, si può condannare lo sciopero? Ricordo I'opuscolo del padre Brucculeri, un colto gesuita della Civiltà Cattolica di Roma, che ne sostenne i l legittimo uso. Oggi il padre Brucculeri non potrebbe più in Italia sostenere una si- mile tesi.

Anche è un vantaggio che ai contadini si garantisca i l lavo- ro, obbligando i padroni ad assumere un dato numero, sia que- sto necessario oppure no ai lavori dell'azienda. Ma, in via asso- luta, questo sistema porta da un lato ad una fissità territoriale del contadino (specie di servitù della gleba), e dall'altro ad un onere politico sull'azienda.

È certo un bene che tutti gli operai siano iscritti obbligato- riamente nei sindacati, ma non è un bene che questi sindacati siano il monopolio di un partito. Ciò violenta le convinzioni po- litiche dell'operaio, e sottopone i dissidenti ad una squalifica che dalla politica si estende all'economia e alla stessa vita indi- viduale. Le officine sono invase da spie, e la squalifica politica porta per conseguenza il licenziamento dal lavoro e l'espulsione dai sindacati.

Si potrebbe continuare in indefinito su questo tono, indican- do ora i vantaggi (fra i quali noto l'istituzione del dopolavoro e lo sviluppo dell'educazione sportiva della gioventù) con gli svantaggi relativi (fra i quali notevoli l'abbassamento del senso

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di personalità e di autonomia da una parte e lo spirito militari- stico dall'altra).

I1 punto fondamentale, dove tutte le difficoltà morali politi- che ed economiche del regime s'incentrano e si raggruppano, è sempre uno: la mancanza di ogni libertà e di autonomia indivi- duale e di gruppo, da parte dell'organizzazione sindacale e di tutti gli ingranaggi ai quali essa è legata; di fronte la massima libertà, senza freno di leggi o di regole morali, di coloro che si sentono investiti del comando nel partito e nello stato.

Ciò crea uno squilibrio fondamentale, che nessun organici- smo corporativo può mai superare, perchè lo stato risulta pog- giato su due ruote false: l'arbitrio dei capi e la meccanicizza- zione del popolo, considerato questo sotto gli aspetti d i sudditi dello stato, di seguaci del partito, e di soci dei sindacati. I n tale stato, i l corporativismo vero, quello che della società fa un corpo organico armonico e vitale, non esiste e non può esistervi.

London, giugno 1933. (La Terre Wallonne, Bruxelles, luglio 1933). Arch. 14 A, 13

LA FUNZIONE ECONOMICA DELLO STATO SECONDO IL u POPOLARISMO

Ci sono due modi di studiare i problemi dello stato. Uno tut- to affatto teorico ed astratto. Lo stato ideale è un modo di rap- presentare gli elementi permanenti della socialità umana dal punto d i vista prevalentemente etico-politico. Questo metodo può condurre a fare astrazione non solo dalla realtà presente, ma da ogni realtà concreta. Si avranno, così, la Repubblica di Platone o l'Utopia di Tomaso Moro.

Altro metodo (ed è il nostro) è quello pratico, d i partire dalla realtà presente, per studiare le modifiche di sistema e di struttura dello stato e delle sue varie funzioni, le quali, pur ispi- randosi ad un ideale teorico, non si distacchino dai dati concreti di tempo e di luogo.

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Oggi nei paesi civili lo stato si dibatte fra la crisi della demo- crazia e la tendenza alla dittatura. E sembra che il problema centrale sia quello delle libertà politiche, se mantenerle o eli- minarle. La verità è che il problema centrale è oggi quello del- la organizzazione dell'economia, alla quale si subordinano le li- bertà politiche e civili. Secondo l'orientamento che si dà al pro- blema economico, le libertà saranno mantenute e difese, ovvero combattute e abolite. Lo stato si va trasformando sotto l'impul- so della crisi economica, che comprende in sè una crisi morale e politica delle più gravi che siano state in passato.

I1 sistema politico rappresentativo individualista fu una con- seguenza dell'avvento della borghesia come classe prevalente po- litica ed economica. Ma le libertà politiche diedero coscienza alla classe operaia, che amvò a divenire elemento dualistico e antagonistico della borghesia, prima sul terreno economico e poscia su quello politico.

Lo stato liberale borghese, dopo vive resistenze, si piegò sem- pre più verso la democrazia, con il suffragio universale e il refe- rendum ; corresse l'individualismo politico con la rappresentanza proporzionale e la formazione dei partiti e dei gruppi parlamen- tari. Dal punto di vista economico, abolì le leggi contrarie alle organizzazioni di classe, ne riconobbe una certa funzione libera e una certa iniziativa politica, e ne garantì l'esistenza e perfino i l monopolio. Lo stato liberale sotto la spinta delle classi operaie organizzate, negò la sua stessa teoria di non intervento in mate- ria economica, approvò molte leggi protettive del lavoro, ed anzi estese il suo intervento dal terreno legislativo a quello am- ministrativo fino alle presenti fasi di economia di stato.

A guardare il cammino fatto, si nota una grande differenza da un secolo ad oggi tra la concezione individualista del libera- lismo classico (che mai è stata rigida e completamente attuata) all'interventismo sociale del sistema democratico attuale, vigen- ie ancora in Inghilterra, Francia, Belgio, Svizzera, Olanda e Paesi nordici.

Però, come chi mette il vino nuovo in otri vecchi - secondo i l detto del Vangelo - oggi siamo a un punto di crisi tale da non ritenersi possibile che duri ancora la combinazione dell'indivi- dualismo liberale originario con la sovrastruttura democratica.

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Secondo il popolarismo i punti principali di critica all'attuale sistema sono :

a) l'accentramento statale di competenze, funzioni e orga- nismi ;

b) l'insufficienza dei parlamenti all'accresciuta materia le- gislativa ;

C) l' inorganicità delle f u n z i o n i economico-sociali dello stato ;

d) l'instabilità dei governi e l'indebolimento del potere pubblico.

Storicamente guardando il ~ rob lema dello stato, non possia- mo non constatare che la sua crisi è permanente, e che nessuna soluzione può arrivare a portare un equilibrio sicuro e duraturo fra le diverse forze sociali che si contraddicono e s'interferi- scono. Ad ogni giorno il suo male e il suo rimedio. Se credessi- mo di avere lo specifico dello stato perfetto, saremmo dei fatui o dei folli.

Questa convinzione realistica e critica della insufficienza uma- na, che è nel fondo della nostra coscienza storica, ci fa guardare le cose di questo mondo con un occhio disinteressato e obiettivo. Ciò è nostra forza, nelle lotte che dobbiamo sostenere, ma può anche reputarsi una debolezza di fronte ai misticizzanti e ai mes- sianici del a millenansmo statale D.

Ieri i socialisti predicavano l ' a ~ o duemila, il paradiso del lavoratore su questa terra, la vita felice nell'economia in comu- ne. Oggi fascisti e nazisti eccitano le masse ad adorare la nazio- ne che risorge e la razza che si ritempra, annunziando le grandi palingenesi dell'avvenire. Noi non crediamo alle grandi palin- genesi se non a quelle che siano morali e cristiane e pensiamo che lo sforzo umano, sul terreno economico-politico, sia limita- to a soluzioni pratiche immediate, che a loro volta generano al- tri problemi pratici e così via.

Delto questo, tanto per ristabilire le proporzioni e non con- tribuire all'illusionismo delle correnti misticizzanti, vediamo, terra terra, quali siano le nostre possibilità pratiche nell'ora presente riguardo la funzione economica dello stato.

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Nel programma del partito popolare italiano, pubblicato il 18 gennaio 1919, al n. I11 era scritto: (C Riconoscimento giuridi- co e libertà dell'organizzazione di classe nell'unità sindacale; rappresentanza di classe senza esclusione di parte negli organi pubblici del lavoro presso il comune, la provincia e lo stato >t.

Noi concepiamo a base dell'organismo economico di uno sta- to liassociazione professionale libera dei lavoratori e dei datori di lavoro, ciascuna secondo i propri interessi, le proprie attività e le varie finalità politiche e morali da raggiungere. Questi orga- nismi liberi di classe dovranno avere un riconoscimento giuridi- co da parte dello stato, i l quale deve fissarne le condizioni le- gali, non politiche, tali da assicurare l'acquisto della persona- lità morale dell'organizzazione di classe e dei diritti civili e po- litico-economici che ne derivano.

Fra tali diritti vi sarà quello di partecipare alle elezioni per le rappresentanze della classe nei consigli economici del comu- ne, della provincia ( o regione) (*) e dello stato. Secondo la ten- denza prevalente nel popolarismo tali consigli dovrebbero essere paritetici, cioè egualmente costituiti dai datori di lavoro e dai lavoratori, eletti dalle organizzazioni di classe riconosciute, e per ciascuna secondo il numero dei propri soci.

L'unità sindacale, alla quale aspiravano allora in Italia so- cialisti e cattolici, si sarebbe potuta ottenere solamente nella coesistenza delIe singole organizzazioni di classe liberamente formate e debitamente riconosciute, e nella risultante dei consi- gli economici, che su basi elettorali ne sarebbero stati loro emanazione.

La discussione del metodo elettorale ci ~or terebbe lontani dal tema. Allora in Italia prevaleva la tendenza di elezioni mag- gioritarie con rappresentanza di tutte quelle minoranze che avrebbero raggiunto un quorum di voti.

Dal punto di vista organico, la base dei sindacati liberi e ri- conosciuti legalmente, darebbe ai consigli dell'economia, sia lo-

(*) Nel programma del 1919 del P.P.I. non si parlò di consigli regionali, ma solo provinciali, perchè la regione non era legalmente costituita. Ma il P.P.I. iniziò subito la sua campagna per i l regionalismo.

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cale che nazionale, tutta l'autorità necessaria per affrontare i vari problemi, sia quelli interni di classe sia quelli pubblici nel- l'interesse della comunità.

Un simile organamento suppone una legislazione del lavoro debitamente aggiornata, sopra alcuni punti essenziali, che nel suddetto programma del partito popolare italiano erano enun- ciati con le seguenti affermazioni:

u IV. Legislazione sociale che garantisca il pieno diritto al lavoro e ne regoli la durata, la mercede e l'igiene. Sviluppo del probivirato e dell'arbitrato per i conflitti anche collettivi d Z lavoro industriale e agricolo D.

Questo punto conteneva, in embrione, quel che fu svolto suc- cessivamente nei congressi e consigli nazionali del partito, cioè

a) il contratto collettivo di lavoro; b) l'arbitrato in certi casi obbligatori; C) la magistratura del lavoro; d) la regolamentazione per i casi di sciopero e di serrata.

Lo sciopero non verrebbe ammesso in via normale, quando si possa ricorrere all'arbitrato o alla magistratura del lavoro; non si ammetterebbe mai nel caso di servizi pubblici. L'esigenza di certe valvole di sicurezza sociale non può disconoscersi, e lo sciopero ne è una.

La differenza tra il sistema popolare e quello fascista nell'or- ganizzazione economica dello stato risiede in tre elementi: la libertà di associazione, l'eleggibilità dei consigli, l'equilibrio ed elasticità dei vari organismi. Nel sistema corporativo fascista non vi sono che i sindacati unici, obbligatori e statali; i funzionari e i consigli sono di nomina governativa e non emanazione di- retta, l'arbitrato o l'intervento della magistratura nei conflitti è sempre obbligatorio e gli scioperi sono tutti vietati.

I1 problema più grave, non ancora risolto fin qui, è quello della competenza e dei poteri del consiglio nazionale dell'eco- nomia in rapporto ai corpi del parlamento e del governo.

I1 fascismo non ha avuto ancora il coraggio di sopprimere la

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camera dei deputati, nè i l senato, benchè siano divenuti l'ombra del parlamento. Di recente vi è stato chi ha proposto la fusione del consiglio delle corporazioni con la camera dei deputati. I n ogni caso, si tratterebbe d i provvedimento puramente formali- stico. Nè la camera dei deputati, nè il consiglio delle corpora- zioni sono corpi liberi, aventi una loro ~ersonali tà da potersi contrapporre a quella del governo, e in certi casi sovrapporre. I1 problema non riguarda i regimi oligarchici-dittatoriali quali i l fascismo italiano o tedesco; il problema riguarda gli stati a regime rappresentativo, quali la Francia, l'Inghilterra, il Belgio.

L'Austria non può mettersi nello stesso rango del Belgio; essa attraversa una crisi antidemocratica. I nazi vorrebbero impadronirsi del potere anche con la violenza. I cristiano-sociali uniti agli agrari e alle Heimwehren rispondono con la forza le- gale, con le organizzazioni militari .... legalizzate e con la sospen- sione del parlamento. Ora pensano a una soluzione di compro- messo: niente parlamento ; un consiglio nazionale delle corpora- zioni, che non avrebbe competenze politiche, ma economiche; e forse un consiglio federale, che approverebbe l'indirizzo po- litico e finanziario del governo.

Vedremo il piano di riforme; ma se esso è contenuto in que- ste linee, il compromesso pende verso un fascismo camuffato, che lascia ancora la libertà di criticare, non quella di delibe- rare. In sostanza il potere legislativo, per quanto corretto da corpi sostanzialmente consultivi, andrà a confondersi con il po- tere esecutivo. Per conseguenza, anche il potere giudiziario ver- rà sempre più controllato dal potere esecutivo. La divisione dei poteri, ch'è condizione sine qua non delle democrazie libere, viene ad essere praticamente, se non teoricamente negata.

Pur restando in attesa di vedere quel che sarà il piano effet- tivo delle riforme austriache e il suo risultato, restiamo convin- t i che l'Austria, trovandosi in una situazione eccezionale, è ob- bligata a guardare le sue riforme interne sotto l'angolo pratico del modo come salvare la sua indipendenza statale. L'Austria deve considerarsi come un paese in stato di guerra. Le sue ini- ziative non possono nè generalizzarsi nè essere poste sopra i l piano normale, ma restano sempre di carattere eccezionale.

Secondo noi, il supremo potere legislativo deve rimanere nel-

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le mani della rappresentanza politica o parlamento. Però. non neghiamo che delle riforme occorrono, secondo i paesi, e nella composizione del parlamento e nella sua funzione e competen- za. Deve essere chiarito meglio il concetto sostanziale d i legge e ridotto nei suoi valori e nei suoi termini, sgombrando il forma- listico e il superfluo.

Tutta la parte tecnica della legislazione dovrebbe essere de- legata a commissioni competenti, salvo la sanzione definitiva. Ciò non è nuovo nella storia dei ~ar lament i , anzi è un uso an- tico, che si è in parte trascurato e in parte travisato.

I1 parlamento deve essere concepito non come un organo di competenza ma come un organo di opinione, come un corpo in- termedio fra i l popolo e il governo, come una garanzia d i libertà e come una valvola di sicurezza del malcontento popolare. Non deve, quindi, come è avvenuto in Francia, usurpare le funzioni del potere esecutivo e intralciarne l'attività.

Così concepito i l parlamento, molte delle sue funzioni e competenze passeranno facilmente ad altri organismi più adatti. Fra questi il consiglio economico nazionale deve avere un'im- portanza tutta speciale. Per la sua funzione caratteristica, esso dovrebbe in materia economico-sociale discutere e approvare l a formulazione tecnica dei progetti di legge decisi in linea di massima dal parlamento ; dare i pareri tecnici al governo ; pren- dere iniziative di ~rovvedimenti economici-sociali da sottoporre al governo o al parlamento.

Non si può in un articolo di carattere generale entrare nei dettagli. Ma quando noi sottraiamo al parlamento la formula- zione delle leggi dal punto di vista tecnico e lasciamo ad esso le decisioni sugli indirizzi politici, sulla legislazione fiscale e sui bilanci preventivi e consuntivi, noi facciamo ritornare il par- lamento alla sua funzione classica, il governo al suo ruolo di po- tere esecutivo, e diamo allo stato, - che oggi è caricato di fun- zioni economico-sociali - quell'organo specifico necessario e competente che promana dai sindacati di produzione e lavoro.

Così non alteriamo la fisionomia del sistema politico rappre- sentativo, nè il carattere democratico dello stato; solo ad una nuova funzione diamo un organo adatto, a carattere specifico.

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Si teme che tale consiglio economico possa diventare la terza r\iota del carro e riesca d'inciampo al più spedito procedere della macchina governativa. Tanto più che quasi dappertutto vi è una camera alta, o senato, che adempie di già ad una funzione correttiva e conservativa.

Nel programma del partito popolare italiano' si proponeva la trasformazione del senato di nomina regia in elettivo con rap- presentanza di corpi della nazione, cioè provincie, comuni, cor- pi accademici e classi organizzate. Invece al consiglio economico si davano solo funzioni consultive e strettamente tecniche.

La risoluzione concreta di tali problemi organizzativi dipen- de dalle esigenze, dai sentimenti e dalla storia di ciascun paese. Non c'è peggio che volere prefiggere un sistema unico per tutti. Gli abiti buoni sono quelli fatti su misura per ciascuna persona e non quelli fatti in serie. Le riforme fatte senza nessun bisogno reale o senza rispondenza alla realtà concreta finiscono col crea- re confusione.

La funzione del senato è strettamente parlamentare, di equi- librio, di controllo e di conservazione, là dove una camera di deputati pretende essere onnipotente ed è spesso demagogica, in mano alle passioni popolari. Ma dove invece la camera dei de- putati ha nel suo stesso organismo o nel referendum popolare e nell'appello al paese i freni necessari e il mezzo di ritrovare l'equilibrio, i l senato può ben essere trasformato in organo eco- nomico ovvero sostituito tout court dallo stesso consiglio econo- mico.

Quello che a noi interessa è molto chiaro: dare all'economia sociale un organismo di diritto pubblico che ne rappresenti gli interessi, non solo come totalità nazionale, ma anche come sin- gole forze produttive; e di più ingranare tale organismo nello stato democratico, sì che l'unità politica non venga alterata o turbata, ma integrata e consolidata.

Si fanno molte obiezioni contro i l consiglio economico na- zionale così concepito. Accenno alle principali.

Si obietta che se il consiglio economico nazionale viene eletto

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solamente dai sindacati liberi in forma paritetica, cioè lo stesso numero dei lavoratori e dei datori di lavoro, manca l'omogeneità del corpo deliberante. Se vi son aggiunti dei consiglieri tecnici o politici di nomina governativa o parlamentare, costoro diven- gono gli arbitri della assemblea, e a mezzo di essi lo diverrà i l governo. Inoltre, l'origine elettiva del consiglio spinge spesso a discussioni interminabili e a trasportare in un organo tecnico i difetti del parlamentarismo.

A questa serie di obiezioni si risponde, da parte popolare, che l'indirizzo politico, anche in materia economica, è dato in ultima istanza dal parlamento come espressione autoritativa della volontà nazionale. Sicchè mancherebbe a l consiglio economico la sostanza parlamentare. Esso invece è di carattere tecnico e tale deve essere mantenuto nella sua struttura e nella sua funzione.

Per questa ragione crediamo che tale consiglio debba essere nominato pariteticamente dai sindacati di padroni e operai senza aggiunta di consiglieri governativi o parlamentari. Ciò non esclu- derà la nomina degli esperti della burocrazia, che renderanno servizi se rimangono al loro rango, senza soverchiare gli ele- menti responsabili.

Se avverrà che i rappresentanti dei lavoratori e quelli dei datori d i lavoro non s'intenderanno, sì che non potrà ottenersi una maggioranza deliberante, ciò dimostrerà una irriducibilità d'interessi in contrasto, da decidersi in sede politica.

Del resto non intendiamo qui tracciare soluzioni definitive; si tratta di sperimentalismo, non di teoremi matematici. Ogni soluzione contiene implicitamente inconvenienti pratici, che solo l'educazione e la tradizione potranno eliminare.

2) Altra obiezione. I1 governo è già troppo legato dall'esi- stenza del parlamento; col creare un altro organo elettivo, in materia economica così delicata, il potere esecutivo ne sarà paralizzato addirittura. Oggi occorre celerità di decisioni e di provvedimenti. I1 governo dovrebbe avere maggiori poteri che non ha.

Questa opinione va purtroppo generalizzandosi non ostante l'esperienza del passato che non le è stata favorevole. I1 sistema dei decreti-legge in mano ai governi fu quasi generale durante

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la guerra. Poi vennero i governi dei pieni poteri, a scopi deter- minati, i governi dell'art. 48 della costituzione in Germania, i governi dittatoriali. Anche l'America è presa da questa voga pericolosa ed ecco il presidente Roosevelt fare decreti su decreti, come se far leggi in materia economica sia il mezzo più sicuro per salvare il mondo dalla crisi.

I1 vecchio motto: « poche leggi ma buone » è surrogato dal- l'altro: « molte leggi e rapide ». La fabbrica delle leggi nel se- colo presente è divenuta attiva quanto quella di fabbricare auto- mobili o scarpe in serie. Non si creda al rimedio taumatur- gico della legge. Questa per essere utile deve essere matura, deve arrivare a trasformare in fase giuridica quel che prima si è maturato nella coscienza pubblica, deve rappresentare il frutto di un'esigenza collettiva. I parlamenti spesso sono stati più utili ad un paese impedendo che un progetto divenisse legge effettiva, anzichè rendendo legge ogni progetto ad esso presentato.

Detto questo, tanto per mettere in chiaro l'elemento infido che si nasconde nel desiderio di volere un governo con poteri sempre più larghi, bisogna aggiungere che il difetto oggi sta principalmente nel meccanismo legislativo dei parlamenti. Oc- corre ridurre al minimo e semplificare nelle forme le assem- blee parlamentari là dove sono poco agili e troppo formalistiche e caricate di lavoro pressocchè inutile.

11 parlamento inglese fu trasportato nel continente senza nè l'educazione nè i l temperamento inglese. Occorre che ciascun paese adatti al proprio genio le istituzioni della vita pubblica. Paesi come la Francia e il Belgio hanno già fatta la loro espe- rienza parlamentare e sanno bene i pregi e i difetti dei loro istituti.

Riguardo al consiglio economico, questo non sarà un in- tralcio al governo, ma un elemento integrativo dell'attività del governo nei compiti che derivano dalla funzione economica dello stato, funzione che ogni giorno più va divenendo impor- tante, e qualche volta decisiva, nella vita di un paese. Ad evi- tare i difetti del parlamentarismo ci penseranno, oltre che il governo, gli stessi consiglieri, i quali, rappresentando i sinda- cati, vorranno vedere presto attuate quelle disposizioni e quelle

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misure, che i produttori e i lavoratori d'accordo reputeranno necessarie.

Del resto a nessun governo vengono negati i poteri straor- dinari quando sono realmente ed eccezionalmente necessari.

3) Più grave è la terza obiezione, che deriva in parte dalla precedente, cioè che i governi delle democrazie sono sempre deboli; e i consigli economici, con l'attrito degli interessi op- posti di padroni e operai, li renderanno deboli ancora d i più. Oggi occorre rafforzare l'autorità del governo ; perciò coloro che vogliono mantenere la democrazia ed avere allo stesso tempo un governo forte parlano d i democrazia autoritaria D.

Riconosciamo francamente che uno degli elementi della crisi delle democrazie sono i governi deboli; ma contestiamo che si possano chiamare forti quei governi che reprimono ogni mani- festazione politica ostile, circondando i cittadini (non più cit- tadini ma sudditi) di spie, d i poliziotti e di militi. La debolezza d i tali governi è maggiore di quelli democratici, in quanto sono' soggetti più degli altri alle oscillazioni degli interessi occulti e delle cupidigie private. I1 fatto che i l popolo è ingannato da una stampa uniforme e senza libertà, e che esso non conosce nè gli interessi o gli intrighi che premono sul governo nè le debo- lezze intrinseche d i questo, non vuol dire che perciò stesso i governi dittatoriali siano intrinsecamente forti.

La frase: democrazia autoritaria è equivoca. L'usò Briining per il primo; ed egli cercò di rafforzare la sua autorità elimi- nando i l Reichstag e governando in base all'articolo 48 della costituzione. Ma la sua debolezza si mostrava più congenita quanto più egli usava dell'articolo 48 e si appoggiava all'auto- rità del presidente Hindenburg. I1 giorno che questi cambiò parere, mollò tutta l'autorità di Briining.

La frase democrazia autoritaria deve interpretarsi come una reazione alle pseudo-democrazie parlamentaristiche, nate dopo la guerra e applicate senza discernimento agli stati ricostituiti o ampliati nell'Europa centro-orientale. Presidenti eletti a suf- fragio popolare come in America; governi eletti dai parlamenti; parlamenti senza freni automatici e senza tradizioni; partiti più

o meno socialisticizzanti; contrasto di razze diverse; tutto ciò unito a economie disastrose e a nazionalismi esasperati dai trat-

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tati di pace; s'intende bene che movimenti di 'reazione han creato le dittature e le oligarchie di Polonia, Ungheria, Jugo- slavia, Lituania, Austria, culminate tutte nel nazismo germanico.

L'Italia non soffri di eccessi di democrazia, ed aveva già una tradizione parlamentare, ma piuttosto soffri della crisi della classe dirigente. La Francia anch'essa soffre del male di governi deboli, perchè il parlamento non rende durevoli i gabinetti. Però in Francia vi è tale una salda struttura amministrativa, che i cambiamenti di gabinetto toccano solo la superficie della sua politica. La disaffezione della Francia per il parlamentari- smo in gran parte è dovuta all'influsso giornalistico non del tutto disinteressato, e all'atteggiamento letterario, che è stato sempre ostile alla borghesia politica senza forme nobili esterne e spesso piccina e pettegola.

I1 problema dell'autorità politica ci porta un po' lontani dal tema del nostro studio, prevalentemente d i organizzazione eco- nomica; ma è necessario insistervi un poco e riunirlo insieme al problema della libertà politica. Gira gira, è il problema del giorno.

Libertà e autorità sono sempre e contemporaneamente i n tutti i sistemi politici; non ci può essere forma di stato ove non stiano insieme l'una e l'altra. Può sembrare strana, a prima vi- sta, questa affermazione così recisa. Chi direbbe che nel fasci- smo italiano o nel nazismo tedesco ci sia posto per la libertà politica? Eppure c'è: solamente essa è privilegio di un nucleo ben definito di persone che l'hanno acquistata con la rivolu- zione e la mantengono con la forza.

L'autorità e la libertà nella società politica, o stato, si riu- niscono insieme nella classe dominante o di governo. Quanto più stretta e particolaristica è la classe dominante, tanto più libertà e autorità unite insieme divengono arbitrio e tirannia. Al contrario, quanto più estesa è la classe dominante e nella mi- sura che altre classi partecipano al governo pubblico, tanto più autorità e libertà si realizzano in forma d i convinzione e in eguaglianza legale.

9. S ~ c s z o - Del Afetodo Socto!ogics

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L'equivoco dei regimi fascisti è basaio 'sopra una nuova for- ma d i consenso popolare e di espressione di opinione pubblica, che non ha nè controllo, nè efficacia, per il fatto che vi man- cano le garanzie della libertà.

Tali regimi hanno uniformi politiche, gesti consacrati; fanno grandi adunate, continue feste e dimostrazioni pubbliche; alle manifestazioni politiche aggiungono quelle militari e religiose, con intervento ecclesiastico, per colpire meglio il sentimento e la fantasia delle masse. Ad ottenere il consenso generale, pren- dono in mano tutta l'educazione della gioventù e tutta la dam- pa, che, perduta ogni libertà di controllo, di critica e di oppo- sizione, diviene rigidamente conformista e banalmente corti- giana.

I1 consenso pubblico che ne deriva varia tra il cieco ossequio e la mistica entusiasta; l'elemento gregario istintivo ha soppian- tato l'assenso cosciente intellettivo e volitivo. L'autorità è so- stanzialmente meno forte, in siffatti regimi, perchè la libertà è meno reale e ristretta a pochi. L'arbitrio che ne consegue, toglie ogni efficacia all'autorità e ogni dignità all'ubbidienza sociale.

Detto questo, perchè dal confronto emergono chiare certe verità, vedremo come i popolari concepiscono un rafforzamento d i autorità in regime democratico di opinione.

1) Anzitutto il governo, con il consenso del capo dello stato, deve avere il diritto di sciogliere, durante il periodo d i nomina, la camera dei deputati e appellarsi al paese, quando l'esige l'o- pinione pubblica ovvero un grave interesse del paese. I1 difetto d i funzionamento d i questa valvola ha reso cattivi servigi alla Francia.

2) Inoltre occorre che il governo sia emanazione del capo dello stato, che è quello che governa a mezzo dei suoi ministri, e non mai pseudo emanazione del parlamento o dei gruppi e dei partiti. La maggioranza che gli occorre per governare deve essere sostanzialmente funzionale, per l'approvazione o il ri- getto delle proposte di legge. Solo nelle questioni direttive o in quelle finanziarie la maggioranza parlamentare assumerà ca- rattere politico e può determinare la caduta o del ministro com- petente o dell'intero gabinetto. Così le continue crisi, là dove queste avvengono, potranno essere evitate.

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Però non si deve eccedere in questo senso, perchè spesso una crisi ministeriale chiarisce una situazione imbrogliata ed elimina elementi pericolosi, con i l minimo sforzo e il massimo vantaggio. Si comprende che si tratta di armi a due tagli o a due funzioni, come la famosa spada d i Anchise, che feriva e guariva. Nelle dittature, manca questa valvola e i cambiamenti divengono pericolosi.

3) In terzo luogo, occorre che l'opinione pubblica non sia ingannata e al contrario sia bene informata della situazione po- litica. E il giornalismo un fattore prevalente dell'opinione pub- blica, e occorre che esso sia effettivamente libero e l'espressione d i legittimi e chiari interessi pubblici o di classi e di gruppi responsabili.

E difficile disciplinare i giornali, ma la pubblicità dei loro bilanci e certe limitazioni legali nel campo morale sono neces- sarie perchè il giornalismo risponda alla sua funzione pubblica.

4) La stabilità ed autorità di un governo democratico deb- bono principalmente derivare dalla educazione politica delle classi dirigenti o élites politiche.

Noi parliamo di classi dirigenti o élites, in democrazia, non perchè pensiamo che in essa vi siano delle categorie fisse d i dominatori e d i dominati, come nei regimi d i caste chiuse o di sistemi aristocratici. Noi pensiamo che anche nel dinamismo li- bero delle democrazie, che deriva dalla partecipazione d i tutte le classi sociali alla vita politica e dall'eguaglianza non solo giuridica ma politica dei cittadini, si formano le élites politiche, come si formano le élites economiche, scientifiche, religiose e così via.

La differenza tra democrazia ed altri regimi non è nella eli- minazione delle élites politiche, ma nella libera formazione d i esse, con partecipazione di tutti, quale ne sia la classe, l'opi- nione, il partito. Altra differenza notevole, conseguenza della prima, è la possibilità della sostituzione di un'élite con un'altra, senza rivolte, nè rivoluzioni, nè catastrofi, ma come una funzione normale nella vita del corpo sociale.

L'educazione ~ol i t ica , in regime democratico, non è facile, nè formalistica; è interiore, tradizionale, vivente, e rispondente al genio particolare di ogni paese.

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La democrazia è un istituto assai giovane, in un mondo assai vecchio. I1 sistema autoritario e di classi chiuse è stato ed è in gran parte ancora quello che predomina nel mondo.

Le democrazie greche e quella romana non furono che de- mocrazie di popoli eletti e selezionati, di fronte ad una massa d i iloti e d i schiavi che non si computavano fra i veri uomini.

I1 medioevo ebbe le democrazie cittadine dei comuni che non comprendevano i contadini ed escludevano i servi della gle- ba, nelle quali i metodi di violenza di fazione erano più in USO

di quelli pacifici e legali. Non possono chiamarsi vere democrazie nè quella francese

della grande rivoluzione, affogata nel sangue che generò la dit- tatura di Bonaparte, nè le monarchie della restaurazione. L'In- ghilterra cominciò la sua esperienza democratica dopo il 1832, i l Belgio e l'Olanda più tardi ancora. L'Italia fino al 1913 non ebbe i l suffragio universale. Gli imperi germanico e austro- ungarico non avevano veri regimi parlamentari.

La democrazia nel secolo XIX è stata fin oggi una tendenza, una serie di esperimenti, non una realtà, tranne in pochi casi e ancora relativamente per brevi periodi. La democrazia è an- cora bambina.

È perciò che gran parte del problema della democrazia si confonde con quello dell'educazione politica, che tocca tutti ma in modo speciale le élites. Queste debbono arrivare ad un grado d i capacità politica, si da poter governare, senza appoggiarsi alla forza, solo con la legalità sostanziale e formale; da poter governare con autorità senza violare la libertà di ciascuno, e cessare d i governare (se ciò è la volontà dei corpi responsabili) senza turbamento nè dell' ordine pubblico nè della vitalità dello stato.

Esempi di tale educazione ne abbiamo avuto: in Europa e in America, e ne abbiamo anche oggi; ma la coscienza generale non è nè dappertutto nè completamente educata. Non sempre le élites politiche sono ben formate al dovere etico e civico che comporta una vera democrazia.

L'educazione politica non è un puro insegnamento preven- tivo, è un'esperienza e una tradizione. Chi pensa di scendere nel mare dopo aver imparato a nuotare non toccherà mai acque

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salse; così chi pensa di attuare la democrazia fuori dell'espe- rienza dei regimi d i libertà con tutti i pericoli ch'essa comporta.

Le attuali oscillazioni dell'autorità dei governi derivano da uno stato d'animo di sfiducia verso le forme di democrazia par- lamentaristica, sfiducia che è nata dalla crisi della guerra e del dopoguerra; nelle quali crisi molti delle classi politiche han perduto la vita, altri hanno sofferto dello sforzo enorme deri- vante dalle difficoltà della politica attuale e sono stati eliminati per l'età, le malattie, le violenze. Coloro che nel 1914 avevano vent'anni oggi formano gran parte delle élites politiche che non hanno avuto esperienza di regimi democratici normali. La gio- ventù di oggi deve rifare la sua esperienza. Fortunato quel paese che ha una gioventù che comprende i limiti della sua inespe- rienza e i l dovere della sua educazione politica.

In momenti di crisi acuta, quando si vogliono dei rimedi im- mediati, parlare - a proposito di riforme statali - di educa- zione politica, sembra un non senso. Ci vogliono rimedi urgenti e trasformatori.

Perciò si parla, oggi, sul piano strettamente economico di autarchia » e di « économie dirigée D che sembrano parole ma-

giche come quelle più conosciute di aprimi sesamo! In fondo, siamo ad una fase dell'economia capitalistica di

oggi che richiama un forte intervento di stato, per superare una crisi divenuta acuta e che quindi danneggia tutti ma in propor- zione assai maggiore i popoli e le classi deboli o indebolite dal- la guerra.

I1 problema che si pongono economisti e uomini politici, si è fino a quale segno può arrivare un tale intervento senza dan- neggiare le fonti stesse dell'economia, e con quali organismi eser- citarlo nell'interesse di tutti.

Quando parliamo d'intervento d i stato non intendiamo solo riferirci a quello che un governo può fare nell'interno del pro- prio stato, ma anche a quello che si può e deve fare nel concerto di più stati insieme, sul piano della economia internazionale.

Autarchia vorrebbe dire stato autosufficiente, che basta a se stesso; in sostanza economia chiusa dentro l'ambito di uno sta- to. Verso l'economia chiusa si è andati a gran passi con le tarif- fe alte come le muraglia della Cina e con i contingentamenti.

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Ma tutti ne han sofferto e nessuno stato ne ha guadagnato. Solo tre grandi stati nel mondo potrebbero aspirare all'autarchia eco- nomica: la Russia, gli Stati Uniti e la Francia. Nessuno dei tre ci riuscirebbe se non a costo di un impoverimento generale e di una crisi maggiore di quella di oggi. Nel complesso, l'econo- mia mondiale soffrirebbe di un terribile regresso verso epoche primitive e oscure.

Dal punto di vista organizzativo, economico e politico, l'au- tarchia presuppone un'applicazione ancora più stretta dei prin- cipi nazionalisti di Hitler e di Mussolini e una più rigida appli- cazione del socialismo di stato, sia pure mascherato d i corpora- tivismo. L'orientamento della Russia sarebbe stato verso un'au- tarchia integrale; ma le fasi della sua economia e dell'impove- rimento arrecato dalla trasformazione pseudo-collettiva l'hanno obbligata a ricorrere all'aiuto estero e a mantenersi tributaria dell'Europa e dell'America.

L'autarchia economica ha per presupposto una concezione assolutistica dello stato, considerato come distaccato dal resto del mondo, pronto alla difesa come all'offesa verso i popoli vi- cini. Peggio che le tribù semiselvagge dell'Africa. Gli scambi fra i popoli nomadi e primitivi furono inizio di benessere e di civi- lizzazione. Oggi sarebbe di una contraddizione stridente la faci- lità e velocità delle comunicazioni con tutto il mondo, per ter- ra, per acqua e per aria, e la volontà assurda di chiudere gli stati a qualsiasi possibilità di commercio economico e di contatto morale.

L'économie dirigée si presenta sotto aspetto meno ripugnan- te e meno assurdo. È l'affermazione di un interventismo di stato, come regolatore della produzione interna, della equa distribu- zione dei proventi e del commercio estero.

Quel che in economia liberale veniva lasciato alle libere for- ze produttive o distributive (ritenendo che l'economia seguendo leggi proprie arriva per via di contrasti al più utile risultato per l a collettività) oggi dovrebbe quasi per intero essere assunto dal- l o stato, che se ne farebbe il massimo regolatore. L'utile generale sarebbe così (secondo i sostenitori dell'économie dirigée) meglio salvaguardato di fronte agli egoismi individuali che in regime libero avevano il soprawento.

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L'intervento stafale nn oggi era ammesso, anche dalla scuola liberale recente, per le leggi protettive del lavoro, le leggi igie- niche, la tutela delle industrie nazionali, le leggi integrative quali le assicurazioni sociali, e così via.

I1 sistema sindacale è servito fin oggi a fissare i salari e le ore di lavoro e a garantire agli operai, specialmente dell'indu- stria, un migliore tenor di vita.

Gli esperimenti d'intervento statale, durante la guerra, in materia economica, subordinati agli scopi politici della guerra stessa, mostrano che gli stati potevano osare tutto in questa ma- teria, e resero evidente come uno scopo politico rendesse spesso assai più onerosa l'attività economica del paese.

Oggi si va a gran passi verso maggiori esperimenti dell'eco- nomia diretta, nel campo della economica internazionale, per ristabilire quell'equilibrio tra produzione e consumo, che è ne- cessario alla ripresa della vita economica.

Gli stati non sono attrezzati a questa nuova funzione, ed è perciò che occorre una base solida con il sistema sindacale legal- mente riconosciuto e con i consigli economici provinciali e na- zionale, ai quali appoggiare quegli organismi tecnici necessari all'attività economica degli stati.

Ma, ecco la differenza notevole fra la concezione popolare e quella fascista da un lato, e l'attuale sistema d'oggi.

Oggi lo stato è senza ossatura economica organica; è il vec- chio stato individualista, inorganico, accentratore, che si trova impari alle nuove funzioni e può compromettere i l carattere politico dello stato per l'insufficienza economica. Occorre quindi un'organizzazione adatta.

Ma noi non vogliamo cadere nel socialismo di stato, nè a forma colIettivista come in Russia, nè a forma fascista come in Italia (*); noi riteniamo che una libertà fondamentale deve go- dere anche l'economia, se non vuol cadere in una paralisi peg- giore dell'attuale. L'économie dirigée che noi possiamo ammet- tere, deve avere principalmente un carattere eccezionale e tran- sitorio e per determinati e particolari scopi di produzione e di-

(*) Vedere l'articolo a Lo stato corporativo n, p. 109 sgg., del presente volume.

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stribuzione. Non deve essere nè generale come sistema nè com- prensiva di tutti i rami dell'economia.

I1 sistema politico sul quale appoggiarsi deve essere un si- stema libero, con pubblicità di deliberazioni e di controllo; sì che i corpi deliberativi, sindacati, consigli economici o parla- menti, possano liberamente accettare o respingere i progetti del governo.

In sostanza, la concezione popolare è basata sopra un rifor- mismo democratico, come metodo, sopra un concetto organico della società come sistema, sopra un principio di libertà politi- che come garanzia sociale.

In questo articolo non abbiamo parlato della giustizia socide come concezione cristiana, perchè la giustizia sociale non è lega- ta ad un determinato sistema politico ma deve essere ricercata e voluta in tutti i sistemi. Per i cattolici la giustizia sociale è 10 scopo delle varie attività nel campo della politica economica. Noi riteniamo di meglio attuarla oggi in regime democratico con la concezione del popolarismo; ma non abbiamo la pretesa nè di fame con i principi cattolico-sociali un insieme indissolubile, nè d'imporre la nostra concezione a tutti i cattolici.

Gli insegnamenti pontifici, specialmente nelle due massime encicliche Rerum Novarum e Quadragesimo Anno, trattano i problemi etico-sociali al disopra di qualsiasi forma politica de- terminata. I riferimenti politici ed economici contenuti nelle encicliche sono elementi ed esempi adatti ad orientare i catto- lici verso migliori forme pratiche di organizzazione sociale.

Perciò, mentre tali insegnamenti affermano in forma cate- gorica e permanente gli elementi etico-sociali di giustizia e di carità cristiana, i cattolici sul terreno sperimentale e pratico

dell'organizzazione sono obbligati a prendere le iniziative adat- te al momento, allo svilupparsi degli istituti politici e all'affer- marsi delle varie correnti economiche per ciascun paese o stato.

I1 popolarismo, ispirandosi ai principi cristiano-sociali e

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agli insegnamenti pontifici, afferma un suo proprio sistema poli- tico a base democratica.

Altri cattolici, come quelli d'Italia e della Germania d'oggi, sono sopra un altro terreno; ed essi, per quanto sarà loro possi- bile, faranno esperienze diverse, forse non conclusive. Ciò non ostante cercheranno anch'essi di attuare, sul piano loro con- cesso dai fatti, gli insegnamenti pontifici in materia sociale.

,HOC OPUS, hic labor!

London, settembre 1933. (Non risulta pubblicato).

Arch. 14 A, 11

LA CORPORAZIONE MODERNA

Non importa se la parola corporazione, come oggi si usa, non corrisponda più, nel suo valore originario e storico, a quel che significava nel passato. Oggi essa ha un sapore tutto proprio e desta in molti un interesse reale per la soluzione di problemi economici e sociali inderogabili.

È perciò che mentre il sistema corporativo della scuola cri- stiano-sociale, iniziata da Ketteler, De Curtins, Toniolo, e affer- mata autorevolmente da Leone XIII con l'enciclica Rerum No- varum, destava fuori del nostro campo solo un interesse di cu- riosità e di stima; oggi invece il sistema corporativo moderno è arrivato a maturazione e interessa uomini di partiti diversi, stu- diosi, politici, economisti e realizzatori.

Già una letteratura abbondante sul corporativismo moderno, e non sempre selezionata e intelligente, innonda i l mercato e si diffonde dappertutto. I giornali ne fanno tema di propaganda; i primi tentativi di regolamentazione e d'iniziative concrete so- .no apparsi in varie parti d'Europa, sì da far apparire il clima maturo per più larghe esperienze.

In Italia vi è già una legge di massima, e si attendono i de-

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creti di esecuzione. I tentativi corporazionisti eseguiti finoggi in Italia non avevano che un'etichetta, senza reale contenuto spe- cificamente corporativo. A Fribourg vi è un progetto in corso di esame. In Austria i l sistema corporativo va ad innestarsi di- rettamente nella nuova organizzazione autoritativa dello stato. I1 Portogallo ha una simile finalità. In Olanda e nel Belgio per ora sono solo i cattolici a discuterne e a tracciare le linee di fu- turi progetti. In Inghilterra e in Francia non si è ancora usciti dallo stadio di discussione giornalistica. In Germania i l mono- polio sindacale di stato e l'interventismo economico danno la base di ~n'or~anizzazione autoritativa e socialistoide; ancora si vagola nell'incerto. Negli Stati Uniti, l'esperienza Roosevelt s i basa sopra un movimento sincrono d'intese sindacali fra operai e datori di lavoro e il coordinamento della produzione da parte dello stato.

I1 problema della corporazione moderna dal gabinetto di studio e dalle affermazioni dei partiti della scuola cristiano-so- ciale, è già passato al dominio dell'opinione pubblica e ai ten- tativi di realizzazione.

È necessaria una distinzione preliminare: la corporazione in uno stato libero non può essere identica alla corporazione in uno stato totalitario. Nel primo caso la corporazione avrà un'esi- stenza propria, con una certa autonomia; nel secondo caso non avrà alcuna autonomia e sarà un organo dello stato.

Quando i fondatoh della scuola cristiano-sociale e lo stesso Leone XIII parlavano d i corporazioni d'arte e mestieri, tenevano presente lo stato politico quale era allora in Europa, nelle sue forme costituzionali e nella sua economia libera. Quando oggi in Italia, in Austria, in Germania, in Portogallo si parla d i corpo- razioni, si tiene presente i l sistema dello stato totalitario.

Non è a credere che possano esistere organismi liberi in uno stato totalitario: vi è ripugnanza e incompatibilità politica e pedino psicologica. L'accentramento di tutte le forze sociali è necessario per un dominio incontrastato e assoluto. Nè stampa libera che possa criticare, nè elezioni libere ove possano eepri-

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mersi diversità d i tendenze e di sistemi; non riunioni libere ove la critica proceda dal basso all'alto.

Questo ambiente politico e psicologico, in materia organiz- zativa economica, non può non concretizzarsi in un procedimen- to che parta dal centro del potere per arrivare alla periferia, dall'alto del dominio al basso dei dominati, senza margini di libertà di scelta nè di uomini nè di sistemi.

In altro ambiente, quello di uno stato libero, come oggi la Inghilterra, la Francia, il Belgio, la Svizzera, l'Olanda, per quan- to il sistema corporativo tenda per sè a limitare le iniziative private, pure non potrà non avere anch'esso la sua base elettiva, l'interferenza di correnti diverse, la critica legittima della stam- pa e delle assemblee, l'influsso effettivo e costante della pub- blica opinione. I n sostanza ogni istituto particolare si adegua al dinamismo generale della vita pubblica; così sarà per l e cor- porazioni in uno stato libero.

Onde, mentre in uno stato libero la corporazione avrà la sua personalità e quindi una sua efficacia autonoma, nell'attrito con gli altri organismi viventi; nello stato totalitario la corporazio- ne mancherà d'iniziativa o di vitalità propria, e vivrà solo per quel tanto che dall'alto si vorrà farla vivere, come un organi- amo burocratico completamente dipendente.

11 termine corporazione nel senso originario significa corpo morale, nel quale ci sia quell'articolazione di organi e quella vitalità come di un corpo vivente. Nel medioevo tutti gli orga- nismi sociali erano fondamentalmente corporazioni, anche lo stato, anche la chiesa, i n quanto tutti si riguardavano come or- ganismi viventi nei quali tutti i membri cooperavano al fine comune. Perciò ogni organismo corporativo aveva propria legge, autonomia, iniziativa e vitalità, che i re e i papi rispettavano e garantivano.

Oggi lo stato totalitario è un organismo tutto centro, tutto poteri dall'alto, con un corpo amorfo, passivo, senza vitalità. An- che lo stato individualista, più o meno liberale democratico, è uno stato accentratore e disorganico, sia pure con le più larghe iniziative individuali, perchè è senza un'efficiente e dinamica organizzazione periferica.

Inserire le corporazioni economiche nello stato moderno può

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essere un progresso verso l'organicismo statale. BIa fin dall'inizio bisogna essere attenti che l'inserzione delle corporazioni econo- miche sia fatta in modo da mettere in essere, non l'ombra della corporazione, bensì corpi morali viventi, autonomi e attivi che possano davvero cooperare con gli organi politici dello stato.

Sindacati e corporazioni

Siamo sul terreno della pratica e non possiamo usare le pa- role per quello che suonano (nella storia, nella legge o nella lingua), ma per quello che significano oggi. Veniamo da un'espe- rienza operaia e professionale basata su organizzazioni di classe detti sindacati (ben distinti quelli operai da quelli ~adrona l i ) , liberi e spesso raggruppanti diverse professioni. La base profes- sionale dei sindacati è stata fin oggi prevalentemente classista; cioè la tutela degli interessi particolari della classe - sempre distinti operai da padroni - al di fuori di un interesse comune. Dal lato operaio, conquista di miglior salario e di meno onerosi contratti di lavoro, leggi protettive, orario limitato. Dal lato pa- dronale, per quanto l'organizzazione fosse meno facile e meno precisa, si tendeva alla difesa degli interessi del capitale, ad ot- tenere agevolazioni fiscali e protettive, e a contrastare il campo alle pretese operaie.

Scopi intermedi dei sindacati non ne mancavano, sia d i ca- rattere tecnico che di assistenza o anche culturale. Ma il movi-

mento era stato concepito sotto la spinta di una reazione operaia al capitalismo, e il socialismo aveva teorizzato la lotta d i classe. 1 cattolici della scuola cristiano-sociale e i protestanti sociali non accettavano la teoria della lotta d i classe; ma per quanto tendessero alla conciliazione fra le classi, non potevano fare a meno di sostenere i sindacati operai distinti, indipendenti e spesso anche antagonisti non della classe capitalista, ma del si- stema o degli eccessi del sistema. La stessa ragione sindacale portava alla rivendicazione di diritti e alle garanzie del lavoro, che spesso non potevano ottenersi se non con la resistenza ope- raia fino allo sciopero. Nè era possibile altra via, quando man- cava un organismo sociale adatto alla risoluzione di tali ver- tenze fra operai e padroni.

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Tale formazione sindacale del lavoro prima e del capitale in seguito, non è venuta su senza un perchè; corrispondeva al- l'istinto organico della società, che porta al raggruppamento per affinità di interessi, e distacca dagli interessi antagonisti. Per quanto abbia fatto il vecchio liberalismo individualista del secolo XIX per impedire la formazione di gruppi operai e li- mitarne la portata dopo che tali associazioni furono tollerate, non vi riuscì e si dovette piegare prima a riconoscerne l'esisten- za, a subirne l'influsso, infine a constatarne l'avvento politico.

Oggi questa esperienza professionale di un secolo non può eliminarsi dal corpo sociale; i l sindacato non può essere sop- presso. L'operaio ha acquistato una coscienza sociale sulla quale si deve contare per elaborare un'ulteriore organizzazione eco- nomico-politica. Ecco perchè in tutti i progetti di corporazioni statali il sindacato è messo a base del nuovo sistema.

I1 sistema corporativo che si vuole oggi edificare è dunque basato sul sindacato. Con la parola corporazione oggi s'intende un organo paritetico rappresentativo dei sindacati padronali e operai della medesima categoria (sia o no integrato da altri ele- menti estranei) per una collaborazione d i classe e con funzioni economiche di carattere pubblico fissate per legge. Nella recen- te Enciclopedia italiana, d'ispirazione fascista, la corporazione è definita: « l'organo di collegamento fra i sindacati dei lavo- ratori e quelli dei datori di lavoro ». Molto più umilmente e realisticamente prima del fascismo si parlava di commissioni paritetiche permanenti.

Dalla più recente discussione sulla corporazione moderna, risultano tre funzioni prevalenti, che le danno carattere. I1 pri- mo è specificamente di classe; cioè l'intesa organica fra padroni e operai per i rapporti fra capitale e lavoro. I1 secondo è giu- ridico, per risolvere i conflitti sorgenti fra capitale e lavoro, senza ricorrere a forme di lotta aperta, e per estendere a tutta la categoria i l valore delle decisioni prese o da organi speciali interni, o da arbitri scelti, ovvero da tribunali. Infine la terza funzione di diritto pubblico, riguarda i prezzi e i modi di ven-

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dita, la garanzia circa i prodotti, le limitazioni o le specializza- zioni della produzione, le licenze per creare nuove aziende pro- duttive, o di vendita e simili. Per questa funzione occorre una delega dello stato e un controllo giuridico e politico, per garan- tire i consumatori, per coordinare l'azione delle singole corpo- razioni e per l'osservanza delle leggi sia generali che particolari.

Si parla anche di una funzione strettamente economica della corporazione, la quale dovrebbe gestire gli istituti economici- pubblici della categoria d'interessi ch'essa rappresenta. Questa funzione è connessa al problema oggi tanto discusso dell'a eco- nomia diretta n.

La forma costituzionale di sindacati e di corporazioni, i loro rapporti reciproci e il loro funzionamento variano di natura, se- condo che sono concepiti come organi liberi, a base elettiva, con attività autonoma, sia pure controllata dallo stato per la parte di diritto pubblico; ovvero come organi dipendenti in tutto dal governo, che ne nomina le cariche, ne precisa i l funzionamento e prende esso stesso le decisioni definitive e le mette in esecuzione.

I1 primo tipo corporativo sarà quello di uno stato libero e il secondo tipo quello di uno stato totalitario.

Il funzionamento del sistema corporativo

Parliamo qui del funzionamento delle vere corporazioni; non d i quelle altre che ne avranno solo il nome e che dovranno funzionare ... sotto dettato.

Tre problemi si presentano al momento di dover innestare il sistema corporativo in un regime libero.

Primo problema: i sindacati, sui quali si fonda il sistema corporativo, dovranno essere obbligatori per tutti? Se non, po- tranno le corporazioni obbligare coloro che non sono sindacati?

I1 progetto proposto per il cantone di Friburgo non solo non obbliga nessuno a iscriversi nei gruppi professionali (sindacati), ma lascia a questi l'iniziativa di costituire o no la rispettiva corporazione. Se la corporazione sarà costituita, potrà ottenere il riconoscimento legale, a mezzo del consiglio di stato, panda sia stato dimostrato - a mezzo di ~ubb l i ca inchiesta - ch'essa

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rappresenta una frazione importante di persone e d'interessi del corpo professionale.

Ciò non basta a che le decisioni delle corporazioni obbli- ghino tutti gli appartenenti alla professione rispettiva; occorre che l e decisioni siano prese a maggioranza assoluta per ciascuna delegazione del consiglio corporativo (padroni e operai) e che tali decisioni, dopo pubblica inchiesta, siano approvate dal con- siglio di stato.

Così i l primo problema, affrontato in pieno dalla commis- sione friburghese, verrà risolto con tutte le garanzie possibili, rispettando l'iniziativa privata, l'interesse collettivo e l'autorità dello stato.

Secondo problema. Le corporazioni hanno come scopo pre- cipuo la pace sociale fra operai e padroni, o come si dice fra lavoratori e datori di lavoro; all'uopo ogni corporazione si darà uno statuto nel quale sarà previsto i l sistema di conciliazione delle vertenze, che non potranno mancare, per il conflitto d'interessi, visti spesso da un angolo visuale antagonista. Questo sistema sarà il normale, e le parti in causa si sforzeranno a renderlo sempre più efficiente. Però, ecco i l problema, nel caso che i l sistema di conciliazione non arrivi a mettere d'accordo le due parti in conflitto, dovrà ricorrersi ad un'autorità che le obblighi ad una data soluzione, ovvero dovrà lasciarsi alle parti la libertà di ulteriori decisioni? In poche parole, sarà ammesso, sia pure

in via eccezionale, lo sciopero operaio? sarà ammesso, sia pure in via eccezionale, la serrata padronale?

I n regime autoritario, come quello dell'Italia, ogni sciopero ed ogni serrata sono proibiti; le vertenze debbono o essere con- ciliate ovvero essere sottoposte alla magistratura del lavoro ( e domani al consiglio della corporazione) le cui decisioni sono obbligatorie per le due parti. In regime libero, non si può (se- condo il nostro avviso) arrivare a questo estremo di autoritari- smo, che toglierebbe la base alla libertà del lavoro. Però se- condo noi, vi dovrà essere un regolamento che tolga agli scioperi e alle serrate la parte impulsiva e passionale, li renda un'estre- ma eccezione e l i faccia guardare dagli interessati come un esercizio pericoloso dei propri diritti. S'intende che non am- mettiamo lo sciopero dei servizi pubblici, nè quello che danneg-

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gia la produzione. Domandiamo che prima di arrivare allo scio- pero o alla serrata, debbano essere state svolte le procedure stabilite per un pacifico componimento della vertenza. Ammet- tiamo che la maggioranza dei due terzi degli interessati possa obbligare gli altri ad accettare l'arbitrato; che una magistra- tura ordinaria o speciale possa giudicare del diritto conirat- tuale leso.

Lo sciopero e la serrata saranno così un'eccezione, la extre- ma ratio, che (con la loro ammissione ipotetica) daranno la garan- zia che nessuna delle due parti abuserà della sua superiorità. I n sostanza nei conflitti fra capitale e lavoro sono di fronte due metodi, quello di autorità cioè dello stato che impone soluzione politica, anche se ciò è fatto attraverso una speciale magistra- tura; ovvero quello di libertà, temperata dal funzionamento corporativo, che ammette eccezionalmente scioperi e serrate con tutti i loro inconvenienti. Noi preferiamo il secondo metodo, che da un lato obbliga gli interessati a trovare essi stessi, nei loro conflitti, una soluzione; ed evita che lo stato abbia un'in- gerenza diretta nell'economia d i produzione e lavoro.

I l terzo problema è politico: fino a qual punto debbono ar- rivare le competenze delle corporazioni.

Abbiamo distinto tre specie di provvedimenti: quelli che riguardano la classe, salari, contratti, assicurazioni, cooperazio- ne e simili. Tutto ciò è strettamente competenza della corpora- zione. Si può concedere ai dissidenti i l diritto di ricorso per l'osservanza delle £ormalità di legge e per lesione d i diritti privati.

Altri provvedimenti riguardano i terzi, consumatori e pub- blico: tariffe, marche di vendita, limitazioni professionali e si- mili. Qui occorre essere cauti. Le corporazioni guardano i propri interessi; i corpi amministrativi (comuni, provincie) e i corpi politici (governo) guardano gli interessi collettivi. Occorre tro- vare una via media sì che la decisione ultima (o per via di con- trollo o per via di ricorso) risieda nel corpo amministrativo o politico competente, per equilibrare gli interessi della profes- sione e quelli del pubblico.

Una terza specie di provvedimenti sono di natura prevalen- temente legislativa e politica, come le dogane, i trattati di com-

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mercio, le unioni economiche, i contingentamenti e simili. I n tali casi nessuno nega la competenza dello stato; ma occorre aggiungere che i consigli corporativi nazionali - che debbono essere istituiti a unificazione e a garanzia del sistema corpora- tivo - debbano essere interpellati, sì che sotto forma di pareri tecnici essi abbiano il modo di esprimere le vedute, i bisogni e i desideri dei produttori e dei lavoratori.

L'economia diretta

La frase è moderna, ma il significato è abbastanza antico; l'economia diretta ha una lunga storia. Oggi ritorna a presen- tarsi come una soluzione alla crisi, e il nome nuovo le dà un'at- trattiva singolare.

Durante la guerra, i paesi belligeranti, divisi in due gruppi mondiali, fecero l'esperimento della più colossale economia di- retta. Gli scopi di quella economia d i eccezione erano sempli- cemente politici: la resistenza bellica e l'alimentazione del paese; non si guardò in nessuna maniera all'utile economico, all'equilibrio fra produzione e consumo, alla formazione delle riserve. Era lo sforzo delle collettività nazionali per la loro sal- vezza. In quel tipo di economia diretta potevano trovare il loro posto coloro che furono chiamati profittatori e pescecani.

Dopo la guerra, non si arrivò subito all'economia libera, anzi non ci si arrivò più; si ebbe un'economia intralciata dai residui degli interventi del passato e da nuovi interventi statali; tur- bata da inflazioni inconsiderate; spinta all'eccesso da specula- zioni senza scrupoli, alterata dai debiti e dalle riparazioni di guerra, intralciata da tariffe proibitive; finchè arrivò la crisi attuale.

Gli economisti liberali pensano che a risolvere la crisi si dovrebbe lasciar fare la natura: tornare al sistema libero, gra- dualmente s'intende, per arrivare all'equilibrio fra produzione e consumo. A loro viene opposto che il processo di svincola- mento dell'attuale economia sarebbe assai lungo e porterebbe tante rovine economiche e sociali. che le popolazioni non sareb- bero disposte a sopportarle.

10. S ~ u r z o - Del Metodo Sociologico

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La psicologia collettiva di oggi è orientata sempre più verso l'intervento del potere politico nell'economia; come se la poli- tica abbia la bacchetta magica per risolvere la crisi. Da questo stato d'animo deriva il favore che gode presso molti l'economia diretta. I socialisti e comunisti hanno abituato la massa operaia a considerare l'economia come il punto centrale dell'attività dello stato futuro. I fascisti e nazisti, che sono nati nel ciclo della crisi del dopoguerra, hanno portato l'intervento statale sul piano del socialismo di stato; ma per mascherarne i conno- tati socialistoidi, l'hanno chiamato stato corporativo e vanno parlando d i un'economia corporativa. Fin oggi non sono stati realizzati nè lo stato corporativo nè l'economia corporativa; ma solo un nuovo e più pericoloso interventismo statale, per un'e- conomia diretta.

Nel pensiero dei corporativisti puri (ce ne sono già in buon numero), le corporazioni dovrebbero dare a110 stato gli organi adatti per applicare i l sistema dell'economia diretta, senza il pericolo, che oggi è evidente, di accentrare tutti i poteri nello stato, i l quale così interferisce nella economia privata con peri- colosa impreparazione tecnica e con reale insufficienza di mezzi: la corporazione è sollecitata in nome dell'economia diretta.

In che consista esattamente tale economia, non tutti sono d'accordo. Quel che è certo, nel pensiero di molti, si è che lo stato dovrebbe fare (come in Russia) un piano economico pre- ventivo, fissando i generi di produzione da sviluppare e quelli da restringere, i consumi interni da favorire, le esportazioni da incrementare, le importazioni da evitare, le quantità da non superare nei vari cicli economici, i prezzi regolatori e così via.

Le diflicoltà dal punto di vista tecnico, in tale sistema, sono a prima vista ben maggiori di quelle che in via normale deb- bono affrontare le singole imprese private, moventesi entro il gioco della domanda e dell'offerta. Le statistiche sulle quali molti si basano, sono quasi sempre fallaci; le previsioni dubbie; e gli effetti di un tale sistema sembrano a prima vista niente af- fatto sicuri.

A parte ciò, non c'è chi non veda due conseguenze di un si- mile sistema: dal punto di vista dell'economia, si va verso un regime chiuso per nazioni, oggi detto autarchia (gli inglesi di-

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cono self-sufficient, che basta a sè stesso); e dal punto di vista politico si va verso lo stato autoritario, anche in materia eco- nomica, i l che implica l'affermazione di tutti i poteri in un capo, senza possibilità di critica, nè di opposizione, nè di dis- senso, nè di disinteressamento. L'abolizione dell'iniziativa pri- vata nell'economia a piani prestabiliti, sarebbe insieme l'aboli- zione d i ogni libertà politica e di ogni indipendenza organica.

I n tale regime le corporazioni, che si pensa saranno gli or- gani adatti dello stato per l'economia diretta, non potranno es- sere che organi semplicemente consultivi prima della decisione ed esecutivi dopo la decisione. Non avrebbero personalità pro- pria, nè iniziativa economica, nè autonomia di decisione; si chiamerebbero corporazioni con lo stesso significato che avreb- bero altri nomi come comitati, commissioni, istituti economici, senza che per questo ne varierebbe la natura e la funzione.

L'economia organica:

Benchè contrari all'economia diretta, noi ammettiamo l'in- tervento statale in materia sociale (leggi sul lavoro), in materia doganale (tariffe protettive), in materia commerciale (prezzi li- mite nel caso di monopolio), in materia economica (piani d i pro- duzione). Quel che noi non ammettiamo è la sostituzione dello stato ai privati nella funzione economica diretta. Noi non ne- ghiamo allo stato una funzione regolatrice e integratrice nel campo dell'economia; per noi l'economia è funzione dei singoli e dei loro liberi aggruppamenti, e non mai funzione dello stato.

I n sostanza, qui è in gioco la libertà stessa. Intendiamoci: la libertà non è arbitrio, essa non è mai senza limiti. Non esiste in natura nè un potere senza limiti, nè una libertà senza limiti. 11 fatto sociale per sè stesso limita tanto i l potere centrale quanto la libertà dei singoli. Però, là dove non esiste il giusto equilibrio fra potere e libertà, si può cadere o nel regime assolutista e totalitario ovvero nel regime individualista disorganico e per- sino anarcoide.

L'economia subisce l'influsso del sistema sociale. Lo stato individualista lascia l'economia libera al gioco delle forze in-

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dividuali; lo stato totalitario va verso l'economia diretta e l'au- tarchia; nello stato organico, cioè dove per le varie funzioni so- ciali esistono organi caratteristici, intrinsecamente autonomi e gerarchizzati, si avrà una vera economia organica cioè insieme libera e coordinata.

Sono organi naturali della società, le famiglie, le classi, i comuni, le provincie o regioni, gli stati, secondo il valore sto- rico d i queste parole. Ogni organo ha la sua nota caratteristica, la sua interiore autonomia, la sua ragion d'essere che nessun potere sociale può violare. Nella solidarietà degli organi sociali fra di loro, tutti debbono contribuire, secondo la propria na- tura, al miglioramento sociale. La regola normale di una coope- razione organica è quella che ciascun organo adempia al suo compito specifico e contribuisca in via subordinata e integrativa a l compito specifico degli altri organi. Così per esempio, la famiglia ha proprio il fine domestico, dove nessun altro organo h a da interferire; ma la famiglia subordinatamente concorre nello stato con un suo compito politico, e concorre nella corpo- razione con un suo compito economico.

Le corporazioni debbono arrivare, in forma spontanea e li- bera, ad una coordinazione fra di loro, per abbracciare tutte le famiglie e tutte le classi, la proprietà e il lavoro, il produttore e il consumatore. Però (sta qui la differenza fra le vere e le false corporazioni) esse non possono uscire fuori del loro ruolo tec- nico, non debbono sopprimere o violare le leggi economiche per trasformarle in leggi politiche, non debbono inaridire l'inizia- tiva privata nè la giusta libertà che serve ad equilibrare gli in- teressi d i tutti.

Le corporazioni non dovranno invadere le competenze dello stato, cioè le sue funzioni politiche; nè lo stato deve invadere le funzioni economiche delle corporazioni. Vi dovrà essere sem- pre quel necessario margine d i libertà, che serva a rendere di- namici gli organismi economici, e a farli muovere entro limiti naturali dalla cooperazione al dissenso e alla lotta, per ritor- nare alla cooperazione migliorata dalla esperienza e dalla prova dei contrasti.

Questo dinamismo è la vita: ogni irrigidimento è la morte degli organismi. Le vecchie corporazioni furono combattute e

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soppresse, perchè si erano irrigidite, e quindi erano impari al progresso economico che urgeva con le invenzioni tecniche e la formazione del capitale.

Mai parola assoluta può essere detta in materia economica, nè dalle corporazioni, nè dallo stato. Gli uomini che nel fatto pratico agiscono in nome dell'uno o dell'altro organismo, sono limitati, fallibili, e debbono sempre rifare la loro esperienza secondo lo svolgersi degli avvenimenti. Perciò sarà sempre ne- cessaria la libera discussione dei problemi, il contributo della stampa, la conoscenza di quel che si fa negli altri paesi, una buona dose di umiltà per non credersi onnisciente e onnipotente.

L'errore di coloro che oggi sostengono il sistema corporativo è di presentarlo come il tocca-sana della crisi e il rimedio a tutti i mali dell'odiato liberalismo economico. Bisogna tener presente, se si vuol essere realisti, che ogni sistema ha i suoi pregi e i suoi difetti, e che, nel mondo limitato, mai un sistema è sufficiente a rimediare a tutti i mali. C'è sempre un margine a l lavoro e ai sacrifici umani, che non trova compenso nel mondo dell'economia e della politica.

Così sarà del sistema corporativo moderno e della sua eco- nomia organica. Noi lo vogliamo oggi, perchè risponde come rimedio ai mali tanto dell'economia individualista del passato, quanto dell'interventismo statale dell'oggi.

Noi sosteniamo i l sistema organico, in regimi liberi, perchè solo esso può dare quella media di risultati morali, politici ed economici da contribuire alla soluzione della presente crisi senza violare la personalità umana, e senza sopprimere la libertà.

Lo stato corporativo

Si fa un gran parlare oggi dello stato corporatiuo, ma nes- suno sa precisamente cosa esso sia, o dovrà essere.

Quando c'erano le corporazioni vere, quelle del medioevo, non c'era lo stato nel senso moderno della parola. Quando si è cominciato a realizzare lo stato moderno, dal secolo XN in poi, l e corporazioni andarono in decadenza. D'allora in poi, sono esistiti lo stato patrimoniale, lo stato assoluto paternalista, lo

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stato rappresentativo, costituzionale, lo stato liberale e democra- tico, mai lo stato corporativo. È questa qualifica data allo stato una invenzione modernissima. I primi a parlarne sono stati i fascisti italiani. Poi ne hanno balbettato i portoghesi. I nazi accennarono in qualche momento allo stato corporativo, ma poi s i sono affrettati, con la legge del 12 gennaio 1934, che andrà i n vigore il lo maggio, a buttare a mare i sindacati professionali che sono alla base d i ogni concezione corporativa moderna; lo stato corporativo se n'è andato in fumo; lì è lo stato razzista.

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Finalmente l'Austria dice che la sua nuova costituzione sarà quella d i uno stato corporativo. Si tratta di un'etichetta o di una realtà?

I n astratto, stato corporativo vorrebbe significare chello stato è la risultante delle corporazioni. I1 potere politico rappresen- tato dallo stato avrebbe per base o principale o esclusiva l'or- ganizzazione economica rappresentata dalle corporazioni.

Questo sistema statale presuppone che le corporazioni abbia- no un'autonomia propria e una libera scelta dei loro capi; e che in forma o diretta, in quanto corporazioni, o per delega ai loro rappresentanti, abbiano in mano il potere politico legisla- tivo ed esecutivo.

Nè l'Italia, nè l'Austria sognano un'organizzazione dello stato dei 1934 come la repubblica di Firenze del secolo XIII. Il prin- cipio elettivo e rappresentativo diretto o per propria delega è escluso dalla concezione mussoliniana e. dollfussiana dello stato.

Altro modo di concepire uno stato corporativo sarebbe il rovescio del primo: invece che l'ordinamento economico di- venga nel suo insieme espressione politica e quindi potere dello stato, è lo stato che, divenendo rappresentante assoluto dell'eco- nomia nazionale, concede alle corporazioni un carattere e una partecipazione politica.

Sembrerebbe questa l'idea del fascismo, ma a guardarci a fondo non lo è e non lo sarà. Nelle elezioni politiche italiane del 1929 e 1934 i sindacati hanno presentato un certo numero d i proposte per i candidati politici, e il gran consiglio fascista

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ne ha fatto la scelta, poi ratificata col si o col no dagli elettori. La camera eletta è stata un'ombra d i camera senza poteri e senza efficacia. Si dice che domani la camera dei deputati sarà lo stesso consiglio generale delle corporazioni. Ma quale che sia il nome e l'origine della camera, il risultato ne sarà lo stesso. I1 governo fascista non si toglierà mai il potere dalle mani, per estenderlo alle camere. Lo stesso gran consiglio fascista fa le figure delle grandi occasioni; ma è il governo che tiene la bacchetta.

Dollfuss è stato più chiaro. I nuovi organi dello stato, in numero di quattro, saranno tutti consultivi, scelti dal presidente federale o in altre forme autoritarie. La dieta federale, eletta dai consigli costituiti d'autorità, potrà solo approvare o respin- gere i progetti d i legge. Le discussioni saranno a porte chiuse.

Le corporazioni non formeranno che uno dei quattro, cioè il consiglio economico federale. Ancora nulla è deciso del modo come le corporazioni saranno costituite e funzioneranno. Non si vede, in questo ingranaggio, la possibilità che sia rispettato il principio elettivo nella costituzione delle corporazioni. A ogni modo, il fatto della esistenza d i un semplice consiglio econo- mico federale non è una ragione s d c i e n t e per chiamare 1'Au- stria uno stato corporativo. Dagli sviluppi ulteriori si vedrà se questa critica sia ben fondata.

Per noi un vero stato corporativo non potrà esistere. Nè il primo tipo sopra esaminato, che sarebbe il vero, perchè base- rebbe tutta la vita statale sul fattore economico, il che sarebbe un errore e un non senso. La vita politica è una sintesi d i valori giuridici, familiari, economici, giuridici, culturali e morali tra- sportati sul terreno nazionale-statale; e d i là sul terreno inter- nazionale. I1 fattore economico non può essere nè il preponde- rante nè il rappresentativo di tutti gli altri valori.

I1 secondo tipo, il falso tipo di stato corporativo, non è altro che lo stato autoritario, accentratore, totalitario, che tenta di mascherare i lati antipatici del sistema col creare organi con- sultivi, col farsi plebiscitare dalle folle, con l'indire referendum senza discussioni e senza libertà.

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Oggi che la corporazione va divenendo di moda è interes- sante che si parli d i stato corporativo, che suona assai meglio di stato autoritario, assolutista e totalitario. Ma le frasi contano poco di fronte alla realtà.

(E1 Matì, Barcelona, 7, 10, 16, 18 e 23 aprile 1934). Arch. 14 A, 6

SOCIOLOGIA E STORICISMO (*)

1) La società umana è insieme coesistenza organica e pro- cessualità dinamica; deve cogliersi nella sintesi dello spazio e del tempo, della staticità e della dinamicità.

A far ciò due metodi possono seguirsi in sociologia. I1 primo è quello che studia il fatto sociale in sè stesso, nella sua struttura fondamentale, astratto da dati storici; e che domanda alla storia una specie di controprova, il confronto dei dati, il responso del- l'esperienza dei secoli.

L'altro metodo riguarda l'associazione umana e il suo pro- cesso come un tutto sintetico e inseparabile, i l reale concreto; e quindi studia la società nella sua storia.

Non è solamente la questione del metodo che ci interessa; è la sostanza stessa della sociologia. Secondo noi non può darsi vera sociologia che non sia « storicista ». Ammettiamo che pos- sano studiarsi, come pura analisi, i fattori morfologici delle varie società umane; che possano aversi varie: branche di studio che si riferiscano alla sociologia, come materiali necessari derivanti da altre scienze antropologiche, ma non potrà aversi una socio- logia fondamentale, cioè studio della società in concreto, nel suo valore complesso e sintetico, se non con il secondo metodo, che chiamiamo metodo storicista e che ci dà la sociologia storicista.

2) Secondo noi, i l fondamento sociale non si trova che nel-

(*) Relazione al VI11 congresso internazionale di filosofia (Praga, 4 7 set- tembre 1934).

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l'individuo umano, preso nel suo carattere concreto, nella sua complessità, nella sua irriducibilità originale. La società non è un'entità o un organismo al di fuori e al di sopra dell'individuo. L'uomo è insieme individuale e sociale. È individuale al punto di non partecipare a nessun altra vita che non la sua, di essere una personalità incomunicabile; e talmente sociale che egli non potrebbe esistere nè sviluppare alcuna facoltà, nè la sua stessa vita, al d i fuori della socialità.

11 principio d i associazione è interiore all'individuo ed è complementare della sua realtà ,individuale. La società è una risultante degli individui. L'attuazione concreta della vita sociale non differisce da quella della vita individuale se non astratta- mente e attraverso l'attribuzione di fini e di significati.

Ogni atto dell'individuo è per se, stesso atto associativo, cioè comporta una relazione interindividuale. I1 semplice atto d i pensare, anche prima di essere manifestato, ha un carattere as- sociativo; non può esistere comunicazione, e, per conseguenza, società, senza pensiero. La società non è altro che il pensiero comunicato e attuato.

Nell'attività umana non vi è dunque nulla che, pur essendo originalmente individuale, non abbia pertanto un valore d'as- sociazione; non esiste nulla, fra gli uomini, che possa venire all'essere senza esigere una forma qualunque d'associazione.

Si teme che così la società si trovi ridotta ad un semplice movimento di azioni e reazioni individuali, senza avere per sè una esistenza propria. Tale ripugnanza deriva in parte da una certa teoria associazionista che toglie alle forme sociali consi- stenza, forza e perennità, e in parte anche di un individualismo che dissolve ogni società nell'individuo, opponendo l'una al- l'altro. 'Noi al contrario diamo all'associazione tutto il suo va- lore, poichè per noi individuo e società costituiscono una realtà sintetica inseparabile.

Dall'individuo procede l'elemento etico-organico, specifica- mente costitutivo della società, sia la finalità sociale, che è la finalità interna dell'individuo stesso trasportata sul piano del- l'associazione; sia la coordinazione delle diverse attività indivi- duali, funzione tipica dell'azione di raggrupparsi.

La società è così una specie di proiezione multipla, simul-

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tanea, continua e organizzativa d i individui considerati nella loro attività.

3. Questa proiezione dell'individuo, che è la società, si rea- lizza nel tempo, come nel tempo si realizza ogni attività indivi- duale. La realtà umana è divenire. Diciamo divenire (o processo) cioè successione, e non progresso nè evoluzione, perchè ogni atti- vità umana è individuale e come individuale è, prima di tutto, esperienza e riduzione dell'esperienza altrui alla nostra espe- rienza. È vero che il collegamento delle generazioni è continuo, di modo che le esperienze individuali possono divenire collet- tive e formare la tradizione, e che i nuovi venuti che iniziano la loro esperienza partono da un determinato livello comune che avranno insensibilmente raggiunto. Tuttavia, perchè il processo umano dia segno del suo dinamismo, bisogna che gli individui prendano coscienza delle loro personali esperienze, cioè che, in maniera diretta o riflessa, essi rifacciano l'esperienza del passato,

I1 dato dell'esperienza è inseparabile dal suo carattere indi- viduale. Quando si parla di esperienza collettiva, se ne parla come di un dato dell'esperienza distinto dal carattere indivi- duale, ma come un'esperienza che, in modo simile, è compiuta simultaneamente e per la stessa ragione da un gruppo di per- sone unite da un legame comune.

Se concepiamo tutto ciò nella simultaneità e nell'incrociarsi delle attività d i innumerevoli individuali, legati secondo un com- plesso di avvenimenti sempre interferenti fra loro, avremo pre- sente la complessità del processo umano, nell'incessante intrec- ciarsi, rifrangersi e moltiplicarsi delle esperienze di generazione in generazione, in una perennità di cui non possiamo umana- mente pensare il termine.

4. Come ogni attività individuale, così l'esperienza è di per sè stessa sociale. I1 processo umano è una risultante associativa di attività ed esperienze individuali. Le varie forme nelle quali si manifesta questa risultante associativa - linguaggio, costumi, tradizioni, leggi, arte, religione, in una parola il mondo storico - pur essendo d i origine e di carattere individuale, tendono ad affrancarsi dall'individuo, a prendere un corpo proprio, a peren- nizzarsi. Ma l'azione individuale continua ad agire su tali forme, come su elementi oggettivi, estranei alla propria esperienza, che

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debbono ridivenire oggetto della propria esperienza, e così rivi- vere un nuovo dinamismo. È lo stesso di quel che avviene del mondo fisico, che l'uomo conquista, assoggetta e torna sempre a riconquistare e a fare proprio oggetto di sempre nuova espe- rienza.

Onde tanto il mondo fisico che i l mondo storico sotto un aspetto sono il condizionamento dell'attività ed esperienza in- dividuale, perchè possa prodursi; e sotto altro aspetto sono il prodotto dell'attività ed esperienza individuale che ci dà la ri- sultante sintetica della realtà presente.

Ogni momento del processo è realtà in quanto presente. I1 passato non è che l'accumulazione di esperienze che danno un valore al presente. I1 presente è l'esistenza degli esseri, e i l pas- sato è il processo che li ha resi esistenti nella loro realtà con- creta. Ma il presente si proietta nell'avvenire che tende a dive- nire presente e a perdersi nel passato. I1 dinamismo volto verso l'avvenire, nel processo umano, si traduce in finalità, mentre l'attività che realizzando i l presente si perde nel passato si tra- duce in causalità.

I n tanto che gli uomini vivono simultaneamente questi tre momenti nel processo incessante, essi hanno coscienza della realtà propria, della causalità che li fa essere e della finalità che li fa agire.

5. Su questa concezione del processo umano e sulla sua com- prensione sostanziale si fonda ciò che noi chiamiamo storicismo.

La storia può essere considerata o come successione degli av- venimenti, o come esposizione sistematica e razionale degli av- venimenti che si conoscono, o come coscienza del passato di un determinato gruppo umano (famiglia, nazione, razza, popolo). Questi tre significati presuppongono un elemento comune: il pensiero. I1 pensiero in quanto attivo è processo, in quanto si- stematico è razionalità, e in quanto coscienza è vita indivi- duale-sociale.

Ogni avvenimento è di per sè storicizzabile, cioè può divenire materiale di storia; ma la storicizzazìom è un fatto della co- scienza storica, e più a lungo dura la storicizzazione di un avve- nimento, più profonda è la ripercussione del fatto nella coscienza e più vasto è il circolo d i coloro che ne sentono gli effetti.

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In verità, se non può aversi pensiero che non si ricolleghi al passato (continuità cognitiva) nè realtà che non derivi da un passato (processo umano) nè personalità che non viva e non abbia quelle radici nel passato (coscienza storica), anche l'ele- mento storico, in qualunque maniera venga considerato e siste- matizzato, non può mancare all'individualità umana (persona), alla sua struttura collettiva (società) e al suo divenire temporale (processo).

6. La storicizzazione per noi non è altro che la visione storica dei problemi umani, nel triplice senso che abbiamo dato al ter- mine storia. È per questo che consideriamo una sociologia sto- ricista, cioè una sociologia che sia la sintesi della vita umana (che è una vita degli individui in società) nella sua struttura e nel suo processo, nella sua stabilità e nel suo dinamismo, come pensiero e coscienza e come realtà oggettiva.

Si potrebbe temere che l'elemento storico, mancando i l di- namismo temporale della struttura sociale, porti in sociologia verso il relativismo. Si arriverebbe in tal modo ad una vera disintegrazione, che toglierebbe alla società stessa ogni unifi- cazione.

Per noi, l'unificazione del processo è duplice, l'una imma- nente nella razionalità umana, l'altra trascendente nell'intel-

letto assoluto. La prima risulta dall'esperienza umana; la se- conda consiste nel rapporto del contingente con l'assoluto.

Non vi può essere sociologia ( e filosofia) nè storia senza che si risolva i l problema dell'unificazione del contingente nell'as- soluto. Vi sono due sistemi che lo affrontano: i l monismo, che prende del resto molteplici aspetti e che del contingente fa l'as- soluto ; il dualismo, che distinguendo il contingente dall'assoluto, ne trova il rapporto di trascendenza. Per noi il circolo trascen- denza-immanenza e immanenza-trascendenza, che è la legge della

creazione e del destino cosmico, potrà essere realizzato da ogni uomo, che attraverso le manifestazioni storiche del trascendente acquisisce la potenza di trasformarsi in esso.

11 vero storicismo non soltanto non minimizza le manifesta- zioni storiche del trascendente, non le nega, non le altera, ma deve valutarle per quel che sono come attività storiche, con i

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significati che danno loro coloro che agiscono sotto la loro in- fluenza.

In conclusione: lo storicismo che vogliamo sintetizzare con la sociologia è la concezione sistematica deUa storia come pro- cesso umano, realizzantesi attraverso forze immanenti, unificate nella razionalità, aventi un principio e dirigentisi verso un fine trascendente e assoluto.

London, agosto 1934. (La Vie Intelkctilelle, Juvisy, 25 aprile 1934). Arch. Cart. 3, 9

A PROPOSITO DI UN MANUALE DI SOCIOLOGIA

Da qualche tempo gli intellettuali cattolici si son messi a con- tribuire seriamente allo sviluppo della sociologia, per disimpe- gnarla dalle sue origini positiviste. Mentre prima molti confon- devano la sociologia con la politica, l'economia e la morale, oggi si son fatti grandi sforzi per dare alla sociologia una fisionomia e una consistenza proprie.

Donde la necessità di precisare il campo, piuttosto vago, di tale scienza ancora infante, e di fissarne il metodo necessario. Nella sua notevole introduzione ad un recente manuale di so- ciologia (*) il professore Delos O. P. ha fissato la finalità della

ENTORN D'UN MANUAL DE SOCIOLOGIA

F a algun temps que diversos homes d'estudi catòlics s'han posat a con- tribuir seriosament al desenvolupament de la sociologia per tal d'arrabassar-la als seus ongens positivistes. Mentre d'antuvi molts confonien la sociologir amb la politica, l'economia i la moral, després s'han fet grands esforqos per donar a la sociologia una fisionomia i una consistència pròpies.

D'aci es desprèn l a necessitat de precisar l'abast, bastant vague, d'aquesta ciència que encara es troba en la infantesa, i de fixar e1 mètode necessari per a ixò. En la seva remarcable introduceio a un recent manual de socio-

(*) Précis de sociologie, par A. Lemonnyer O. P., J. Tonneau O. P. et R. Troude, Editions Publiroc, 53 rue Adolphe Thien, Marseille.

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sociologia u nell'ossemare, descrivere e classificare i fatti so- ciali n, come dati oggettivi con finalità propria, distinti dall'azio- ne e dai fini dei singoli individui.

Da questa posizione sorgono tre problemi. Primo: si può fare opera di classificazione e di sistematizzazione dei fatti sociali, senza una filosofia? cioè senza un sistema di idee che, pur deri- vando dai fatti osservati e con questi strettamente legate, for- mino un insieme di idee teoriche e di leggi pratiche nelle quali restino inquadrati i fatti sociali e vi acquistino un significato? A nostro avviso ciò appare impossibile. La sociologia si orienta necessariamente verso il positivismo o verso l'idealismo e lo spi- ritualismo, o verso il razionalismo.

Un altro problema: per trovare le idee direttive di una filo- sofia teorica R pratica, il sociologo non potrà studiare i fatti so- ciali come dati statistici, fuori del ritmo temporale, fuori del dinamismo evolutivo ; ma deve considerarli nella dimensione sto. rica. Altrimenti, non arriverà a comprendere come nè perchè, ad esempio, la famiglia è stata poligamica per millenni ed è oggi divenuta prevalentemente monogamica; come nè perchè la schiavitù è stata abolita e la vendetta di famiglia ha perduto il suo carattere originario di giustizia penale; e così via.

logia, e1 professor Delos, religios de l'ordre dominic, fixa la finalitat de la sociologia « à observer, décrire, classer les faits sociaux n com a dades objec- tives amb finalitat pròpia, distintes de l'accio i dels fins de tot simple individu.

D'aquesta posici6 sorgeixen tres problemes. Primer: i es pot fer obra de classificaci6 i de sistematitzacio dels fets socials, sense una filosofia? és a dir: sense un sistema d'idees que, encara que derivades dels fets obsewats i Iligades estretament amb aquests, donin un conjunt d'idees teòriques i de lleis pràetiques en les quals restin enquadrats els fets socials i adquireixin una significacib. Creiem que això no seria possible. La sociologia, o bé s'orienta vera e1 positivisme, o bé vers l'idealisme i l'espiritualisme, o vers e1 racionalisme.

Un altre problema: per trobar les idees directives d'una filosofia teòrica i pràctica, e1 sociòleg no podrà estudiar els fets socials coma a dades esta- distiques, fora del ritme temporal, fora del dinamisme evolutiu; ha de con- siderar-10s en la dimensi6 històrica. Altrament, no arribarà a comprendre com ni per què, per exemple, la familia fou poligàmica durant milenars i després esdevingué preponderantment monogàmica, eom i per què l'escla- vatge 'ja abolit i la venjanga de familia havien perdut e1 seu caràcter ori- ginari de justicia pena1 ; i aixi suecessivament.

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Terzo problema: può la sociologia trovare le leggi proprie dei fatti sociali, considerati nella loro struttura e nel loro svi- luppo, senza cadere nel determinismo? oppure bisogna colle- gare le leggi dei fatti sociali al valore libero ed etico degli atti individuali? Sarebbe possibile trovare un compromesso fra la libertà individuale e la necessità sociale? Siamo propensi a dare alle leggi sociali il libero ritmo degli atti individuali, ben- chè siano limitati dalle condizioni fisiche e storiche in cui vive e si sviluppa l'uomo.

Questi problemi non sono affrontati dagli autori del (C Précis de sociologie n, ma si indovina che essi non hanno potuto fare a meno di muoversi entro i termini che abbiano ora esposto; talvolta ne hanno evitato, talvolta ne hanno accettato la forza imperiosa.'Ma la loro soluzione, benchè implicita, resta e re- sterà per molto tempo un campo di studio per i cattolici e i sociologi.

I1 contributo del compianto padre Lemonn~er è ~rincipalmente etnologico, ed è chiaro, preciso, ben informato delle fonti; i suoi capitoli sulla famiglia e sulla religione delle epoche primitive (civiltà primaria, secondaria e terziaria) sono quanto di più mo- derno e profondo potesse esser scritto in un manuale.

Tercer problema: t pot trobar la sociologia les lleis pròpies dels fets socials, considerats en llur estructura i en llur desenv~lu~ament, sense caure en e1 determinisme? o bé, t ha de relacionar les lleis dels fets socials al valor lliure i ètic dels actes individuals? & Es podna trobar up compromis entre la llibertat individua1 i la necessitat social? Ens inclinem a donar a les lleis socials e1 ritme lliure dels actes individuals, mentre siguin limitats per condicions fisiques i històriques en què viu i es desenvolupa l'home.

Aquest problemes no s6n enfrontats pels autors del a Précis de sociolo- gie D, però s'endevina que aquests no podien fer menys que moure's dintre els termes que hem exposat més amunt; en alguns moments han evitat, i en altres acceptat, llur imperiosa forca. Però llur soluci6, encara que impli- cita, resta i restarà durant Ilarg temps com un camp d'estudis per als catò- lics i els sociòlegs. La collaboraci6 del plorat P. Lemonnyer es pnncipal- ment d'etnologia i és clar, precis, ben informat de les seves fonts; els seus capitols sobre la familia i sobre la religio de les èpoques primitives (pri- mària, secundaria i terciària) s6n les m& modernes i més profundes pàgines que es podien escriure en nn manual.

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I1 p. Tonneau ha redatto i capitoli della a sociologia econo- mica » con gran cura, e si è mantenuto entro i limiti d i un la- voro di informazione scolastica. Questo esperto sociologo non ha potuto estendersi maggiormente a causa della limitazione del libro, e perchè la parte economica non poteva tralasciare le no- zioni tecniche.

I1 prof. Troude (che collaborò con il p. Lemonnyer per i ca- pitoli sulla sociologia e la religione) ha scritto la parte che trat- ta della sociologia politica. Anche qui gli esperti sociologi si son limitati all'esposizione (necessaria in un manuale) degli ele- menti di politica. Uno dei passi più interessanti, cioè che u la nazione non è veramente una individualità se non quando ha coscienza di esserlo e volerlo essere D, non è sviluppato. A parte qualche affermazione discutibile, i vari capitoli sono fatti con mirabile accuratezza e con grande larghezza d i vedute.

Tra tanti manuali di sociologia, questo ha il merito di essere valido per coloro che vogliano iniziarsi a questa scienza, ed è adatto per le scuole. La qual cosa non è piccolo merito.

London, 10 marzo (E1 Muti, Barcelona, 16 marzo 1935).

E1 P. Tonneau ha redactat els capitols de la a sociologia econòmica n amb gran cura, i s'ha mantingut dintre les linies d'un treball d'informacio escolàstica. Aquest experts sociòlegg no han pogut estendre's mes a causa de la limitaci6 del llibre, i perquè la part econòmica no pot passar-se de les nocions tècniques.

E1 prof. Troude (que collaborà amb e1 P. Lemonnyer en els capitols sobre la sociologia i la religi6) ha escrit la part que tracta de la sociologia politica. També en aquest punt els experts sociòlegs s'han limitat a l'expo- sici6 (necessària en un manual) dels elements de politica. Un dels més inte- ressants passatges de sociologia, que a la naci6 no és veritablement una individualitat, si no té la consciència d'ésser-ho i de voler ésser-ho n, no és desenvolupat. A part alguna afirmaci6 discutible, els diversos capitols s6n fets amb una remarcable cura i amb una gran amplada de concepci6.

Entre tants manuals de sociologia, aquest té e1 mèrit d'ésser bo per al3 que vulguin iniciar-se en aquesta ciència, i és apte per a les escoles. La qual cosa no és un petit mèrit.

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UN PROBLEMA DIFFICILE

A proposito di corporativismo

Da quando mons. Ketteler riprese l'idea medievale delle cor- porazioni d'arte e mestiere - a datare dal primo risveglio so- ciale dei cattolici sul terreno della pratica organizzativa - non si è mai cessato di studiare il problema come adattare le cor- porazioni alle condizioni economiche e politiche dell'epoca pre- sente. Le grandi tappe di questo studio sono segnate da due en- cicliche ~ontif icie: la Rerum Novarum e la Quadragesimo Anno.

Prima della guerra, il problema veniva posto dentro i l qua- dro dell'economia libera corretta da un limitato intervento del- lo stato liberale democratico. Dopo la guerra il problema si è spostato verso il piano di uno stato totalitario ovvero verso il piano di uno stato ancora democratico (ma non più liberale nel senso storico della parola) che fa i primi esperimenti di una economia (C regolata n o meglio diretta n.

Nel luglio scorso i cattolici francesi han dedicato al tema della corporazione la loro settimana sociale, e poichè la Fran- cia è uno stato che, fin oggi, non si chiama nè vuol essere tota- litario e rispetta le forme elettorali e i sindacati professionali liberi, i cattolici francesi si sono preoccupati di inquadrare i l sistema corporativo economico nel loro regime politico.

Lo sforzo è lodevole ed è dovere nostro seguirlo da vicino, per quella preparazione culturale che è necessaria alle grandi trasformazioni e per la formazione della coscienza collettiva, senza la quale le soluzioni pratiche dei grandi problemi sociali non troverebbero il terreno adatto a raggiungere i loro fini.

La vecchia corporazione medievale si muoveva in una sfera limitata, controllabile e facilmente unificabile: la concezione prevalente era quella dei gruppi organici autonomi. La moderna si dovrà muovere in zone larghe quanto un grande stato, con unità economiche difficili a organizzare, in un complesso pro- duttivo e di consumi che ha un giro rapidissimo e al di là dei confini di un solo stato, per sfere intercontinentali.

11. S ~ c n z o - Del .%fetodo Soriologice

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I1 problema tecnico della corporazione moderna non potrà non divenire allo stesso tempo un problema politico.

Non si creda che nel medioevo le corporazioni non avessero carattere politico; la doppia interferenza economica e politica giocava anche allora il suo ruolo importante nell'organismo sociale.

La differenza fra ieri ed oggi è data da un fattore molto inte- ressante: la politica allora aveva un campo assai limitato, oggi ha un campo vastissimo. Allora l'unità amministrativo-politica dei reami e delle repubbliche era rudimentale e frammentaria: spesse volte era federativa o fatta dall'adesione lealistica di città e provincie (pur indipendenti fra di loro) alla persona del re o principe. Oggi invece l'unità è divenuta accentramento statale, uniformità regolamentare, livellamento organico, ingerenza del governo in tutti i campi e per tutte le regioni.

Questo carattere tutto moderno dello stato non solo non è at- tenuato, ma anzi viene accentuato fino al parossismo negli stati totalitari; ma gli stati che si dicono democratici, in materia di accentramento e di invadenza statale non scherzano affatto.

Quando i cattolici (C settimanalisti n discutono di corporazio- ni, non possono fare a meno di rivolgersi agli stati accentratori e dire loro di svestirsi di un certo numero di funzioni economi- che per affidarle agli organi corporativi. Ma sarebbe errore concepire la possibilità di un decentramento corporativo come l'introduzione di un corpo eterogeno nel sistema dello stato mo- derno, mentre per esigenza organica è tutto il sistema statale che dovrebbe adattarsi alle leggi del decentramento. I1 che sarà im- possibile ottenere senza usare i mezzi politici, siano mezzi elet- torali, legali e di opinione (in uno stato democratico), siano mezzi autoritari violenti e illegali (in uno stato totalitario).

Quest'ultimo per definizione esclude ogni decentramento. Gli stati fascisti, o nazisti, o bolscevici, non possono che far divenire la corporazione, o qualsiasi altra organizzazione economica pro- fessionale, un organo dello stato, alla dipendenza dello stato, senza personalità propria, senza autonomia, senza vero carattere decentrativo ed autarchico. Nessun cattolico sociale s'illuderà mai ( a meno che non voglia illudersi di proposito) che negli stati totalitari possa trovar posto un vero corporativismo.

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Anche presso quegli stati che per abitudine chiamiamo de- mocratici, come la Francia, la corporazione integrale, quale pen- sata da certi cattolici sociali, sarebbe così impossibile come la quadratura del circolo.

Tre ragioni ~rincipal i . Una tecnica: l'impossibilità d i dare vera unità organica e individualità autoritativa ad ogni corpo- razione professionale; la rete corporativa sarebbe tale, dal cen- tro alla periferia e dalla periferia al centro, con un intreccio di competenze, interferenze e interessi svariatissimi, da dar luogo necessariamente ad una burocrazia così pesante come quella del- lo stato, O poco ci mancherebbe, e per' giunta senza l'autorità necessaria per farsi valere.

La seconda ragione (ammessa dai cattolici francesi e di altri paesi non autoritari) sarebbe la necessità d i lasciar sussistere i sindacati professionali liberi. Muovendosi questi sopra un piano di interessi in contrasto, per arrivare ad una pacificazione cor- porativa fra capitale e lavoro dovrebbero accettare non solo l'ar- bitraggio dei conflitti di classe ( i l che non sarebbe oggi difficile) ma anche una specie di staticismo o cristallizzazione economico- sociale, il che è impossibile.

Per esempio, i sindacati socialisti vorranno arrivare alla na- zionalizzazione delle banche; i sindacati cristiani dei contadini chiederanno (come avvenne in Italia nel 1920) il diritto d i pre- ferenza nella vendita del terreno a colonie; i sindacati degli operai tessili o metallurgici (come in Italia pure nel 1920) chie- deranno (( l'azionariato operaio D, cioè la partecipazione al ca- pitale azionario dell'impresa acquistato attraverso un plus di salario.

Queste e molte altre rivendicazioni sociali, promosse dai sin- dacati, porteranno la lotta fra capitale e lavoro sul terreno poli- tico, sul quale, o i n nome dei partiti o in nome delle classi, si combatteranno più o meno acremente. La corporazione come tale, sar,à ridotta a un corpo tecnico arbitrale per le vertenze contrattuali, quando non sarà il caso di ricorrere ad una magi- stratura speciale, ma non farà mai l'unità organica delle classi

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per i loro interessi economici e morali orientata al fine del be- ne comune.

Terza ragione: gli interessi dei consumatori. Costoro subi- scono tutte le oscillazioni dei prezzi degli oggetti prodotti. Lo equilibrio dei prezzi è il più difficile da ottenersi, sia nell'eco- nomia libera, sia nella chiusa; sia con il controllo autoritativo dello stato e del municipio, sia in regime di monopolio naturale o artificiale.

I prezzi non potranno essere lasciati alla mercè delle corpo- razioni dei produttori; ciò è ovvio. La corporazione non può trasmutarsi in monopolio, come un corpo cliiuso in mezzo a un mondo di interessati. L'autorità amministrativa locale o statale, sentiti gli uni e gli altri, produttori e consumatori, nel caso d i conflitto in materia di prezzi avrà e dovrà avere la parola de- finitiva.

Ed ecco che la nuova corporazione, inserita nella società pre- sente, o non arriverà a costituirsi o minaccerà di sgretolarsi da tutti i lati, quello tecnico-organizzativo, quello politico-sociale e quello economico; e per ognuno di questi lati cadrà inevita- bilmente nella politica che si voleva esclusa e nello statalismo che si voleva evitare.

E il commercio con l'estero? Si monopolizzerà nelle mani di un organo o più organi centrali controllati dallo stato e con l'in- tervento dei rappresentanti dei produttori e consumatori? o sarà lasciato all'iniziativa privata? Ciascuna delle due soluzioni avrà i suoi effetti sulla futura economia corporativa.

Si dice: oggi lo stato è divenuto così intervenzionista in ma- teria economica da fare esso tutto ciò che si dovrà attribuire alle corporazioni, e forse molto di più, sempre con incompetenza e spesso senza potere evitare il traffico politico annidato ai mar- gini della burocrazia e del parlamento; creiamo, perciò, le cor- porazioni e daremo così allo stato gli organi adatti ad assolvere i suoi nuovi compiti.

Questa affermazione ci porta verso la nuova concezione dello stato economico, che va al galoppo verso il cosidetto socialismo

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di stato. Per non allarmare si chiamerà economia diretta o re- golata, ma in fondo l'unità economica diverrà non la corpora- zione, ma lo stato. La gestione statale dell'economia di un paese avrà, di sua natura, i caratteri socializzanti, perciò si chiama socialismo di stato. Gli effetti particolari potranno essere ora a favore di una classe sociale ( o categoria d'interessati), ora a fa- vore d i un'altra; secondo che i l governo e i suoi organi useran- no in una maniera piuttosto che in un'altra del potere delicato e sovrano che avranno in materia economica.

In conclusione: i l problema dei problemi è quello sostanzia- le: (C quale sarà l'economia da promuoversi e realizzarsi per ar- rivare al sistema corporativo? - quali i mezzi per una totale tra- sformazione? ».

La corporazione non potrà essere che solo una risultante or- ganizzativa; essa non sar,à mai un mezzo politico nè sociale per arrivarvi, perchè essa oggi non può sostituire nè i sindacati pro- fessionali, nè i partiti politici, nè lo stato.

London, agosto 1935. (E1 Matì, Barcelona, 24 agosto). Arch. 6 A, 17

CAPITALISMO E CORPORATIVISMO

Non c'è quasi persona che non critichi l'attuale sistema eco- nomico a tipo capitalistico, e che non lo vorrebbe sostituito con altro più equo e più umano. Ma è difficile accordarsi 1) su quel che occorre cambiare, 2) su quel che sarà bene sostituire, 3) sui mezzi e le maniere per operare un tale cambiamento.

Che cosa occorre cambiare? Prima di dire che cosa occorre cambiare, bisogna ricordare

alcune idee fondamentali, la cui dimenticanza fa fare falsa rotta. I1 sistema economico non è un compartimento sociale che si

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può isolare e curare da solo, lasciando tutto il resto del mondo andare per'la sua strada, come pensano gli economisti puri. Nep- pure è la base unica o la risultante sintetica della vita degli uo- mini, come credono i marxisti con il loro materialismo storico.

I1 sistema economico è una forma secondaria della socialità umana, connessa alla struttura familiare, politica e religiosa, che ne sono le forme primarie, in quanto l'economia serve di mezzo all'esistenza della vita individuale e sociale, e al naturale svi- luppo delle facoltà umane e degli organismi sociali.

Due caratteri, perciò, ha l'economia; quella di mezzo di vita e quello di forma sociale secondaria connessa alle forme pri- marie.

I1 riflesso dell'una sulle altre e viceversa, è quindi costante. L'equilibrio sociale consisterà nel mantenimento delle posizioni relative ; il soverchiamento della funzione economica sulle altre, come altera l'equilibrio della vita individuale, altera l'equilibrio della vita collettiva.

Quando parliamo di struttura economica da cambiare, ricor- diamo che questa è anzitutto un effetto; le cause immediate pos- sono essere di carattere economico, ma le vere cause sono sem- pre di carattere morale, politico e religioso.

Altra premessa necessaria di carattere storico e morale. In nessuna epoca noi troviamo un equilibrio economico sod-

disfacente. Questo è un dato storico irrefutabile. È una inesat- tezza dire che il medioevo con le corporazioni aveva segnato il più perfetto equilibrio; e che bisogna ritornarvi per salvare la società presente. A parte che la storia non è riversibile, e che il medioevo è una frase equivoca, perchè da ogni punto di vista furono diverse le condizioni per esempio del X secolo e del XII secolo, dell'Italia o della Polonia o dell'Inghilterra nella stessa epoca, se facciamo i l bilancio della nostra situazione economica di un solo secolo del medioevo e di un solo paese, noi arrivia- mo a trovare condizioni così aspre dell'economia del tempo, con i servi della gleba, gli schiavi anche (secondo le epoche e i paesi), i lavori prolungati, la mancanza di igiene, le abitazioni operaie orribili come tane, le fami sterminatrici, l'abbandono di ogni protezione del lavoro da parte delle autorità sociali, da farci oggi raccapriccio e spavento.

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Questo quadro aveva, si comprende, i l rovescio della meda- glia, con le corporazioni o gilde, il senso della famiglia artigia- na, l'intimità fra padrone e operaio, le agiatezze di certe cate- gorie di artigiani, la gioia del lavoro personale e così via.

Ma noi non possiamo scegliere fra i l presente e i l passato; noi possiamo optare fra il presente quale è, e un futuro prossimo che vogliamo sia migliore.

Donde la critica e la spinta al miglioramento. Questo è relativo alle condizioni del momento e ai più ur-

genti bisogni.

Verso la fine dell'ancien régime, alla vigilia della rivoluzio- ne francese, tutti, borghesi e operai, aspiravano all'abolizione dei vincoli posti allora all'economia. I commercianti volevano aboliti i dazi di consumo che incontravano in ogni città o pro- vincia, i pedaggi da pagare ai passaggi dei ponti o delle strade, le dogane fra paese e paese.

I padroni non volevano più i legami delle gilde, che impac- ciavano lo sviluppo delle industrie nascenti; nè i regimi di prez- zi dei municipi, nè le concessioni regie alle quali erano sotto- poste le nuove industrie, nè il numero chiuso delle officine e co- sì via.

Gli stessi operai e coltivatori volevano potersi muovere da un luogo all'altro, senza impedimenti, cercare lavoro dove affluiva, non essere legati ad associazioni che loro impedivano la libertà di offrirsi e di accettare le paghe che volevano.

Le riforme economiche della rivoluzione francese, portate in tutta Europa come una liberazione, suscitarono l'entusiasmo del- la borghesia e delle popolazioni operaie, di fronte alle quali do- vette cedere, in parte o in tutto, secondo i paesi, l'opposizione della nobiltà, del clero e delle corti.

Ho ricordato questo dato storico, per far vedere che i muta- menti economici sono sempre parziali, dettati dal bisogno im- mediato, quando un dato sistema è divenuto insopportabile (an- che se idealmente buono); e tali mutamenti affettano tutta la vita politica e morale di un paese.

Oggi l'opinione pubblica e i risentimenti delle classi medie e lavoratrici sono contro il capitalismo. Le accuse principali sono :

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1) l'economia capitalistica raccoglie le ricchezze in pochi gruppi che divengono ultrapotenti e dominano i l mondo;

2) i l loro dominio basato sul capitale, è di natura economica materialista, formando uno stato nello stato e assoggettando le altre classi, specialmente le classi lavoratrici ;

3) dippiù, per i l modo d i organizzare le società o i gmppi, e i trusts economici, i capitalisti sfuggono alla responsabilità diretta (morale e politica) della ricchezza accumulata.

4) Di qui un crescente disquilibrio tra i fini morali e sociali e la vita economica. Questo disquilibrio, dal punto di vista eco- nomico si presenta sotto forma

a) di disoccupazione b) d i insufficienza di salari C) di insicurezza di impiego d) d i malsano orientamento nella produzione e) d i disquilibri tra produzione e bisogni reali f ) d i alterazione dei prezzi per i ~ r o f i t t i del capitale e

della distribuzione dei prodotti per i l mantenimento dei prezzi g) dell'anonimato del capitale h) del traffico di borsa.

La lista non è completa; ma non è necessario che lo sia. SU molti altri punti la critica può essere vera e su altri esagerata. La sostanza è che il sistema capitalistico è condannato.

Ci sono coloro che uniscono nella stessa condanna il capita- lismo e il capitale, e ciò è un errore.

I1 capitale è necessario in ogni economia organizzata, sia pu- re la più elementare, dall'economia agricola e artigiana, all'eco- nomia collettivizzata in uno stato, quale la sovietica.

Che il capitale stia nelle mani di ogni singola impresa, sia pure a tipo domestico e si chiami risparmio, ovvero nelle mani dello stato, sotto il carattere di finanza dell'amministrazione in- dustriale collettiva, è sempre capitale. Cioè i l frutto della pro- duzione non impiegato per il consumo, ma messo da parte CO-

me stock in denaro e in materie e utensili o macchine destinate alla nuova produzione.

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Chi vuol concepire un ritorno alla preistoria economica, sen- za denaro, senza macchine, senza stock di materie prime, senza larghi mezzi di scambio, senza imprese e simili, si mette fuori della realtà presente e in un sogno irrealizzabile.

Restiamo coi piedi sulla terra. I1 capitale, così definito, non è cattivo in sè; solo l'uso buono lo rende buono, l'uso cattivo lo rende cattivo. I1 capitalismo è l'abuso del capitale ed è pro- prio da combattere. Come ogni lotta, questa contro i l mal uso delle ricchezze è difficile, aspra e lunga, sia sul terreno morale ( e lo sanno i predicatori e i confessori), sia sul terreno sociale e economico ( e lo sanno i riformatori politici).

Tentiamo la nostra riforma. Essa si pone sul piano etico-po- litico, perchè (come abbiamo detto) l'economia non è una forma sociale a sè, ma è derivata dalle forme superiori di socialità.

1) Una delle cause degli eccessi del capitalismo deriva dal- l'individiialismo del secolo passato. Non lo chiamo liberalismo, perchè questo nome ci richiama molte altre idee estranee (parte vere e parte false) che ci farebbero cadere (come spesso avvie- ne) in equivoci fuorvianti. L'individualismo è al fondo del pro- blema: per esso furono sciolti i vincoli economici e politici dei gruppi umani (famiglia-classi-città e così via) dando un valore prevalente e spesso assoluto all'iniziativa privata.

Questo individualismo porta nell'economia alla sfrenata con- correnza, e quindi allo sfruttamento del lavoro operaio sia circa i salari sia circa le ore del lavoro.

Come contropartita e rimedio, si svilupparono le trade uniom, che unendo gli operai fecero fronte allo sfruttamento e crea- rono l'interesse di classe opposta a quella capitalistica. L'indi- vidualismo fu rotto; ma furono create due classi di fronte. La teoria che ne nacque fu quella della lotta di classe.

Per arrivare a superare lo stadio di tale lotta tre alternative: a) sopprimere i padroni o capitalisti privati, passando le

imprese ad un ente collettivo (sia una cooperativa sia un ente intermedio quale la città o la contea);

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b) nazionalizzare la produzione; C) arrivare nelle imprese private a far cooperare insieme

padroni e operai con il sistema dell'azionariato operaio. Tutte tre le ipotesi possono attuarsi secondo i tipi d i produ-

zione e coesistere nel nostro sistema, a condizione che rispon- dano alla migliore organizzazione sociale-economica e ai prin- cipi di giustizia. Quel che si deve evitare nel triplice interesse della morale, della politica e dell'economia, è di imporre unica soluzione all'organizzazione economica d i un paese; cioè o tutte cooperative, o tutte nazionalizzazioni o tutte imprese private con l'azionariato operaio.

La porta dev'essere aperta a tutte tre le soluzioni secondo le migliori condizioni economico-sociali. Quel che interessa, co- me scopo d i questo primo grado di riorganizzazione, si è che l'impresa economica, quale essa sia, rappresenti un'unità mo- rale tra tutti i fattori della produzione. Questo sembra un punto trascurato ma è di primaria importanza per la riorganizzazione economico-sociale. L'impresa è il nucleo fondamentale dell'eco- nomia, come la famiglia lo è della società.

Là dove famiglia ed economia coincidono (nell'agricoltura a tipo domestico) si ha i l massimo della convergenza ideale. (Diciamo ideale, perchè nel fatto l'unità economica della fami- glia può essere turbata da interessi divergenti e da passioni in- quietanti).

Nell'economia specializzata e industrializzata, la famiglia non è (in via normale) un nucleo economico. Questo è autono- mo e costituito da due fattori principali: il patronato e il lavoro. Usiamo questi termini più pregnanti, che non quelli derivati dall'economia individualista d i datori di lavoro e impiegati, di capitalisti e salariati, di proprietari e proletari. L'unità mora- le dell'impresa fra padroni e operai si deve fare su tre piani: il cointeresse, la collaborazione morale, la soddisfazione del lavoro.

I1 sistema d i puro salario giornaliero non sviluppa il coin- teresse, anzi dà motivo a conflitti per opposizione di interessi. Invece, dopo avere assicurato un minimo di paga, poter asso- ciare l'operaio ai vantaggi dell'impresa, è un determinarne i l cointeresse.

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Così nelle forme di cultura agraria a mezzadria, nella quale i prodotti si dividono a metà fra i l padrone e il contadino, i l cointeresse alla produzione è destato nel lavoratore, che parte- cipa all'iniziativa padronale e al miglioramento del fondo.

Ogni impresa ha i l proprio ritmo e quindi non si può a priori stabilire i l modo di partecipazione del lavoratore. I po- polari italiani nel 1920 proposero alla camera dei deputati i l sistema dell'azionariato operaio. Cioè attribuire agli operai sta- bili dell'azienda ogni anno una percentuale degli utili dell'a- zienda (per esempio il 20%) da tramutarsi in azioni; sicchè in u n corso di anni gli operai divenissero effettivamente compro- prietari. Ricordo che i socialisti furono contrari (a parte le dif- ficoltà tecniche d i un tale sistema) perchè così si diminuivano i motivi della lotta d i classe; mentre i capitalisti non volevano nelle loro assemblee il controllo dei loro operai.

In secondo luogo la collaborazione morale. Questa non può aversi senza che i padroni delle aziende non siano realmente tali, a contatto con gli operai, in una specie di grande famiglia. L'azienda non deve essere un laboratorio d'irresponsabili, ma una grande famiglia di lavoro. A questo scopo occorre soppri- mere tutto quel che rende irresponsabile la proprietà. I1 siste- ma delle azioni al portatore che vige nel continente dovrebbe essere abolito. Ma anche il tipo d i azioni di coloro che non sono interessati personalmente all'azienda dovrebbero essere tra- smutate in buoni d i prestito, senza diritti nell'amministrazione dell'azienda.

Coloro che ne hanno la proprietà e che vi cooperano con il lavoro responsabile (direttori, ingegneri, capi operai, operai specializzati, ecc.) costoro debbono amministrare l'azienda, non gli estranei. Così si forma un ambiente morale, che insieme al cointeresse economico creano l'unità dell'azienda.

La soddisfazione del lavoro è maggiore quando vi è impe- gnata tutta la personalità, e mano mano diminuisce quanto più si meccanizza e diviene materiale. I1 facchino che tutto i l giorno trasporta pesi dalla banchina alla nave o al treno, deve cercare altre soddisfazioni che non quelle del lavoro, così come gli schiavi dei tempi romani, che caricavano le pietre per costruire gli immensi edifici quali il Colosseo e i teatri, gli acquedotti e

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le terme. Ma nella formazione d i un'unità morale dell'azienda, viene a crearsi un'atmosfera d i simpatia, una possibilità d i vita associata, che attenua moralmente gli inconvenienti di certi lavori.

Le aziende padronali o private con partecipazione operaia formeranno la totalità delle piccole e la maggioranza delle me- die aziende. Quando l'azienda diventa colossale, con branche i n tutto il mondo, non solo occorrono grandi mezzi, ma gli stessi proprietari responsabili debbono cercare d i diminuire i rischi associandosi altro capitale, e sono talmente assorbiti nella dire- zione generale, che riesce impossibile i l loro contatto con gli operai.

Due soluzioni: quella d i specificare la grande impresa in tante medie e piccole per quanto è possibile a carattere autono- mo e a tipo padronale o cooperativo; quella d i organizzarla in modo da formare il maggior cointeresse dell'operaio e degli impiegati burocratici e tecnici. Quel che occorre sempre combat- tere è l'anonimità e la irresponsabilità del capitale, e quindi fissare che solo coloro che dirigono e amministrano l'impresa possono esserne i proprietari e i responsabili.

Quel che si è detto dell'azienda padronale si dice della cooperativa. Ogni azienda padronale, per la partecipazione de- gli operai alle azioni, col tempo può arrivare a divenire coope- rativa. La cooperativa può assurgere ad azienda a medio tipo e anche a grande azienda. Quel che interessa è formare e con- servare insieme all'unità economica (dei lavoratori, o dei con- sumatori, o dei paesani, o delle famiglie d i villaggio e così via) l'unità morale che risponde allo spirito e a i fini della cooperativa.

Ma ci sono tipi d i imprese che possono divenire enti morali O semipubblici (come il porto di Londra) o assunti dai municipi O dalle contee (come certi servizi di trasporti locali, i boschi, i terreni comuni) o dallo stato (come le ferrovie, le poste e simili), ovvero nazionalizzate (come il sottosuolo minerario i n Italia). Allora i lavoratori stabili passano alla categoria d'impiegati d i una comunità (servizio tecnico). Manca il concetto cooperativo O quello di società con il padrone, ~i surroga quello d i cointe-

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resse pubblico ; una forma ideale che ha creato in ogni tempo i fedeli collaboratori e servitori dello stato, dei municipi, delle comunità.

Ricordo, quando ero sindaco della mia città, che certi an- ziani uscieri o connestabili del comune (a paghe non alte) s'in- teressavano delle cose del loro servizio, e anche degli affari più elevati del comune, come di cosa propria, con la passione d i un padre d i famiglia. Io l i ammiravo e l i amavo.

I n conclusione: in tutti i tipi di aziende, dalla domestica alla nazionalizzata, i l lavoro è un associato a pari interesse mo- rale della proprietà, e dove e quando è possibile, deve arrivare a partecipare alla proprietà, o come azionario o come coopera- tore o come cittadino cointeressato in modi speciali. Dall'altro lato i l rappresentante del capitale deve essere direttamente re- sponsabile e deve arrivare al contatto con l'operaio in una co- munità d'interessi e di relazioni, nella società economica ch'esso rappresenta.

I1 secondo grado della riorganizzazione economico-sociale si basa sulle trade unions o sindacati operai. Questi hanno reso un gran servizio alla causa operaia, nel darvi coscienza di gruppo, nel promuovere i miglioramenti nei salari, nel regime e igiene del lavoro, nell'arrivare ai patti collettivi. Però, data l'econo- mia individualista, i l compito dei sindacati ha accentuato il carattere separatista dell'operaio dal padrone, ha sostenuto di fatto la lotta di classe come principio (o come una inevitabile premessa), ha contribuito allo sviluppo del capitalismo e a quello della proletarizzazione.

Con la base dell'unità economica dell'impresa, I'u6cio dei sindacati operai cambia di orientamento, non di funzione. Cioè: pur restando un organo di difesa degli interessi degli operai, dovrà cooperare all'evoluzione della struttura economica, verso la partecipazione dell'operaio al capitale azionario, o allo svi- luppo cooperativo, ovvero alla trasformazione in imprese mu- nicipalizzate o nazionalizzate.

Le questioni di salario, ore di lavoro, turni di impiego di

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manodopera, saranno un compito permanente dei sindacati, ma si muoveranno in un'altra atmosfera. Ammesso i l sindacato ope- raio, si deve anche ammettere i l sindacato o associazione dei datori di lavoro per la tutela dei loro interessi particolari se- condo i l nuovo ambiente che si viene a formare con la responsa- bilità diretta dei padroni di azienda. Così concepiti i sindacati debbono essere riconosciuti dalla legge, per le responsabilità le- gali e morali ed economiche che comportano, e nessun operaio come nessun padrone potrà restare isolato fuori del quadro sin- dacale.

Per rispettare la libertà dei singoli, operai o padroni, noi ammettiamo che la legge non imponga un sindacato unico, ma lasci liberi di formare quanti sindacati o trade unions gli operai o i padroni vogliono, seguendo i loro interessi, le loro affinità, le loro vedute, i loro ideali politici; purchè ogni sindacato adempia a quelle formalità che la legge dovrà prescrivere (nu- mero minimo di soci, registri legali, contabilità regolare, ecc.).

I1 terzo grado della nostra organizzazione sociale è la corpo- razione. Intendiamo per corporazione l'insieme organico di una classe produttiva (ove siano tutti i fattori della produzione): per esempio corporazione dei panettieri, o dei calzolai o mer- canti e simili.

Intendiamo per organizzazione corporativa l'insieme di tutte le corporazioni, nel loro reciproco influsso e nell'organismo su- periore che li rappresenta, come un consiglio nazionale delle corporazioni. Possiamo anche pensare a un Bureau international du travail o International Labour Office, cioè ad un d i c i 0 inter- nazionale delle corporazioni.

La corporazione moderna sarà così complessa come oggi è complessa la produzione. Non si tratta più dei semplici corpi artigianali del medioevo, che formavano una specie d i famiglia economica; ma di una rappresentanza organica d'interessi assai complicati. Per avere un'immagine: la città-stato medievale sta allo stato nazionale di oggi, come la gilda artigianale di una città medievale sta ad una corporazione nazionale moderna.

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Ecco perchè, mentre allora si univano in piazza o in chiesa i capi famiglia e decidevano degli affari di stato o nominavano ogni anno priori e gonfalonieri, nella democrazia moderna co- me l'inglese si devono mobilitare 30 milioni di elettori per no- minare 616 deputati. La democrazia moderna non può essere basata che sul sistema rappresentativo.

Bene: la corporazione è il sistema rappresentativo dell'eco- nomia corporativa. I sindacati rappresentano i corpi elettorali del sistema corporativo per ogni corporazione, e per il consiglio generale delle corporazioni. Queste a loro volta rappresenteranno gli interessi e ne avranno i l compito di tutela.

I compiti della corporazione moderna comprendono tutto ciò che serve al migliore sviluppo dell'economia speciale dei corpo- rati, in armonia con lo sviluppo dell'economia del paese. In via particolare, l'esperimentazione pratica indicherà gli obiettivi specifici e i limiti insormontabili.

Quattro sono le questioni principali: a) la sorveglianza della produzione che non crei una con-

correnza sleale e danneggi la classe; b) il controllo dei prezzi, che siano rimunerativi, senza

aggravare il consumo ; C) la limitazione della produzione che non ecceda il mer-

cato o la spinta prudente perchè corrisponda alle maggiori ri- chieste ;

d) la distribuzione della mano d'opera per evitare la di- soccupazione temporanea o per provvedere alle crisi ricorrenti.

I n sostanza la corporazione deve creare una solidarietà eco- nomica fra le imprese dello stesso nome e fra le varie categorie addette alla produzione. I centri di collegamento corporativo dovranno farsi per provincia fino ad arrivare ad un consiglio generale delle corporazioni, per mantenere il contatto fra le va- rie corporazioni e per equilibrare gli interessi particolari con gli interessi generali.

Poichè le corporazioni hanno dei compiti che toccano di- rettamente i consumatori, nei consigli corporativi d i contea o nazionali i consumatori debbono avere la loro voce e difendere i loro interessi. Costoro non possono (come alcuni pensano) es- sere organizzati in quanto tali, perchè tutti siamo consumatori

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come tutti in certo modo siamo produttori. Perciò i consumatori possono essere rappresentati o dai consigli municipali o di con- tea o dai rappresentanti governativi in seno ai consigli corpora- tivi, ovvero dalle camere di commercio per i loro specifici in- teressi, o in altro modo. Quel che preme si è che le corporazioni non debbono divenire corpi chiusi di produttori che si impon- gono egoisticamente alla comunità.

Tutto ciò non si può stabilire a priori, come un piano sicuro e infallibile. Occorre creare gli organi, sperimentare le funzioni, ricostruire pezzo a pezzo il nuovo edificio economico. Chi crede di aver trovato la ricetta infallibile della futura organizzazione felice su questo mondo, dove non ci saranno più nè miserie nè oppressioni, nè profittatori nè disoccupati, o è un illuso o un qiarlatano. L'uomo può correggere quel che vi è di male oggi; domani le stesse correzioni non solo non serviranno più ma creeranno nuovi inconvenienti, ai quali porre riparo e così via.

Lo scopo della nostra costruzione sindacale-corporativa si è quello di correggere gli errori dell'economia attuale e colpire a fondo il capitalismo. I1 problema adunque sta nella possibi- lità pratica d i arrivare a questo scopo. A noi sembra che ciò sia possibile perchè :

a) la forma organica, dall'impresa, unità economico-mo- rale, fino al consiglio superiore delle corporazioni, toglie la causa fondamentale del capitalismo che è I'individualismo senza controlli, e promuove la solidarietà organica dell'economia e la responsabilità delle varie funzioni produttive;

b) la possibilità di passaggio dell'impresa da padronale e cooperativa a forme autonome pubbliche locali o nazionali, crea la coesistenza necessaria della proprietà individuale con la pro- prietà d i gruppo e con quella comune a tutti; secondo i l tipo di produzione o il carattere di servizi alla comunità;

C) l'interferenza corporativa nella produzione e nella di- stribuzione della mano d'opera e nei prezzi di vendita rende l'economia più aderente ai bisogni reali e fa diminuire la disoc- cupazione e corregge le crisi artificiali dell'economia attuale.

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Quali i mezzi per arrivarvi? Le rivoluzioni vere sono quelle che si fanno senza dirsi tali, mentre le rivoluzioni false sono quelle che si dicono tali, ne hanno i gravi fenomeni di disor- dine, ma non sono vere.

Nel 3789 la Francia, con la deliberazione dei diritti dell'uo- mo fece la rivoluzione senza accorgersene, mentre quando dal 1792 al 1794 credette di aver fatto la rivoluzione preparò la dittatura napoleonica che fu la smentita dei diritti dell'uomo.

Noi parliamo di paesi democratici: tre mezzi: l'opinione pubblica, l'iniziativa privata, la legge parlamentare.

Se guardiamo quel che erano gli operai in Inghilterra prima delle trade unions e dopo che queste si furono imposte ai poteri pubblici e agli industriali, il passo fu gigantesco. Perchè un paese arrivi ad una riforma utile deve sentirne il bisogno. Per- chè ne senta il bisogno deve conoscerla almeno come. una possi- bilità e un vantaggio; perciò vi devono essere coloro che la propugnano.

Quando l'opinione pubblica vi si è orientata favorevolmente, allora il parlamento ha il dovere di intervenire per mezzo di leggi opportune che mano mano sanzionano le conquiste otte- nute e ne preparano l'ulteriore sviluppo. Quel che oggi si sente è la intollerabilità del capitalismo; quel che sembra insuffi- ciente è il tipo di fabianesimo o d i socialismo tradunionistico che si allaccia al passato più che all'avvenire. Perciò le persone si vanno orientando verso:

1) i l comunismo; 2) l'economia d i stato (o economia diretta); 3) i l corporativismo.

Escludiamo il primo che si baserebbe sull'abolizione della proprietà privata e sulla collettivizzazione forzosa; il che ripu- gna alla concezione cristiana e libera della società. Escludiamo l'economia di stato, o socialismo di stato o economia diretta, sia perchè non attinge lo scopo principale, quello di eliminare la sor- gente immorale del capitalismo; dippiù favorisce l'accentramen- to dell'economia nello stato a carattere burocratico ( e come tale

12. bTTRZO - Del .\fetodo Sorto~oqtco

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incompetente) e preludia ad una forma di totalitarismo di stato. Con ciò non neghiamo (come i liberali di un tempo passato)

il giusto intervento dello stato in materia economica a carattere politico, quale quello di integrare le iniziative economiche, di regolarle e di sanzionarle.

Due parole sul cosidetto « stato corporativo n. Questo è una falsificazione del sistema corporativo. Lo stato è l'organo poli- tico della società; cioè riporta tutti i problemi generali di bene comune sul piano della ~o l i t i ca e vi dà la sanzione dell'autorità sovrana.

È un errore enorme fare dello stato un tutto possente in cui si risolve ogni attività sociale. Lo stato corporativo può essere concepito sotto due aspetti. Primo: che la politica si trasporta sul piano economico, come si tentò in Russia prima della se- conda o terza fase di Stalin, cioè che gli organi economici di- vengono anche organi politici e che la politica è solo in funzione di una determinata economia. Secondo: che l'economia si tra- sporta sul piano politico; così oggi in Germania e in Italia. L'economia per lo stato, ai fini dello stato. Quindi l'autarchia anche se dannosa; l'incremento delle industrie di guerra a sca- pito del resto; I'asservimento di tutti i mezzi di produzione ad una politica imposta dalla dittatura.

Nei due casi, le forme organiche economiche (si chiamino sovieti sindacati o corporazioni, non importa) sono prive di li- bertà, di iniziativa, di responsabilità. Organi burocratici d i una politica comandata dallo stato totalitario.

Tutto ciò non ha a che vedere con il nostro sistema corpora- tivo. Questo è oggi i l meno compreso, il meno accetto anche agli stessi cattolici, ma è i l piccolo seme dell'avvenire di una demo- crazia organica, rinnovata nella prova, per raggiungere una mi- gliore (e mai definitiva) sistemazione. Se l'umanità potesse ar- rivare ad uno stadio definitivo, cesserebbe di vivere. È il dina- mismo per la conquista del meglio, in mezzo ai mali del presente, che la muove, la spinge alla lotta e alle dure esperienze della vita.

(Le Vie Inkllectuelle. aprile 1938). Areh. 1 A, 14

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L'INFLUENZA DEI FATTI SOCIALI SULLE CONCEZIONI ETICHE

È ancora dibattuta la questione se siano i fatti sociali ad avere più influenza sulle concezioni etiche, o le concezioni etiche sui fatti sociali. Ai giorni nostri, in cui si dà così grande importanza ai fatti, è naturalmente più facile ( o almeno meno difficile) per i l sociologo stabilire l'influenza dei fatti sulle idee. Tuttavia una simile analisi, se vuol essere completa, deve studiare le leggi che regolano tale influenza, trasformando i dati materiali dei fatti nelle forme direttive delle idee.

Scopo del presente saggio è analizzare due importanti feno- meni sociali, uno dei quali ha giocato, e l'altro ancora gioca, un ruolo decisivo nella vita morale di molti popoli, e cioè la schid- vitù e la guerra. Si farà anche allusione ad altri fenomeni sociali, nella speranza che ulteriori ricerche etiche e sociologiche venga- no intraprese su linee analoghe.

La schiavitù

Per quanto riguarda la schiavitù, si può asserire che nessuno oggi metterebbe in dubbio le tre seguenti asserzioni: primo, che

THE INFLUENCE OF SOCIAL FACTS ON ETHICAL CONCEPTIONS

The question is still in debate whether social facts have more influence on ethical conceptions or ethical conceptions on social facts. In our day, when so much emphasis is laid on facts, it is, of course, easier ( o r at least less difficult) for the social analyst to establish the influence of facts on ideas. Such an analysis, however, if it is to be complete, must study the laws that regulate such influence, transforrning the materia1 data of facts into the directing forms of ideas.

I t is the purpose of this essay to analyze two irnportant social pheno- mena, one of which has played, and the other of which still plays, a deci- sive role in the mora1 lives of many peoples, namely, slavery and war. Pass- ing allusion will be made to other social phenomena in the hope that fur- ther ethical and sociological research will be made along similar lines.

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la schiavitù era un'istituzione sociale contraria ai diritti fonda- mentali della persona umana e un ingiusto sfruttamento del- l'uomo da parte dell'uomo; secondo, che la schiavitù sorse da una complessa situazione economica, psicologica e sociale, che la rese non solo possibile, ma - almeno in epoca pre-cristiana - anche generale e normale; terzo, che la sopravvivenza o la re- viviscenza della schiavitù nelle comunità cristiane veniva non solo spiegata (come, ad esempio dalla struttura economica del periodo feudale) ma, troppo spesso, giustificata e persino rac- comandata - malgrado fosse in flagrante contraddizione con lo spirito del Vangelo.

Oggi non ci sono più difficoltà di accordo su questi tre punti; ma ciò perchè è superata la discussione sull'abolizione della schiavitù. La cosa era diversa quando la schiavitù era ancora in vita (come qui in America nella prima metà del secolo scorso). Non mancavano allora, persino fra i moralisti di professione, coloro che difendevano l'istituzione sia come legittima (nel sen- so di non contravvenire alla legge naturale), o almeno come il minore di due mali, dal punto di vista economico e sociale - a patto soltanto che la schiavitù fosse limitata in estensione e mi-

In regard to slaver~, it is safe to say that no one today would deny any of the three following propositions: first, that slavery was a social insti- tution opposed to the fundamental nghts of the human person and an unjust exploitation of man by man; second, that slavery arose from a com- plex economic, psychological and social situation which made it not merely possible but - at least in pre-Christian times - even genera1 and normal; third, that the S U N ~ V ~ ~ or revival of slavery in Christian communities was not merely explained (as, £or example, by the economic strutture of the feudal penod) but was, aU too often, justified and even recommended - in spite of being in flagrant contradiction to the spirit of the Gospel.

Today it is no longer di5cult to get ageement on these three points; but that is because the debate on the abolition of slavery is over. It was different when slavery was still in existence (as here in America in the first half of the last century). There was then no lack, even among the profes- eional moralists: of those who defended the institution either as legitimate (in the sense of not contravening the natura1 law) or at least, as being the lesser of two evils, from the economic and social point of view - provided only that slavery was limited in extent and mitigated in practice by mora1

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tigata in pratica dal sentimento morale e dalla forza legale. Ma, come spesso accade quando la teoria è in conflitto con la pratica, questa limitazione e mitigazione equivaleva a negare nelle con- clusioni principi che venivano ammessi nelle premesse. Rima- neva il fatto che l'effettiva schiavitù implica due supposizioni innaturali, la prima, che lo stato di schiavitù venga trasmesso per nascita, e la seconda, che il padrone abbia un (C diritto » di vendere gli schiavi superflui. Una volta negate queste due sup- posizioni, ne rimangono solo altre due - egualmente innatu- rali - su cui il sistema può rimanere in vita, e cioè, l'uso della forza nel costringere uomini e donne ad essere schiavi, e la pra- tica di ridurre i prigionieri di guerra a !?chiavi perpetui. Così, la schiavitù è vista come un'istituzione innaturale, nata da ra- pina o da guerra, e che si regge sull'umano comportamento e commercio di carne umana. I1 fatto che tale traffico sia conti- nuato nei tempi moderni presso popoli cristiani retti da re (( cat- tolici n, da maestà (( cristianissime n e (C difensori della fede n, è una delle pagine più nere dell'intero storia della razza bianca, e dovrebbe essere francamente condannata come completamente indifendibile.

Finchè il sistema continuò nel fatto, le concezioni etiche non sfuggirono alla sua influenza. È vero che la discussione morale

feeling and lega1 force. But, as so often happens when theory is in ronflict with practice, this limitation and mitigation was tantamount to a denial in the conclusions of pnnciples that were admitted in the premises. The fact remained that rea1 slavery implies two unnatural suppositions, first, that the status of slavery is transmitted by birth and, second, that the owner has a C( right n to se11 bis superfluous slaves. Once you deny these two suppo- sitions, there remain only two other suppositions - equally unnatural - on which the system can be kept alive, namely, the use o£ force to compel men and women to he slaves and the practice of turning prisoners of war into perpetua1 slaves. Thus, slavery is seen to be an unnatural institution, born ol rapine and war, and kept alive by hirpian breeding and trade in human flesh. The fact that this trafficking continued in modern times among Chri- stian peoples ruled by a Catholic D kings and most Christian » majesties and defenders of the Faith n is the blackest page in the whole history of the white race; and it should be frankly condemned as wholly indefeusible.

So long as the system continued in fact, ethical conceptious did not escape its influente. It is true that mora1 discussion sought to limit the im-

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cercò di limitare le immorali conseguenze della schiavitù, in- sistendo sui doveri cristiani di mutuo perdono e carità fra pa- droni e schiavi. Tuttavia la questione di principio non venne toc- cata anche da coloro che consideravano l'abolizione come un ideale (da realizzarsi solo in un lontanissimo futuro), e, eiÙ ancora, da coloro che cercavano di giustificare l'apparentemente inevitabile pratica sul fondamento che non era realmente con- traria alla natura o anche che era una legittima deduzione dalla legge naturale.

Siamo qui in presenza di un fatto fondamentale sfociante in una modifica delle concezioni etiche e politiche riguardo all'isti- tuto della schiavitù. Prima che l'abolizione legale divenisse un fatto compiuto, i teorici ritenevano tale abolizione impossibile o, comunque, tale da produrre gravi e insopportabili conseguen- ze per l'intera società. Dopo l'abolizione - malgrado la gravità degli effetti immediati - i teorici morali cominciarono a dire che si poteva provare l'opportunità, la ragionevolezza e anche l'obbligo morale delle misure prese. Allora, ma soltanto allora, le teorie etiche dei pionieri e dei visionari, degli umanitari e dei cristiani genuini, furono viste in una nuova luce. I timori e i dubbi che fino ad allora avevano velato la chiara visione della

moral consequences o£ slavery, by insisting on the Christian duties of mutua1 forgiveness and charity among owners and slaves. Nevertheless, the question o£ principle was left untouched even by those who regarded the abolition as an idea1 (to be realized only in the very distant future) and, still more, by those who sought to justify the seemingly inevitable practice on the ground that it was not really contrary to nature or even that it was a legi- timate deduction from the natura1 law.

We are here in the presence o£ a fundamental fact resulting in a modi- fication o£ ethical and politica1 conceptions regarding the institution o£ sla- very. Before lega1 abolition became a fait accompli, it was assumed by theo- rists that such abolition was impossible or, at any rate, was bound to pro- duce serious and unbereable consequeuces for society as a whole. After abo- lition - in spite of the seriousness o£ the immediate eflects - ethical theo- rists began to say that one could prove the timeliness, the reasonableness, even the moral obligation of the measures taken. Then, but only then, were the ethical theories o£ the pioneers and the men o£ vision, of the human- itanans and the genuine Christians seen in a new light. The fearci and doubte which hitherto had clouded the clear vision of the truth melted into thin

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verità svanirono nell'aria. I1 trionfo delle tesi più coraggiose, delle tesi radicalmente più sane, mise a fuoco più esattamente i principi etici su cui erano basate (*).

Vendetta, servitù della gleba, poligamia

La vendetta familiare è un altro esempio storico di un siste- ma criminale che, dal punto d i vista sociologico, è per taluni aspetti simile a quello della schiavitù. Ci sono stati periodi nel passato in cui, anche in società già politicamente organizzate, la giustizia criminale non era interamente nelle mani dei re o dei giudici. La tradizione della giustizia familiare, stabilita prima dell'organizzazione della polis greca e della res publica roma- na o dello stato moderno, continuò per secoli e fu legalmente

air. The triumph of the bolder theses, o£ the radically sounder theses, set in a sharper focus the ethical principles, on which they were basedl.

Vendetta, Serfdom, Polygamy

The family vendetta is another histoncal instance of a criminal system which, from the sociological point of view, is somewhat like that o£ slavery. There have been periods in the past when even in societies which were al- ready politically organized, criminal justice was not wholly in the hands o£

(*) In una recensione dello scritto di Madeleine Hooke Rice, American Catholic Opinion in the Slavery Controversy si dice: « Naturalmente la schia- vitù non è sbagliata quando è imposta quale punizione di un crimine, o per un giusto debito, o quale conseguenza della cattura in una guerra giu- sta; e queste erano le condizioni, reali o supposte, che prevalevano nel- l'antica schiavitù. Ma quando la schiavitù divenne un traffico commerciale con unico scopo la mera voracità, essa violò ogni requisitu di moralità nei suoi oggetti, nel suo fine, e nelle circostanze, e fu essenzialmente sbagliata n (The Americnn Catholic Sociological Reuiew, October, 1944, p. 197). La

1 In a review of Madeleine Hooke Rice's American Catholic Opinion in the Savery Controversy ie is said: a Of course, slavery is not wrong when it is imposed a5 the punishment of cnme, or for a just debt, or as the consequence of capture in a just war; and these were the conditions, rea1 or supposed, which prevailed in ancient slavery. But when slavery became a commercialized traffic with sheer greed as the only purpose, it violated every requisite of morality in its object, in its end, and in the circumstances, and was essentially wrong r. (The American Catholic Sociological Reuiew, Octo- ber 1944, p. 197). The word uslavery~, in its proper institutional sense

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accettata o almeno tollerata finchè non venne infine proibita. Si trattava di un sistema primitivo basato sul principio dell'« occhio per occhio » e sul concetto della solidarietà di un gruppo nella colpa di ognuno dei suoi membri. Esso era dovuto ad uno sta- dio di struttura sociale relativo ad un tempo in cui non esisteva alcuna forza di polizia per garantire ordine e sicurezza, partico-

kings or judges. The tradition of family justice, established before the orga- nization of the Greek polis or the Roman res publica or the modern State, continued for centuries and was legally accepted or at least tolerated unti1 it was finally prohibited. I t was a primitive system, based on the premise of u an eye for an eye n and the notion of the solidarity of a group in the guilt of any of its members. I t was due to a state of social structure at a time when there was no police force to guarantee order and safety, particu-

parola u schiavitù n, nel suo significato più propriamente istituzionale, non dev'essere applicata alla punizione dei lavori forzati imposti ai criminali per - - un erio odo di tempo o a vita. Questa è una questione di sistema crimi- nale e non va confusa con la vera schiavitù connessa ad un sistema econo- mico. I figli dei prigionieri di guerra non furono mai considerati schiavi per nascita; né tali prigionieri furono mai venduti al mercato degli schiavi. La pratica di condannare i debitori alla u schiavitù n dev'essere considerata un abuso barbaro e illegittimo, assolutamente sproporzionato con ogni mi- sura di giustizia commutativa e ingiustificabile, come la pratica (che soprav- visse in Inghilterra fino al secolo scorso) di condannare a morte i ladri che avevano rubato anche pochi scellini, se appartenevano alle u classi basse n. La schiavitù u come conseguenza della cattura in una guerra giusta n

( e ciò includeva la deportazione, la schiavitù ereditaria e il traffico degli schiavi) non può essere giustificata moralmente, per quanto generale e normale possa essere stata la pratica nei sistemi sociali pre-cristiani e non- cristiani.

should not be applied to the punishment of forced labor imposed on crimi- nals for a period or for life. This is a question of criminal system and is not to be confused with genuine slavery as related to an economic system. The sons of prisoners of war were never considered slaves by birth; nor were such prisoners ever sold in the slave market. The practice of condemnig dehtors to u slavery I> should have been regarded as a barbarous and illegitima- te abuse, altogether out of proportion to any measure of commutative justice and unjustifiahle, like the practice (which survived in England well into the last century) of condemning to death thieves who had stolen hut a few shillings-povided they were of the a lower classes D. Slavery u as a conse- wenee of capture in a just war B (and this inclndes deportation, hereditary slavery and the traffic in slaves) cannot be jnstified morally, however genera1 the practice and however norma1 it may have been in pre-Christian or non- Christian systeme of society.

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larmente sulle strade di grande viabilità e nella campagna. Tale solidarietà dei gruppi familiari e la responsabilità collettiva per i delitti di ciascun loro membro, garantiva una certa sicurezza sociale, ma spesso portò alla punizione dell'innocente, alla for- mazione di gruppi odiantisi per generazione, e a terribili catene di violenze che potevano essere interrotte solo da un potere ec- clesiastico o politico più alto.

Ogni lettore dell'lnferno ricorderà il caso del cugino del fra- tello di Dante, Geri del Bello, la cui morte invendicata (per mano di Brodaio dei Sacchetti) lo tormentava anche nell'inferno.

« O duca mio, la violenta morte che non li è vendicata ancor 3, diss'io, (C per alcun che de l'onta sia consorte, fece lui disdegnoso; ond'el sen gio, senza parlarmi, sì com'io estimo ».

(Znf., XXIX, 31-35).

Senza andare tanto indietro, fino al tredicesimo o quattordi- cesimo secolo, si possono trovare casi simili nel secolo scorso in Corsica e altrove; e ciò malgrado le leggi, l'organizzazione del-

larly on the highwa~s and in the country. This solidarity of the family groups and the collettive responsibility for the crime of any of the members pro- vided a eertain social security, but often led to the ~unishment of the in- nocent, to group hatreds which continued for generations and to terrible chains of violence which could only be broken by some higher ecclesiastica1 or politica1 power.

Every reader of the Inferno will reca11 the case of the cousin of Dante's father, Geri del Bello, whose unavenged death (at the hand of Brodaio dei Sacchetti) rankled even in hell.

u O my Guide, his violent death, whose claim For vengeance is not yet fulfilled n, said I, u By any other sharer in his shame,

Made him indignant; and, as I suppose, He therefore went without a word to me (lnf., XXIX, 31 8.).

Without going as far back as the thirteenth or fourteenth century, one can find similar cases, as late as in the last century in Corsica and elsewhere; and that, in spite of the laws, the organization o£ the police and the severity

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la polizia e la severità delle sanzioni. Quarant'anni fa, il lavoro in campo sociologico mi portò ad incontrare persone che ave- vano esperienza del sistema della vendetta. Trovai in loro uno stato d'animo molto simile al complesso psicologico dei popoli primitivi, montanari e abitanti delle foreste. Essi ritenevano lo stato un intruso, un perturbatore delle leggi e degli interessi delle più piccole comunità familiari. Non potevano capire per- chè la vendetta familiare dovesse essere considerata dallo stato come un crimine e dalla chiesa come un peccato. Per essi e per i loro antenati era materia d i un diritto, e di un diritto che nes- sun potere poteva togliere loro. Nel fatto veniva considerato un disonore per chiunque ricorrere allo stato in caso di ingiustizia familiare.

Oggi, suppongo, tale psicologia primitiva non sopravvive più in Corsica, dove lo stato francese ha operato meraviglie nell'estir. pare la sferza. Qualche piccola traccia che può esserci nelle zo- ne di campagna si estinguerà ben presto. I racconti di vita corsa e sarda che dipingono questo tipo d i fatti e di sentire sociale costituiscono una sopravvivenza letteraria di un passato supe- rato. La vendetta appartiene, come la schiavitù, la feudale ser- vitù della gleba e la poligamia, ad un periodo passato della ci- viltà. Ciò che di esse rimane è un tronco senza terreno per le

of the sanctions. Forty years ago, sociological field work brought me face t0 face with persons who had experience of the vendetta system. I found in them a state of mind very like the psychologica! complex of primitive peoples, mountaineers and dwellers in forests. They thought of the State as an in- tmder, as a perturber of the laws and interests of the smaller family com- munities. They could not conceive why the family vendetta should be con- sidered by the State as a erime and by the Chu~ch as a sin. To them as to their forebears it was a matter of a right, and of a right that no power could take from them. In fact it was considered a dishonor for any one to have recourse to the State in a matter of family wrong.

Today, I suppose, such primitive psychology no longer survives in Cor- sica, where the French State has worked wonders in extirpating the scourge. What little trace there may he in the country districts is fast vanishing. The novels of Corsican and Sardinian life which portray this kind of social fact and feeling constitute a literary survival of a past that is (or is al i but) over. The vendetta belongs, like slavery, feudal serfdom and polygamy, to a pe- riod of civilization that is past. What remains of them is a trunk without

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radici o almeno, le vestigia di istituzioni sociali sono legate a tradizioni religiose, come nel caso degli intoccabili nell'India o della poligamia mussulmana o indù. Fin dove giunge il giudi- zio morale, esse sono state condannate una volta per tutte, mal- grado le sottili e graziose distinzioni che i teorici hanno talvolta escogitato per dar loro una sembianza di giustificazione etica.

La moralità della guerra

Il problema della moralità della guerra è ancora discusso, nella misura in cui la guerra non è stata definitivamente con- dannata, come le istituzioni finora menzionate, e nella misura in cui è materia di attualità anche troppo ovvia. Allo stato at- tuale delle cose, i moralisti giustificano ancora il ricorso alla guerra come almeno un estremo mezzo giuridico in difesa del diritto. I moralisti ammettono, di conseguenza, i l diritto, e sotto certe condizioni il dovere, di prendere le armi in difesa del pro- prio paese quando si ritiene di essere stati attaccati o in pericolo d i esserlo. Essi permettono inoltre la guerra in aiuto di paesi cui una nazione è legata da trattati di protezione o di alleanza, O anche da vincoli di amicizia.

soil for the roots - at most, vestigia1 social institutions linked to religious traditions, as in the case of the Untouchables in India or of Moslem or Hindu polygamy. As far as the ethical judgment goes, they have been con- demned once and for all, in spite of the subtleties and nice distinctions that theorists have sometimes excogitated in order to give them a semblance of ethical justification.

The Morality of War

The problem of the morality of war is still in debate, in so far as war has not been as definitely condemned as the institutions just mentioned; and in so far as it is a matter of al1 too obvious actuality. As things now are, the moralists still justify the appeal to war as at least an ultimate jundical means for the defense of right. Moralists admit, as a consequence, the right and, under certain conditions, the duty to take up arms in defense of one's coun- try when it is considered to have been attacked or to be in danger of attack. They further allow war in aid of countries to which a nation is bound by treaties of protection or alliance or even by the bonds of friendship.

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Per eliminare la guerra e le sue tragiche conseguenze, i mo- ralisti (e, sotto certe condizioni, papi e vescovi) si son dichiarati a favore di un certo tipo di organizzazione internazionale. PO- chissimi, tuttavia, hanno altrettanto insistito sul dovere morale che gli stati hanno di istituire tale organizzazione internazio- nale, obbligando gli stati ad una leale cooperazione e sottomis- sione giudiziale, fino al punto di abolire il diritto e l'uso della guerra (*). Per d i più, a dispetto di tutte le teorie etiche sul di- ritto di guerra, nel momento in cui una guerra viene dichiarata da un paese e accettata da un altro, da entrambe le parti si fan- no tentativi di trovare qualche giustificazione. In tali casi, l a teoria etica sembra abdicare al suo diritto di giudizio morale sotto la scusa di una « necessità vitale chiamata interesse na- zionale; o trova rifugio nella presunzione di comodo che una guerra dichiarata dall'autorità legittima dev'essere considerata giusta finchè il contrario non venga chiaramente stabilito. E si sostiene persino che i cittadini di un paese - « soggetti », come

To eliminate war and the tragic consequences o£ war, moralists (and, under certain conditions, Popes and bishops) have declared themselves in favor of some sort o£ international organization. Very few, however, have so far insisted that States have a mora1 duty to establish such an interna- tional organization, obliging the States to loyal cooperation and judicial submission, even to the point o£ abolishing the right and the use o£ war2. What is more, in spite o£ al1 the ethical theories about the right o£ war, the moment a war is declared by one country and accepted by another, at- tempts are made on one side and the other to find some justification. In such cases, ethical thrtory seems to abdicate its right to ethical judgment under the plea o£ a « vita1 necessity a called National Interest; or it takes refuge in the convenient presumption that a war declared by legitimate au-

(*) Vedere, in ogni caso, John Courtney Murray, S. J., « World Order and Moral Law n, in Thought, XIX (dicembre 1944), pp. 581-586. Pio XII dichiarò nel messaggio di Natale del 1449 che u bandire ... tutte le guerre di aggressione n è uno « dovere che non ammette dilazioni D.

a See, however, John Courtney Murray, S. J., r World Order and Moral Law W , THOUGHT, XIX (December, 1944), pp. 581-586. Pius XII declared in the Christmas Address o£ 1944 that r to ban ... al1 wars o£ aggression D is a a duty which brooks no delay D.

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vengono chiamati - non hanno un vero diritto di decidere sulla giustizia o ingiustizia dei fini di una guerra; così la reale possi- bilità di una « prova del contrario D - che dà un certo colore alla (C presunzione D di giustizia - viene esclusa. Si aggiunga a ciò i l fatto che ~ i ù comunemente non si ammette possa esistere un'autorità superiore allo stato, che ne limiti il diritto di guer- ra, nè che un'opinione ~ubb l i ca mondiale debba controllare e limitare la sovranità dei governi nazionali. La ragione data è che quando una guerra scoppia il ricorso finale è al prin- cipio Salus populi suprema lex. E così ne deriva che la guerra, sia di fatto che di diritto, viene posta al di là della possibilità d i ogni criterio di giustizia e di ogni controllo etico.

Un modo familiare di controbattere la tesi della eliminabi- lità della guerra è quello d i toglierla di mezzo con una sorta di teologico fin de non recevoir, dichiarando che la guerra è una tragica, ma inevitabile, conseguenza del peccato originale (*). L'errore di tale assunto, mi sembra, deriva da una mancata di-,

thonty is to be considered just unti1 the contrary is clearly established. I t is even maintained that the citizens of a country - u subjects n as they are called - have no rea1 right to decide on the justice or injustice o£ war aims; so that the very possibility of u proof to the contrary - Which gives some color to the a presumption n of justice - is taken away. Add tho this fact that most eommonly it is not admitted that State can have any superior authority limiting its right to war, nor that a world public opinion should contro1 and limit the sovereignty o£ national goverments. The reason given is that when a war breaks out the final appeal is to the principle, Salus po- puli suprema lex. And so it tums out that war, both in fact and law, is placed beyond the reach o£ any cnterion o£ justice and of any ethical con- trol.

A familiar mode o€ opposing the thesis of the eliminability of war is to rule i t out by a sort of theological fin de non recevoir, by declaring that war is a tragic, but inevitable, consequence of origina1 sin.3. The error in this assumption, so it seemes to me, spring from a lack o£ distinctiou bet-

(*) Questo modo di argomentare venne usato contro la tesi che ho ten- tato di difendere nel mio libro u La comunità internazionale e il diritto di guerra n, quando fu pubblicato per la prima volta a Londra nel 1928.

3 This mode of arguing was used against the thesis which I sought to defend in my work, The Internatiortal Community and the Right of War, when it was first published in London in 1928.

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stinzione tra i l fatto e il diritto. La questione non è se noi pos- siamo arrestare lo scoppio di questa o quella guerra quale fatto storico. La questione è se noi possiamo abolire la pretesa giu- ridica della guerra quale mezzo, approvato eticamente, per la composizione delle controversie fra gli stati. Nessun codice le- gale è riuscito ad abolire la bigamia, la schiavitù, la servitù del- la gleba e la vendetta come fatti possibili e concreti; ma ogni codice legale ha abolito la legittimità e la proprietà giuridica di tali cose. I1 problema adesso è se un codice d i diritto inter- nazionale possa o no abolire la legalità della guerra mettendola fuori legge quale mezzo per regolare l e controversie interna- zionali( *).

Per il momento, i l ~ r o b l e m a è di organizzazione socio-poli- tica. Ma appena la possibilità di eliminare la guerra passer-à dallo stadio di idealismo utopistico a quello d i realizzazione

ween fact and right. The question is not whether we can stop this or that war from hreaking out as a matter of historical fact. The question is whether we can abolish the juridical claim that war is an ethically approved means for the settlement of d i s~u tes that arise between States. No legal code has succeeded in abolishing bigamy, slavery, serfdom and the vendetta as possi- ble and concrete facts; but every legal code has abolished the legitimacy and juridical propriety of such things. The question is now whether or not a code of international law can abolish the legality of war hy outlawing i t au a means for the settlement of international disputes'.

For the moment, the problem is one of sociopolitica1 organization. But as soon as the possibility of eliminating war passes from the stage of utopian

(*) All'obiezione che le guerre degli antichi ebrei erano legittime e che u Dio voleva n le crociate, si deve rispondere che Mosè autorizzò la vendetta familiare (Numeri III), che la poligamia era accettata da Abramo, che la sehiavitù era in uso presso gli antichi ebrei. Se l'abolizione di tali pratiche non ha violentato la Sacra scrittura, lo stesso si può dire dell'abolizione della guerra.

4 To the ohjection tbat the wars of the ancient Hebrews were legitimate and that r God willedn the Cmsades, it must be answered that Moses autho- rized family vengeance (Numbers III), that polygamy was accepted by Abra- ham, that slavery was in u,w among the ancient Hebrews. If the abolition of such practices has done no violence to Holy Scripture, the same may he said of the abolition of war.

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pratica, il problema della guerra dovrà essere considerato nel- la sua essenza etica.

I1 principio etico connesso - valido ieri, oggi e domani, pri- ma dell'abolizione della guerra e dopo - può così essere for- mulato: « L a guerra è lecita se è necessaria; cessa di esser lecita nel momento in cui cessa la sua necessità ». Inutile dire che i l criterio di necessità si applica solo alle guerre « giuste D. Non vi può essere alcuna necessità di una guerra ingiusta, « p e r la con- traddizion che no1 consente D (Inf. XXNII, 120), come i l nero Cherubino dantesco diceva a proposito della soluzione di chi non si pente. Malgrado ciò, il criterio di necessità anche troppo spesso è stato applicato dai moralisti, in passato, a guerre com- battute per « restaurare l'onore offeso dei re, o per salvaguar- dare il diritto di successione dinastica, o per « rettificare D le frontiere nazionali. In tali casi, « la necessità » contava persino meno del (cr diritto patrimoniale » delle famiglie dominanti, sul quale allora si riteneva poggiasse persino il pubblico diritto dello stato.

Le cose peggiorarono quando le guerre vennero combattute sotto la bandiera ideologica della religione o della nazione. Tali « sacre » pretese venivano considerate dal popolo tali da trascen-

idealism to that of practical realization the problem of war will have to be considered in its ethical essence.

The ethical principle involved - valid yesterday, today and tomorrow, before the abolition of war and after it - may be formulated as follows: u War is licit if it is necessary; it ceases to be licit the moment its ne- cessity is over n. Needless io say, the criterion of neeessity applies only to « just n wars. There can be no necessity for an unjnst war, because - as Dante's dark Chemb put it in regard to absolution for the unrepentant - « a contradiction there consents not n (Znf., XXVII, 120). In spite of this, the criterion of neeessity was only too often applied by the moralists in the past to wars fought to u restore &e outraged honor n of kings, or to safeguard the right of dynastic succession, or to n rectify n national frontiers. In these instances, a necessity n counted even less than the a patrimonial right n of the mling families, for on this even the public right of the State was supposed to rest.

Things became worse when wars were waged under the ideologica1 ban- ner of religion or the nation. Snch « sacred n claims were considered by the

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dere le più basse categorie di giustizia e necessità. Nulla con- tava se non l'alta finalità di « Dio )) o della « patria ».

Oggi abbiamo raggiunto una fase nella storia del « diritto di guerra » in cui le « medievali » discussioni circa le a cause pro- porzionate » o il « grado di giustizia » o la « necessità » appaiono irrilevanti sia per gli aggressori sia per i popoli attaccati. I mo- ralisti che arguiscono sulle condizioni di una « guerra giusta n sono inascoltati. I1 risultato è stato che persino i cattolici sono stati inclini ad accettare uno di questi due tipi d i passività: o essi si riconciliano con i l concetto che. la guerra è semplicemente non controllabile eticamente - la posizione dell'abate J. Leclerq dell'università di Lovanio - o essi accettano l'estrema posizione passiva che nessuna guerra moderna può essere moralmente giu- stificata (per esempio, gli obiettori di coscienza cattolici).

La comunità internazionale organizzata

C'è mai, in verità, una qualche necessità d i guerra? Questa è la prima questione etica cui i moralisti devono cercar di ri- spondere. Una risposta è che le guerre sono necessarie per la semplice ragione che esistono (ed esisteranno sempre) nazioni

people involved to trascend the lower categories of justice or necessity. No- thing counted but the lofty finality of u God n or the u fatherland n.

Today we have reached a stage in the history of the u nght of war n when the a medieval n debates about u proportionate causes m or the degree of u justice n or of u necessity n seem irrelevant both for the aggressors and for the peoples attacked. Moralista who argue about the conditions of a u just war D go unheeded. The result has been that even Catholics have been inclined to accept one of two modes of passivity: either they reconcile them- selves to the notion that war is simply not ethicaliy controllable - the po- sition of Abbé J. Leclerq of the University of Louvain - or they accept the extreme passivist position that no modern war can be morally justified (for example, Catholic conscientious objectors).

The Organized Znternationai Community

1s there, in tmth, ever any necessity for war? This is the first ethical question that the moralist must seek to answer. One answer is that wars are necessary for the simple reason that there are (and always will be) aggressor

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che aggrediscono; che la legge naturale permette l'uso della forza per rispondere aUa forza (vim vi repellere); e perciò che contro una nazione che aggredisce e non accetterà nessun'altra soluzione, la guerra è inevitabile.

I1 covenant della' Società delle nazioni limita a quattro il numero dei casi in cui uno stato può giuridicamente esercitare il suo diritto di guerra quando tutti i metodi di riconciliazione sono falliti. La più recente Organizzazione internazionale gene- rale proposta alla conferenza di Dumbarton Oaks, ha dichiarato che nessuna guerra è legittima a meno che non sia dichiarata dal consiglio di sicurezza come misura giuridica o di polizia contro uno stato recalcitrante. I1 successo pratico di questa nuova legge internazionale rimane da provarsi. Ma dal punto d i vista del progresso morale del mondo, bisogna sottolineare che non può esservi nessun reale passo avanti verso l'eliminazione della guerra finchè tale abolizione è basata su una definizione etica ( e non meramente politica) di un paese aggressore.

In una comunità internazionale organizzata, uno stato aggres- sore dev'essere definito come uno che ricorre alle armi o si pre- para ad una guerra, sia pure per vendicare un diritto che è stato ingiustamente violato. I n una simile comunità, nessuno stato

nations; that the natura1 law allows the use of force to repel force (vim vi repellere); and, therefore, that against an aggressor nation that will accept no other solution war is inevitable.

The Corenant of the League o£ Nations limited to four the number of cases in which a State could juridically exercise its right to war when al1 other methods of reconciliation had failed. The more recent Genera1 Inter- national Organisation proposed at the Dumbarton Oaks Conferente reco- gnized no war as legitimate except that declared as a juridical or police measure by the Secunty Council against a recalcitrant State. The practical success of this new international law remains to be tested. But from the point o£ view o£ the mora1 progress of the world, i t must be pointed out that there can be no rea1 advance toward the elimination of the right of war unti1 this abolition is based on an ethical (and not merely a political) defi- nition of an aggressor nation.

I n an organized international community, an aggressor State must be defined as one that either has recourse to anns or prepares for a war, even to vindicate a right ahieh was unjustly violated. In such a community, no

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avrà più alcun diritto di prendere le armi per iniziativa propria, più di quanto un privato cittadino in una comunità nazionale possa prendere la legge nelle sue mani e, senza ricorrere ad un tribunale di giustizia, vendicare i suoi diritti o domandare ripa- razione per un'ingiuria o restituzione per danno che gli sia stato fatto. In una comunità internazionale, il singolo stato per aver giustizia deve ricorrere al consiglio di sicurezza o alla corte di giustizia internazionale.

La comunità internazionale è una società naturale ed ha al tempo stesso un'esistenza virtuale, per quanto imperfettamente possa essere organizzata. Non appena un certo numero di stati - non fa differenza se pochi o molti - si unisce insieme anche in un'organizzazione politica, i diritti e i doveri che sono ine- renti alla natura della società, ma che non potevano essere per- fettamente realizzati per mancanza di struttura sociale, divengo- no manifesti e si impongono alla coscienza morale. L'imperativo fondamentale del bene comune impone nuove limitazioni ai capi dei governi nazionali; e una di queste limitazioni è l'ina- bilità a vendicare i diritti nazionali con altri mezzi che non siano il ricorso al sistema giuridico-politico stabilito che ha preso dagli stati singoli l'iniziativa di guerra.

State will have any more right to take up arms of its own accord than a private citizen in a national community to take the law into his own hands and, without recourse to a tribuna1 o£ juetice to vindicate his own right or demand reparation for an injnry or restitution for damage that has heen done him. In an international community, the individua1 State must have recourse for justice or help to the Seeurity Council or to the Court of In- ternational Justice.

The International Community is a natura1 society and has at al1 times a virtual existence however imperfectly it may be organized. As soon as a num- ber o£ States - few or many makes no differente - unite toghether even in a politica1 organization, the rights and duties which are inherent in the nature o£ society, but which could not he perfectly realized for lack o£ social strutture, become manifested and impose themselves on the mora1 conscience. The fundamental imperative o£ the common good imposes new limitations on the Heads o£ national Governments; and one of these limi- tations is the inability to vindicate national rights hy any other means than recourse to the established juridicopolitical system which has taken from individual States the initiative in war.

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Una simile limitazione viene talvolta ritenuta incompatibile con la sovranità nazionale. L'argomento è basato sulla premessa che lo stato sia una « società perfetta 1) (per usare i l linguaggio della Scolastica) che non può accettare se non le auto-limi- tazioni dalle quali non può, e talvolta non deve, esimersi in ac- cordo con le esigenze dei suoi migliori interessi; e ciò senza al- cuna violazione dell'etica naturale o cristiana (*).

L'errore che vizia l'argomento è l'assunto che lo stato sia l'unica e necessaria società naturale; come se la stessa cosa non

Such a limitation, it is sometimes argued, is incompatible with national sovereignty. The argument is based on tbe premise that the State is a « perfect society n (to use the language of Scholasticism) that can accept none but the selfimposed limitations from which it may, and sometimes must, withdraw according to the dictates of its own best interests; and this, without any violiation of natural or Christian ethics.5

The error that vitiates the argument is the assumption that the State is the only natural and necessary society; as though the same were not true

(*) I1 concetto dello stato come di u società perfetta n non è assoluto; è relativo alle funzioni di una società rhe si suppone in grado, con i propri mezzi, di rispondere ad un fine specifico. Ma quando una società particolare non è in grado più a lungo di raggiungere questo fine specifico se non in collaborazione con altre società dello stesso genere, diventa un dovere colla- borare. E, di conseguenza, sorge una mutua interdipendenza, e diritti e do- veri vengono trasferiti ana nuova comunità. E' questo il caso dell'individuo che non può più a lungo, da solo, raggiungere il suo fine. Lo stesso accade con le famiglie, le città, le nazioni, gli stati moderni. La società che risulta dalla collaborazione realizza il fine del singoli membri, ma al tempo stesso li trascende nel nome del bene comune.

The concept of the State as a « perfect society D is not absolute; it is relative to the functions of a society wbich is supposed to be able, by its own means, to aehieve a specific end. But when a particular society is no longer able to attain this specific end except in collaboration with other societies of the same kind, it becomes a duty to collaborate. And, consequen- tly, there arises a mutua1 interdependence, and nghts and duties are shifted to the new community. This in the case of the individual who can no longer, by himself, achieve his end. It is the same with families, with cities, with nations. with modern States. The society resulting from colla- boration realizes the purposes of individual members but at the same time, transcends them in the name of the common good.

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fosse vera della comunità internazionale, semplicemente perchè si suppone che quella sia una società puramente volontaria. Bi- sogna ricordare - ciò che troppo spesso viene dimenticato da coloro che fanno tale asserzione - che vi sono stati periodi nella storia della nostra civiltà in cui non vi erano stati (nel si- gnificato moderno del termine), e che le città centri del potere politico furono più tardi unificate in territori più vasti da re O

principi che governavano su federazioni o regni dinastici aventi in comune ben poco oltre i l legame di fedeltà allo stesso signore. Se si ricorda i l periodo patriarcale, appare evidente che i l co* sidetto potere (C politico » può esistere, attualmente o virtual- mente, in gruppi sociali diversi dallo stato moderno. O se si pensa ai vasti imperi del passato che includevano molti sudditi ma regni separati (o persino esempi moderni), dovrebbe esser chiaro che il potere politico si è espresso in vari modi e con diversi gradi di responsabilità.

La radice della questione è che esiste in natura e in accordo con la natura una comunità internazionale, e che tale comunità, sia pure potenzialmente e per tentativi, è sempre esistita, anche se a volte si è presentata nelle vesti del potere egemonico (come nel caso del171mpero romano) o dell'autorità teocratica (come

o£ the international community, merely because it is supposed to be a pu- rely voluntary society. It must be remembered - what it too often forgotten by those who make this assumption - that there have been periods in the history of uur civilization when there were no States (in the modern seme of the word)), and that the cities which were centers of politica1 power were later unified into larger temtories by kings or princes who mled over fede- rations or dynastic kingdoms with little in common beyond the bond uf allegiance to the same lord. I£ one but recalls the patriarchal period, or the periods of family and tribal mle, it becomes obvious that the so-called u po- litical n power can exist, actually or virtualiy, in other social groups than the modem State. Or if one thinks o£ the vast empires in the past which have included many subject but separate kingdoms (or even o£ modern instances) it should be clear that politica1 power has been vested in various manners and with varying degrees o£ responsability.

The root o£ the matter is that there exists in nature and according to nature an intemational community, and that such a community, however po- tentiaily, imperfectly and tentatively, has always existed, even though at ti- mes it has been clothed in the dress o£ hegemonic power (as in the case O£ the

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nel caso del Sacro romano impero o Cristianità, o della Padisha per i Maomettani, o degli Imperi dei Figli del Cielo o del Sole per i Cinesi o Giapponesi). Se in passato vi sono stati molti centri d i unificazione internazionale invece che uno solo, ciò era una conseguenza di due semplici fatti: primo, la mancanza d i unificazione geografica - la razza umana non si conosceva tutta intera poichè le comunicazioni fra i vari continenti erano scarse e difficili; secondo, le differenze religiose, in un tempo in cui la comune sudditanza dipendeva largamente dall'unità della fede, e in cui gli stessi cristiani potevano essere divisi, co- me erano, in chiese occidentali e orientali.

Ma oggi, che i moderni modi di pensare lianno allargato la separazione tra vita politica e religiosa, mentre al tempo stesso le comunicazioni intercontinentali sono divenute più frequenti, meno difficili, e, per via aerea, estremamente rapide, la possi- bilità di una unificazione universale è diventata sempre più una realtà. Oggi, sotto la pressione dei tragici avvenimenti di due guerre mondiali, sta cominciando un fatto compiuto.

Non c'è da meravigliarsi che il lavoro relativo al mettere in piedi un'arganizzazione internazionale sia stato più lungo e più difficoltoso che nel caso delle organizzazioni nazionali. Ogni

Roman Empire) or o£ theocratic authority (as in the case of the Holy Roman Empire or Christendom, or of the Padisba for the Mohammedans, or of the Empires of the Sons of Heaven or of the Sun for the Chinese or Japanese). If there have been in the past severa1 centers of international unification rather than a single one, that was a consequence O£ two simple facts: first, the lack of peographic unification - the uman race did not know itself fully because communications between the various continents were few and diflicult; second, religiouo differences at a time when common allegiance depended largely on nnity of belief, and when Christians themselves could be as divided as they were into Eastern and Western Churches.

But now that modem ways of thinking have widened the separation between political and religious life while, at the same time, intercontinental communication has become more frequent, less difficult and, in the air, extremely rapid, the possibility of ecumenical unification has become more and more a reality. Today, under pressure of the tragic events of two world wars, i t i s becoming a foit aecompli.

I t is not surprisinp that the travail involved in bringing an international organizatiou to hirth has hcen longer and more painful than in the case

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qual volta nuclei locali sono stati chiamati a cedere una parte dei loro diritti ad un più alto ordine sociale, noi rileviamo quelle forti tensioni storiche che sono state quasi sempre accompagnate da rivoluzioni o guerre. In ogni caso si trattava d i togliere ai gruppi più piccoli il loro diritto di usare la forza e d i subordi- narlo ad una legge più vasta. Gli stati moderni, per il loro stesso bene e per il bene de117umanità, devono attendersi di pas- sare (come fecero le libere città nel medioevo) attraverso que- sto stadio di tensione, che si concluderà in una limitazione dei loro diritti sovrani.

Questo fatto di organizzare uno sforzo è al tempo stesso un fatto etico, dal momento che nessuna organizzazione può essere basata meramente sulla forza. Un covenant d i nazioni può esser nato da un atto iniziale che è volontario; ma i l permanere del covenant diventa un obbligo. È questo i l caso degli Stati Uniti. I tredici stati si unirono liberamente; la loro unione risultò un bene comune; il ritrarsi da117unione sarebbe stato un attentato al bene comune, per cui sorse. il diritto dell'unione di preve- nire, anche con la forza, la secessione di qualunque stato. Non vi è ragione che, domani, l'organizzazione internazionale non possa raggiungere tale stadio, in cui la necessità politica e la

of national organizations. Whenever local nuclei have been called upon to yield to a higher social order a part of their rights, we witness those great histo- rical tensions which have nearly always been accompanied by revolutions o r wars. In every case i t was a question o£ dispossessing smaller groups of their right to the use o£ force and of subordinating them to a more em- bracing law. Modem States, £or their own good and £or the good o£ huma- nity, must expect to pass (as did the free Cities in the Middle Ages) through this stage o£ tension, ending in a limitation of their rights of sovereignty.

This fact o£ organizing effort is, at the same time, an ethical fact, since no organization can be based merely on force. A Covenant o£ nations may be born of an initial act that is voluntary; but the permanence of the Co- venant becomes an obligation. This was case with the United States. The thirteen States come together freely; their union resulted in a com- mon good; withdrawal from the union would be a blow to that common good, hence arose the right of the Union to prevent, even by force, the secession o£ any o£ the States. There is no reason why, tomorrow, the inter- national organization may not reaeh this stage, in which politica1 necessity

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proprietà etica coincideranno nel rendere obbligatoria l'appar- tenenza alla comunità internazionale (*).

La necessità di guerra continuerà ad esistere finchè non vi sarà un potere al d i sopra delle volontà dei singoli stati, e con i mezzi di guerra a sua disposizione. Ma una volta che una co- munit,à internazionale potrà essere organizzata al punto di avere sufficiente potere per controllare i singoli stati e per regolare, con appropriati organi internazionali, le controversie insorgenti, allora la guerra cesserà di essere necessaria. In quel momento cesserà di essere legittima. Nel caso di uno stato che usi le armi

and ethical propriety will coincide in making membership in the Intema- tional Community a matter o£ obligation 6.

The necessity o€ war will continue to exist, so long as there is no power above the wills of individual States having the means o£ war at their dispo- sal. But once an intemational community can be organized to the point of sufficient power to contro1 individual States and to settle, with appropria- te international organs, the disputes that anse, then war wiil cease to be necessary. In that moment they will cease to be legitimate. If the case should anse of a State using arms to safeguard its rights, in spite of the obligations it has assumed, then that State will not only have violated a covenant of the

(*) Vi sono coloro che dicono di temere che la comunità internazionale organizzata possa attribuire ai suoi capi tanto potere da costituire una mi- naccia alla vita dei singoli stati. E' naturalmente doveroso prevedere una simile possibilità e prevenirne la realizzazione, ma per oggi è sufficiente denunciare il male. L'umanità ha sofferto per periodi di tirannia e periodi di guerra; ma nessuna esperienza storica ha eguagliato la tragedia della presente guerra. La ricerca di un nuovo ordine basato su principi morali è non solo un dovere ma una necessita. Una comunità internazionale deve aspettarsi alti e bassi, come era il caso degli stati moderni che videro due guerre mondiali nel periodo della loro sovranità individuale assoluta.

6 There are some who profess to fear that the Organized Intemational Community may attribute to its Heads so much power as to constitute a me- nate to the life of the individual States. It is, of course, a duty to foresee such a possibility and foresta11 its realization-but sufficient £or the day is the evi1 thereof. Mankind has suffered from periods of tyranny and periods o£ war; but no historical expenence has equalied the tragedy of the present war. The search for a new order based on mora1 principles is not only a duty but a necessity. An international Community must expect its ups and downs, as was the case with the modem States which saw two world wars in the eri od of their absolute individual sovereignty.

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per salvaguardare i suoi diritti, malgrado gli obblighi che si è assunto, esso non soltanto violerà un accordo della comunità in- ternazionale, ma userà di un mezzo illegittimo e perciò - poi- chè non più necessario - immorale. È vero che tale stato può dover accettare una decisione internazionale che può non essere giusta. Ma cosa prova ciò? Forse che i cittadini degli stati na- zionali non hanno troppo spesso dovuto accettare decisioni in- giuste? Nessuno ammetterebbe che tali cittadini oppressi abbiano i l diritto d i attaccare il giudice o di uccidere il querelante cEe ha vinto la causa. I1 bene comune'nazionale richiede che per- sino una ingiusta sentenza (contro cui non possa ricorrersi in appello) debba essere sopportata piuttosto che rovesciare il si- stema giudiziario. Allo stesso modo, i l bene comune internazio- nale richiederà che uno stato (anche quando venga trattato in- giustamente) accetti la decisione piuttosto che scatenare una guerra per vendicarsi. Ma del resto, anche nella situazione pre- sente, non deve lo sconfitto in una guerra, persino se la giustizia è dalla sua parte, accettare abbastanza spesso una resa incondi- zionata? Cos'è se non orgoglio ed egoismo che ci rendono più disposti ad accettare, sia pure a malincuore, l'arbitrio delle armi piuttosto che la sentenza di una corte?

Si fa talvolta una distinzione tra una guerra offensiva e una

International Community, but i t will have made use o£ an illegitimate and, therefore, - because no longer necessary - an immoral means. I t is true that such a State may have to accept an international decision that may not be just. But what does that prove? Do not the citizens o£ national Sta- tes have to accept only too often decisions that are not just? No one would allow that such aggrieved citizens have the ngh t to attack the judge or to kill the plaintiff who happens to have won the case. The national common good demands that even an unjust sentence (which cannot be appealed) must be suffered rather than have tbe judiciary system overthrown. In the same way, the intemational common good will demand o£ a State (even when treated unjustly) that i t abide by the decision rather than start a war t0 vindicate itself. But after all, even in the present anangernent, does not the loser in a war, even with justice on its side, have to accept often enough unconditional surrender? What is it but pnde and egoism that makes us more disposed to accept, however g ~ m b l i n d y , the arbitrament of arms than the sentence of a court?

A distinction is sometimes made between an offensive and a defensive

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guerra difensiva, come se la prima fosse immorale e non così la seconda. È difficile mantenere la distinzione. Molte guerre che sono tecnicamente offensive sono, in realtà, guerre di difesa preventiva; e altre, che sono in realtà difensive, sono state di fatto deliberatamente provocate per farle apparire offensive. I1 nostro scopo dev'essere la totale abolizione della guerra, non come materia di accordo politico, ma sulle basi della considera- zione morale che le guerre fra stati non sono più ( e non pos- sono più essere) necessarie, e che l ' i n t e ~ e n t o armato della co- munità internazionale non è altro che un atto di autorità, una misura di polizia, una giusta punizione verso uno stato ribelle colpevole di fellonia.

Ciò non vuol dire che, in caso di un'improvvisa aggressione armata, una nazione attaccata non possa difendersi con tutto il potere materiale a disposizione, mentre al tempo stesso si appella alla Lega ed è pronta a rimettersi alle sue decisioni. È questo i l caso del privato cittadino attaccato da un ladro. Egli cercherà di difendersi cum moderamine inculpatae tutelae - ma so10 in attesa dell'arrivo della polizia o della decisione di un giudice. Eticamente e giuridicamente, lo stato attaccato non accetta le tesi di guerra non più di quanto il cittadino offeso consideri il

war, as though the former were immoral, but not so the latter. I t is hard to maintain the distinction. Many a war that is technically offensive is, in rea- lity, a war of preventive defense; and others that are in reality defensive have been, in fact, deliberately provoked to make them seem offensive. Our aim must be the total abolition of war, not as a matter of political agree- ment, but on the basis of the ethical consideration that wars between Sta- tes are no longer (and can no longer be) necessary and that the armed in- tervention o£ the Intemational Community is no more than an act of auto- thority, a police measiire, a just punishment in regard to a rebellious State guilty of felony.

This is noi to say, that, in case of sudden armed aggression, an attacked nation may not defend itself with al1 the materia1 power at its disposal, so long as i t appeals at the same time to the League and is ready to abide by its decision. This is but the case of the private citizen attacked by a thief. He will try to defend himself cum moderamine inculpatae tutelae - but only pending the arriva1 of the police or the decision of a judge. Ethi- cally and juridically. the State attacked no more accepts the thesis o£ war

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successo o i l fallimento della sua autodifesa come prova dei suoi diritti.

I1 carattere etico di ogni atto dipende in parte dall'inten- zione. E ciò è vero di un atto che comporta la forza, sia nella difesa personale o nell'azione di polizia della società interna- zionale. In quest'ultimo caso, l'essenza della guerra (e perciò i l carattere etico della guerra) è assente, anche se tale azione di polizia può avere l'apparenza materiale di un lungo e san- guinoso conflitto.

Revisione dei concetti etici

Da quanto detto non ne consegue che i fatti sociali possono condizionare le nostre concezioni etiche al punto che quello che era legittimo ieri possa divenire illegittimo oggi. Solo una ana- lisi superficiale dei fatti può portare a questa conclusione. È una eccessiva semplificazione dire : a: Finchè durò la schiavitù, nes- suno la dichiarò illecita; ora che non è più d i moda, ognuno dice che è illecita ... Finchè la comunità internazionale era or- ganizzata autoritariamente, una guerra giusta era moralmente lecita; una volta che l'organizzazione sia completa - la Lega

than the outraged citizen looks upon the success or failure of his self- defense as declaratory of his rights.

The ethical character of any act depends partly on intention. And this is true of an act involving foree, whether in persona1 self-defense or in the policing of international society. In this latter case, the essence of war (and hence the ethical character of war) is absent even though such policing may have the materia1 appearance of a long and bloody conflict.

It does not follow from what has been said that social facts can so condition our ethical conceptions that what was legitimate yesterday may become illegitimate today. Only a superficial analysis of the facts could lead to this conclusion. It is an oversimplification to say: s So long as slavery lasted, no one declared it illicit; now that it is out of fashion, every one says it is illicit ... Unti1 the International Community was authoritatively or- ganized a just war morally licit; once the organization is complete - the League of Nations was merely an experiment - not even a war waged £or

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delle nazioni fu soltanto un esperimento - neanche una guerra scoppiata per un motivo giusto può essere lecita H. Parlare in tal modo significa dimenticare che sia i fatti storici sia le norme morali hanno un principio comune nella natura umana - co- scienza diretta, istintivamente o riflessivamente, dalla ragione. Nessun fatto storico è questione puramente esterna; i fatti hanno come loro terreno quell'elemento di razionalità che gli uomini, agendo e reagendo nel mondo esterno che l i circonda, hanno messo nei fatti come riflesso di quella coscienza che le loro azioni hanno attualizzato. L'azione umana non è cieca, ma ha una finalità. Anche quando gli uomini partono da asserzioni errate e sono mossi da passione, ciò che essi si propongono e ciò che essi raggiungono è per loro un bene. Non vi è atto umano senza un qualche bene in sè, sia pure mescolato con ciò che è cattivo e confuso con ciò che è male.

Non vi è nessun uomo in astratto che agisca con questo o quel particolare fine in vista; vi è un concreto individuo guidato dalla ragione umana. E un simile uomo agisce eticamente siano i suoi fini economici, artistici, culturali, ricreativi o no. L'etica stimola, si deve dire, la semplice ragione morale nell'azione, è inerente in ogni comportamento umano e si rivela in ogni fatto sociale. Se il fatto sociale nasce da azioni cattive (miste, natural-

a just motive can be licit n. To speak in this way is to forget that both historical facts and moral mles have a common principle in human na- ture - conscience directed, instinctively or reflectively, by reason. No histoncal fact is a purely external matter; facts have their soul that element of rationality which men, acting and reacting in the external world that surrounds them, have put into the facts as a reflection of that conscience which their actions have actualized. Human action is not blind. It has a finality. Even when men start from wrong assumptions and are moved by passion, what they aim at and what they achieve is for them a good. There is no human act without some good in it, however mixed with what is bad and muddled by what is evil.

It is not man in the abstract that acts with this or that particular end in view; it is a concrete individua1 guided by human reason. And such a man acts ethically whether his purposes are economic, political, artistic, cul- tural, recreational or what not. The ethical urge, that is to say, simple mo- ral reason in action, is inherent in al1 human behavior and is revealed in every social fact. I£ the social fact arises from bad actions (mixed, o£ course,

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mente, con le buone), esso richiede una analisi che renda cib evidente.

Ciò che chiamiamo legge morale è una norma razionale de- rivata attraverso l'esperienza dai fenomeni sociali, dai fatti; e, allo stesso modo, i fatti sono la concretizzazione dell'umana ra- zionalità impregnata da valori etici e dalla legge morale. Sfor- tunatamente l'uomo non è infallibile; egli commette errori sia d i fine che d i azione; e perciò la realtà esterna e le norme etiche non coincidono mai perfettamente con ciò che è razionale, e hanno sempre bisogno di correzione per rimettersi in linea con la legge razionale morale.

Si può obiettare che con la rivelazione divina in generale, e con la rivelazione cristiana in particolare, la ragione umana è stata così illuminata che tali errori e deviazioni non dovreb- bero essere possibili. E, di fatto, la guida perenne della chiesa, provvista com'è d i infallibilità in materia d i fede e d i morale, elimina tali errori e rettifica tali deviazioni. L'influenza della cristianità sulla vita sociale è stata immensa. Rimane tuttavia il fatto che la maggioranza degli uomini non è ancora cristiana e che i cristiani stessi non sono tutti nel gregge della chiesa, e molti che sono cristiani di nome hanno perduto la fede e ab- bandonato la morale evangelica, e persino coloro che vogliono

with good ones), i t merely requires analysis to make this evident. What we eall moral law is a rational norm derived by experience from

social ~henomena , from facts; and, i n the same way, the facts are the con- cretization of human rationality impregnated with ethical values, with mo- ral law. Unfortunately man is not infallible; he makes mistakes both of aim and of action; and hence the extemal reality and the ethical norms

. never coincide perfectly with what is rational, and are always i n need of adjustment to bring them into line with rational moral law.

I t may be objected that with Divine Revelation in genera], and with the Christian Revelation in particular, human reason has been so illu- minated that auch errors and deviations should be impossibile. And, i n fact, the perennial p idance of the Church, endowed as i t is with infallibility in mat- ters of faith and morals, does eliminate such errors and does rectify such deviations. The inflnence of Christianity on social life has been immense. Yet the facts remain that the majority of men are not yet Christian and the Christians themselves s r e not al1 within the sheepfold of the Church, and many who are Christians in name have lost their faith and abandoned evange- lical morals, and even those who want to live as Chriotians find that passions

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vivere come cristiani trovano che le passioni e gli interessi mon- dani influenzano i loro ideali teorici e la loro condotta. Perciò ne consegue che i fatti sociali hanno più l'impronta dello spi- rito mondano che dello spirito di Cristo. I1 risultato è che vi è sempre necessità d i rivedere le re valenti concezioni etiche, per riportarle alla conformità con la ragione umana o, ancora me- glio, con la ragione umana illuminata dalla fede; di rimaneg- giare le istituzioni sociali alla luce degli sviluppi sociali per trovare in esse le mancanze e correggere ogni risultato deficita- rio sugli individui o sulla società nel suo insieme.

Rimarrà ancora, tra l'ideale etico astratto e interiore e la realizzazione sociale esteriore, un divario che non viene mai, nè mai può essere, colmato. Coloro che pianificano una nuova città possono avere eccellenti piani, ma se non hanno pietre devono costruire con mattoni e legno; e se non è disponibile legno di quercia, devono accontentarsi d i legno di abete; e se è troppo lungo costruire case, devono erigere baracche. Così avviene per l'ordine sociale. Quando gli esploratori e i coloni in America e nel Canada si trovarono di fronte una popolazione di nativi diffi- dente e ostile, essi furono obbligati, anche contro la loro volontà, a difendersi con le armi. Sfortunatamente i l confine tra la difesa

and worldly interests influence their theoretical ideals and their conduct. And hence it follows that social facts are more stamped with the spirit o£ the world than with the spirit o£ Christ. The resylt is that there is always need to revise the prevailing ethical conceptions, to bring them into conformity with human reason or, still better. with human reason illumi- ned by Faith; to refashion social institutions in the light of social deve. lopments to fill in what is lacking and to correct any harmful results pn in- dividuals or on society as a whole.

There will still remain, between the ethical idea1 which is abstract and interior and the social realization which is extemal, a gap that is never, and never can be, filled. Those who plan a new city may have excellent blueprints, but if they have no stone they must build with brick and wood; and i£ oak is not available, they must be content with pine; and i£ houses would take too long to build they must put up sheds. So it is with the social order. When the explorers and settlers in America and Canada were faced by a diffident and hostile native population they were obliged, even against their will, to defend themselves with arms. Unfortunately the line between defense and attack is often very thin. Even Christian soldiers can

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e l'attacco è spesso molto sottile. Anche i soldati cristiani pos- sono facilmente esagerare i pericoli cui devono far fronte; e troppo facilmente si assume che l'attacco è la loro unica vera difesa. I primi Americani, spesso ritenuti più religiosi degli uo- mini di oggi, hanno molto da rispondere sotto questo aspetto.

C'è soprattutto da dire questo. Fra la concezione etica e la realizzazione sociale vi sarà sempre una distanza sufficiente per giustificare gli uomini nella revisione delle loro norme tradizio- nali e nel sognare ideali che in fondo possono essere realizzati solo parzialmente spingendo avanti le frontiere della riforma. E così avviene che, per quanto povera e imperfetta possa appa- rire una situazione dopo che un progresso è stato fatto, essa era al- meno buona nella misura in cui era un mezzo per qualcosa d i meglio, la materia prima di una riforma.

L'immutabile legge dell'amore

Una difficoltà si è senza dubbio affacciata alle menti di molti che hanno letto fin qui. Abituati come sono a pensare alle norme etiche come fissate e inaccessibili al dinamismo dello sviluppo sociale, essi possono essersi chiesti come l'etica possa divenire la regola di condotta se le sue direzioni sono così indefinite. La

easily exaggerate the dangers they must face; and ali too easily assume that attack is their only rea1 defense. Early Americans, who are often thought to have been more religious than men today, have much to answer £or in this respect.

This much ean be said. Between ethical conception and social realiza- tion there will always be enough distance to justify men in revising their traditional norms and in dreaming o£ ideals that can be at least partially realized in pushing forward the frontiers of reform. And so it is that, ho- wever poor and imperfect a situation may seem, after progress has been made, it was at least good in so far as it was a means to something better, the raw materia1 of reform.

The Unchanging Law of Lore

A difficulty has no doubt occurred to the minds o£ many who have read so far. Accustomed as they are to think of ethical norms as fixed and impemious to the dynamism of social development they may have wonde- red how ethics can ever become the mle o£ conduct if its directions are so

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risposta non è difficile. Vi è un'ultima regola morale che è in- fallibile, perfetta e dentro di noi, la regola dell'amore scritta nella nostra natura e rivelata da Dio. « Se un uomo è senza amore n dice S. Giovanni resta nella morte ( I Giov. 3, 14).

Da questa regola primaria dobbiamo, naturalmente, dedurre le conseguenze pratiche. Le prime e più ovvie sono quelle che Mosè promulgò nei dieci comandamenti, ma che sono state sem- pre conosciute agli uomini, per quanto possano essere state molto « più onorate nella violazione, che nell'osservanza ». Altre appli- cazioni derivate dai comandamenti e basate sulla legge del- l'amore, sono lentamente cresciute sulla base delle due pietre miliari dell'esperienza sociale e della concezione etica. Nella corrente della chiarificazione morale che si muove progredendo, i l reale e l'ideale si sono purificati e plasmati l'un con l'altro, ma sempre entro gli argini delle limitazioni umane.

Una volta che la schiavitù aveva preso radice ed estensione, durante i l lungo e sconosciuto periodo preistorico, una spontanea e collettiva abolizione sarebbe stata umanamente impossibile senza un processo molto lungo e una crisi finale entro il sistema economico d i cui era parte. Naturalmente, persino in quel si- stema, i l precetto morale che regola le relazioni dei padroni e

indefinite. The answer is not difficult. There is one ultimate moral rule that is unfailing, infallible and within us, the mle o£ love wntten in our nature and revealed by God. u If a man is without love n, says St. John, a he holds fast by death n (,I John 3:14).

From this pnmary rule we must, of course, deduce tbe practical conse- quences. The first and most obvious are those which Moses promulgated in the Ten Commandments, but which have always been known to men, however much they may have been «more honored in the breach than the ob- servance n. Other application denved from the Commandments and based on the law of love, have been slàwly ground out by the two millstones of social experience and ethical conception. In the ouward-moving stream of moral clanfication, the real and the idea1 have rubbed and shaped one an- other, hut always within the banks of human limitations.

Once slavery had taken roots and spread, dunng the long and unk- nown prehistoric period, a spontaneous and collective abolition was humanly impossible without a lengthy process and a fina1 crisis within the economic system of which it was a part. Of couwe, even in that system the moral precept of love regulating the relations of masters and slaves was never

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degli schiavi non fu mai abrogato, e vi furono sempre padroni mossi da sentimenti umani al punto di liberare i loro schiavi; come pure fra gli schiavi, ve ne furono che pregarono i padroni di tenerli in schiavitù piuttosto che abbandonarli all'insicurezza d i una vita indipendente nell'organismo sociale di quei giorni. In una parola, se un individuo vuol essere moralmente buono, egli può esserlo quali che siano le condizioni sociali del suo tempo. E perciò l'etica concreta hic et nunc (come nelle Epi- stole di S. Pietro e S. Paolo) prescindeva dall'aspetto sociaIe della schiavitù e si limitava a prescrizioni di mutuo amore e ri- spetto, elevando le relazioni economiche e personali di padroni e servi (o schiavi) al livello spirituale della carità e della fra- tellanza cristiana, e risolvendo così le tensioni che potevano metterli in conflitto.

La fase finale della chiara prescrizione morale non è ancora stata raggiunta a proposito della guerra. Allo stato attuale delle cose, coloro che ancora continuano ad insistere sulla teoria della « guerra giusta » presentata sub specie aeternitatis e senza rife- rimento alla realtà contingente, rivelano una incomprensione della realtà storica e sociologica; ma lo stesso è vero di coloro che deridono le concezioni e criticar18 l'atteggiamento mentale della scolastica e dei suoi seguaci. Può essere che la teoria fosse

abrogated, and there were always masters who were moved by human feelings to liberate their slaves; just as among the slaves, there were some who beg- ged their masters to keep them in slavery rather than commit them to the insecurity o£ independent life in the social organism o€ those days. In a word, if an individua1 wants to be morally good, he can be so whatever the social conditions o£ his time. And so i t was that practical hic e: nunc ethics (as in the Epistels o£ St. Peter and St. Paul) prescinded from the social aspect o£ slavery and limited itsel£ to prescriptions o£ mutua1 love and respect, lifting the economic and persona1 relations o£ master and ser- vant (or slave) to the spiritual leve1 o£ charity and Christian brotherhood, and thus resolving the tensions that might have kept them in conflict.

The final phase o£ clear mora1 prescription has not yet been reached in regard to war. As things are now those who still continue to insist on the theory o£ the a just war n presented sub specie aeternitatis and without refe- rence to contingent reality betray an incomprehension o£ historical and so- ciological reality; but the same is true o£ those who scoff at the conceptions and criticize the menta1 attitude o£ the Scholastics and their followers. I t

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di fatto priva di potere nel prevenire guerre ingiuste o nel re- golare i limiti da osservarsi in una guerra giusta, per la sem- plice ragione che, una volta scoppiata una guerra, entrambi i contendenti si appellano alla giustizia delle loro rispettive cause, e entrambe le parti ricorrono ai metodi che sembrano condurre meglio alla vittoria, siano essi leciti o no. Tuttavia, la chiesa poteva usare la teoria per condannare le violazioni delle con- venzioni, ed era in grado attraverso i suoi vescovi e santi di esercitare una influenza mitigante sulle gelosie e sugli odi delle fazioni medievali e sulle controversie delle famiglie regnanti, in modo che le guerre venissero accorciate, la pace affrettata, e le miserie e devastazioni, della guerra certamente ridotte.

Oggi i l problema della guerra dev'essere presentato in t e r mini diversi. Si ha di mira l'abolizione legale e attuale della guerra. È a portata di mano un cambiamento in meglio; e sa- rebbe una disgrazia se i moralisti dovessero essere gli ultimi ad approvare le risoluzioni (*). Non è l'etica che muta, dal mo-

may be that the theory was powerless in fact to prevent unjust wars or to regulate the limits to be observed in a just war, for the simple reason that once a war has broken out both parties appeal to the justice of their respec- tive causes, and both sides have recourse to the methods which seem most conducive to victory, whether the methods are licit or not. Nevertheless, the Church could make use of the theory to condemn departures from the conventions, and she was able through her bishops and saints to exert a mitigating influence on the jealousies and hatreds of medieval factions and on the quarrels of reigning families, so that wars were shortened and peace was hastened and the miseries and devastations of war were certainly redu- ced.

Today the problem of war must be presented in different terms. The legel and actual abolition of war is now in sight. A change to something better is at hand; and it would be a misfortune if the moralist should be the last to approve the resol1itions7. It is not ethics that changes, since its fundamental motives are based on the unchanging principle o£ the love

(*) La dichiarazione dei vescovi americani del novembre 1944, è un do- cumento di primaria importanza che può essere paragonato solo alla lettera di Benedetto XV dell'agosto 1917. e alla allocuzione natalizia di Pio XII.

7 The Declaration o£ the American Bishops of November, 1944, is a document of the first importante that can only be compared with the letter of Benedict XV of August, 1917, and the Christmas declarations of Pius XII.

209 14. Srcazo - Del d l e t o d o Sociologico

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mento che i suoi motivi fondamentali sono basati sull'immuta- bile principio dell'amore d i Dio e del prossimo; è la situazione sociale che muta, e ciò soprattutto sotto l'influenza d i concezioni derivate dalla retta ragione, sia speculativa che pratica, e dalla filosofia cristiana della vita, anche quando essa non sia praticata perfettamente come si dovrebbe. Sono soltanto le applicazioni concrete dell'etica che devono seguire il movimento delle nuove forze sociali. Possiamo giustamente deplorare (e nel mio caso non sarebbe la prima volta) che i moralisti nel passato siano stati spesso così preoccupati dalle applicazioni private della legge morale alla coscienza individuale, da trascurare il Ioro pubblico rapporto con i problemi sociali (*). È soltanto a partire dalla pubblicazione della Rerum novarum (1891) che i moralisti hanno cominciato a dedicare una particolare attenzione ai pro- blemi etico-sociali dei lavoratori. Ed è solo nel nostro secolo che il problema della guerra è stato studiato ( e ciò da troppo pochi) nel contesto della vita internazionale, sebbene un primo passo fosse stato fatto in questa direzione con il Diritto di Natura di Taparelli (**).

of God and our neighbor; it is the social situation that changes, and that largely under the influence of conceptions that are derived from right reason, both speculative and practical, and from the Christian philosophy of live, even when it is not practiced as perfectly as it should be. It is only the practical applications of ethics that must keep pace with the movement of new social forces. We may justly complain (and in my case it would not be for the first time) that moralists in the past have often been so preoc- cupied with the private applications of the mora1 law to the individua1 con- science as to neglect their public relevance to social prohlems. It is only since the publication of Rerum Novarum (1891) that moralists have begun to devote special attention to the ethicosocial problems of the workers. And it is only in our own century that the problem of war has been studied (and that by too few) in the context of international life, although as far back as Taparelli's Diritto di Natura a first step was made in this direc- tion.

(*) Cfr. LUIGI STURU), i: Politique et Théologie morale n, in Nouvelle Recue Théolo~ique, Lovanio, settembre-ottobre 1938.

(**) Cfr. BRUNO DE SOWGE, u Taparelli et la théologie contemporaine W ,

in Bulletin de Littérature Ecclésiactique, Tolosa, ottobre-dicembre '40.

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I l ritmo del progresso

Si è così risposto alle obiezioni più ovvie. È ora tempo di mettere in evidenza, come conclusione di questo studio, l'esi- stenza di due tendenze, in ogni stadio della vita sociale, che possono essere chiamate rispettivamente la organizzativa » e la (C idealista 1) (o anche mistica - nel senso più largo della parola). La prima tende a conservare, la seconda a trasformare. Sia fra gli organizzatori conservatori che fra i riformatori idea- listici, vi sono sempre alcuni che son mossi da interessi perso- nali o da false concezioni; ma in entrambi si può egualmente trovare sempre una fondamentale guida etica che l i spinge nella direzione del bene comune.

I conservatori che vogliono lo status quo sono legittimamente timorosi che un cambiamento debba semplicemente rendere peg- giori le cose; i liberali sono onestamente convinti che il cam- biamento porterà ad un necessario miglioramento. Sia dietro i « reazionari n che dietro i « ribelli 1) non mancano ragionevoli motivi; ma poichè la dualità tende sempre, in una direzione o nell'altra, verso l'unificazione, in un periodo storico prevarrà l'organizzazione conservatrice, e in un altro la trasformazione idealistica. In un periodo i fatti sociali e le concezioni etiche

The Rhythm of Progress

The more obvious objections have thus been answered. I t is now time to emphasize, as a conclusion to this study, the esistente, in every stage of social life, of two tendencies which may be called respectively the u orga- nizatory D and the u idealistic n (or even a mystical D - in the wider sense of the word). The former tends to conserve; the latter to transform. Both among conservative organizers and idealistic reformers, there are always some who are moved by selfish interests or false conceptions; but equally in both there can always be found a fundamental ethical drive urging them in the direction of the common good.

The conservatives who want the status quo are legitimately fearful lest change should merely make things worse; the liberals are honestly con- vinced that change will etrect a needed improvement. There is no lack of reasonable motive behind both a reactionaries D and u rebels n. But be- cause duality always tends, either in one direction or the other, toward unification, at one period of history conservative organization will prevail and

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saranno in conflitto; in un altro tenderanno a coincidere. È ine- vitabile che in questo ritmo di mutuo contatto o conflitto deb- bano emergere quei « movimenti » decisivi che operano per il progresso de117umanità. È perchè tutte le situazioni sociali hanno un lato negativo e persino disgustoso, che i semi riformatori e mistici possono sempre trovare un terreno in cui svilupparsi e fiorire. In questi casi ciò che urge « eticamente » è la necessità della libertà, giustizia ed equità, per una mutua comprensione fra le classi e per la compassione per i meno dotati, per l'insi- stenza sui diritti delle minoranze religiose e razziali. La vita collettiva assume il ritmo del progresso, anche se la realizza- zione di tali ideali è resa difficile o impossibile dalla mancanza d i mezzi o dalla degenerazione degli ideali in esagerazioni uto- pistiche. Visionari e sognatori, inascoltate Cassandre e martiri di idee e d i fedi, giocano sempre un utile ruolo, poichè ciò che essi dicono e soffrono aiuta a creare un pathos, un atteggiamento recettivo nella coscienza collettiva, che tende ad innalzarla al disopra del fango della compiacenza e dell'accidia, a trasferirla dalla (C lettera » che uccide allo ((spirito » che vivifica.

Ma, dall'altro lato, è non meno necessario che la macchina sociale non venga rovesciata, che la società venga salvata dai

at another idealistic transformation. At one period social facts and ethi- cal conceptions will be in conflict; at another they will tend to coincide. It is inevitable that in this rhythm o£ mutual contact or conflict there should emerge those decisive u movements n that make for the progress of huma- nity. It is because ali social situations have a negative and even nasty side, that reforming and mystical seeds can always find a soil in which to hud and blossom. In these cases the u ethical* urge is the need for liberty, justice and equity, for mutual understanding between the classes and compassion for the underprivileged, for insistence on the rights o£ religious and racial minorities. Collective life takes on the rhythm o£ progress, even though the realization of such ideals is made difficult or impossible because means are lacking or because the ideals degenerate into utopian exaggerations. Visionanes and dreamers, unheeded Cassandras and martyrs of ideas and beliefs always play a usefd role, because what they say and sufler helps to create a phatos, a receptive mood, in the collective conscience, tending to lift it above the slough of complacence and sloth, to shift i t from the a letter r that kilis to the a spint n that quickens.

, But, on the other hand, it is no less necessary that the social machine

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continui turbamenti degli pseudomistici e dalle rivolte delle folle scontente. La trasformazione sociale dev'essere un processo graduale ~rofondamente radicato nella coscienza collettiva; in questo senso, anche i cosidetti « reazionari » possono adempiere la necessaria funzione etica di servire da freno e briglia ad un mondo « che muta », a patto soltanto che essi non cerchino di respingere ogni progresso sociale per mettere in sella un'etica senz'anima, formalistica, farisaica.

La genuina etica, basata sul fondamentale principio dell'a- more di Dio e del prossimo, con giustizia, equità e carità quali norme, non può essere rinchiusa e confinata in una cella di astra- zioni senza finestre che guardino sulla realtà sociale. Le conce- zioni etiche devono uscire all'aperto, e aiutare a foggiare la si- tuazione sociale, ad informarla con l'anima della razionalità umana e ad imprimervi, fin dove è possibile, il sigillo della fede soprannaturale.

(Thought, New York. marzo 1945).

should not he upset, that society should be saved from the perpetua1 per- turbations of pseudomystics and the revolts o£ discontented mobs. Social trans- formation should be a gradua1 process deeply rooted in the collective conscience. In this sense, even sosalled « reactionaries » can fulfill the ne- cessary ethical fuction of serving as a bit aud bridle to a « changingu world, provided only they do not try to rein back al1 social progress by putting a soulless, formalistic, Pharisaic ethic in the saddle.

Genuine ethics, based ou tbe fundamental principle o£ the love o£ God aud our neighbor, with justice, equity and charity as its norms, cannot be cribbed and confined in a cabin o£ ahstractions with no windows looking out on social reality. Ethical conceptions must get out into the open, and help to shape the social situation, to inform it with the soul of human rationality and to stamp it, wherever possible, with the seal of supernatural Faith.

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LA DUALITA' SOCIOLOGICA E LA « TERZA FORZA

In politica oggi si chiama terza forza » quel che un tempo si chiamava i l terzo partito, anche se i partiti erano piu di tre. La qualifica di u terzo » ha una sua « logica nel gioco politico: indica l'inserimento di una nuova forza nella normale posizione dei due partiti (o coalizione di partiti) che rappresentano i 'aue poli del potere e dell'opposizione.

La storia costituzionale moderna presenta una larga varietà d i orientamenti e raggruppamenti di partiti, specie nell'Europa continentale. Ma pur esistendo in paesi individualisti e poco gregari, come la Francia e l'Italia, un numero imprecisato di gruppi politici a carattere borghese, questi, e nell'apprezza- mento elettorale e nella funzionalità parlamentare, si coagulano dualizzandosi e fissando a larghi tratti l'orientamento nazionale e la maggioranza deliberante. La dualizzazione, sia pure debole e fluida, implicitamente arriva a realizzarsi; in caso contrario i l tormento politico può condurre a crisi di regime.

I1 parlamento italiano dal 1848 fino al trasformismo di De- pretis fu diviso in due partiti: destra e sinistra. Le. frazioni ideali o personali (repubblicani e radicali a sinistra, neo pe l f i e poi clerico-moderati a destra) formavano ali d i rinforzo ov- vero gruppi di dissenso o d i riorientamento; non potevano per deficenza ingenita essere qualificati come terza forza. La fase neo-guelfa e federalista dei cattolici del risorgimento non ebbe seguito; i clerico-moderati del periodo unitario formarono solo un'élite conciliatorista, mentre la massa dei cattolici dal 1870 in poi si astenne dal voto politico. Dall'altra parte, mazziniani e repubblicani, che tenevano alla pregiudiziale antimonarchica, si ridussero a pattuglia di punta.

La terza forza apparve in Italia tra la fine del secolo scorso e i primi anni di questo; furono i socialisti di Treves e Turati e degli altri condannati dai tribunali militari del 1898, nonché i democratici cristiani di don Davide Albertario (anche lui con- dannato come rivoluzionario) e di Romolo Murri e suoi seguaci.

Ma la democrazia cristiana non poté esprimersi politicamente

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per il non-expedit; Leone XIII aveva nel 1895 dichiarato che i l non-expedit importava l'obbligo dell'astensione (non expedit obligationem importat), e con l'enciclica Graves de commurU re lo stesso Leone XIII (1 gennaio 1901) vietava alle associazioni di democrazia cristiana ogni significato politico.

Anche il socialismo ebbe delle limitazioni per l'antinomia di un partito rivoluzionario che operava in sede parlamentare, pur avendo posto alla propria azione le pregiudiziali anti-mo. narchica e quella antiborghese della non collaborazione. La pri- ma fu fatta cadere nella speranza di un re « democratico » (Vit- torio Emanuele 111), ma la seconda rimase; fu la catena al piede che impedì i passi d i un possibilismo politico che concilia la fidu- cia degli avversari e dà vita a qualsiasi terza forza » operante in politica.

I cattolici, per le attenuazioni del non-expedit, inviarono dal 1904 al 1913 una pattuglia di deputati (circa venti) che tattica- niente fiancheggiarono i l governo. I1 primo a partecipare al ga- binetto di guerra fu Meda, con il consenso del gruppo, mentre i socialisti Bissolati e Bonomi nominati ministri erano usciti dal partito come eretici.

Fu nel gennaio 1919 che il partito popolare, accettando il terreno elettorale e costituzionale, si presentò al paese come terzo partito sotto l'insegna della libertà. Nell'ammettere a scelta la collaborazione con o la lotta ai liberali, il partito popolare evitò qualsiasi pregiudiziale, perfino quella della questione ro- mana (decisione del lo congresso di Bologna, giugno 1919). I1 malinteso fra i popolari e i liberali dei vari raggruppamenti non fu sopra i l programma; fu solo per la condizione di parità. Erano naturali tanto la richiesta dei popolari quanto il rifiuto dei liberali. Ma i popolari richiedevano la parità perché si sen- tivano terza forza, cioè partito che si inseriva fra i liberali di destra e di sinistra, e che tentava allo stesso tempo d i togliere ai socialisti quel carattere di opposizione parlamentare che di tanto in tanto assumevano, per obbligarli a scegliere o la colla- borazione o la rivoluzione.

I liberali, minati da un così potente rivale, prima tentarono di ridurne la potenzialità sciogliendo la camera e indicendo le elezioni generali (marzo-maggio 1921), mostrando così di voler

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far risolvere il contrasto dal paese, ma allo stesso tempo intro- ducendo il fascismo nel gioco parlamentare. Kon riuscito il ten- tativo, i liberali, o meglio la borghesia agraria e capitalista con la connivenza di capi liberali, favori la soluzione di forza del fascismo, troncando l'esperienza costituzionale italiana per cedere alla dittatura.

Le due principali esperienze inglesi della terza forza sono state molto interessanti, ma, per l'istinto tradizionalista d i quel popolo, non fecero uscire i l paese dal binario costituzionale.

Possiamo classificare come terzo partito della metà ottocento alla camera dei comuni, il gruppo irlandese, portato dal suo lea- der, Charles Stewart Parnell, a inserirsi fra maggioranza e oppo- sizione e a tenerne la bilancia nei momenti decisivi. Si trattava sempre di un piccolo gruppo, sostanzialmente dissidente dalla politica inglese, aspirante a dare all'Irlanda una propria per- sonalità politica.

I1 vero terzo partito, costituzionalmente parlando, è stato i l laburista. Dopo che le trade uniorw inglesi avevano sperimentato con qualche fortuna la politica ancora in uso in America, d i appoggiare i candidati dei due partiti creduti amici e di com- battere quelli creduti avversari, e dopo il piccolo e insignificante esperimento dei lib-lab (candidati operai portati dai liberali) fu deciso di presentare candidati propri in contestazione con i candidati dei due partiti principali. Così sorse nel 1906 il par- tito laburista e la camera dei comuni cominciò a pensare in tre modi.

Durante la prima guerra mondiale, anche in Inghilterra fu fatto il ministero di coalizione con l'entrata dei laburisti. Da allora Lloyd George fu il Depretis di Londra, che condusse il partito liberale ai compromessi e alle crisi. E mentre il partito laburista ebbe l'occasione di formare il gabinetto di minoranza e mostrare la sua capacità e volontà di governo, il partito libe- rale si spezzò in tre tronconi C fu eliminato dalla competizione fra maggioranza e opposizione.

Le elezioni del 1924 diedero la vittoria ai conservatori e

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l'opposizione ai laburisti. I1 partito liberale fu retrocesso al terzo posto. Lo sciopero generale del 1926 servì a far tentare una nuova coalizione a tre; ma MacDonald rimase isolato; la massa del partito laburista non vi aderì. La coalizione rimase in mano ai conservatori che da allora mantennero il governo fino a dopo la guerra.

Quando nel novembre 1924 presi contatto con i laburisti, che pur avendo lasciato il governo uscivano dalle elezioni raf- forzati, e chiesi delle loro speranze per l'avvenire, quasi tutti mi risposero che contavano di ottenere la maggioranza e di ri- tornare al governo del paese fra venti o venticinque anni.

Una prospettiva lontana, politicamente parlando, ma per un partito giovane era un fatto normale; i capi, gente flemma- tica e positiva, non se ne dolevano. anzi ritenevano assai utile una lunga esperienza quale partito di opposizione di Sua Mae- stà, che ha speciale rango e non poche responsabilità nella po- litica inglese.

Mi venne spontaneo il paragone tra la flemma dei socialisti inglesi e la fretta inconsiderata dei socialisti italiani che invece di attender il loro turno facevano i rivoluzionari di piazza; e intanto con lo sciopero del lo agosto 1922, avevano compromesso il loro avvenire e la vita del paese che presto cadde sotto la dittatura fascista.

La previsione dei laburisti del 1924 si avverò proprio dopo 20 anni; non credo che sia stata l'ultima guerra a precipitare gli eventi; il pendolo già si inchinava verso il laburismo fin dal ritiro di Baldwin e la successione di Neville Chamberlain. Dato il sistema elettorale inglese, bastano due o trecento mila voti a far cadere la bilancia da destra a sinistra o viceversa. I1 terzo partito (il liberale), pur ottenendo quattro o cinque milioni di voti in tutte le tre elezioni dal 1926 al 1945, non occupa che circa trenta seggi dei seicento e più della House o£ Commons.

Negli Stati Uniti di America il gioco dei due grossi partiti, simboleggiati umoristicamente dall'elefante (il repubblicano) e dall'asino (il democratico), resiste integro fin dall'indipendenza.

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L'inserzione d i una terza forza non è mai riuscita a spostare l'alternanza dei due al potere, perché le forze centripete si sono sempre inserite nei due partiti sia per affinità di interessi sia per assorbimento elettorale, mentre le forze centrifughe sono state sempre impari a divenire quel che si dice « terza forza r>

nel senso politico ed elettorale della parola. Né il partito socia- lista, né le correnti « liberali » (specie di radicalismo laico fino a ieri filocomunista) hanno mai fatto grande presa sull'elettore americano; essi restano solo ai margini della politica di alcuni stati. Questi gruppi possono influire in qualche circoscrizione elettorale o nelle elezioni locali; mancano di consensi generali.

L'americano ama la tradizione, sa che nei due partiti ci possono stare tutti i cittadini americani, quali ne siano la fede religiosa, l'ideologia politica (chi ne ha una) e gli interessi pre- valenti.

Le questioni che agitano l'opinione pubblica sono prese ad una ad una: l'isolazionismo o l'interventismo; i pregiudizi di razza per la popolazione di colore (specialmente per i negri), o i l new &al di Roosevelt; il piano Marshall o la legge antisin- dacale di Taft. L'elettore, alla vigilia delle elezioni, può dichia- rarsi (nelle primarie) repubblicano o democratico o di qual- siasi altro aggruppamento, senza che. ciò imponga un determi- nato impegno a votarne i candidati; così, pur seguendo un par- tito, sente di essere libero senza che nessuno lo molesti per questo. Fu dalle elezioni del 1944 che venne formato il comitato di azione politica del CIO, la potente confederazione sindacale degli operai dell'industria. E mentre 17American Federation of Labour (l'organizzazione più antica e tradizionalista) segue in- vece i l metodo di appoggiare i candidati dei due partiti o can- didati indipendenti che si impegnano a tutelare gli interessi delle unions (sindacati operai), la Politica1 Action Comittee of C I 0 influisce e sulla scelta dei candidati e sull'orientamento dei partiti e gnippi locali nella battaglia elettorale, obbligando così i grandi partiti o a fare i conti con esso o a spiegar^; -21rta- mente contro. Questa tattica ha dato la vittoria a Truman nelle elezioni del 1948 ed ha migliorato al senato le posizioni dei democratici.

Sembra fin'oggi che debba escludersi l'idea che la Politica1

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Action Committee possa o intenda trasformarsi in partito del lavoro o dei lavoratori o simili, non ostante che sia già una electoral machinery. Data la divisione operaia americana il par- tito del CI0 non potrebbe mai raggruppare tutti gli operai; perderebbe la presente posizione di premure group con effetti imponenti e in certi casi decisivi nella vita pubblica americana, per esporsi alla lotta aperta da parte dei due principali partiti.

I1 sistema americano, impemiato sopra un presidente che è allo stesso tempo capo del paese, capo del partito di maggioranza e capo del governo, non consentirebbe mai, salvo attraverso una grave crisi, che tutto cadesse nelle mani di un partito classista che potrebbe instaurare la dittatura del proletariato.

Non intendo fare una rassegna delle fasi politiche dei vari paesi europei dalle rivoluzioni liberali in poi. Anche in regimi autoritari, quali quelli degli imperi centrali e della Francia del- la restaurazione, la dualizzazione dei partiti o tendenze e la in- serzione di terze forze (celebre e quasi unico allora i l Centro germanico fondato da Windthorst) avveniva più o meno come nei paesi anglosassoni più liberi e meglio organizzati.

I1 piccolo Belgio in quasi 120 anni di vita ha una linea assai chiara. Prima le due correnti, liberale e cattolica, che coope- rano; poi si dualizzano in partiti a lotta aperta; il primo mag- gioranza, i l secondo opposizione. Dopo mezzo secolo si inver- tono le parti, i l partito cattolico maggioranza e governo, il libe- rale opposizione. Intanto sorge il partito operaio che prende colore socialista e si inserisce fra i due. Periodo bellicb 1914-1918, union sacrée dei tre partiti; dopo la guerra scissione dei cattolici in due ali: la conservatrice e la democristiana; rafforzamento dei socialisti che divengono il secondo partito e retrocessione dei liberali al terzo posto. Da qui tutte le difficoltà per governi mo- nocolori e per coalizioni effettive e stabili.

I n Olanda i cattolici, organizzatisi politicamente verso la fine del secolo scorso, presero subito il terzo posto; passarono quindi al secondo obbligando i partiti protestanti e conservatori ad al- learsi con loro o a combatterli sul terreno da essi scelto, mentre

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i socialisti passavano al posto di terzo partito. Le varie fasi di questo gioco di forze non escono dal quadro costituzionale.

La Francia dal 1871 ad oggi ha avuto una storia di partiti assai intrigata e movimentata, perché la maggioranza non poté eliminare da sé la tendenza monarchica che feriva la terza re- pubblica alla radice, con la doppia tattica della lotta parlamen- tare e del colpo di stato; e perché il partito socialista, che con- vogliò più tardi le classi operaie, si presentò non solo diviso e intimamente incoerente, ma. sciupò le sue possibilità con la pre- giudiziale antigovernativa e il doppio metodo della rivoluzione di piazza e della legalità parlamentare.

I n mezzo a queste due forze centrifughe si inserì la lotta an- ticlericale che fu un mezzo per tenere a freno i C monarchici » e per dare un diversivo alle masse. Funzionarono quindi da terza forza ora la destra reazionaria, ora la sinistra rivoluzio- naria, mentre il centro radicale e legalitario, frazionato in vari gruppi, si annodava e disnodava secondo le possibilità parla- mentari superando crisi e vincendo battaglie in nome della re- pubblica e della patria, i due simboli unificanti momentanea- mente la passionalità politica francese.

L'union sacrée della prima guerra mondiale servì a far ta- cere odi e divisioni che ripresero a guerra finita e a vittoria.ot- tenuta, spos tado il governo a sinistra e rinfocolando il nazio- nalismo di dentra. 11 piccolo gruppo democratico popolare non poté divenire terza forza, poiché molti cattolici andavano istin- tivamente verso la monarchica Action fravaise, che sembrava essere divenuta dopo la guerra la forza di attrazione della classe colta e della gioventù universitaria e che raccolse in sé tutto il disfattismo nazionalista divenuto mussoliniano e hitleriano. Tor- nò così a fermentare il mito del colpo di stato, mentre la bor- ghesia radicale e democratica non trovava in sé vigore di resi- stenza, pur tenendo il potere. I1 mito del colpo di stato fu rea- lizzato nel giorno della sconfitta da un maresciallo di Francia, Pétain.

* * *

Da questi brevi accenni, che potrebbero essere ampliati con moltissimi dati di fatto, risulta chiaro che un partito o un grup-

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po politico potrà esser considerato come terza forza solo quando possiede la potenzialit,à intrinseca e la volontà dei capi a dive- nire, al momento buono, (( partito di governo ,. Senza tale « po- tenzialità e tale C( volontà » accoppiate insieme e per costante sforzo di anni, una vera terza forza non si dà. Qualsiasi gruppo operante in politica resterà ai margini dei partiti dualizzan-

ti 1); solo potrà (se i fati saranno propizi) sedersi arbitro fra i due per quel periodo che l'attrito degli elementi in contrasto lo permetterà, come fece il gruppo irlandese alla camera dei CO- muni.

La conclusione ~ o t r e b b e apparire pragmatista se non venisse suffragata da una riprova più larga e logicamente più conclu- siva, che può aversi esaminandola al lume della teoria della dualizzazione delle forze sociali.

Qualsiasi dinamismo della societ,à, sia di piccoli nuclei sia di grandi agglomeramenti organizzati ad un fine comune, si espri- me e si sviluppa in forma dialettica positiva e negativa. Prevar- rà quella che fra persone ragionevoli e responsabili avrà la so- stanza o l'apparenza di ragionevolezza; o quella che fra gruppi di forze materiali avrà per sè la forza legale contro la forza ri- voluzionaria o viceversa; prevarrà il numero contro la qualità o la qualità contro il numero; ma non sarà possibile evitare, nel momento creativo e decisivo dell'atto sociale, la dualizza- zione delle volontà e la prevalenza dell'una sull'altra.

Pur restando per rigore di tema sul terreno politico, potre- mo dire lo stesso della attività della chiesa e degli enti locali, comuni, provincie, regioni, delle associazioni economiche, sin- dacali, culturali, sportive; in una parola di ogni attività umana fatta in forma associata, permanente o temporanea che sia.

Questa dualizzazione di forze si può esprimere in vari modi: iorza di conservazione contro forza di progresso; corrente or- ganizzatrice contro corrente misticizzante; posizione di riforma contro posizione d i conquista; classi chiuse contro classi aperte; interessi particolari contro interessi della collettività; classici- smo contro romanticismo ; accademia contro scapigliatura ; tra- dizionalismo contro modernismo, e così di seguito.

Oggi in politica abbiamo una dualizzazione che esaspera: forze dell'ordine contro rivoluzione; cristianesimo contro co-

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munismo; coalizione antibolscevica contro conformismo. Esa- spera perchè non soddisfa, perchè i termini dialettici della poli- tica sono soverchiati da termini dialettici più vasti: quello reli- gioso e quello internazionale.

Comunque sia, nessuno può negare la fondamentale dualiz- zazione sociologica che è alla base dell'attività degli uomini in comune. Tale dualizzazione ci presenta tre soluzioni: o la lotta dualistica o la diarchia delle forze o la inserzione della terza forza. La lotta dualistica spinge alla eliminazione dell'antago- nista. La parte vincitrice può non essere unanime proprio quan- do crede di aver raggiunto la unificazione delle forze (che è i l miraggio di tutti gli uomini, specie dei vincitori); altra dualiz- zazione presto o tardi si forma, che incanala i dissidenti e pre- para, sotto nome diverso ma con identici metodi, un'altra lotta.

Può avvenire invece per certi periodi, brevi o lunghi che siano, la stabilizzazione delle due forze antagoniste formanti così una specie di diarchia, che può dirsi la coesistenza di un ordine cui partecipano i due, pur continuando la lotta ideale intercalata da contrasti pratici. Di tipo C diarchico » è il siste- ma dei due partiti parlamentari a tipo anglosassone, che nelle due posizioni alternantesi di maggioranza-governo e di minoran- za-opposizione, accettano u sportivamente l'attesa della vitto- ria o della sconfitta con molti applausi e poche urla.

Più interessante è siaia ed è da due mila anni 1s diarchia chiesa-stato della quale mi sono occupato in un volume che ha avuto fortuna (*). L'accenno qui serve a far vedere che non si tratta di situazioni politiche o parlamentari, ma di legge storico- sociologica immanente alla natura della società (**).

Le forze diarchizzanti sono permanenti nella società, ma un particolare stato diarchico dura fino a che le posizioni storiche lo consentono. Si sa che la diarchia di due forze può risolversi in una caotica pluralità che poi si dialettizza di nuovo in due antagonisti, creando altro dualismo di lotta o altra diarchia di coesistenza.

(*) LUIGI STURZO, Church and Stote, London-New York, 1939; ed. italiana, Bologna 1958-59, vll. 2.

(") LEIGI STUUZO, Lo società, suo noturo e leggi, Bologna, 1960.

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Ma c'è un'altra forza nella società che si può chiamare forza di mediazione, perchè serve a mediare la lotta per una solu- zione diarchica, ovvero a eccitare un nuovo elemento di lotta che unendosi con una delle forze diarchizzate, rompa l'equili- brio e riporti la lotta sul proprio piano. Ed è questa terza forza che nei due casi può prendere il posto di uno dei diarchi owero può divenire l'antagonista che guadagni la vittoria o che subisca la sconfitta.

Accennai più sopra al « miraggio della unificazione ; ogni for- za dialettica, sia la positiva, sia la negativa, sia la mediatrice, tende a farsi centro di polarizzazione e ad unificare in sé le forze che non potrà eliminare dal gioco politico. L'aspirazione al potere, come unico decisivo incontrastato potere, è al fondo della tendenza all'unificazione. Ma, per fortuna degli uomini, l'unificazione vera e perfetta non si è mai data, nè si darà mai. La dualizzazione, la lotta dualistica, la diarchia, la mediazione della terza forza con questo o con altro ordine sono elementi costanti nella circolazione storica del processo umano (e).

I1 lettore non creda che attraverso lo schema della dualiz- zazione delle forze politiche abbia perduto di vista l'influsso delle attività marginali, e più che altro l'influsso delle idee orien- tatrici di coloro che se ne rendono assertori, propagatori e fe- condatori con gli scritti e con le opere.

L'influsso nella società della classe colta (nel senso largo della parola) è di regola superiore a quello dei partiti organiz- zati o delle fazioni combattenti; ma non è detto che i sin- goli uomini d i cultura non divengano anch'essi uomini di parte e anche uomini faziosi. Nel complesso essi partecipano, sia diret- tamente sia marginalmente, alla formazione della classe poli-

(*) Se per certe società primitive a forma patriarcale e a caste chiuse la dualizzazione delle forze avviene raramente, entrano come fattori distur- banti le gelosie di famiglia e di tribù, le disgregazioni operate da guerri- glieri e da criminali e molti altri fattori esterni che dànno la spinta alla dualizzazione e alla mediazione delle forze.

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tica, che mantiene in efficienza la complicata macchina statale e tutta la funzionalità delle istituzioni di un paese.

Ma anche la classe politica entra nel dinamismo sociale, sia subendone i l condizionamento sia cercando di superarlo, met- tendo altre condizioni al proprio operare.

Non si tratta di meccanismo sociale per forze deterministi- che, come potrà sembrare a chi guarda lo schema dialettico; si tratta di attività umana che è un prodotto di azione libera e allo stesso tempo limitata dal condizionamento fisico e storico che serve e da freno e da spinta. Chi agisce è l'uomo individuo, as- sociato ad altri uomini individui, tutti liberi e tutti condiziona- t i e condizionantisi a vicenda, sì che il fine voluto può anche sfuggire loro, pur avendone posti tutti i precedenti atti a con. seguirlo.

Forse antagoniste, forze marginali, forze decisive, sono il pro- dotto dell'agire umano in determinate condizioni; il loro dina- mismo, per quanto liberamente posto e seguendo le leggi della razionalità, si dibatte entro i limiti del condizionamento, sì da essere difficile prevederne lo sviluppo, pur conoscendone la dia- lettica dei valori.

La mancanza di visibilità del futuro è uno dei doni fatti al- l'uomo dalla Provvidenza, perchè non trovi nel successo la ra- gione della sua azione, sì bene nel valore razionale e morale delle premesse ad agire; nella bellezza dell'ideale anzichè nella sicurezza del guadagno; nella arditezza del rischio e nell'ap- prezzamento della responsabilità, anzichè nella soddisfazione del risultato.

Guadagno, successo, risultato sono i fini immediati dell'agi- re umano, individuale e sociale, al punto che il complesso qua- dro del dinamismo sociale non distoglie nessuno dall'azione che ciascuno reputa efficace ad attingere i fini voluti.

Onde, tornando all'aspetto politico dell'attività umna, non nolo nessuno dovrà sottovalutare i partiti piccoli e gli sforzi di dare ad essi vitalità ed avvenire, ma dovrà pensare che potrà venire per essi quel momento nel quale l'opinione pubblica o creda di ritrovare o ritrovi effettivamente se stessa e il suo orien- tamento. Potrà avvenire, ma non sempre avviene; nel 1945 il partito d'azione sembrò per l'Italia i l partito dell'avvenire; nel

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1946-47 sembrò venuta l'ora del qualunquismo. Se l'uno e l'al- tro caddero d i fronte al rafforzamento dei due partiti antago- nisti, i l comunismo e la democrazia cristiana, fu per quella po- larizzazione definitiva di lotta che, anche in regime proporzio= nalistico, non può mancare quando il paese è chiamato a sce- gliere e a decidersi.

L'attuale discussione sulla terza forza viene dalla naturale aspirazione dei gruppi minori a divenire fattori decisivi nel gio- co politico. Ciò non vuol dire che non contino; già contano per- chè esistono, perchè cooperano, perchè dissentono, perchè si rafforzano; conterebbero di più se sapessero limitare i dissensi interni dentro il proprio quadro organizzativo.

Quanto a divenire forza decisiva sul piano politico, a occhio nudo non sembra facile né vicino. L'ostacolo principale è dato dalla posizione rivoluzionaria in rapporto all'attuale ordina- mento politico da parte dei comunisti e loro alleati. Fino a che questi costituiscano un pericolo (reale o creduto tale), l'orien- tamento dualistico prevamà sopra ogni altro elemento di dis- senso e di disgregazione.

Se e in quanto i l pericolo bolscevico sarà creduto meno pres- sante o sarà superato, gli elementi centrifughi potranno avere maggiore sviluppo. Dico potranno, e non è detto che saranno solo i partiti di coalizione governativa, ma anche gli altri, che avranno il vantaggio di polarizzare i malcontenti del pubblico verso qualsiasi maggioranza e qualsiasi governo di coalizione.

In questa ipotesi, ammessa la precipitazione di elementi di- vergenti, le classi medie potranno riprendere la funzione poli- tica che è sembrato avessero perduto per l'accrescimento di poten. zialità dei partiti di massa. Dico « è sembrato » perchè in realtà non è stata perduta ma dispersa per effetto della « proletarizza- zione » di larghi strati delle classi medie, causata dalla guerra e dal prolungarsi degli effetti economici del dopoguerra.

I1 fenomeno meriterebbe uno studio a parte: ne fo cenno per chiarire il mio pensiero sulla terza forza.

La classe politica, o classe dirigente in senso stretto, è sem- pre una classe media; le masse proletarie non hanno parte di- rettiva in politica se non per la mediazione della classe politica.

1.5. Smizo - Del Metodo Sociolo~ice

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Nessuno affermerà mai che i Nenni e i, Togliatti e i Longo, i Basso, gli Scoccimarro, i Licausi appartengono alle masse pro- letarie come non vi appartengono i De Gasperi, i Piccioni, i Cap- pi, i Taviani, gli Scelba o i Segni. Del resto nel periodo pre-fa- scista Bissolati e Turati, Salvemini e Prampolini, Costa e De Felice erano anch'essi tipici rappresentanti delle classi medie italiane che si occupavano di problemi sociali dal punto di vi- sta socialista, come lo erano Mauri, Micheli, Murri, Meda, FU- schini, Donati, Ferrari, Mangano, Valente e molti altri che se ne occupavano dal punto di vista democratico cristiano.

E se per caso qualche operaio o contadino veniva eletto de- putato, come avvenne per Achille Grandi o Scotti e Salvadori, popolari, e per i Barberis e altri, socialisti, (oggi è lo stesso co- me nel primo dopo guerra) sono sempre elementi che rimangono ai margini della vita e della direttiva politica, tranne che per propria capacità arrivino a posti di responsabilità come Achille Grandi in Italia e più che altri come parecchi in America (ve- nuti su dal nulla) e come il ministro degli esteri Bevin in Inghil- terra. Costoro sono dei partecipanti alle classi medie con una piccola nota di inferiority complex che rimane come stigma e non fa loro superare l'ambiente in cui operano.

I1 processo evolutivo di imborghesimento (ben noto del re- sto in Russia ed anche in Italia per i neo-venuti del fascismo nella vita politica, Mussolini compreso) è lungo come è lungo il processo di elevazione « proletaria » delle stesse classi operaie

selezionate n.

I n America Iyunionismo ha formato un'élite dirigente di gran- de importanza e capacità ma non in un giorno, sì bene in mezzo secolo di lente conquiste, di graduale ascensione e di adatta- mento all'ambiente borghese-industriale del ceto padronale. Ta- le fenomeno si è sviluppato più facilmente in America perchè la cultura tecnica ha prevalso sulla cultura umanistica. Mentre in Europa (Inghilterra compresa) questo processo è ancora mol- to più lento perchè la parte proletaria e disoccupata è ancora prevalente e perchè l'operaio qualificato ha una certa gelosia e un tal qual disprezzo per la borghesia organizzatrice delle unioni e dei sindacati. In fondo, c'è nelle masse operaie europee 17inferiority complex del tradizionale rivoluzionarismo e quindi

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la difficoltà di un inquadramento stabile a lento processo evo- lutivo.

Comunque, l'elemento operaio e sindacale che a: arriva » è quello che avrà posti elevati, rimunerazioni discrete e speranza effettiva di miglioramento, sì da poter contare sopra una trasfor- mazione economica del complesso della vita. Cioè, un passaggio reale alle classi medie, pur appartenendo alle classi di lavoro manuale.

Nel passato e anche oggi nell'ambiente artigiano e agricolo di famiglie econome e risparmiatrici, i l passaggio alle classi medie avveniva e avviene a mezzo dei figli che vanno a scuola, che per via di stenti arrivano a prendere una professione ed entrano di di- ritto nell'ambiente dirigente, locale e nazionale, secondo I'inge- gno, i mezzi e l'occasione. Questo allargamento delle classi medie e di cultura ha avuto in Italia largo sbocco verso le classi impie- gatizie per un'elefantiasi burocratica che ne è stata causa ed effet- to allo stesso tempo.

La crisi delle valute e degli stipendi ha portato ad una rica- duta verso la proletarizzazione di coloro che non si sentivano più proletari, creandone una profonda insoddisfazione e determinando l'orientamento di molti delle classi medie verso il sindacalismo rivoluzionario e verso i partiti di massa.

Questi strati di nuovi arrivati fra le classi medie e di strati medi proletarizzati, pure essendo i più irrequieti non riescono ad influire politicamente nel paese, i primi per mancanza di cul- tura generale o umanistica, i secondi per mancanza di specializ- zazione tecnica ; sì che nel complesso, la tradizionale classe diri- gente, sia di destra che di sinistra, sia borghese di nascita o bor- ghese di formazione, è quella che nei paesi occidentali tiene il campo e impone le sue soluzioni. Ed è quella che ancora mantie- ne fede, con più o meno convinzione, ai valori tradizionali e agli ideali. sia pure generici, di libertà, tolleranza, ordine, religiosità, umanità.

Invece coloro che Dante chiamava: C la gente nuova » con l'aggiunta (C e i subiti guadagni », gli arricchiti di guerra, i paras- siti degli enti statali, i fortunati delle sfortune altrui, gli evasori delle tasse, non portano che lo spirito di rapina e alimentano dit- tature e rivoluzioni fatte a costo e con l'entusiasmo delle masse

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operaie e di coloro che per tutta la loro vita han sognato i l bene del popolo passando attraverso a un lago di sangue ».

Se è vero che la classe politica è un'élite che ne ha la tradi- zione, la cultura, le possibilità economiche e la realizzazione or- ganizzativa, cosa impedisce oggi in Italia che si esprima demo- socialista o demo-liberale o repubblicana-storica, invece che de- mocristiana? Un nulla: quel che si dice un nulla. Ma è questo nulla che manca ai dirigenti dei tre piccoli partiti e che si trova dal lato democristiano. La fiducia in se stessi e la convinzione di poter rispondere al bisogno che ha l'Italia di sicurezza.

La democrazia cristiana questa fiducia l'ha; sono fuori tono coloro che rimproverano ai capi democristiani di averla e che si scandalizzano se dichiara di esser pronta a governare da sola, se ciò sarà necessario. Se dovessi essere io a decidere non ci perde- rei tempo, non perchè non riconosca l'attuale utilità della colla- borazione a quattro, ma perchè reputo più vantaggioso per il pae- se un governo a tipo unico controllato da una opposizione legale, anzichè un governo di coalizione controllato da una opposizione rivoluzionaria.

Con l'opposizione legale, maggioranza e governo dovranno di- scutere; con la rivoluzionaria si fanno discorsi pregiudizialmen- te inaccettabili e inaccettati, escludendo così a priori la coopera- zione e i l controllo.

A lungo andare ogni governo si sciupa e ogni opposizione si valorizza; la dualizzazione avvenuta sopra un terreno costituzio- nale crea la possibilità di riorientamento del paese e d i avvicen- damento di partiti senza che il paese ne sia turbato perché l'ele- mento rivoluzionario, nei due casi, rimarrebbe controllato e isolato.

Purtroppo, dato i l virlu rivoluzionario innestato nelle carni dell'estrema socialista e data la vecchia malattia di tutti i socia- listi passati e presenti d i dividersi e suddividersi su questioni di tendenza, d i programma, di metodo e di tattica, non si avrà mai in Italia un partito unico e coerente che porti il nome di socia-

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lista, e quindi non si formerà mai intorno a questa bandiera *

un'opinione pubblica favorevole come maggioranza del paese ed esperimento di governo.

I liberali di oggi sono eredi di un nome storico e della tradi- zione borghese dal risorgimento in poi; ma si trovano impove- riti d i aderenti, divisi fra di loro anch'essi come i predecessori delle opposte tendenze ai quali si riferiscono senza discriminazio- ne, credendo di poter mettere nello stesso calendario Cavour e Rattazzi, Giolitti e Salandra.

Per giunta l'Italia repubblicana ha ripudiato la tradizione monarchica del liberalismo subalpino e meridionale, mentre i liberali ondeggiano tra le sacre memorie e l'adattamento istitu- zionale. Ripetono i motivi laicisti della lotta per l'unità italiana, senza avvertire che la conciliazione ha reso possibile il ritorno ad un regime libero senza riserve né arrière-pensées.

I1 contrasto ideale politico fra democrazia cristiana e demo- crazia laica (qualificando democrazia anche quella dei socialisti distaccati dai comunisti) non è di marca italiana, è europeo, di tutti i paesi occupati da truppe estere da questo o dal quel lato o d'ambedue; perché la democrazia cristiana durante e dopo la guerra ha preso !(e in certi paesi ha ripreso) un ruolo decisivo nel gioco dei partiti politici ed ha assunto la leadership nella lotta al comunismo; la democrazia cristiana è l'erede dell'idea di libertà, unita a quella di civiltà cristiana che oggi rassicura dell'avvenire europeo. L'anticlericalismo di destra e d i sinistra che per molti anni ostacolò lo sviluppo della democrazia cri- stiana oggi è passato ai comunisti; i residui laici dei partiti minori, liberali e radicali che siano, sono foglie inaridite che difficilmente rinverdiscono, mentre dura aspra la battaglia per la libertà.

Chi scrive queste pagine è quello stesso che non ha cessato e non cessa d i ricordare ad amici ed avversari, d'Italia ,e di fuori, che la libertà politica non si salva se non si rispetta nella sua integrità e se non si accompagna con la libertà economica, quella che sia possibile oggi mantenere e lentamente accrescere, con fiducia dei risultati. E non risparmio critiche ai pianifica- tori ed ai burocratizzatori, ai creatori di enti statali e parasta- tali, ai monopolizzatori di impianti industriali e di attrezza-

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ture commerciali, ai protezionisti senza criteri e ai finanzieri che inaridiscono le fonti della produzione.

Purtroppo i liberali di oggi non hanno fede nella libertà, come non ebbero fede nella libertà i liberali del 1920-1922. Hanno anch'essi, come i democristiani, i l complesso d i inferio- rità per le leggi sociali, credendo o fingendo di credere che leggi che violano i principi economici possano portare benessere alle classi lavoratrici. I liberali, assumendo una posizione incerta, fra collaborazione e critica, fra liberalismo e riformismo, fra liberalismo e protezionismo, dimostrano di non sapere collabo- rare né saper passare all'opposizione.

I repubblicani storici sono più coerenti; hanno una tradi- zione che rispettano e che è rispettabile; non hanno più pre- giudiziali costituzionali; sono gelosi custodi della forma repub- blicana anche contro ogni lontano accenno di restaurazione. Hanno un'altra virtù: misurano le loro forze e sanno aspettare i l futuro. Se gli intellettuali italiani non si orientano verso i repubblicani è perché in alcuni di costoro c'è ancora un po' di nostalgia monarchica; ad altri il mazzinianismo piace in corni- ce, come un fatto storico che non si ripete. Dio e popolo aveva un valore; popolo sema Dio piace ai comunisti. La formula dovrà essere rinverdita.

I1 partito monarchico e il MSI non contano oggi come terza forza; potranno ingrossare per strada; ma fino a che il primo tiene alla pregiudiziale monarchica e il secondo evade dai limiti antifascisti della costituzione, i due resteranno ai margini della dialettica politica.

Se poi l'Italia cambierà orientamento andando verso un pas- sato che per ora non è in prospettiva, non nego che una funzione politica potranno averla e l'avranno per quel poco o molto per il quale tali partiti si inseriranno nella dualizzazione delle forze.

1 lettori mi permettano una postilla. In un recente articolo sulla uTerza forza D ebbi a scrivere:

u . . . esiste quell'insofferente anticlericalismo che non per- donerà mai alla democrazia cristiana di essere un partito forte

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e di avere la maggioranza elettiva al senato. Esiste quel mas- sonismo burocratico ( e non solo burocratico) che teme la for- mazione della regione perché perdecà una parte della sua in- fluenza e della sua prevalenza*.

Questa, che voleva essere descrizione di uno stato d'animo assai diffuso e insieme punta satirica alle speranze sulla N Terza forza che si sono andate diffondendo, fu presa per una mia paura che l'anticlericalismo massonico possa divenire la terza forza.

Abituato a guardare in faccia l'avversario, se questo fosse un avversario da affrontare lo farei volentieri. Ma non lo è in ter- mini politici, né credo che sia per divenirlo.

I democratici cristiani possono avere dei torti come hanno delle benemerenze; i l torto che reputo imperdonabile è quello d i non avere fin oggi affrontata la riforma dell'amministrazione pubblica e la trasformazione o eliminazione degli enti ammini- strati da funzionari e da uomini politici insieme, che pompano i miliardi al tesoro e vivono alle spalle dei contribuenti.

Una tale benemerenza, se non la cerca la democrazia cri- stiana, dovrebbero cercarla gli altri partiti democratici che vo- gliono farsi una stabile piattaforma, non tanto con leggi ~ i an i f i - catrici e demagogiche, si bene con la sana amministrazione del denaro pubblico.

A questo fine la campagna è aperta non certo per l'anticle- ricalismo; i ghibellini della legge Siccardi o del XX settembre possono restare tranquilli nelle soffitte dei musei storici. L'an- ticlericalismo, se ne verrà uno di qui ad un certo numero di anni, non sarebbe contro la chiesa sotto l'insegna di Giordano Bruno, sarebbe contro la democrazia cristiana non perché si sa- rebbe tramutata in « regime », ma per colpa delle consorterie profittatrici che tentano d i cercarvi il nido.

Come pericolo, questo oggi non esiste; esiste purtroppo la piccola schiera di a rifugiati 1) sotto lo scudo crociato, come esi- stono dei rifugiati D sotto altre insegne. I partiti della coali- zione governativa, se dovrà continuare fino al 1953, nel fare piazza pulita del parassitismo statale e parastatale, farebbero anche un gran servizio ai proprii consociati e al paese, elimi- nando dal proprio seno coloro che vivono ancora dell'apparato

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del dopo guerra, dell'apparato autarchico del passato regime e di quello che le burocrazie preparano ai danni della repubblica italiana.

(Nuova Antologia, settembre 1949).

LA SOCIOLOGIA E IL SUO COLLEGAMENTO CON LE DIVERSE SCIENZE (*)

Sul tema del collegamento delle diverse scienze e la socio- logia da una parte e del metodo dall'altra parte, quale contributo alla revisione delle grandi nozioni sociologiche D, mi permetto in questa comunicazione di segnare alcune note di orientamento per poter portare un piccolo contributo a così vasta materia.

Mantengo il termine sociologia nella sua usuale accezione di studio della società, aggiungendo la precisazione di « società in concreto s per differenziarla da altre discipline che, pur avendo per oggetto la società, ne studiano i punti di vista filosofico - metafisico o etico - ovvero pratico a fini determinati: politico, economico, sociale (usualmente così detto sociale per indicare i rapporti fra varie categorie o classi).

L'oggetto della sociologia non potrebbe trovare unificazione che sopra un piano astratto ; ma la società nel suo aspetto peren- ne, direi metafisico, è una società sottratta alle leggi del divenire, non è la società in concreto oggetto vero della sociologia, società multipla, formantesi e deformantesi in indefinito, con sviluppi in tutti i campi anche i più impensabili e realizzati di fatto e rilevabili geograficamente e storicamente, sia nelle diverse strut- ture come dal vario dinamismo che se ne sprigiona,

È vero che della stessa società in concreto possono individuar-

(*) Comunicazione al congresso internazionale di sociologia tenuto a Beaune in Francia dal 19 al 26 settembre 1954.

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si i tipi e le forme; in tale campo il lavoro dei sociologi è stato notevole e con interessanti risultati; ma bisogna avvertire che i tipi di società presi in sè, al di fuori della concretezza spaziale e temporale, sarebbero delle astrazioni; e le forme di socialità (primarie o derivate, autonome o gerarchizzate) sono schemi me- todologici della sociologia ( e chi scrive ne ha usato), per analiz- zarne i caratteri e studiarne lo svolgimento spaziale e temporale.

Uno dei lati che interessano lo studio del dinamismo della società in concreto, è proprio quello delle interferenze e intera- zioni delle forme di socialità: - familiare, politica, civica, reli- giosa, economica, internazionale - sependone la varietà nelle di- verse civiltà, nelle quali sono plasmati tipi, istituti e relative tra- dizioni e si sviluppano tipi di nuclei sociali caratteristici.

In conclusione, ogni nucleo umano, in qualsiasi modo forma- to, è una società in concreto; tutta la umanità è la società in concreto enucleata in indefiniti e indefinibili nuclei umani, in quanto esistono rapporti, intercomunicazioni, interazioni reci- proci fra tutti i nuclei umani. Le strutture e il dinamismo fra i nuclei, sia esistenti che esistiti, formano materia propria della sociologia.

La società in concreto non è riducibile ad unica società di tutti gli uomini. Questo per la sociologia non è un principio apriori- stico ovvero derivato da altre scienze; è l'esperienza del fatto presente nella complessa, innumerevole formazione di nuclei so- ciali; esperienza confermata anche da tutta la storia umana. È vero che i sociologi rifiutano di dedurre dal presente o dal pm- sato un futuro costante. E se può affermarsi che il futuro sarà diverso dal presente per quel che il divenire umano modifica o può modificare del condizionamento fisico storico e sociale, e per quel che diversifica dei modi e dei mezzi dell'iniziativa indivi- duale e associata; ciò non ostante non è compito della sociologia prospettare i l futuro come in qualche modo deducibile dai rile- vamenti scientifici.

Una società unica universale non potrebbe rispondere agli impulsi individuali di formare una famiglia, anche se i vincoli

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domestici potranno essere, giuridicamente e nel comportamento, ancora più allentati di quelli che non siano oggi. Neanche po- trebbe concepirsi una società politicamente unificata di tutto il genere umano, tranne che sotto forme federative o di controllo universale, che lasci sussistere i corpi politici locali e i relativi raggruppamenti di qualsiasi forma e finalità. Una società univer- sale, se fatta per liberi consensi, non può essere che sopra i l piano di rapporti giuridico-politici dei vari nuclei che oggi chia- miamo stato o federazioni di stati, nei quali tutta la enucleazione familiare, economica e locale potrebbe subire nuovi vincoli giu- ridici e regolamentari, mai perdere il carattere proprio che la fa realmente individualizzata e distinta. L'idea poi di società uni- versale, basata sulla forza e la dittatura, sarebbe la più mostruosa e antiumana che possa immaginarsi.

L'assurdità di simile concezione deriva da un fatto fonda- mentale, che la società non è una realtà a sè stante diversa dagli individui che la compongono : la società è costituita dagli indivi- dui ed è mezzo e non fine dell'attività individuale; attività auto- noma nel suo essere e nel suo agire, e pur sempre legata, e nel suo essere e nel suo agire, alla attività degli altri, in legami di di- versa natura, per i quali l'individuo è allo stesso tempo al cen- tro e alla periferia, agendo e reagendo nei modi diversi come diversamente agiscono e reagiscono gli altri con i quali entra in contatto.

Sotto quest'ultimo punto di vista oggi sono in voga studi sul comportamento sociale (si evita di proposito il nome di socio- logia): l'agire e il reagire degli uomini nei diversi e vari com- plessi sociali. Tali studi prendono l'attività umana da molti an- goli visuali: oltre quello strettamente sociologico (cioè in quale maniera l'azione e la reazione sviluppi, attenui o impacci la for- mazione e la deformazione dei nuclei sociali), lo psicologico, lo educativo, l'etico, e così di seguito.

Anche il u comportamentismo n, derivazione dal « behaviou- rism n psicologico di un tempo, non può prescindere dalle con- dizioni pratiche in cui si trovano i nuclei umani; altro sarà il

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comportamento personale di uomini di una società a civiltà anti- che e antichissime, altro quello di una società nuova; altro quel- lo di una tribù dell'Africa o dell'interno del Brasile, altro quello di società industriali moderne; così è a dirsi di ogni classe, ca- tegoria e razza.

Dal punto di vista strettamente sociologico, si tratta d i stu- diare l'individuo sia nella sua attività e ricettivit,à interindivi- duale e nella reciproca e multipla rifrazione sociale o colletti- va ; sia nello sviluppo della società, che può sociologicamente caratterizzarsi come iniziativa e come condizionamento all'agire umano. E siccome tale agire è sempre nella e per la società, an- che quando sembra essere esclusivamente personale, così, sotto questo punto d i vista, fa materia di indagine sociologica; angolo di osservazione particolare, che può darci interessanti risultati nell'approfondimento di quel che comporta la individualità nel- lo sviluppo dei nuclei associati.

Non mancano coloro che vorrebbero che, pur a scopo didat- tico, ma anche a precisazione del metodo della disciplina, si am- mettesse, come per altre scienze umanistiche, una sociologia ge- nerale, pur con l'oggetto di studio della società in concreto, da mantenere distinta dalle sociologie geograficamente e storica- mente particolari, ovvero da quelle specializzate per oggetto di studio: antropologia, etica, religione, diritto, politica, economia e così di seguito.

La sociologia è di fatto questo e molto di più, perchè nessun lato della società in concreto è sottratto alla sua indagine. Nella innumerevole bibliografia sociologica di un secolo e mezzo tro- viamo tutti i tentativi per fare della sociologia la scienza delle scienze, come dall'altro lato per ridurla a raccolta statistica e tecnica dei fatti sociali.

Per arrivare alla sistematica di una sociologia generale, cioè una teoretica della sociologia, occorrerebbe non solo avere rag- giunto la tradizione millenaria di altre scienze umanistiche, co- me l'etica e il diritto, ma avere dato alle ricerche scientifiche, da un lato, un orientamento intellettualistico, e dall'altro una

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finalità pratica. All'uno e all'altro orientamento si oppone un fin de non recevoir, proprio in nome della ricerca e dello studio dell'oggetto della sociologia.

Non si esclude che nello studio della struttura e del dina- mismo della società, si arrivi a rilevare leggi sia pure approssi- mative, costanti sia pure non osservabili in tutti i casi, elementi comuni anche fra nuclei storicamente e geograficamente non comunicanti; molto materiale degli studi fatti è degno di essere tenuto presente, altro buono per revisioni e accertamenti, altro da scartare.

Ma una questione di metodo si oppone a farne quel che si dice una dottrina che dia materia ad una « sociologia generale )) (sia pure a scopo didattico): cioè il trapasso dalla indagine in- duttiva (quale essa sia, morfologica, psicologica, statistica, sto- rica) alla deduzione teoretica o genericamente speculativa.

I1 collegamento fra sociologia generale e gli studi e le ri- cerche particolari non può farsi per via di principi, che nel caso presente non possono essere, come abbiamo visto, nè in- tuizioni a priori nè deduzioni ragionative. Neppure possiamo trovare un vero collegamento metodologico; e, pur ammettendo una metodologia genericamente adatta alle scienze sperimentali, dobbiamo convenire che il vero metodo è particolare per ogni branca di sapere; è particolare per ogni specializzazione scien- tifica; vorrei arrivare a dire, è individuale per ogni scienziato veramente tale, il quale spesso, in rapporto al suo angolo di studio, cerca il linguaggio, la sintassi e il metodo adatti alla sua personalità di studioso, pur escludendo ogni esagerazione, do- vendo, anche il più geniale degli studiosi, sapere comunicare col pubblico e, quindi, trovare i modi più adatti per uscire dal- I'ermetismo ideologico, scientifico o tecnico, e rendere il suo pensiero operativo ed efficace.

A parte ogni questione di metodo particolare, se vogliamo studiare la società nel suo complesso, noi cercheremo di rile- vare molti elementi comuni a quasi tutti i nuclei sociali, non certo sotto gli aspetti metafisico, etico, naturalistico che non so- no i nostri, ma per quel che riesce rilevabile sperimentalmente per processo di realizzazione e concretizzazione delle forme di socialità. Molti per questa strada sono stati i tentativi, benchè

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non sempre fatti sul binario della scienza sociologica. Seducen- te è stata l'idea di ridurre la sociologia ad una filosofia della società oppure ad una filosofia della storia, ma giustamente non ha avuto seguito: la materia non si presta: o si fa della filo- sofia o si fa della sociologia: l'ibrido non è fecondo.

Altri sono arrivati a ipotizzare una società come organismo avente propria realtà distinta da quella degli individui, un quid tertium, che ogni sana critica ha oramai escluso come vero og- getto della sociologia e come entità sociologicamente accerta- bile. Altri, sul presupposto, tacitamente o esplicitamente am- messo di una concezione meccanica o matematica della società hanno creduto potere affermare come teoria generale della so- ciologia la ricerca della causalità (causation) cioè: il concate- namento deterministico dei fatti pur ammettendo alternative che, in ultima analisi, sfuggirebbero alla volontà ed efficienza individuale. Siamo sempre nel campo di speculazioni teoretiche che rilevano da una filosofia, o di idee generali di accatto, che non possono avere cittadinanza nella sociologia.

Chi scrive ha tentato nel suo volume La società sua natura e leggi (*) di presentare le linee della società in concreto, allo stesso tempo trattando i temi delle forme e delle sintesi socio- logiche. I1 metodo è u storicista »; il tema è guardato nella sua integrit,à « effettuale 1); il lavoro è rimasto aderente alla disci- plina scientifica senza legarlo a principi extra-sociologici.

Ho escluso la unicità della società, ma ho ammesso la ten- denza all'unificazione pur nella diversità delle forme di socia- lità; ho escluso la tipicità delle forme, ma ne ho ammesso la interferenza degli elementi d i caratterizzazione; ho tentato d i trovare insieme all'istinto associativo, comune all'uomo e agli animali sensitivi, la tendenza verso la razionalizzazione o attua- zione di razionalità (o pseudo razionalità), in tutto il dinamismo di conservazione e progresso dell'attività associata; ho rilevato l'importanza concretizzante dell'istituzione escludendone una funzione autonoma extraindividuale. Tentativi questi basati su

(*) Bologna, Zanichelli, 1960; in francese: Essai de sociologie (1935); in inglese: The inner laws of society (1944); in spagnolo: Leyes intenas de la sociedad (1946).

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elementi storico-sociali che possono essere utilizzati anche negli studi particolari sui vari nuclei sociali o sui vari elementi rela- tivi alla formazione, allo sviluppo e alla decadenza di tali nuclei. Da ciò il tentativo, tanto discusso e certo ancora discutibile, di avere indicato alcuni elementi costanti, che sia pure nel riferi- mento a determinato condizionamento, possono avere il valore di « leggi sociologiche D. Ho parlato di tentativo e insisto in que- sta valutazione, perchè non ho mai preteso di aver fatto un la- voro definitivo (*).

In questa comunicazione mi interessa fare rilevare che io non ho inteso fare una sociologia generale che faccia da base e collegamento a studi particolari di sociologia; e ciò per le ragioni sopraesposte, che si possono riassumere nella constata- zione di non avere la sociologia un complesso teoretico a base metafisica, nè una logica interiore astratta dalla realtà.

Quale allora potrà essere l'elemento che faccia, non dico da sintesi di tutte le sociologie particolari, ma da fondo comune di oggetto e di metodo? Tale problema è stato anche posto nel recente convegno tenuto a Bologna sul tema filosofia e sociolo- gia n, convegno interessante, oltre che per validità di indagine, per il fatto che, dopo molti anni di ostracismo dovuto all'influsso del pensiero e degli atteggiamenti polemici di Benedetto Croce e dei suoi seguaci, la sociologia è stata ripresa e discussa in am- biente di alta cultura come quello di Bologna.

Dalla raccolta delle comunicazioni (**) non si può rilevare quale sia stata la discussione orale avvenuta nelle sedute del convegno; lo scopo di una presa di contatto fra i vari cultori delle scienze filosofiche e sociologiche (più i primi che i secondi) fu, comunque, pienamente raggiunto.

Stando al tema della presente comunicazione, credo oppor- tuno rilevare tre punti affiorati nella maggior parte degli scritti pubblicati.

(*) Vedi i l piano dell'opera Omnia di Luigi Stuno. (**) r I1 Mulino m, Bologna, giugno 1954.

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a) La sociologia è disciplina autonoma; ma non si può escludere che i l sociologo, come del resto ogni altro scienziato, per la propria materia debba crearsi o seguire metodo e lin- guaggio e tecnica proprie, e non possa, pertanto, fare a meno di un complesso sistematico, che potrebbe appellarsi, se si vuole, anche filosofia. L'autonomia di qualsiasi scienza non esclude nè può escludere quel complesso d i idee, nozioni ed elementi della vita del pensiero che si qualificano, genericamente, sapere, cul- tura, e simili.

b) La sociologia, trattando come oggetto proprio la società in concreto, non può non occuparsi, sia pure ai fini della propria indagine, di quel che, sullo stesso oggetto, è materia delle disci- pline giuridiche, storiche, etiche, politiche, economiche, psico- logiche e, così di seguito. Queste discipline possono, a loro volta, mutuare dalla sociologia elementi, dati, indagini, come vicever- sa la sociologia trarrà elementi dalle altre e li farà propri, escludendo però, anche fra discipline similari, qualsiasi gerarchia di pensiero, subordinazione di metodo, dipendenza di ricerche.

C) Ciò non ostante, qualcuno ha prospettato una possibile unificazione del pensiero sociologico o di un sistema culturale attraverso la sociologia, mettendola in rapporto alla possibilità d i una specie di unificazione sociale: pensiero marxista, o neo- marxista, come autonomia dell'umano. Altri crede che tutte le branche della sociologia possano trovare unificazione in una spe- cie di finalismo verso una migliore società. Non è mancato chi nell'uomo sociale fonda sociologia e filosofia, assegnando alla prima, la società inter homines, relazioni esterne; e alla filosofia la società in interiore ho.mine, condizione morale della coscienza soggettiva.

I punti su esposti, esaminati in rapporto al tema della pre- sente comunicazione: « l a sociologia e il collegamento delle di- verse scienze sociali n, non possono aprirci la via che cerchia- mo: dànno però, positivamente o negativamente, vari elementi che è opportuno rilevare. Anzitutto, si esclude che possa i l cer- cato collegamento essere appoggiato ad una generalizzazione teoretica della sociologia o, al contrario, neppure nell'agno- sticismo metodologico che, come tale, astrae dalla realtà umana e ne ignora perfino la esistenza.

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Occorre trovare una specie di minimo comune denominatore alle discipline sociologiche anzitutto nella realtà. Se, all'uopo, sia sociologicamente rilevabile la coscienza storica dialettica uni- versale non è in questa sede che il problema verrebbe posto. Fare, però, coincidere la coscienza universale col marxismo, o con altro movimento storico-dialettico, potrebbe dar luogo a certe filosofie della storia ovvero a teorie avveniristiche che co- me tali farebbero deviare la sociologia dal suo campo d i studi.

Altro orientamento è dato da chi propone, come oggetto di unificazione, lo studio dell'uomo quale individualità-socialità. Però la divisione datane fra la società inter homines, storica- mente determinata (sociologia), e la società in interiore homine come condizione morale della coscienza soggettiva (filosofia), parte da una concezione astrattistica dell'umano, sia perchè 1,110- mo non è divisibile ed è nella sua integrità, come tale, oggetto della sociologia e oggetto della filosofia; sia perchè lo studio dell'uomo individualità-socialità va posto al centro dello studio delle molteplici branche della sociologia e delle sue specializ- zazioni.

Infine, il finalismo sociale può senza invadere il campo etico politico ed educativo del dover-essere, trovare posto i n una bran- ca di studi sociologici. Nè può negarsi una interiore finalità in- sita in ogni scienza e quindi anche nella sociologia. Anche l'a- stronomia, facendo parte del complesso culturale umano, Ga la sua finalità e giova agli uomini in quanto il sapere eleva ed è per se stesso comunicativo e quindi sociale. Si potrebbe tentare perfino una sociologia dell'astronomia, senz'attendere di poter navigare i cieli e sbarcare nella luna. Ma ciò non comporta che il finalismo sociale o le finalità culturali della scienza, come tali, possano dare ragione del collegamento scientifico o metodologico fra la sociologia e tutte le scienze che possono, sotto qualsiasi aspetto, essere appellate sociali. I1 finalismo culturale è insito a tutto il sapere e non collega le scienze nè per la materia nè per il metodo.

6.

Dobbiamo allora rinunziare ad un collegamento effettivo d i tutte le discipline che possano avere affinità con la sociologia? Non si tratta, in ogni caso, d i dare soluzioni sicure ad un pro-

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blema che si dibatte dal giorno che la sociologia fece irruzione nel campo delle discipline scientifiche; si tratta di dare orienta- menti approssimativi, elementi di approccio, motivi di medita- zione e di studio.

A me sembra che i l punto basilare sia da cercare nell'oggetto stesso della sociologia: la società in concreto. Chi crea la so- cietà è l'individuo vivente in quanto essere sociale. Non si dà società senza individui, nè si dà individuo senza società. L'indi- viduo che per caso sia stato abbandonato in un'isola disabitata o in un bosco inaccessibile, se adulto, vivrà di ricordi di una società che fu sua e a mezzo della quale formò pensiero, parola, conoscenze; vivrà d i abitudini e di mezzi d i fortuna, improntati alle sue capacità e alla nuova situazione; vivrà di speranze e finirà come finiscono tutti gli uomini. La sua vita sarà proiettata in una società vissuta potenzialmente. Se il caso porterà nell'i- solamento un bambino non ancora sviluppato, e questi potrà sopravvivere per le cure materne d i qualche mammifero e si svilupperà in ambiente animalesco, costui non avrà parola, non avrà comunicazione di pensieri e sentimenti umani, intristirà in una vita sensitiva comune con gli animali, con i quali svilup- perà i suoi istinti di vita materiale. Non si può affermare che egli arrivi alla formazione d i un pensiero astratto; non possia- mo supporre altro per lui che una società e una vita inferiore, sub-umana.

L'uomo in concreto in quanto allo stesso tempo e per la sua stessa natura, è individuale e sociale, è adunque principio unico della sua socialità, la quale, è bene ribadirlo, non crea un quid tertium fra gli uomini nella loro intercomunicazione e interazio- ne; ma è la stessa attività individuale che esteriorizzandosi dà sua impronta a quel mondo, che dappertutto rivela la presenza speculativa, volitiva e fattiva dell'uomo. La sociologia è scienza dell'individualità realizzatrice nella doppia dimensione spaziale e temporale, con forme stabili e con sviluppi dinamici, facendo, disfacendo e rifacendo, discutendo e attuando, distruggendo e ricostruendo, in una continua formazione e dissoluzione di nu- clei sociali, che sembrano stabili e che si dissolvono nel rapido divenire d i una successione di presente, che allo stesso momento che è passato si protende nel futuro.

16. S r c u o - Del aletodo Sociologico

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Questa realtà vissuta e contemplata, sperimentata e idealiz- zata, che cosa può essere mai se non I'uomo in mezzo agli uo- mini, che è allo stesso tempo punto centrale della propria cer- chia, e quasi atomo assorbito nelle miriadi d i nuclei ai quali, coscientemente ed incoscientemente, appartiene?

Egli, l'uomo in atto, individuo-società, si sente libero e si sente limitato: libertà e condizionamento lo accompagnano in tutta l'attività e gli fanno da sprone e da freno alla corsa incomin- ciata negli oscuri millenni del passato e continuata nell'evolversi dei tempi e dei secoli verso un avvenire indefinito.

Non è pensabile la cessazione della iniziativa umana (libertà) e neppure la cessazione della limitazione interna ed esterna a tale iniziativa (condizionamento). Non intendo affermare in no- me della sociologia che non si possa pensare ad una società dove non esistano libertà di iniziativa e limiti a l condiziona- mento, perchè la sociologia non ha per oggetto le ipotesi di spe- culazioni filosofiche ovvero fantastiche. Ma, rebus sic stantibw, cioè con questa natura umana e con questo mondo fisico e sto- rico, non si ha società dove manchi la spinta della iniziativa in- dividuale, e dove tale iniziativa non venga internamente ed ester- namente limitata: la individualità-socialità nel suo reale; è que- sta, e su questa si basa ogni sociologia scientifica e ogni branca particolare e specializzata d i scienze sociali.

Riassumendo: oggetto della sociologia è la società in concre- to; oggetto di ogni qualsiasi scienza, che si possa collegare alla sociologia, è la società in concreto guardata nel particolare in- dividuale e nella specialità di aspetti e caratteri che si intendono studiare. Ma chi forma la società in concreto e chi è il soggetto di ogni aspetto sociale se non I'uomo individuo sociale? Ed è 1,110. mo vivente che dà l'impronta a tutto il reale da lui formato in qualsiasi suo aspetto, compresevi le più alte speculazioni del sa- pere. La sociologia con le sue ricerche rende manifesta la pe- renne coscienza umana in quanto individuale-sociale.

Può questa umanità sociale trovare unificazione in una co- scienza universale storico-dialettica? o forse l'unificazione si fa solo nella interiorità della coscienza individuale? A tali quesiti la sociologia non risponde; presterà alle scienze speculative i rilievi storici sulle civiltà passate, i rilievi della struttura e del

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dinamismo delle civiltà presenti, cedendo il posto a ricerche d i altra natura, alle quali l'uomo non ha mai rinunziato e non potrà mai rinunziare.

Roma, 12 agosto 1%4. (Pubblicato in loiocopia dall'lnstitut lnternntional de Sociologie, 1954).

PLURALISMO STRUTTURALE E PLURALISMO POLITICO

Da un certo tempo, originata in Francia, ha fatto progressi la teoria del pluralismo 11 come fenomeno della moderna so- cietà politica. La tesi più corrente collega la continua e molte- plice formazione di nuclei con l'adozione delle libertà politiche del secolo scorso, e la conseguente intensificazione dell'attività associata.

L'abolizione della organizzazione chiusa dell'ancien régime -. stati e classi privilegiati, corporazioni, città autonome - e il passaggio al sistema individualista, libero sì, ma accentrato nello stato, conseguente all'abolizione dei vincolismi feudale, regio ed ecclesiastico, sviluppò la formazione di nuclei a finalità di- verse, senza altri obblighi che quelli formali prescritti da leggi uguali per tutti.

Nel campo economico si amvò alla libera concorrenza, alla quale pose freno lo stato con barriere doganali non solo fiscali ma anche protettive della economia prevalente; ovvero dando impulso o limitando, secondo i casi, le libere iniziative col gio- co dei privilegi e dei gravami. Le stesse imprese cercarono di coalizzarsi su basi monopolistiche per diminuire i rischi e crea- re a proprio vantaggio una prevalenza incontrastata. Allo stesso tempo si svilupparono nel campo politico associazioni e partiti, consorterie di interessi, pressure groups, che difficilmente po- tevano essere disciplinati o limitati, disfacendosi e rifacendosi, secondo i l ritmo degli eventi e il succedersi di periodi liberi con periodi di ritorno a regimi più o meno a carattere assoluto, detto d i recente dittatoriale.

La classe operaia, dopo lo scioglimento delle corporazioni

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artigiane e il tentativo di società operaie e casse mutue, comin- ciò ad organizzarsi in leghe di resistenza dette poi sindacati, da principio abusivamente ed in contrasto col potere statale ; po- scia, in regime di tolleranza, infine col riconoscimento legale e col favore politico.

La stessa chiesa cattolica, secondò le spontanee formazioni delle associazioni di fedeli per ostacolare la scristianizzazione della famiglia e della società e per difendere i diritti ecclesia- stici tradizionali. Nei paesi di confessioni diverse, l'organizza- zione sussidiaria delle relative chiese fu meno favorita, e si man- tenne limitata a settori particolari, sia perchè il sovrano conti- nuò ad essere nominalmente e in certi stati effettivamente il capo religioso dello stato; sia per l'adozione del regime di se- parazione dello stato dalla chiesa.

La enucleazione in regime libero si è andata accentuando mano a mano che la classe politica, dalla borghesia si estendeva ai ceti medi e piccoli, all'artigianato cittadino, ai ceti agrari più evoluti, f ohandos i così una democrazia a larga base popolare, mentre i mezzi di comunicazione, gli scambi di popolazione, le possibilità di non poche attività marginali a quelle pubbliche, s i andavano sviluppando con ritmo accelerato.

Dalla coesistenza di gruppi in coalizione o in contrasto sul terreno politico, su quello religioso, su quello detto sociale o di classe, sull'economico o di interessi particolari, in una vita as- sociata così varia e multipla, viene resa difficile, si direbbe im- possibile, qualsiasi unificazione nell'ambito dello stesso stato, tanto nel campo religioso (religione di stato) quanto in quello politico (partito unico); anche sul terreno economico (forme ti- piche di dirigismo) e su quello sociale (interclassismo o corpora- tivismo) ogni tentativo di effettiva e completa unificazione nello stato paralizzerebbe qualsiasi regime democratico.

Le recenti esperienze di dittature: comunismo, fascismo, na- zismo e simili, hanno dimostrato la loro transitorietà e i l con- trasto con la civiltà occidentale. Se il comunismo ha oggi un no- me che supera le realtà di struttura, ciò avviene perchè all'om- bra di tale regime si nasconde l'imperialismo moscovita fatto a nome del popolo, simile a quello degli czar, fatto allora a nome della dinastia e della oligarchia terriera.

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Posta così la teoria del pluralismo, come effetto, cioè, del- l'introduzione delle libertà politiche moderne, non trova seria base storica nè sociologica, non essendo la pluralità dei nuclei fenomeno nuovo nella struttura della vita associata e organiz- zata, non ostante le diversiti di carattere, estensione e intreccio nei complessi associativi delle varie epoche.

Nè può dirsi che oggi manchi l'unificazione di tali nuclei nel complesso organizzativo della società, e neppure che tale com- plesso sia oggi così diverso, da dare ai nuclei esistenti e alla con- tinua e facile formazione di altri nuclei e anche al loro dissol- vimento, un aspetto così differente da poter loro attribuire un carattere di specificazione strutturale, e quindi sociologico, fon- damentalmente diverso da quello della società del passato pros- simo o remoto.

Non si dà complesso sociale che non sia in qualche modo unificato, che non tenda ad una sempre più salda unificazione e che non cerchi di attuare nel suo processo quelle variazioni di struttura che si credono più rispondenti alle sempre nuove esigenze degli associati.

Con un'analisi approfondita delle epoche storicamente co- nosciute, si possono rilevare come tendenze costanti e in conti- nuo processo, (non importa se questo sia evolutivo o involutivo) sia la tendenza alla formazione di nuovi nuclei ( e relative eli- minazioni) sia quella verso la unificazione dei nuclei minori in complessi specifici maggiori a carattere centralizzatore e, più o meno limitatamente, potestativo ; fino al pieno sviluppo nel cam- po politico con finalità e mezzi diretti principalmente alla tutela dell'ordine interno e alla difesa da nemici esterni.

I1 processo unificativo è sempre in atto in ogni società per il fatto stesso della enucleazione. La società, come l'uomo, non si arresta nel suo processo. Fin che esiste un popolo territorial- mente convivente, quale ne sia la forma di associazione, svilup- pa naturalmente la tendenza alla unificazione; tale tendenza, non abbracciando mai tutto il complesso sociale, nè essendo mai soddisfacente per tutti gli associati, è sempre in atto. Le fasi della unificazione si svolgeranno per settori, secondo le condi-

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zioni, i bisogni, le convinzioni e i pregiudizi dei nuclei e degli individui. I n ogni tempo vi sarà quella màturazione o attualiz- zazione integrativa che polarizza a sè le forze collettive; mai investe l'intiera struttura associativa e ciò non solo per l'istinto alla conservazione d i ciò che si reputa utile, ma anche per le difficoltà che si frappongono ad un rivolgimento ab imis.

Tanto la formazione dei nuclei quanto la tendenza unifica- trice verso complessi organici con carattere potestativo, storica- mente sono insite e coeve in ogni processo umano. La realizza- zione dell'una e dell'altra enucleazione e unificazione, è resa concreta dal dinamismo di contrasti e di intese, o viceversa, che gl'individui sprigionano nel loro agire associato. La fase deci- siva e concretizzante del dinamismo dell'agire umano associato è quella della dualizzazione delle forze, quando la decisione va presa per il numero o il peso dei consensi e dei dissensi. Impos- sibile qualsiasi comunità attiva senza il minimo consenso di due ; possibile sempre se vi è un nucleo che vince l'oppositore o per il numero o per la forza.

Anche la normale dualizzazione delle forze è insita al pro- cesso di unificazione e fa da spinta e da freno; e impedisce, per quanto possibile, l'assolutismo completo. Non è concepibile che l'assolutismo possa imporsi su tutta l'attività umana senza mar- gine alcuno per l'individualità. Ogni assolutismo dà luogo a ri- bellioni armate, a sollevazioni popolari, all'affermazione di oli- garchie, alla diffusione di sette segrete, al potere dei favoriti, alle congiure d i palazzo; in sostanza alla organizzazione nucleare di forze; le quali, limitando sotto vari aspetti l'assolutismo, spri- gioneranno attività individuali e individuate (persone e nuclei) rispondenti alle condizioni concrete di quel determinato assetto politico.

Ho preso questo caso limite per fare notare che il processo d i unificazione, sia in politica, che in ogni altro settore della vita associata, è sempre in atto nel decorso storico, e sempre contiene, in germe o sviluppate, le energie antagoniste, che in dati momenti maturano la dualizzazione delle forze e le fasi della lotta.

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Come esempi d i richiamo, valgono, nel campo della poli- tica nazionale, la unificazione italiana in unico stato e la realiz- zazione della repubblica democratica; nel campo delle organiz- zazioni sociali, la partecipazione sempre più attiva dei lavora- tori nei conflitti economici e politici; nel campo religioso, le varie rivendicazioni dei diritti della chiesa riguardo la famiglia, la scuola, le attività economico-sociali, e, in campi più estesi, l'affermazione dei principi cristiani contro il liberalismo natu- r a l i s t i ~ ~ , le sette segrete, il socialismo marxista e contro i l co- munismo oppressore.

Per quanto non tutti gli individui nè tutti i nuclei parteci- pino nella stessa misura alla dinamica della attività associata, pure arriva il momento che, su molti altri scopi collettivi, uno prevalga, spingendo a quella finale dualizzazione che porta il conflitto alla soluzione, non importa se provvisoria, quella vo- luta dalla parte più forte. Gli oppositori, in qualsiasi campo, o accetteranno i l fatto compiuto o tenderanno al distacco per nuo- ve forme associative e nuovi tentativi di unificazione. Così di seguito, i n un dinamismo che non sempre nè tutto viene alla su- perficie, pur costituendo il travaglio, il fermento, la vita stessa dell'umanità sempre insoddisfatta, quale ne sia per ciascun uo- mo il più sensibile settore, e sempre sperando in un migliore avvenire.

Due elementi sono necessari alla esistenza dei nuclei umani: il potere, espresso moralmente come autorità, e il possesso dei mezzi adeguati, tratti dai risparmi degli associati.

La tendenza di riunire nelle medesime persone o negli stessi organi il potere con il possesso, e viceversa, è insita alla natura umana, e forma spesso il substrato delle lotte, per ottenere O

l'uno o l'altro sia come mezzo indispensabile, sia come finalità concomitante.

La formazione e l'avvicendamento delle classi dirigenti O

classi politiche, detentrici del potere attraverso le varie forme di regime, ha per fine aperto o sottinteso la partecipazione alla

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ricchezza, sia quella acquisita dallo stato (partecipazione più o meno legale o legalizzata); sia quella da rivendicare dalla par- te soccombente.

L'enucleazione che è legata alle lotte per il potere e per il possesso ha un ritmo accelerato in regime libero, ed è resa qua- si impossibile in regime di casta. Fra i due poli, quello del di- namismo democratico e l'altro dell'immobilismo di casta, nel- l e fasi di lotte, sia interne e dirette, sia esterne - rivoluzioni, ri- volte, guerre - si orientano le forze in conflitto per conservare o conquistare i l potere associato alla ricchezza. Sotto questo pun- to di vista, le lotte e le guerre di religione dei sec'oli XVI e XVII sono una prova della inconsistenza della teoria pluralistica ap- plicata solo alla moderna democrazia.

Quel che avviene oggi, è lo stesso, sociologicamente, di quel che è avvenuto ieri e nei secoli passati, quando le strutture so- ciali erano sotto vari aspetti assai diverse e non paragonabili con i regimi attuali, sia dal lato politico ed economico, sia da quello religioso e culturale.

Nel passato, anche non lontano, le classi erano fisse, le città libere gelose delle loro autonomie, le corporazioni dei loro pri- vilegi; il potere, pur accentrato nella persona di u n monarca as- soluto, veniva limitato allo stesso tempo da organizzazioni po- tenti, quali la chiesa, le oligarchie ecclesiastiche, i baroni feu- dali, le universit.à, le dinastie dei vari stati, ora collegate, ora in confllitto fra di loro.

Se dall'ancien régime si procede indietro nei periodi me- dioevali, - che noi abbiamo l'abitudine di guardare come si guardano di lontano le montagne che sembrano formare unica linea sull'orizzonte - nel fatto periodi assai diversi l'uno dal- l'altro, troviamo una accentuata enucleazione e allo stesstl tem- po l'ansia di un'unificazione, che, nel ricordo dell'impero roma- no e per la difesa dall'incalzare dell'islamismo, veniva auspicata come un nuovo impero cristiano: la cristianità. L'impero franco e il romano-germanico ne furono i grandi tentativi, rivelando, insieme alla tendenza unificatrice nella chiesa, una diarchia ora gerarchizzata ora contrastante. In tale quadro si muovono mu- nicipalità, università, corporazioni, signorie feudali, grandi mo- narchie, per arrivare agl'impen egemonici dell'epoca moderna,

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passando da Madrid a Parigi, da Londra a Vienna e a Berlino, dall'Europa all'America del Nord.

Ogni altro accenno è superfluo: basta considerare che nep- pure la società primitiva e patriarcale, basata sull'economia pa- storale-agricola, sfugge alla legge dell'enucleazione e della uni- ficazione. Abramo con i l nipote Lot andavano in cerca di stabile dimora in zone più fertili; ma dopo molti contrasti fra i pastori delle due aziende, lo zio prudentemente propone la divisione: se tu vai ad oriente io andrò ad occidente; l'unificazione avve- nuta non reggeva più; occorreva dividersi. Ma quando Lot è aggredito, Abramo va in soccorso del nipote, rifacendo la soli- darietà dei due nuclei affini.

Di fronte a un simile quadro sociologico-storico, ci si doman- da quale possa essere il significato che dai pluralisti moderni si dà alla presente struttura della società, sì da avere creato la pa- rola e la teoria, come un aspetto nuovo, storicamente isolabile, teoricamente valido, a correggere la concezione individualista della struttura politica dell'ottocento.

Oggettivamente parlando, si tratterebbe del rilievo di ele- menti, quelli della enucleazione sociale, che, pure studiati sotto altri aspetti, oggi si riesaminano dai pluralisti in relazione alla struttura dello stato democratico. Seguendo l'abitudine mentale prevalente nella cultura dell'Europa continentale, si è arrivati a isolare il fenomeno della pluralità dei nuclei sociali e a pre- sentarlo come condizionante la presente struttura, senza darsi la pena di studiare lo stesso fenomeno nella dinamica sociologico- storica delle molteplici esperienze del passato.

La concezione dello stato come ente pubblico unificato nel potere centrale ed esteso a tutte le attività associate, deriva ori- ginariamente dal passaggio della concezione privatistica a quel- la pubblicistica della funzione monarchica. Ciò coincise presso a poco con le lotte di religione fra cattolici e protestanti e sboc- cò, in un primo tempo, nel predominio della religione, che da religione del principe, divenne religione dello stato: cuius re gio, il2iw et retigio. Tale formula fu accettata come tempera-

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mento transattivo atto a far cessare le guerre che insanguinarono l'Europa e a far arrivare ad una tal quale pacificazione le stesse popolazioni agitate da passioni religiose e dinastiche e ridotte in gran parte ad una spaventevole depressione d i vita materiale e morale.

Era proprio quello il periodo di una esasperante enuclea- zione che sotto l'aspetto religioso assorbì tutti i valori etici, po- litici, economici e sociali della vita europea. L'assestamento, sot- to il principio della religione d i stato, fu costosissimo: popola- zioni che emigrarono in altri paesi in cerca di libertà religiosa; popolazioni che rimasero nel proprio paese prive di diritti ci- vili e religiosi, tollerate, sorvegliate, perseguitate come nemici dello stato.

Questa condizione iniziale durò a lungo con quell'adattamen- to reciproco che potè trovarsi luogo per luogo e caso per caso. Questo stato di cose fu definito, nella premessa della teoria plu- ralistica, come regime unificato da una concezione religiosa: struttura sociale sacrale; mentre la reazione per le libertà indi- viduali, che si basa sulle rivoluzioni delle colonie americane e per l'Europa specialmente sulla rivoluzione francese, fu detta struttura sociale laicale; la prima unificata, la seconda plurali- stica; base della prima il vincolo e il rispetto della religione d i stato; della seconda la piena libertà religiosa e anche areli- giosa. Si crede da alcuni che il sistema detto sacrale fosse co- stante nella società cristiana da Costantino alle rivoluzioni del- la fine del secolo decimottavo; mentre da quella data, dopo con- trasti notevoli fra la chiesa cattolica e le case regnanti, si è ar- rivati al regime pluralistico attuale, per il quale la libertà di associazione lascia gli individui liberi di formare nuclei sotto ogni denominazione e in ogni campo.

La unilateralità di tale sintesi salta agli occhi di chi abbia tempo e voglia di approfondire il problema sociologico che an- diamo esaminando; perchè la enucleazione in tutti i campi del- la vita associata è una necessità incoercibile, e, come tale, si trova in tutte le strutture politiche, anche in regime assolutista. Vale la pena ricordare le persecuzioni sostenute dalle comunità cristiane, dal loro primo formarsi a Gerusalemme fino a dopo la stessa pace di Costantino, per rendersi conto di certe energie

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incoercibili e tali da superare la legalità ~o l i t i ca unita alla forza del potere e al potere della forza.

I1 fatto che nel periodo precedente alle rivoluzioni ameri- cana e francese la lealtà religiosa condizionava la lealtà politica, non portava, per il suo carattere legalistico, ad una effettiva unificazione, pur salvandone la forma esterna.

L'Enciclopedia in Francia non fu certo ortodossa. Prima dell'Enciclopedia molti altri della cultura europea fine et i&, pur subendo processi come Campanella o andando in esilio o cercando di evadere dalle inquisizioni regie ed episcopali, met- tendosi sotto la protezione d i principi e perfino di papi e cardi- nali, superavano gli ostacoli legali della repressione. Le lotte pro e contro Ie eresie dall'inizio del cristianesimo in poi hanno lo stesso carattere.

Forse che non accadde lo stesso a Mazzini anche sotto re- gimi liberi? e che cosa avvenne nei vari periodi della rivoluzio- ne francese se non la più eflerata persecuzione agli oppositori? Così in Francia, durante la restaurazione, nella repubblica del 1848, perfino nella terza repubblica, sia contro i cattolici (pe- ricolo clericale), sia contro l'avvento delle classi lavoratrici. Nes- suno stato moderno ne è immune. Al momento che un dato re- gime politico teme per la sua esistenza, si aderge a giudice delle forze opposte, perchè, secondo i detentori del potere, si tratte- rebbe d i nemici della società, o nemici della patria, o nemici della dinastia, o nemici del regime.

Per restare in Italia, dal risorgimento ad oggi, furono per- seguitati i repubblicani in nome della lealtà monarchica, i va- ticanisti, i borbonici, i siciliani in nome della lealtà unitaria; i socialisti in nome della lealtà borghese. Domani, i socialisti, quando saranno al potere, perseguiteranno i borghesi in nome della lealtà proletaria, i cattolici in nome della lealtà laica.

Oggi e domani lo stesso come ieri: i l dissidente è tollerato fino a che non è reputato un pericolo per il regime o un osta- colo per le riforme, siano politiche o sociali oggi, quelle che po- tevano chiamarsi ieri riforme civili, economiche o religiose. Qualsiasi riforma è sentita come un bisogno, perchè la forma, cioè il presente, non soddisfa mai, non può soddisfare l'uomo nelle sue aspirazioni, nei suoi bisogni, nella sete di dominio,

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nell'istinto di sopraffazione, nell'esigenza d i « spazio vitale D, nel desiderio di espansione o di innovazione; motivi questi pre- menti quando gli sviluppi della tecnica, della scienza applica- ta, del benessere goduto, uniti al pericolo di crisi, alla insoddi- sfazione morale sempre crescente, all'ansia per l'avvenire, por- tano fino alle più ardite e insospettate esperienze. L'atomica, pur nella prospettiva di possibili catastrofi che si deprecano, preannunziando un avvenire ricco di sorprese per un benessere generale, che come tale non sarà mai realizzato, non sarà l'ul- tima conquista della attività umana.

La lotta sociale è legge d i progresso; questa non è la marxi- sta e materialista lotta di classe; è invece il travaglio umano in tutti i campi della sua attività, dal religioso allo scientifico, dal politico all' economico, dall' individuale al collettivo, sia nel piccolo nucleo familiare, sia nell'esperienza internazionale, sia nelle guerriglie barbariche e nelle guerre locali, sia nei conflitti mondiali.

Senza rischi, senza avventure, senza lotte non è possibile qualsiasi conquista umana, dalla più modesta alla più eccelsa, quale la conquista cristiana. Secondo Giobbe, la vita umana sulla terra è una milizia. Tutto lo sforzo del progresso umano tende o dovrebbe tendere a sostituire le forme cmenti di lotta con quelle civili; i mezzi coercitivi e oppressivi, con quelli edu- cativi e persuasivi; le lotte dissipatrici delle energie morali e fisiche, con quelle accumulatrici d i esperienze di bene.

Ma anche così, e pur fin oggi non sempre così, la lotta sociale, proprio quella diretta alla formazione dei nuclei associativi, e, attraverso le decisive dualizzazioni, alla unificazione in un com- plesso sociale più soddisfacente, è insita alla struttura della so- cietà ed è sviluppata dalla spinta finalistica verso il superamento del presente che non soddisfa, per un avvenire sempre spe- rato migliore.

(Bollettino di Sociologia, a. I , n. 2 luglio-settembre 1956).

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12.

INDAGINE SOCIOLOGICA SULLE « CLASSI MEDIE D

1. La nozione di classi medie ha carattere pratico a scopi di rilievo statistico o di valutazione economica; ma nella enuclea- zione della società non rappresenta aspetti organici e funziona- lità propria quale classe univoca o quali classi diverse a fun- zionalità collegata ovvero quali classi sviluppantisi in un com- plesso sociale specifico.

La classe sociale in tanto è definibile in quanto si presenta sotto due aspetti fondamentali: l'economico e il politico-giuri- dico. Esistono certamente differenze fra il ricco e il povero, la persona colta e la persona ignorante, i l militare e i l civile; ma perchè tali distinzioni valgano a far prendere a determinati nu- clei il carattere di classe con un minimo di organizzazione nu- cleare occorre che abbiano, per tradizione o per Iegge, caratteri e nessi sia politici che giuridici. Nel caso contrario, non potrà parlarsi di classe quale nucleo sociale operante, ma solo di di- stinzione di categorie a scopi statistici o fiscali, di condizione personale, di valutazione morale e simili.

L'organizzazione d i classe rispecchia i vari regimi politici. La stessa definizione di classe varia secondo che si tratti di re- gime libero o di regime vincolistico. Nei regimi liberi, per prin- cipio, non esistono classi organiche imposte da leggi, essendo ammessa la più larga libertà individuale, quale ne sia la posi- zione sociale ereditaria o acquisita; la formazione di associa- zione è lasciata alla libera iniziativa. Gli ordini, i corpi, gli albi riconosciuti o istituiti per legge non formano classi di ordina- mento politico ed economico.

È vero che dalla rivendicazione delle libertà politiche a tipo individualistico con la eliminazione di ogni vincolo associativo, mano a mano si è rivenuti alla formazione di associazioni di classe o di categoria per interessi specifici e al ricono- scimento di privilegi fiscali (esenzione o limitazione di tasse), previdenziali (agevolazioni statali per i servizi sociali), giuri- dici (speciali organi di giustizia, di procedura e simili); e per- fino vincoli contrattuali quale l'estensione ai non associati dei

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contratti collettivi di lavoro stipulati dai rappresentanti di sin- dacati. Ciò può indicare un ritorno a sistemi corporativi riadat- tati alle condizioni moderne, ovvero uno sviluppo sui temi so- ciali moderni in senso vincolistico e privilegiato a tipo classista. L'antico regime, a differenza di quanto va succedendo oggi, era basato sui privilegi delle classi gerarchicamente organizzate e a scala discendente: clero, nobiltà, terzo stato (detto anche bor- ghesia in senso lato), artigianato; a parte i vincoli negativi per i contadini (servitù della gleba) e per i senza mestiere (nel set- tore dei diritti civili e della giustizia penale). Oggi i privilegi vanno alle associazioni sindacali operaie, con più o meno mar- cata finalità di lotta di classe.

2. Prima di passare oltre, interessa chiarire la nozione d i borghesia della quale, data la diffusione delle idee e della fra- seologia marxista come teoria e come prassi, si è fatto l'obiet- tivo di lotta proletaria e socialista. Vari sono i significati dati a l termine borghesia. Nella organizzazione delle classi poli- tiche, questa in Francia faceva parte del terzo stato, e profit- tando del nascente industrialismo influì sulla politica e soppian- tò dove più dove meno la nobiltà terriera e la stessa classe mer- cantile. Avendo la nobiltà perduto il rango di classe privile- giata, mantenne la sua partecipazione alle attività diplomatica e militare e in certi ranghi ecclesiastici; ma sul piano politico e su quello economico o si appartò ovvero scese al livello della borghesia, emergendo solo, nei vari campi dell'attività associata, con le personalità più in vista. I1 clero, che formava uno stato, si ritirò dietro i privilegi consentiti dai concordati, quelli ri- masti in piedi e i nuovi stipulati con la S. Sede. Nei paesi pro- testanti il clero si avvantaggiò della tradizionale posizione della religione di stato, avendo i sovrani mantenuto ancora la posi- zione di capi religiosi. Da allora le categorie indicate come classi dirigenti e classi politiche, sono appartenute quasi sem- pre alle cosiddette classi medie erroneamente confuse con la borghesia; con la quale parola furono più esattamente indicati i nuovi arricchiti e in genere i capitalisti delle industrie e delle banche. Nel campo della cultura, dell'arte, delle tradizioni do- mestiche, delle buone maniere, della vita mondana e della stes-

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sa vita religiosa, l'aggettivo borghese, specie in Francia, fu usa- to in senso dispregiativo come un declassamento. Dal lato ope- raio fu indicata per borghesia la gente arricchita a prezzo dei sacrifici del lavoro. E mentre la borghesia industriale, manifat- turiera e commerciante amvava all'auge della potenza, diveniva facile bersaglio d i coloro che contrastavano allo stesso tempo il sistema democratico e il predominio capitalista.

I1 bolscevismo russo, estesosi dopo la seconda guerra ai paesi satelliti, ha soppiantato le classi politiche esistenti dando luogo ad un'organizzazione statale nominalmente operaia, nel fatto in mano ad un potente funzionarismo politico che, in nome delle classi lavoratrici, mantiene rigidamente tutto il potere. Ogni altra classe può dirsi non esista tranne che sotto la veste d i fun- zionarismo statale; perchè il capitale è tutto dello stato, riu- nendo insieme nella unica dittatura potere politico ed organiz- zazione economica. Così può dirsi che non esistano più classi sociali, ma una sola classe: la lavoratrice; un solo partito: i l socialista; un solo capitalista detentore di ogni proprietà: lo stato comunista.

3. I1 marxismo ha creato il mito delle due classi antagoniste e in lotta, capitale e lavoro. È la sorte delle mezze verità e delle parziali intuizioni, le quali, mancando della parte non rilevata o trascurata, introducono ideologie errate; ed estendendone d i conseguenza il significato fuori della realtà, creano nel campo pratico i miti popolari.

I n tale ferrea dualità di lotta, nella concezione marxista le altre categorie e professioni, dette classi medie, dovrebbero ve- nir meno sia nell'economia (( borghese ,, subendone il processo di ingrandimento capitalistico; sia nella dittatura del proleta- riato, seguendone le sorti nel nuovo assetto sociale livellato nel- l'unica classe lavoratrice, alla quale spetterebbero, mediati dal- lo stato, il potere e i l capitale.

Tranne nella Russia e, con varie differenze, nei paesi satel- liti e affini, gli stati evoluti han conservato e sviluppato il cam- po della attività delle varie categorie di borghesia capitalista, arrivando alla formazione di imprese di tali proporzioni da non essere prevedibili cento anni addietro, al tempo di Carlo Marx. Ciò nonostante, le cosiddette classi medie non sono state assor-

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bite dal predominio capitalista; alti redditi e alti stipendi si trovano presso appartenenti a classi medie con larghe possibilità di penetrazione nel mondo capitalista mano a mano che le par- tecipazioni azionarie si sono largamente diffuse. Anche gli ope- rai specializzati e gli impiegati tecnici, sono, per condizioni so- ciali e per salari, da includere nelle cosiddette classi medie e non certo nelle classi proletarie. Lo stesso vale per lo sviluppo preso dai piccoli e medi industriali, i quali si sono avvantag- giati delle occasioni favorevoli che la libertà ha loro concesso.

Pertanto, non è esistita e non esiste tuttora, fra la classe ca- pitalista e la proletaria, sotto aspetti sia economici che politici, una mediazione propriamente detta, perchè le classi medie non formano una enucleazione sociale omogenea, non hanno com- piti specifici di classe, non sono vere classi. I1 nesso funzionale, fra le diverse categorie economiche, per il credito, il coordina- mento produttivo, il mercato e anche per la stessa convivenza di famiglie, di scuola, di attività civica, di opere parrocchiali, e ogni altra relazione possibile e immaginabile, è così vario e variabile, molteplice e disincagliato, da non potere essere ridot- to ad un semplice rapporto fra le classi in lotta, per una solu- zione eliminatoria, unificatrice e definitiva. I1 piano organico della enucleazione sociale è inesauribile; la classificazione che se ne fa è solo a scopi particolari, costumaria o legale, a tenden- za organizzatrice e a fini determinati, liberamente voluti o im- posti da legge; ma siffatta mediazione, se si può chiamare così, libera, occasionale, costumaria, lascia fuori ogni specifica con- cezione di classe organizzata, e i1 campo idealizzato della lot- ta d i classe.

Anche i vigenti regimi dittatoriali a tipo comunista, non fa- cendo obbligo alla iscrizione nella unica organizzazione sinda- cale di lavoro, nè al partito unico socialista o comunista che sia, escludono la nozione di classe. Siffatto regime non ha per antagonista la classe capitalista possidente padronale che già è stata soppressa; i lavoratori si trovano ad avere di fronte lo stato-padrone e, allo stesso tempo, lo stato-autorità accentrata. In tale stato sono solo i funzionari a formare l'ossatura e il nesso connettivo sociale, essendo gerarchicamente ordinati per l'attua- zione dell'unico potere politico ed economico, quello statale.

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P. Ciò non ostante, sia in regime libero che in regime comu- nista, esiste la enucleazione sociale, quella che la sociologia ri- leva come necessità per la esistenza e per lo sviluppo delle va- rie energie associate; le quali, superando anche barriere legali, impedimenti e difficoltà fisiche, morali e politiche, s'inseriscono in diverse forme nella struttura della società e nel suo continuo divenire.

Analizzando la situazione presente dei paesi liberi ed evo- luti, dobbiamo escludere qualsiasi classifica discriminatoria del- la popolazione nella sfera del civile e del penale (uguaglianza dei diritti e unicità della competenza della giustizia). Dove è esistita una discriminazione per le razze di colore, come negli Stati Uniti, questa viene legalmente combattuta; la rivendica- zione dell'uguaglianza dei diritti, anche nella sfera etica e di costume si va oggi affermando con la convinzione di vincere una grande battaglia morale. Nel campo politico sono privati dei diritti solo i deficienti e i condannati penali per determinati periodi. La classe concepita come espressione economica diffe- renziata è scomparsa dappertutto, salvo residui feudali e di co- stume che incidono solo su stati d'animo, su abitudini locali, sen- timenti o pregiudizi familiari e perfino religiosi.

La lotta fra impresa e lavoro è anch'essa un aspetto della enucleazione della società; sia lotta occasionale e cruenta in paesi ancora non evoluti; sia lotta sistematica dove il lavoro non ha ancora conquistato la posizione sociale di tranquillità dome- stica e di sicurezza di vita, o dove non ha superato quel dislivel- lo che porta il lavoratore al malcontento, al risentimento, alla rivendicazione di diritti economici e morali nella stessa unità dell'impresa produttiva. Nei paesi, nei quali tale lotta non è stata teorizzata ma posta sul campo delle pratiche rivendica- zioni economiche, l e vertenze sono risolte dai rispettivi sinda- cati. Se la lotta è stata anche trasferita nel settore politico, la organizzazione di classe prende aspetto di partito per la con- quista del potere sotto l'aspetto della dittatura del proletariato.

Dal punto di vista del complesso fenomeno produttivo, pur con ritmi diversi secondo gli sviluppi dei mezzi di produzione, avviene sempre il passaggio dal lavoro di massa a quello della tecnica specializzata, attraverso la selezione di lavori di abilità

l i . S r n i z o - Del Metodo Sociologic*

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e di pregio. Quanto maggiore è lo sviluppo della tecnica ~ r o d u t - tivistica, tanto più sensibile è la tendenza della caratterizzazione lavorativa. Nei paesi più progrediti è in aumento il passaggio della popolazione agricola e artigiana all'industria; da questa ai servizi sociali e alle dirigenze di impresa. Allo stesso tempo si ha maggiore benessere, aumento del reddito, spinta circ$a- tona del denaro destinato ad utili impieghi, elevazione del te- nore d i vita da parte di tutto un complesso di popolazione ur- bana ed operaia. Questo fenomeno di osmosi economico-sociale presuppone scioltezza e disimpegno di forme di lavoro, mancan- za di vincoli di classe, libertà di migrazione all'intemo e al- l'estero.

L'opposizione all'introduzione di nuovi metodi e invenzioni, e il favore per vincoli economici e protezioni interne, proven- gono dalla tendenza ad eliminare il rischio, non ostante che il rischio sia alla base di ogni progresso; deriva anche dallo spi- rito di conservazione che tende a stabilizzare i vantaggi acqui- siti; il che aumenta il disagio delle zone depresse e attenua la spinta verso l'avventura e la conquista.

Se si guardano le statistiche dei paesi economicamente più progrediti, si trova un continuo aumento dell'impiego umano alla zona dei servizi sociali; in tale categoria vanno classificati il servizio religioso, il politico, il giudiziario, l'amministrativo, i l culturale e artistico e così via. Da tali categorie e da quelle dell'assistenza sociale, della banca, del commercio, della ricer- ca scientifica e tecnica e tutto il grande complesso di attività dell'ingegno e dello spirito, vengono a formarsi le élites, dette «classe dirigente n. Al secondo posto va l'utilizzazione indu- striale dei prodotti della terra e del sottosuolo; al terzo posto la produzione diretta della terra e delle miniere.

Se andiamo indietro nei secoli e nei millenni, troviamo che la maggioranza dell'umanità era tenuta in servitù - schiavitù e servitù della gleba - non solo per cattiveria umana o per ef- fetto d i guerre, ma anche per esigenza delle classi più evolute, le quali non avendo i mezzi tecnici per costruire edifici, aprire strade, lavorare campi, allevare animali, si servirono di una manodopera forzata. La schiavitù durò millenni perchè durò millenni l'economia povera di una umanità nella sua maggioran-

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za avvilita. I ritorni alla schiavitù, a parte i fenomeni di guerra, sono caratterizzati dalla costante segregazione di popolazioni te- nute nel degradante stato di forze di lavoro non remunerate, per controbilanciare egoisticamente i maggiori costi di produ- zione nel grande mercato internazionale, dando più importanza alla quantità relativa di prodotto servile che alle qualità di pro- dotto qualificato.

Le condizioni non solo di disagio ma di sfruttamento del- l'operaio delle industrie nel secolo scorso, che diedero motivo alle prime leghe operaie, - quasi dappertutto proibite sotto il duplice profilo della abolizione dei vincoli corporativi e della tendenza a tenere bassi i costi contando sulla manodopera mal retribuita, - furono alla base della concessione della lotta di classe e diedero la spinta ai movimenti di massa e alla teorizza- zione di tali movimenti in senso comunista, che culminò nell'ap- pello del 1848, anno fatidico tanto per le libertà nazionali quanto per la riscossa operaia,

Nel processo umano e tecnico dell'industrializzazione delle nazioni progredite, si è compreso quasi dappertutto che l'ope- raio ben pagato rende assai di più dell'operaio mal pagato: che l'industria, pur essendo l'ultima venuta nell'economia, supera e integra l'agricoltura; la quale, economicamente, non regge alla pressione degli sviluppi industriali e deve essere industrializza- ta, se si vuole dare ai proprietari e ai lavoratori della terra un posto di uguaglianza sociale e anche politica, nelle attività cre- scenti della società moderna.

Le prospettive attuali del progresso tecnico sono senza limi- te: diminuirà i l lavoro manuale e aumenterà quello diretti- vo, inventivo, culturale, sociale, politico con le maggiori possi- bilità di orientamento professionale e di ampio campo per la libera scelta. Oggi si insiste per la migliore preparazione e spe- cializzazione delle classi lavoratrici e della gioventù in cerca di impiego; domani l'educazione e la cultura specializzata si im- porrà come necessità di vita. La scuola del principio del secolo scorso era limitata ai professionisti ed ai signori; scuole popo- lari scarse di numero e male attrezzate. Oggi abbiamo in pro- porzione un accrescimento assai notevole, sia in numeri assoluti sia in rapporto alla popolazione; nella seconda metà d i questo

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secolo lo sviluppo sarà ancora maggiore, perchè i mezzi dispo- nibili aumenteranno con l'aumento delle invenzioni.

Che cosa rimane in tale prospettiva, del classismo operaio di oggi sotto l'insegna della lotta di classe? I1 ricordo, e il vecchio socialismo come simbolo dello stato di arretratezza sociale e della mentalità del secolo scorso, quando la classe operaia usci- va di minorità e rivendicava una propria posizione autonoma e soddisfacente nelle nuove attività industriali che si andavano creando. I1 manifesto comunista del 1848 è stato sorpassato da un pezzo; il socialismo, con un secolo di vani tentativi politici non ha potuto creare una società progressiva, in base alla conce- zione arretrata della lotta di classe (fino alla prima guerra mon- diale), e della dittatura del proletariato (esperimento sovietico).

5. Prima di chiudere questa indagine, occorre spiegare i l mo- tivo per il quale la concezione marxista delle classi sia stata CO-

munemente adottata nel linguaggio e negli orientamenti dei paesi liberi e industrializzati, in evidente contrasto con i l pro- gresso economico e le prevalenti concezioni politiche.

Fra i movimenti di reazione, che han giocato la loro parte verso la concezione marxista, sono da notare quelli dovuti al- l'individualismo liberale, per il quale, sciolte le antiche corpo- razioni di mestiere, si arrivò a proibire ogni organizzazione d i lavoro. La libertà fu concepita in senso unico per paura dei movimenti operai, che già nel periodo della rivoluzione fran- cese avevano tentato qua e là di soverchiare le posizioni prese dal terzo stato. La lotta sia per la tolleranza sia per il ricono- scimento del diritto alla organizzazione operaia fu portata sul terreno dell'antagonismo di classe e del contrasto di interesse.

Altro fattore, che ebbe notevole influenza, fu la concezione tradizionale, condivisa dai cattolici, della vecchia corporazio- ne. Dimenticando i tristi effetti di un vincolismo statale e del paternalismo operaio non più applicabile in regime libero, e non tenendo conto della disoccupazione della massa lavoratrice, re- sa più acuta per lo scioglimento dei vincoli feudali e della ser- vitù della gleba, si credette alla possibilità di un ritorno ope legis al passato corporativo. Da qui la campagna, d'altronde giustificata, per un organismo economico che correggesse i mali

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dell'individualismo disgregatore che portava di fatto all'accen- tramento statale e al dominio della burocrazia. I grandi pionieri cattolici del corporativismo, come il tedesco Vogelsang e i l fran- cese De Mun, arrivarono a collegare l'organizzazione corpora- tiva con l'istituto della monarchia paternalista.

A tale movimento di reazione spontanea, della quale si eb- bero notevoli segni in Inghilterra e in Francia durante e dopo i l periodo post-rivoluzionario e della restaurazione, si aggiun- sero i primi movimenti del socialismo, fra i più notevoli quello tedesco, che culminarono nel manifesto comunista del 1848, lan- ciato proprio nel momento più fervido delle agitazioni nazionali e della lotta fra conservatori e liberali.

Nell'inserimento delle masse operaie nella vita politica a mezzo del suffragio universale, introdotto mano a mano in quasi tutti gli stati europei, la lotta di classe fu la formula mitica per l'avvento della dittatura del proletariato.

Questi movimenti economici e politici lasciati alla libera ini- ziativa, per quanto avessero allarmato le classi dirigenti e le bor- ghesie industriali e agrarie, pur con alterne vicende arrivarono a costituire partiti propri - laburisti, socialisti, comunisti - sia partecipando con partiti esistenti, ovvero organizzandosi in forma autonoma o nei sindacati operai, prendendo qua e 1; ca- rattere antistatale e anarchico. Dalle repressioni, attraverso un periodo di tolleranza si arrivò alla legalizzazione di fatto ed an- che di diritto delle associazioni e leghe dei lavoratori.

Un secolo e mezzo di sviluppi in vario senso dimostrano che I'enucleazione sociale a tipo classista, anche al di fuori di rigide norme giuridiche e di finalità politiche immediate, deriva da bisogni, istinti, tradizioni; potrà, quindi, essere corretta, inca- nalata, imprigionata da leggi e da costumi; non mai soppressa. Dall'altro lato, tali movimenti, quali essi siano, non si esauri- scono nel dualismo della impresa e del lavoro; troviamo in ogni tempo, specialmente nei periodi di regimi liberi nei quali il diritto di associazione è garantito da legge, un continuo for- marsi di nuclei a scopi economici, come per altri scopi, anche i più impensati.

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6. Per tornare al soggetto particolare di questa indagine; le cosiddette classi medie, - che non sono strette fra la borghesia capitalista a destra e i l proletariato lavoratore manuale a sini- stra, come vennero concepite cento anni e più addietro, (piace ri- peterlo ai ritardatari di oggi) - sono espressione perenne delle mezze fortune, dei redditi familiari modesti ma sufficienti, del- le professioni dette liberali, della burocrazia impiegatizia, che gli anglosassoni chiamano colletti bianchi (white collars) ; i qua- l i per vecchia tradizione appartengono a quella classe cittadina che non va confusa con la borghesia, il cui significato originario della parola venne applicato ai parvenus, agli inurbati arricchiti che lasciavano i borghi e sobborghi e venivano nelle città.

Quando esistevano, con i loro diritti e costumi, la nobiltà e il clero, i ceti medi formavano il terzo stato. Quando la borghe- sia capitalista prese la direttiva economica, nobiltà e clero ave- vano già perduto i loro privilegi; ma la borghesia non divenne mai i l primo stato, sia perchè « gli stati » erano soppressi, sia perchè i l capitale non potè arrivare da solo a tenere la diret- tiva politica, morale e culturale di un paese, pur avendo enor- me influenza su alcuni strati sociali e su determinati settori del- l'economia. Ciò accadde anche perchè tanto in regime di libera concorrenza economica quanto in regime di interferenza statale, i capitalisti non hanno mai e non possono mai rappresentare un unico o un prevalente interesse uguale per tutti. E se di fronte ai sindacati operai riuniti o unificati, le categorie padronali han- no tentato, e non sempre, di mantenersi unite, il fatto ha avuto effetti pratici e limitati nelle controversie salariali e contrattuali. La classe politica dirigente dei paesi civili ( a parte quei paesi dove prevalgono le organizzazioni militari) proviene specialmen- te da quelle categorie cittadine che non sono classificabili, non rappresenta una unica classe, nè, per quanto possa essere enu- cleata, è riunita in organismi; essa esprime le migliori forze associative di intelligenza, cultura, tradizione domestica, attiviti politica, formazione spirituale e religiosa, posizione sociale e morale.

Se poi si guarda dentro alle stesse organizzazioni di classe, borghese o proletaria, si può constatare che nella maggior parte dei casi l'elemento responsabile di tali organizzazioni pro-

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viene dalle cosiddette classi medie: uomini politici, dirigenti di azienda, capi burocratici, amministratori e simili. Ciò avvie- ne anche nelle rappresentanze politiche e amministrative dello stato, degli enti locali; nella molteplice articolazione dello stato moderno che ha creato un funzionarismo sempre crescente, in- vadendo quasi tutti i settori delle attività pubbliche e private.

Le cosiddette classi medie si sono infiltrate in tutti i gangli della società moderna e in tutte le attività, anche quelle delle due principali classi che nella concezione marxista sarebbero condannate alla lotta per la esistenza. Ciò dimostra che non si tratta di classi medie organizzate od organizzabili come tali, ma di nuclei che non hanno finalità classiste fuori di quelle che si identificano col* proprio benessere professionale e col benes- sere delle rispettive famiglie. Costoro, per la difesa di interessi economici particolari possono creare organismi propri (albi, or- dini, sindacati), senza esprimere un antagonismo strutturale che arrivi a volere la soppressione dell'antagonista, che potrebbe essere un ente (stato, provincia, comune, banca, istituto, fonda- zione ecc.), ovvero il cliente (del medico, dell'avvocato, dell'in- gegnere), o un'associazione culturale, religiosa e simili (univer- sità, chiesa, parrocchia, convento). Nel fatto concreto, mancano i presupposti per una lotta di classe delle diverse categorie di cosidetti ceti medi per contrasti permanenti di interesse collet- tivo o per la prevalenza d i una categoria sull'altra; mentre nel fatto moventi di concorrenza restano dentro il naturale dina- mismo di ogni attività umana e la ordinaria prevalenza del più forte o del più colto, del più autorevole e del più intrigante.

Del resto, nello stesso settore dei contrasti fra capitale e la- voro, idealizzati sotto la spinta del socialismo, le esperienze d i un secolo hanno smentito la teoria e le profezie del marxismo. La società in regime di libertà si orienta verso i più elevati svi- luppi della razionalità in ogni settore della attività umana. E d è questa la vera legge di progresso, che ha alla base i l rischio, l'avventura, la lotta contro tutti gli elementi avversi, compreso il vincolismo economico e politico di classe e di casta, che osta- cola la normale enucleazione sociale nelle sue più larghe pos- sibilità.

Questo progresso è dato in modo speciale dall'attività indi-

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viduale e associata delle categorie cittadine: dall'artigianato ur- bano ai ceti di artisti, letterati, giuristi, scienziati, religiosi di ogni categoria; costoro in economia formano una trama sempre più densa di interessi collettivi e mantengono in contatto le po- polazioni più differenti e le nazioni piu distanti. In tali settori dell'attività umana si è operato, da un secolo ad oggi, un sem- pre crescente assorbimento di popolazione operaia e contadina che si è urbanizzata; di proprietari di un tempo che han la- sciato di vivere di rendita e si sono dati alla vita professionale; di figli di grossi industriali che son divenuti ingegneri, medici o letterati, magistrati e così via.

I progressi tecnici hanno sviluppato le categorie centrali, sottraendo al lavoro manuale quanti si sono specializzati ovvero han cercato altre professioni. La proletarizzazione dell'inizio del secolo scorso è diminuita di molto, tranne nei paesi ancora SO-

vrappopolati e nelle zone dette depresse. Pure in tali paesi, come il mezzogiorno d'Italia, il passaggio dal lavoro agricolo alle in- dustrie, ai commerci e alla popolazione urbana è stato non in- differente, come si può notare dalle statistiche di questo mezzo secolo.

Con le nuove invenzioni si arriverà di sicuro ad uno svilup- po tanto maggiore, quanto più la manodopera servile sarà sosti- tuita dalla macchina; la manodopera industriale diminuirà con la maggiore perfezione tecnica; l'attività generale sarà elevata di tono, con scopi più rispondenti alle nostre facoltà superiori.

Se nell'antica Grecia l'élite cittadina poteva darsi alla filo- sofia, all'arte, alla politica e alla mercatura e creare una grande civiltà, fu perchè contava sopra un numero maggiore di iloti e di schiavi che restavano al di fuori della convivenza civile, come una sottospecie umana.

Noi invece, affratellati dalla civiltà cristiana in una sempre progressiva concezione di vita civile, potremo allargare le atti- vità dei ceti intellettuali, artistici, religiosi, assistenziali e bene- fici, non solo diminuendo il lavoro servile, ma addirittura tra- sformandolo in lavoro di capacità, di specializzazione intellet- tuale, di attività superiori.

Capitalisti nemici del popolo lavoratore e sfruttatori del pro- letariato quelli della tradizione marxista, non ci potranno es-

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sere; ma ci potranno essere e ci saranno in tutti i ceti, nessuno eccettuato, i truffatori, i ladri, i profittatori, e così via. La gran- dezza delle imprese, necessarie ad affrontare impianti di sem- pre maggiori costi e dimensioni, renderà necessario lo sviluppo della partecipazione azionaria popolare, della quale oggi ab- biamo buoni inizi e non disprezzahili esempi.

Le cosiddette classi medie, mancando di interessi comuni, non possono costituire organizzazioni tipiche nel campo politico

(partiti) o in quello economico (sindacati); ma associazioni a scopi pratici di difesa dalla invadenza statale e dalle pressioni fiscali; di tutela della singola professione, arte, attività e così via. Perciò tali classi sono esposte ai pericoli dello statalismo invadente, che ne attenua il campo professionale o ne irregi- menta le attività; quale, ad esempio, la posizione dei medici, degli enti statali di previdenza e simili. Possono essere sover- chiati dai partiti socialisti nel campo delle attività proficue, e subire l'usura del funzionarismo invadente; ovvero le sopraffa- zioni dittatoriali, come quelle naziste e fasciste di un tempo. Ciò è prevedibile anche nel futuro; fatti questi che dipendono anche dagli sbandamenti intellettuali e morali delle stesse classi diri- genti formate in gran parte dai ceti urbani che rappresentano le classi medie più responsabili, specie quelle delle grandi citt,à e dei centri universitari.

Nessuno pensa che il futuro ci serberà un paradiso terrestre e i l regno della giustizia umana sulla terra. Ogni epoca ha sem- pre il suo bene e il suo male. Ma l'ulteriore sviluppo delle ca- tegorie mediane come sbocco delle attività capitalistiche e di quelle lavoratrici, porterà ad un benessere più diffuso, sia pure con i pregi e i difetti della nuova economia e con le crisi, in bene e in male, che stanno ad indicare le alterne vicende del progresso e le nuove fatiche della umanità itinerante.

(Sociologia, a. 11, n. 1, genn.-marzo 1957).

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LA SOCIOLOGIA COME SCIENZA (*)

La voce 4 sociologia », mezzo latina e mezzo greca, fu coniata da Auguste Comte nel 1838 per designare una branca di filosofia positiva (già da lui chiamata fisica sociale, parte complementare della filosofia naturale) come studio positivo dell'insieme delle leggi fondamentali proprie dei fenomeni sociali. Svincolandosi, successivamente, dai presupposti positivistici, la sociologia si è andata svolgendo e definendo quale scienza della società in concreto, nella sua struttura e nel suo dinamismo.

Nella cultura dell'epoca in cui visse il Comte i l nuovo voca- bolo trovò posto a rappresentare un ramo del sapere umano ri- ducibile a scienza autonoma. Come è naturale per tutti i rami d i scienza che acquisiscono nuova materia di studio o un nuovo modo di studiare materie già note sotto altri aspetti, la nascente sociologia mutuò terminologia, idee, metodi e atteggiamenti sia dalle discipline speculative quali la filosofia e l'etica, come pure dalle scienze fisiche, biologiche e psicologiche. Alla loro volta, i cultori di scienze umanistiche, dette anche scienze morali, e periino i cultori di scienze naturali, di proposito o spontanea- mente, mutuarono dalla sociologia dati, punti di vista, vocaboli, atteggiamenti approssimativi o analoghi.

È da notare che oggetto generico della sociologia, sotto la classifica di fenomeni sociali, sarebbe tutta la vita e attività umana in quanto vita associata; proprio sotto tale aspetto, i problemi speculativi e i problemi pratici si moltiplicano col moltiplicarsi delle esigenze e degli atteggiamenti del pensiero e della attività umana. La ricerca e la precisazione di un oggetto specifico della sociologia diedero luogo fin dal principio a una vasta letteratura, naturalmente con diversi indirizzi, onenta- menti e metodi. Per un fenomeno di prevalenza culturale, la sociologia subì sul nascere il predominio di altre scienze quali

(*) L'articolo riproduce, con il cortese conseruo della direzione, la voce C Sociologia D che Luigi Stuno ha scritto per l'Enciclopedia Filosofica e che nella parte storica è stata curata da F. BABBANO (Vol. IV, col. 725-737).

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la biologia, l'etnografia, la psicologia, la storia, la statistica, la politica, l'economia, il diritto ; secondo i prevalenti orientamenti dei centri maggiori si ebbero diverse correnti e scuole in Fran- cia, in Inghilterra, in Germania e altrove.

Uno dei principali orientamenti della sociologia del secolo scorso, nello studio della struttura e delle leggi della societ.à, riportata questa a elementi positivi fondamentali, arrivò alla affermazione essere la società un'entità a sè, con propria coscien- za, non rapportabile all'entità e alla coscienza degli individui ; mentre l'opposto orientamento limitava la sociologia al rilievo dei fatti e della condotta dei singoli nei contatti interumani; alla formazione e deformazione di nuclei sociali; alla causalità so- ciale e simili. Nell'uno e nell'altro aspetto di studio della strut- tura e delle leggi della società e di rilievo di fatti e fenomeni interindividuali nel loro aspetto particolare, non poteva farsi a meno di presupposti teorici e metodologici, mutuati da scienze generali, filosofiche o naturali, e da fatti o dati storici, sia per confrontare gli argomenti morfologici della società attuale con quelli del passato; sia nell'attuazione di quelle leggi o costanti sociologiche, che dedotte dall'esperienza presente, vengono veri- ficate e confrontate con i dati del passato storico. Da siffatta ela- borazione della sociologia del secolo scorso, spontanea o voluta d i proposito, si affermarono certi atteggiamenti e stati d'animo che hanno influito decisamente sugli orientamenti e sulle fasi del pensiero sociologico nella prima metà di questo secolo.

Anzitutto una negazione assoluta da parte di filosofi e cultori d i scienze umanistiche che la sociologia possa essere riguardata come scienza autonoma, e perfino che possa dirsi scienza con particolare oggetto, metodo e finalità. Se questa opinione deri- vasse dalla molteplicità e contraddittorietà di teorie e di scuole, lo stesso, e a maggior ragione, si dovrebbe dire della filosofia e d i altra disciplina morale o umanistica ; perchè essendo diverso il modo di valutare l'uomo, che è il soggetto reale di ogni stu- dio che lo riguarda, diversi ne sono gli atteggiamenti culturali e le teorie. Se tale diversità si facesse derivare dalla molteplicità dei metodi e dai presupposti metodologici, varrebbe la stessa osservazione per la sociologia come per la filosofia. Anche se si accetta la tesi di chi scrive, che l'oggetto fondamentale della

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sociologia sia la società in concreto, secondo come sono conce- pite e la socialità e la concretezza, si potrà avere in sociologia una notevole varietà di orientamenti, di caratteri e d i metodi.

Quel che ha tolto credito alla sociologia è stata la convinzione di non pochi sociologi che tale disciplina non esiga presupposti teorici, perchè limitata al rilievo dei fatti e dei dati. Invero nessun sociologo può dirsi immune da presupposti teorici; se non presupposti teorici coerenti, ne avrà degli incoerenti. La stessa negazione di teorie-guida è in sè un presupposto teorico che influisce sul pensiero di non pochi sociologi; i quali, nel- l'esame dei rilievi e dei dati di esperienza, e nello stesso me- todo e ricerca di classifica, restano influenzati da tale negazione, come restano influenzati da presupposti positivi che non man- cano a uno studioso: siano o no confessati, sono pur sempre esi- stenti. Rimessa nel suo quadro, e accettata la limitazione scien- tifica di disciplina particolare, che non può fare a meno di mu- tuare da altre discipline elementi di studio, metodi e presupposti (ogni studioso è libero dei suoi orientamenti purchè nella logica del sistema); anche la sociologia che si limita al rilievo, speri- mentale o statistico, dei fatti, dei fenomeni e delle relazioni sociali, ridotti alla più elementare espressione, ha un suo im- portante compito, quello di mettere in luce, elaborare, clas- sificare il materiale sociale vivente, utile per lo studio e per la ricerca di leggi o costanti sociologiche, nonchè per quelle altre scienze che di tale materiale potranno giovarsi, special- mente storia, politica, diritto, economia, pedagogia.

Se la sociologia resta limitata al rilievo ed alla classifica di rapporti umani (sistema questo il più diffuso, e anche i l più apprezzato) non può soddisfare completamente; dall'altro lato, il crescente interesse ai problemi del vivere sociale - tanto più intensi quanto più si allarga la cerchia delle attività as- sociate - non può fare a meno di una sociologia sistematica che abbracci e dia spiegazioni dell'esistenza e del divenire della socLtà e delle sue vane forme. Per tale esigenza sono sorti nuovi studi di sociologia specializzata per ogni branca del pensiero e dell'attività: sociologia della conoscenza, del- la religione, dell'arte, dello sport, dei partiti, del turismo. Si potrebbe arrivare a presentare sotto l'angolo sociologico ogni e

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qualsiasi elemento associativo e i relativi sviluppi che ne deri- vano. La specializzazione in molti casi cade nell'analitico: la realtà verrebbe spezzata, e quindi resta astratta; si ha bisogno di un piano comune, ma si teme di inciampare in teorie sinte- tizzanti. Per evitare i due estremi, si è ricorso allo studio del com- portamento umano (behaviounsm). Per quanto interessante tale studio, non solo non copre l'oggetto della sociologia ma può dare luogo all'accentuazione psicologica nello studio dell'indivi- duo, o di classi d i individui; ovvero all'accentuazione pratica nel campo dei rapporti umani; a parte certe prevalenti teorie che rendono il sistema ancorato ad una concezione esteriore del- l'attività associata dell'uomo.

Per una ragione o per l'altra si ritorna alla ricerca di sintesi, sia per metodo che per oggetto di studio, in modo da rendere coerenti lo studio della sociologia generale e i vari oggetti di spe- cializzazione particolare. Ma se si preferisce il rilievo induttivo o le classifiche statistiche e il metodo matematico applicato ai fatti sociali (il che suppone una meccanizzazione fondamentale, rile- vabile sui grandi numeri) ovvero, se si tende ad una classifica qualitativa, precisabile per un metodo comparativo che presup- pone elementi comuni alle varie branche, non sarebbe risolto il problema principale: quello se la sociologia possa avere prin- cipi generali propri dedotti dallo studio dell'oggetto proprio, e presentarsi quindi come scienza autonoma nel quadro delle scienze umanistiche.

Questo processo del pensiero sociologico, dal suo apparire (1839) ad oggi (1955), pur nel prevalente atteggiamento positi- vistico, antifilosofico, e nei presupposti e nelle polemiche mate- rialiste, ha contribuito largamente alla separazione, quasi segre- gazione della sociologia dalle altre scienze umanistiche che ten- gono il campo della cultura generale.

La società in concreto. - Come si è detto, si può conside- rare oggetto specifico e completo della sociologia la società in concreto nella sua struttura e nel suo dinamismo. Non importa se il sociologo limiti il suo studio a singoli nuclei ovvero a de- terminate relazioni fra i singoli individui; nè se sia egli dedi- cato alla struttura di una determinata società o agli aspetti particolari di singoli nuclei umani; o al contrario si sia specia-

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lizzato sui motivi e gli sviluppi del dinamismo sociale, quale si rileva dalla storia del passato e dall'accadimento presente. Nes- suno può affermare che vi sia altro oggetto comprensivo di tutta la materia sociologica e allo stesso tempo specifico, cioè proprio della sociologia. Quel che caratterizza la sociologia è la realtà vissuta nei rapporti umani che costituiscono la società nel SUO

concreto e nel suo realizzarsi. Solo sotto questo punto di vista, si possono chiarire le posizioni specifiche e le interferenze delle altre scienze con la sociologia.

La vita associata comprende tutto l'uomo: nulla può essere ritenuto estraneo; la stessa scomparsa degli individui fa parte del vivere: sociale per i legami di famiglia, gli interessi che crea o accentua, i ricordi che lascia e così mano a mano fino all'in- flusso storico, scientifico, etico, spirituale, religioso di singoli individui e di nuclei caratteristici, influsso che può durare nei secoli. Lo studio di un numero indefinito e continuo d i realiz- zazioni della vita associata presuppone la società e porta a scru- tarne tutti gli aspetti, sotto angoli visuali sempre più svariati' e interessanti, senza, per questo, che si tratti di sociologia, fino che non si arrivi allo studio della società nel suo concreto, compre- sivi la struttura, gli sviluppi e il dinamismo. Lo studio della psi- cologia individuale non può prescindere dallo studio di molti elementi sociali in concreto, sia perchè il soggetto (l'individuo) vive e si sviluppa in società, sia per gli effetti d i determinati stati d'animo o di azioni e reazioni psico-fisiche, che in tanto possono rilevarsi in quanto abbiano riferimento a determinati ambienti, a rapporti affettivi, a metodi educativi e simili, ma non sarà mai studio di sociologia se l'oggetto, il metodo, la finalità specula- tiva della ricerca restano legati alla psicologia individuale.

Lo stesso studio della società può essere fatto col rilievo di dati concreti e quindi individuati (sociologia, statistica, storia) e può essere fatto in astratto, al di fuori di ogni concretezza pra- tica e storica (filosofia, etica, politica, economia). Quando l'orien- tamento dello studioso è sopra temi teorici e sopra speculazioni astratte, anche se la materia della speculazione sia la struttura della società, costui non farà della sociologia. Se, invece, la trat- tazione riguarda la società in concreto, sotto aspetti particolari riferibili a determinate scienze, ad es. l'effetto della specula-

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zione filosofica nella struttura politica delle società, nonostante il tema, si tratterà di sociologia,

Nel dir ciò, non si intende escludere qualsiasi speculazione sociologica (ne parleremo in seguito); si intendono precisare i li- miti delle singole discipline derivanti dall'oggetto specifico pro- prio; tenendo presente che per la sociologia l'oggetto specifico proprio è la società in concreto tanto nel suo concreto morfologico che in quello dinamico; mentre per le altre discipline umani- stiche, potrà essere la società in astratto, ovvero lo studio di determinati aspetti della vita associata (religione, politica, eco- nomia) guardati nella propria caratteristica e nei problemi che ne derivano.

Aver detto società in concreto non significa ancora aver pre- cisato del tutto l'oggetto della sociologia, se non si chiariscono quei punti che i sociologi moderni o reputano non pertinenti, ovvero affrontano da diversi, se non da opposti, angoli visuali; in modo particolare, in che consista la società e quale ne sia il carattere di concretezza per essere valutata come condizione atta ad individuare le discipline sociologiche.

Come l'individualità umana si riconosce per la coscienza d i ciascuno di essere sempre lo stesso, quali che siano gli eventi e lo svolgere degli anni, così qualsiasi società, a fini naturali e anche a finalità prestabilite, si caratterizza per la coscienza re- ciproca degli individui della loro appartenenza ad una deter- minata società e delle relative realizzazioni di un comune be- nessere. Ciò non evita dissensi, lotte, scissioni, ribellioni parti- colari; ma la realizzazione di comuni interessi e finalità è sem- pre operante finchè la società sussiste.

La società in concreto (sia naturale, sia liberamente costitui- ta) esige, oltre i fini e i mezzi adeguati, un vincolo, dotato di un'efficacia adeguata che impegni ad un'organizzazione adatta alla propria natura specifica. Si danno società occasionali e tem- poranee, a scopi limitati, sussidiari e completivi della normale attività umana; si danno vincoli tenui di società i cui rapporti, distanziati di luogo e di tempo, si limitano a semplici relazioni che si esauriscono volta per volta. Quel che importa è che le persone sentano la relazione quale vincolo sociale, vincolo che si esprime come parentela, amicizia, colleganza, connazionalità,

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affinità, e che dà la base ai molteplici contatti che rendono ef- fettiva ed efficiente l'attività umana nel suo instaurarsi e nel suo svilupparsi.

Guardando la società nel duplice aspetto di relazione interu- mana e di coscienza di tale relazione, sia nei suoi scopi sia nella partecipazione ai mezzi, sia nelle varie fasi realizzatrici, si viene ad escludere l'esistenza di un quid tertium che costituisca la società e che ne esprima l'anima o la coscienza collettiva.

Tale ipotesi - che affaticò antichi organicisti e ha 'interes- sato moderni sociologi, e che ha dato motivo a insigni giuristi di prospettare la teoria della istituzione » come risolutiva d i un problema non ancora chiarito - si suole riferire non a qualsiasi società particolare, sia pure la famiglia (dalla quale trae origine naturale qualsiasi forma di società), ma alla società politica (oggi « stato n) nel quale culmina l'attuale organismo sociale autonomo specialmente come potere che emana la legge e la fa eseguire con sanzioni penali. A parte l'esistenza di fede- razioni di stati e di comunità internazionali, che potrebbero spostare i confini di questo quid tertium, e fermandoci alla con- cezione statalista della civiltà occidentale, non si troverebbero altri elementi concreti atti a rilevare un'esistenza sociale extra- individuale e permanente, al di fuori del cosidetto istituto.

È stato un grosso equivoco quello di certi giuristi d i credere ad un'esistenza autonoma ed extraindividuale dell'istittuo, sia esso lo stato o la famiglia, il monarcato o la democrazia; abbia carattere politico o semplicemente giuridico, o giuridico-econo- mico (la proprietà, l'enfiteusi, la mezzadria) e così di seguito. Tale equivoco è nato dal rilievo della costante adesione degli in- dividui associati, sol perchè molti istituti rispondono alle esi- genze del vivere civile in determinato luogo e tempo. La soprav- vivenza non è degli istituti, è degli uomini che nell'intreccio d i generazioni formano quell'unità sociale etico-giuridica (costumi e leggi) che rispecchia la volontà continuativa della maggioranza che ogni giorno sopravvive di fronte alla minoranza (minima minoranza) che ogni giorno scompare.

I1 carattere di concretezza della società, sia come organismo, sia come ambiente dei singoli individui o categorie, viene dato non da un'entità extraindividuale, ma dalla esistenza dei singoli

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associati per esigenze d i natura e per collegante volontà espressa dall'intreccio delle generazioni conviventi e organizzate in de- terminati territori (patria-nazione-stato). Per lo studio della so- ciologia basta la caratterizzazione del nucleo umano, sia che si tratti di realtà rilevabile (vivente) sia che si tratti di realtà esi- stita (storica) o comunque vissuta o rilevata, perfino dagli ele- menti della preistoria. .

Non manca chi vorrebbe la sociologia limitata al semplice ri- lievo di dati e di fatti: rilievo descrittivo; rilievo statistico; ri- lievo storico sia della realtà esistente sia del divenire di tale real- tà ; e certo questo è un compito molto importante e di notevole sviluppo. Mancherebbe però tale rilievo del carattere scientifico attribuito ad ogni disciplina umanistica, se i raccolti elementi non potessero servire alla stessa speculazione sociologica e do- vessero passare al vaglio d i una scienza diversa, ritenuta forse gerarchicamente superiore. Ne verrebbe, anzitutto, frustrata la ricerca stessa, perchè questa non può concepirsi come lavoro generico, senza criteri direttivi e senza finalità scientifiche pro- prie, dato che la finalità del lavoro ne dirige e illumina la ri- cerca. Invero, chi studia i rapporti di lavoro a scopo economico, vi dà una direzione; se a scopo psicologico, un'altra; se a scopo sociologico, una terza e così via. La sociologia come scienza uma- nistica postula, sia la sistematica sia la teoretica, limitatamente, s'intende, alle ricerche e agli studi della società in concreto nel suo esistere e nel suo divenire.

All'inizio degli studi sociologici prevalse la teorizzazione al punto da invadere i l campo della filosofia, della religione, della politica e anche dell'economia. Ne nacque una pseudo-filosofia della storia, e perfino una teologia umanitaria; lo stesso accadde e accade per altre scienze; il fatto entra nell'ordine della spe- culazione culturale che, per sè, non ha limiti prestabiliti; non si possono misconoscere i vantaggi portati da tali tentativi sia alle altre scienze, sia alla stessa sociologia. La specializzazione che ne è nata è giovata molto a precisare i fenomeni sociologici in campi lasciati prima alla semplice speculazione intellettualistica o razionalistica e a delimitare i campi delle singole discipline.

Nessuno può negare che il fatto della conoscenza sia reso possibile all'uomo tramite la società. L'homo sapiens non è con-

18. STURZO - Del Metodo Sociologica

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cepibile nell'isolamento individuale, come non è concepibile uno sviluppo naturale della vita fisica del bambino al di fuori dell'ambiente umano. Sotto questo punto di vista, è possibile avere una sociologia della conoscenza (che parecchi negano) come si ha una sociologia del diritto, una sociologia della religione (cfr.: L. STURZO, Sociologia del soprannaturale, Bologna, 1960) e così di seguito. Si tratta di tentativi che possono fallire, O che contribuiscono ad inquadrare la sostanza scientifica della socio- logia nel suo settore, sempre più circoscritto ( i l concreto) e sempre più ampio ( la socialità).

Tralasciando la parte discutibile dei vari tentativi di specia- lizzazione sociologica, la sistemazione degli elementi concreti della società, i valori organizzativi, le leggi del divenire sociale formano larga materia per tentare da un lato una sistemazione approssimativa, e dall'altro motivi di nuove ricerche e discus- sioni, così da coprire una teoretica sociologica importante. La recente problematica di una società agitata da vecchi e nuovi bisogni e ideali ha contributo largamente a rendere sempre più interessanti le teorie sociologiche, modificando in parte l'orien- tamento di quegli studiosi, che accentuano il rilievo particola- ristico e frammentario delle relazioni e della condotta di indi- vidui o d i categorie.

Valori di coscienza e processo d i razionalità. - La filosofia ha ignorato la sociologia; questa, abbandonando l'iniziale pre- tesa di assorbire e sintetizzare nello studio dell'ente sociale (umanità) lo scibiIe teoretico, ha tenuto a ignorare principi e teorie umanistiche come del tutto fuori della cerchia di una vera sociologia basata sui fatti. Simile affermazione è contraddetta da un largo contributo, anche moderno, alla sociologia perfino dagli stessi ricercatori di fatti sociali e degli aspetti della condotta umana, che, volere o no, presuppone una teoretica, non importa se sistematica o intuitiva, se effettiva o apparente.

La sociologia è nata e si è sviluppata in un ambiente positivi- sta, nel quale il positivismo, come presupposto o come teoria, è stato, ed è per certe categorie di studiosi, un pensiero vissuto. Ov- viamente, anche fra i non positivisti - pensatori tradizionalisti, razionalisti, spiritualisti, hegeliani - troviamo studiosi di socio- logia meno numerosi, sotto certi aspetti meno impegnati, rare volte

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facendo della sociologia senza professarla nè confessarla, per via di studi affini e di sforzo d i pensiero collegato (mi riferisco, come tipici nel secolo scorso, a certi lavori di Frédéric Ozanam). Si può forse credere che tutti i pragmatisti anglosassoni della fine del secolo scorso e dei primi decenni del presente, manchino di quel complesso di cultura storica, filosofica, etica e politica, impre- gnata, come di fatto è, di premesse filosofiche, siano queste le aristoteliche o le platoniche, vengano dalle scuole medioevali o dalla tradizione biblica protestante o dal sensismo scozzese, dal razionalismo cartesiano o dal kantismo?

Si afferma che il sociologo abdica ad un pensiero prestabi- lito, perchè rileva i fatti. Ma egli non rileverà mai fatti senza un metodo; nè applicherà un metodo che non abbia la sua logica; nè troverà appoggio in una logica che non abbia un presuppo- sto teoretico e sistematico di quel ch'egli pensa; nè potrà dare un qualsiasi valore al suo pensiero, se non è convinto (per àbi- tudine ambientale o per conoscenza propria) di quel principio per il quale egli può lavorare, con fiducia di non uscire dal bi- nario che lo porti alla conclusione delle sue ricerche senza smarrirsi.

La prova di quanto sopra viene dalla diversità di imposta- zione e di ricerca fra i sociologi anglosassoni e quelli dell'Eu- ropa continentale; diversità che deriva dalla formazione del- l'ambiente culturale in cui si vive e dalla crescente specializza- zione teoretico-pratica delle ricerche di studio. Ciò nonostante, l'interscambio di orientamenti culturali fra i due continenti, e fra quanti dipendono dai maggiori centri di cultura, fa sì che l'elemento speculativo non manchi di dare allo studio del con- creto sociale un elemento connettivo e sintetizzante, sia pure li- mitato al campo delle premesse generali e del metodo.

Un passo ancora: la sociologia, se assurge a disciplina autono- ma, com'è di fatto, non solo avrà metodi propri, adatti alla va- rietà delle ricerche e degli studi ; avrà anche propria impostazione nello sforzo di una sistematica didattica, ovvero in quello d i una sintesi riassuntiva delle varie dottrine, dei vari metodi e dei risultati ottenuti. La sintesi è necessaria anche per dare evi- denza all'interna logica della sociologia che non è, nè pretende d i essere, una dottrina della pratica, nè studia come possa o debba

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essere una società, ma quale di fatto è la società e come si svolge nel suo dinamismo, lasciando da parte le discipline della prassi sotto l'aspetto dell'arte o dell'educazione, quali l'etica, la poli- tica, l'economia, la pedagogia e simili.

La sociologia sia di rilievo, sia di descrizione, sia di sistema- zione e di sintesi del concreto sociale, è scienza, non arte ; ha va- lore conoscitivo e non normativo ; ha un campo proprio che non è attribuibile ad altre scienze, se non per quel lato della vita as- sociata che fa oggetto specifico di singole discipline. Sotto questo angolo visuale, i l sociologo non può prescindere da tutto quel che le altre scienze rilevano e prospettano e mettono in luce della vita associata, siano anche la filosofia e la teologia (cfr. L. STURZO, Chiesa e stato, Bologna, 1958-59; e La vera vita, Bologna, 1960; nel primo si studiano il divenire dei due istituti e i l reciproco influenzarsi; nel secondo i caratteri associativi e storici della vita spirituale cristiana).

I1 divenire della società (o delle singole società) è assai com- plesso e abbraccia tutti i favori e le relazioni umane, e si estende fino ai più larghi cicli della civilizzazione (si pensi allo Study of Htstory d i A. Toynbee) sì da imporre ai sociologi la responsa- bilità del carattere e del limite della disciplina; allo stesso tem- po, ne allarga le visuali al di là di semplici rilievi d i dati ele- mentari spesso senza coordinamento e senza possibilità di siste- mazione. Pertanto, la produzione sociologica di simili studi, non sarà mai teologia, nè filosofia, nè giurisprudenza, nè storia; ma coglierà i punti capitali, che sfuggono ad altre discipline, ri- guardando gli effetti dello sviluppo del pensiero e della cultura nella società in concreto e i relativi rapporti interindividuali, nonchè l'influsso della società in concreto e dei rapporti interin- dividuali sugli orientamenti e gli sviluppi del pensiero e della cultura.

È da tener presente che due elementi sono essenziali alla vita e attività degli uomini: la coscienza della propria personalità individuo-sociale e la tendenza verso la razionalità nel divenire sociale degli individui. Tanto i valori di coscienza quanto i l pro- cesso di razionalità caratterizzano la coesistenza individuo-sociale degli uomini, e perciò sono da porre a fondamento della socio- logia (cfr., L. STUBZO, La società, sua natura e leggi, Bologna, 1960).

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Diciamo di proposito personalità individuo-sociale » e « coe- sistenza individuo-sociale ». Con la prima si indica l'uomo in- dividuo in concreto che è una persona, non confondibile con nessun'altra, al cui bene concorrono gli altri individui collegati insieme in nuclei associativi. Quel che caratterizza la persona è la coscienza del suo proprio essere e la esigenza di soddisfare ai bisogni singoli e collettivi, in base agli istinti della conserva- zione dell'individuo e della specie; i l termine « coscienza » è preso qui per conoscenza di sè e rispondente volontà di attuarsi.

Non vi è sociologia che nei suoi studi possa fare a meno di par. tire dall'individuo che è quello che sviluppa i rapporti d i societ,à nell'ambito della propria attività e che, per via di rapporti sem- pre più larghi, sotto diversi aspetti, abbraccia potenzialmente tutta l'umanità. Se, per ipotesi, si accettassero le teorie sociolo- giche che fanno della società una realtà distinta dai singoli as- sociati, con propria interiore legge di sviluppo, la sociologia pren- derebbe un aspetto astrattistico ed ermetico dal quale non po- trebbe mai più districarsi.

La teoria della personalità individuo-sociale, « l'animale po- litico » di Aristotele (da poli~) , corrisponde a l concetto moderno « sociale (da societas), l'uno e l'altro nella reciproca coesistenza associata. I due aspetti di coscienza collettiva ci danno la chiave d i volta della sociologia, come scienza della società in concreto. Dovendo questa coscienza attuarsi e svilupparsi nel suo divenire umano, la spinta non può venire che dal desiderio di soddisfare i propri bisogni nella coesistenza con gli altri, il che ci porta alla valutazione di quella razionalità, atta a far superare l'irraziona- lità e a vincere la pseudo-razionalità, derivanti da inesatte cono-

scenze o da miti o da tradizioni erronee, i l cui superamento non può essere che razionale,

Alcuni behaviouristi partono dall'affermazione che i nostri rapporti interindividuali, che interessano la sociologia, siano gli esterni ed oggettivi, e perciò escludono la soggettiva testimonianza e la reciproca intuizione e comprensione: essi assimilano i rap- porti interindividuali a quelli dellhomo nel contatto con la natura extra-sub-umana. Se così fosse, si dovrebbero negare tutte le civil- tà, passate e presenti; ovvero si dovrebbero tenere estranee alla sociologia lasciando che gli elementi sostanziali della società ven-

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gano studiati da altre discipline. Naturalmente, non tutti i beha- viouristi sono così radicali; ma, partendo dal puro comporta- mento distaccato da ogni intrinseco valore psicologico e razio- nale, si può arrivare alla negazione della vera natura umana della vita associata, la quale è sostanzialmente costituita da rap- porti d i conoscenza e di volontà, nel loro valore associativo; coscienza individuale-collettiva, moto dalla irrazionalità, o dalla pseudo-razionalità, verso la razionalità.

Leggi sociologiche. Sociologia storicista. - L'individuaIità- socialità di ciascun essere umano, in quanto realizzantesi in nu- clei associati, non potrebbe trovare l'equilibrio progressivo (sta- bilità e dinamismo) se mancasse un vincolo moralmente e psico- logicamente valido, riconosciuto tale da un organo sociale atto a farlo valere per i recalcitranti.

I1 vincolo viene dal costume che forma la tradizione, costume e tradizione che sono sanzionati da leggi. Può anche il vincolo derivare da leggi che impongono un sistema, il quale, per ade- sione, presunta o effettiva, diviene costume e tradizione. L'or- gano investito di poteri è l'autorità sociale diretta al bene co- mune; autorità naturale o convenzionale per ogni nucleo orga- nizzato.

Le scienze particolari dell'etica, del diritto naturale e posi- tivo, della politica, dell'economia, studiano i vari aspetti e pro- blemi che derivano sia dal vincolo, sia dall'autorità sociale; ma i l valore sintetizzante del vincolo e dell'autarità, essendo. essen- ziale ad ogni società, è di carattere sociologico. I1 rilievo dei fatti, l'inquadramento dei dati, le costanti statistiche non bastano a dare soddisfazione al nostro spirito di ricerca e di studio e al bisagno di comprensione dei problemi, se non arriviamo a ren- derci conto della natura, del valore e dell'estensione dei limiti imposti da vincoli sociali, del loro effetto nel divenire di ogni nucleo o categoria di individui che accettano e subiscono tali vincoli; nonchè della portata del potere sociale nei diversi tipi di nuclei associati, e della possibilità di coesistenza e d i sintesi fra autorità e libertà, in modo particolare nella società politica e negli organismi nei quali coesistenza e sintesi si attuano.

I1 tema delle forme di socialità concretizzata (o della società in csncreto) è intimamente collegato allo stesso processo d i con-

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cretizzazione; le forme d i società possono essere studiate da varie scienze morali sotto propri punti di vista; ma la sociologia ne fa un campo proprio d i ricerca, sia dei rilievi morfologici, sia degli elementi dello sviluppo storico, sia delle precisazioni dei rap- porti sociali. Sotto questo punto di vista, l'interferenza delle f o r me sociali fra di loro, l'assorbimento dell'una nell'altra, o la maggiore specificazione, l'inversione di mezzi e fini, e in genere i l recipraco dinamismo, sono fasi naturali e storiche che un so- ciologo, specializzato nella materia, deve approfondire, per com- prendere la propria scienza e per riflettere la luce che viene dalla sociologia anche alle ricerche storiche. Lo stesso è da dirsi dell'economia, tanto come oggetto di forme secondarie di socialità, quanto come condizionamento dello sviluppo di ogni altra for- ma sociale.

I1 processo delle forme è legato alle sintesi sociali e si svi- luppa con elementi d i azione e reazione su direttive che abi- tualmente, per analogia, si chiamano leggi, norme, regole. I1 no- stro vocabolario non ha voci più adatte. La parola (( legge )) non tradirà il significato particolare che vi si dà in sociologia. Tutte le discipline umanistiche cercano le leggi della particolare branca di studio; l'analogia con le leggi delle scienze fisiche e naturali, in ambiente culturale impregnato di naturalismo e di positivi- smo quale quello del secolo scorso, ebbe la partita vinta. Però, mentre un tempo le leggi fisiche si credevano veramente vinco- lanti e immutabili, le leggi morali e storiche si son credute quali semplici direttrici orientative, quali costanti approssimative, quali tentativi di sistemazione teoretica senza reale consistenza e obbligatorietà.

A parte la caducità di non poche leggi fisiche, credute fon- damentali e pali dimesse sotto la critica d i ogni giorno o per la scoperta di leggi più evidenti e piii comprensive, la teoria della relatività prima e le invenzioni nucleari dopo hanno fatto ricon- siderare il problema della reale esistenza e della portata delle leggi fisiche, arrivando al punto di negarle, o di riconoscerle valide dentro un dato sistema, o di mantenerle come ipotesi d i studio. Così il trono stabile e fermo delle leggi fisiche potrebbe dirsi crollato, per darci, anche in questo campo, un nuovo esem- pio della relatività e contingenza del mondo della natura.

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Se mettessimo sullo stesso piano anche le leggi sociologiche (che pur portano in sè le oscillazioni della sistematica delle scienze umanistiche), non avremmo fatto di sicuro un passo in- dietro per quel che viene obiettato da filosofi e da scienziati.

Le leggi sociologiche e sociologico-storiche sono anzitutto ipo- tesi di studio basate su dati accertati con buon metodo e con rilievi sia statistici sia diretti. Due aspetti può avere una legge: quello della imposizione esterna e quello dell'interna esigenza d i natura. Le parole tradizionali hanno un significatd originario incancellabile: nel caso in esame si tratterà di legge di natura, legge del creato, legge della volontà creatrice. I presupposti teoretici di ciascuno studioso danno colore al linguaggio e al ra- gionamento che egli usa.

Chi scrive ha messo in evidenza la legge della raziohalità (legge interiore), come tendenza della società stessa nel suo di- venire; razionalità impura mista di irrazionalità e di pseudo-ra- zionalità; razionalità che purifica l'attività umana, in quanto ne vivifica allo stesso tempo l'atto e il sacrificio; razionalità reale o anche apparente, che in dati momenti storici surroga la razio- nalità effettiva e ne prende il posto.

Sensisti e materialisti non credono alla ragione: useranno un'altra parola atta a significare la facoltà umana d i capire, in- tuire e applicare le sue virtù speculative alle sue energie attive. Cambierà i l linguaggio, ma nessuno potrà negare che lo sviluppo d i civilizzazione dell'uomo, anche se involuto, incerto, intermit- tente, a m v a con la azione associata alla conoscenza sempre più chiara delle verità razionali.

Si parlò un secolo fa di progresso; oggi si parla di tecnicità; domani si userà un'altra parola: in fondo non si tratta che della facaltà immanente dell'uomo, diretta alla realizzazione della parte superiore del proprio essere (la ragione); realizzazione possibile solamente e unicamente in società. La sociologia ci dirà quale sia stato e quale sia l'apporto della società o delle società (compresa la religiosa) in questo divenire razionale dell'uomo, o la sociologia si condanna da sè ad una irrazionale mutilazione.

Di fronte all'importanza delle discipline psicologiche e pseu- do-psicologiche questa rivalutazione della coscienza di sè (per- sonalità associata) o della razionalità (finalismo associato) dà

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l'idea della invasione di speculazioni o pseudo-speculazioni filo- sofiche ed etiche nel campo della sociologia. E non è così; siamo in materia ; perchè la problematica che viene posta e stu- diata appartiene intimamente alla vita associata dei nuclei umani. Isolanda la coscienza individuale dalla collettiva e isolando la tendenza finalistica della razionalità individuale da quella asso- ciata, si ottiene l'astrazione dell'individuo uomo, materia che non è oggetto di sociologia, mentre l'unico oggetto della sociolo- gia (vale la pena ripeterlo) è l'uomo individuo nella sua proie- zione sociale e reciproca con gli altri individui.

Quando si dice società in concreto, non può intendersi altro che l'attività interindividuale organizzata nel suo essere e nel suo divenire. Tutto quel che tale coesistenza, organizzaziosie, sviluppo implicano nel concreto associativo come necessario, è oggetto proprio o conseguente della sociologia. Perciò non fa me. raviglia se materia degli studi accennati da chi scrive sia quella del condizionamento all'attività dell'uomo, come limite, come spinta, invenzione, rinnovamento. La contingenza umana è stu- diata dalla filosofia e dall'etica sotto certi aspetti che non sono sociologici o che possono essere presupposti allo studio sociologi- co ; ma quando si arriva allo studio storico-psicologico-sociale, del come l'uomo abbia superato e superi i limiti che l'ambiente, le personali difficoltà, la località e simili hanno messo e mettono a l suo operare, e non singolarmente, come si può credere super- ficialmente, avendo anche gli Alessandro, i Cesare e i Napo- leone operato su piano comdizionato e con cooperazione non illi- mitata, e cadendo sul terreno creato da loro stessi, non si tratta di semplice interpretazione storica, ma d i analisi sociologica di quel che l'attività umana nel condizionamento fisico-stoirico-am- bientale può produrre, superando o cedendo.

Questo angolo visuale apre le prospettive di una sociologia storicista, di cui è stato fatto un primo tentativo da chi scrive, con il suo Essai a% sociologie (Paris 1935). Lo storicismo sociologico ivi sostenuto è la « concezione sistematica della storia come pro- cesso umano, realizzantesi in virtù di forme immanenti, unificata nella razionalità, però da un principio e verso un fine trascenden- tale assoluto D, Tale concezione deriva connaturalmente dallo stu- dio dei fatti e dei dati bella società in concreto. La convinzione

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dell'esistenza del principio e del fine trascendentale assoluto è certo un postulato della ragione umana nel suo lavoho specula- tivo, ma questo è basato su dati naturali e storici.

Una società concreta formata esclusivamente da individui as- sociati, sulla base d i una coscienza individuale sociale, non può avere una continuità interiore che non si risolva, per ogni sin- golo individuo, in un principio e in un fine, e per la società stessa in un positivo inizio finalistico che riassuma la causalità interiore degli individui viventi e operanti. La storia delle sin- gole società e della processiva sintesi di esse ci dà prova cob- tinua d i simile causalità finalistica. Una storia che risolva tutto in un processo immanente, non può esistere; perciò hegeliani e crociani ci presentano una storia astratta, non mai la storia di una società in concreto che si sviluppi nel suo divenire. Tale di- venire esige un termine risolutivo che non può essere guardato che attraverso la trascendenza.

Metafisica non sociologia, si risponde dagli uni ( i positivi e gli hegeliani); filosofia non sociologia, si nota anche dagli spiritualisti, razionalisti e neoscolastici. Se si trattasse di pura speculazione razionale, questa sarebbe filosofia; se si ferma all'indagine storicista, è storia come esigenza degli elementi ch'essa rivela ( la storia è implicitamente filosofia, razionalità). Ma se si considera come tendenza della società umana a supe- rare l'irrazionale e lo pseudorazionale dei fatti umani per un moto ( o legge interiore) di trascendenza cioè superamento verso i l razionale, siamo in piena sociologia, come studio della società in concreto nel suo esistere e nel suo divenire.

L'impostazione della sociologia sul piano scientifico, utiliz- zando il meglio degli studi umanistici attorno al tema, non può prescindere dagli elementi messi in luce da chi scrive come fattori di concretizzazione, realizzazione di forme, sviluppo d i sintesi, cicli di civiltà storiche. La conclusione a cui si arriva è che la so- ciologia è veramente una scienza a sè stante, che ha già acquistato la sua cittadinanza nella repubblica della cultura umanistica.

(Sociologia, a. 111, n. 1, genn.-marzo 1958).

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ETICITA' DELLE LEGGI ECONOMICHE

I1 lettore si meraviglierà del titolo di questo scritto, perchè è opinione comune che le leggi economiche non hanno carattere etico, non dipendono dalla morale, nè da questa sono corrette O

limitate; si crede che il campo dell'utile sia autonomo. L'inter- ferenza legislativa che limita o corregge l'utile individuale o di categoria, sarebbe fuori del settore dell'utilità e, sotto certi aspet- ti, in contrasto.

La mia tesi parte da una premessa più generale: tutta l'at- tività umana in quanto razionale è pervasa d i eticità; è in sè e per sè morale perchè la moralità non è altro che la razionalità dell'azione; solo la pseudorazionalità e la irrazionalità che si inseriscono negli atti umani portano quelle deviazioni che fanno perdere i l fine e la caratteristica etica dell'azione umana.

È vero che i moralisti chiaramente distinguono gli atti uma- ni in buoni, indifferenti e mali; nella realtà non vi sono veri atti indifferenti: i l divertimento per rifare l'organismo e potere ritornare al lavoro in condizioni fisiche e psichiche soddisfacen- ti è un atto buono; il divertimento che eccede i limiti di sanità psicofisica, è un atto difettoso; così di seguito. È lecito, quindi, parlare della et ici6 della ricreazione, dello sport, del riposo; e perchè no dell'economia? Infatti il vocabolo economia » in- dica il buon uso dei mezzi di sussistenza di un nucleo associato: la parola originaria significa regola della casa. Se dalla famiglia si passa allo stato, si dirà economia politica, da « polis »; o ci? vile, da « civitas ; ovvero sociale, da stato. Non si dà economia individuale; l'individuo fuori della società non esiste; l'ordine sociale impone le regole di amministrazione a vantaggio di de- terminate società.

Se l'economia indicasse l'utile individuale, astratto dalla coe- sistenza di altri individui, si dovrebbe ammettere come econo- mico qualsiasi mezzo di amcchimento individuale quale la fro- de, il furto, il peculato, il raggiro, l'appropriazione indebita et similia. Questi mezzi non sono proibiti solo per una legge posi- tiva; è la legge morale del rispetto dell'individualità e proprietà

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altrui che l i condanna; e li condanna anche la legge economica; perchè la insicurezza del diritto e l'abuso della forza non repres- so, rendono sempre più difficile l'attività economica di qualsiasi comunità. Se una zona agricola per sè fertile, irrigabile, bonifi- cabile, è infestata da briganti, resta inutilizzata agli effetti eco- nomici; le famiglie coltivatrici si guarderebbero dall'andare a perdervi lavoro, libertà e forse anche la vita.

L'utilità, sotto il punto di vista associato, postula sicurezza e ordine ; sicurezza e ordine che si basano sopra elementi etici fon- damentali; i l rispetto della libertà, della vita e della altrui. Non solo postula, ma nel carattere stesso di utilità è con- tenuta l'esigenza etica della sicurezza e dell'ordine; altrimenti cessa di essere utilità del nucleo associativo. Tanto ciò è vero che non si attribuisce nè si può attribuire alcun diritto, positivo

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o naturale, alla associazione a delinquere, la quale può raggiun- gere il massimo di utilità (rubando, ammazzando, deportando, ricattando) ma non ha nessun elemento etico-giuridico di socie- tà ; l'associazione a delinquere ha per fine un utile individuale illegittimo perchè con danno degli altri; non è, pertanto, qua- lificabile come società umana, cioè razionale, e quindi l'utile degli associati a delinquere non è qualificabile come bene comune.

L'economia è intrinsecamente razionale e si estende da nu- cleo a nucleo; da famiglia a famiglia; da classe a classe; da ca- tegoria a categoria; da paese a paese; da nazione a nazione, su- perando sempre la barriera del vantaggio individualizzato nella famiglia sulle altre famiglie; nella classe sulle altre classi; nella nazione sulle altre nazioni, per raggiungere i livelli più alti che confluiscono a dare unicuique suum.

In questa visione risulta chiara la eticità dell'unicuique suum, di quello che spetta a ciascuno, quel minimum dell'utilità eco- nomica che possa stabilirsi in ogni compartimento economico. Dico « compartimento n, perchè più si va ampliando la zona eco- nomica da nazione a gruppo di nazioni fino alla totalità della terra abitata, più difficile ne riesce l'adeguazione, e quindi me- no visibili saranno tanto gli elementi differenziatori che i mezzi per raggiungere livelli di comparazione quali minimi comuni realizzabili.

C'è però una riprova di carattere economico che richiama la

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attenzione alle valutazioni etiche di tali rapporti internaziona- l i ; quella del danno proprio quando si viola la legge economica nella sua portata etica generale. La legge economica dell'aiuto reciproco, anche nel campo della produzione e dei commerci, ha una portata etica interiore che non falla. Per dare un esempio evidente, basta ricordare in quali disastrose condizioni si trovò l'Europa occidentale dopo l'ultima guerra pur con diversa in- tensità tra stati vinti e stati vincitori. Se gli Stati Uniti d'Ame- rica, che ne avevano la possibilità economica, avessero rifiutato i loro aiuti all7Europa, chiudendosi nella tradizionale politica d'isolamento, avrebbero fatto il danno dell7Europa, ma anche i l proprio danno.

Arrivato a questo punto, mi sento obiettare di avere senz'al- tro confuso l'etica con l'economia; il bene morale con il bene utile. Analizzo, non confondo.

È vero: nè l'economicità nè l'eticit,à dei rapporti umani è stata mai raggiunta al completo, nè credo possa mai essere rag- giunta perchè la perfezione non è di questa terra; in ogni atti- vità umana di qualsiasi natura, anche la più delicata quale la religione, interferiscono elementi pseudo-razionali e addirittura irrazionali a turbarne il corpo ordinato e lo slancio perfetto. Perchè in ogni individuo, e quindi nella stessa società, contra- stano sempre gli elementi di stabilizzazione con quelli di rifor- ma; gli elementi di materialità con quelli di spiritualità; gli elementi di rivolta con quelli di ordine.

In economie chiuse, i rapporti con i l di fuori sono rari, e qua- si esclusivamente ridotti a scambi di merci. Se nel commercio con popoli diversi e sconosciuti si usa la forza e l'inganno, la porta viene rinchiusa; i vantaggi, possibili o reali, vengono a cessare. Se i l popolo che ha l'iniziativa ricorre alla forza (incursioni, guerre, inganni di pace e sopraffazioni) potrà avere vantaggi mo- mentanei; ma avrà ingenerato odi che possono durare per gene- razioni e per secoli. Le pretese utilità scompaiono e la ferita morale si rimarginerà quando non ce ne sarà più memoria; i l che non è cosa facile perchè i popoli ricordano, specie se limi-

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trofi. Gl'irlandesi sono di questa specie; la Gran Bretagna ha pagato assai caro, anche nel settore economico, la tradizionale inimicizia con l'Irlanda del sud. Dico anche nel campo econo- mico, non ostante che questo sia stato riorganizzato con minore difficoltà nella ripresa dei rapporti.

È difficile valutare i vantaggi ipotetici, mentre è più facile valutare le carenze etiche che spesso coincidono con quelle eco- nomiche. I paesi ricchi han creduto poter proteggere la loro ricchezza con barriere doganali; così anche i paesi meno ricchi contando, per quanto possibile, sulla autosufficienza. Non riu- scendo per questa strada sono ricorsi a trattati bilaterali o plu- rilaterali. La morale non vieta gli accorgimenti protettivi che servono a dare ordine e stabilità all'economia di uno stato; ma vieta misure che violano i diritti acquisiti e i patti stabiliti. Ma chi può negare, con la storia alla mano, che dal punto di vista strettamente economico i danni non siano più che i vantaggi? Perciò sarà bene studiare negli stessi fatti economici se i pre- tesi vantaggi della guerra di tariffe, dell'isolamento, dell'autar- chia, siano raggiungibili o non contengano in sè la contropar- tita dell'impoverimento del paese, della crisi latente, mentre la frequenza degli scambi eccita l'iniziativa, aumenta gl'investimen- ti, sviluppa quel benessere invano cercato con mezzi creduti utili solo in apparenza e spesso per puntiglio o per rappresaglia.

Bisogna convenire che nei rapporti fra gli stati, l'economia prende spesso l'aspetto politico, soverchiando i calcoli econo- mici, che restano subordinati a scopi non economici, quali i1 prestigio, l'onore della casa regnante o della bandiera nazionale, futuri ingrandimenti territoriali, rivendicazioni di diritti e così di seguito. È vero che gli elementi politici e sentimentali con- tengono spesso elementi economici, siano essi sbocchi commer- ciali, posizioni chiave per i traffici internazionali, zone produt- tive; ma non è facile vedere, fra i l politico e l'economico, se l a bilancia del dare e dell'avere cada al passivo o all'attivo. Dal- l'altro lato, è pur vero che in tale groviglio di interessi econo- mici e di pretese politiche, i valori etici hanno anch'essi il loro peso perchè (come ho già esposto) indicano il carattere di ra- zionalità dell'attività umana. Chi viola tale razionalità, sia per ignoranza, sia per malvagità o per viltà, ne paga e ne fa pagare

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il fio, non solo personalmente come soggetto morale, ma anche nel complesso sociale che a lungo andare ne risente le tristi con- seguenze, per una specie di fondamentale solidarietà di tutti i consociati nel male come nel bene. Tale solidarietà resta per molti un punto oscuro non solo storico ma anche etico.

È proprio la razionalità umana che, nel regolare l'attività, si esprime con leggi; tali leggi, secondo i fini da ottenere le pre- cisiamo in religiose, civili, olit ti che, amministrative, economi- che, tecniche. Anche l'economia ha le sue leggi. Gli economisti sogliono appellare leggi economiche quelle astratte dalla realtà di determinati sistemi applicabili sempre e in tutti i casi. Tali leggi riguardano solo rapporti d i quantità; come tali non entra- no nella realtà concreta altrimenti che come condizionamento all'attività umana; sono perciò soggette alla valutazione razio- nale solo attraverso la utilizzazione economica o antieconomica che se ne possa derivare. Però, ed è questo il mio punto di vista, se la utilizzazione sarà antieconomica, per questo stesso non sa- rà razionale e quindi mancherà dell'eticità interiore che secondo la mia tesi vi è inerente.

Ma il condizionamento economico non è solo di quantità e non si esprime solo in formule matematiche o statistiche di quantità. La società umana è condizionata da molti fattori; la stessa attività individuale è condizionata dal proprio corpo e dallo sviluppo psichico di ciascuno. La società come tale è con- dizionata nella sua struttura e nel suo evolversi (dimensione spaziale e temporale), ed è anche condizionata dall'ambiente, dalla tradizione, dalla organizzazione; sta all'uomo associato poterne correggere i lati negativi e attuare quelli positivi in modo da crearsi un condizionamento sempre più adatto al suo incivilimento, sempre più adeguato alla vis razionale del suo co- noscere e sapere, ai bisogni in sviluppo del suo essere in società.

Strumento necessario a tale sviluppo evolutivo o innovativo è l'economia, la quale basandosi sulle quantità disponibili rea- lizza le qualità utilizzabili; e in questa strutturazione, dalle for- me primitive alle più evolute, stabilizza i suoi sistemi con leggi non arbitrarie, ma regolatrici ed aderenti alla realtà ed alle sue possibilità di attuazione. E per quanto i l sistema possa essere difettoso, e tale è sempre nel concreto, tende di per sè a dive-

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nire ancora più razionale, cioè ad adeguarsi alla eticità interiore, sotto pena di fallire sia nel particolare, sia nel complessivo. Non si può negare che la spinta a qualsiasi miglioramento anche sem- plicemente tecnico e materiale viene da motivi etico-razionali; ma condizionati dai fattori materiali della economicità. Non si nega che l'egoismo e l'interesse individuale abbiano una parte interessante nelle spinte progressive, ma anche i fattori pseudo- razionali influiscono sullo sviluppo delle più elevate ragioni del vivere in società.

Una piccola comunità montana confinante con vaste zone bo- schive occupate con mezzi e leggi costumarie e ridotte a dema- nio comune di usi civici diretti a soddisfare certe elementari esigenze di vita: - caccia, legna, frutta spontanee, zone di col- tura estensiva per famiglie o a turno - avrà un'economia ele- mentare regolata da norme accette a tutti. E se legna o caccia- gione abbondano sì da poter essere vendute in zone contigue, quegli abitanti inizieranno dei contatti, osservando spontanea- mente quelle norme economiche che aiuteranno simile iniziativa.

La ristrettezza o ampiezza di territorio degli agglomerati po- trà dar luogo a lotte primitive: la paura reciproca può ingene- rare inimicizie o precauzioni di difesa per eventuali incursioni; la formazione di gendarmerie (anche se elementare) può essere basata sopra distinzioni di classi o caste; i prigionieri ridotti a servitù formeranno una categoria di servi-lavoratori che, a costi minimi e con sacrifici ignorati o non apprezzati, contribuiscono al benessere degli abitanti originari. È storia incancellabile per- rhè realtà umana e anche disumana.

In simili ambienti i rapporti economici elementari sono visti nel quadro della vita personale e familiare, nelle oscillazioni di benessere e di affamamento ; nelle di5coltà di vendita e di scam- bi ; nella carenza di mezzi; o negli effetti deleteri di certe pra- tiche non rispondenti alla realtà di ogni giorno. I1 punto inte- ressante è quello del mio e del tuo, e quindi del limite giuridico ed etico dei rapporti che vi sono implicati; il giudice e il sa- cerdote faranno anche da regolatori dell'economia, l'uno col-

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pendo la frode, l'altro proibendo l'usura ; l'uno ristabilendo o dichiarando l'ordine giuridico; l'altro inculcando l'osservanza delle leggi di giustizia e di carità nei rapporti umani.

Quel che occorre precisare è che mai il diritto arriva ad es- sere perfettamente equo; mai la morale arriva ad evitare le sot- tili insidie dell'egoismo ; mai le leggi economiche realizzeran- no nella prova quella razionalità che esse contengono, perchè la società in concreto, ogni società, è relativa a determinate strutture demografiche e politiche e a determinati fattori, tradi- zionali e storici, e a determinati stati psicologici dei nuclei umani.

In ogni società organizzata, al movente razionale che fa vi- vere insieme, si mescolano motivi pseudo-razionali o irrazionali, che accentuano le diffidenze, acuiscono le divergenze, rendono difficile la coesistenza dei nuclei, turbano le relazioni, eccitano i dissidi e rendono meno efficaci i vincoli morali, le sanzioni giu- ridiche e le norme stesse dell'economia. Ma i l reciproco condi- zionamento della ra~ionali t~à e delle varie tendenze irrazionali dell'uomo servono a sviluppare il dinamismo del vivere in comu- ne e la ricerca e lo studio di leggi generali anche nel campo eco. nomico, applicabili a tutte le strutture della società, sia che ar- rivino a confondersi con le leggi morali ( i patti si devono osser- vare), sia che prendano figura di leggi matematiche e statistiche, riferendosi alle quantità, come nel caso di razionamenti per in- sufficienza di generi necessari alla vita (cibi, indumenti e simili).

Tali rilievi a. tipo sociologico sono da tenere presenti anche nell'esame dell'economia intensiva, sia nei paesi liberi che in quelli dittatoriali. Nei paesi liberi prevale l'economia di mer- cato, nei paesi dittatoriali quella statizzata ; ma l'una ,e l'altra essendo caratterizzate dal ritmo intensivo, tecnico e produttivi- stico, si basano sul fattore capitale, come mezzo indispensabile e perciò prevalente, anche se il fattore lavoro arrivi ad ottenere condizioni mai avute nel passato e mai ottenibili nelle econo- mie estensive.

È da premettere che nel concreto sociologico, mai una strut-

19. S ~ c ~ z o - Del 3fetodo Sociologice

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tura è talmente isolabile da non mutuare elementi dalle altre anche opposte strutture e viceversa. Così oggi non troviamo un paese a tipo dittatoriale che non abbia uno spiraglio di libertà economica; e molto di più un paese ad economia d i mercato che non abbia il peso di una concorrente o privilegiata econo- mia d i stato. Gl'italiani, da tempo, ne sanno qualche cosa; non può recare loro meraviglia la coesistenza delle due economie.

Usando 1s aro le capitale e capitalismo n nel senso pura- mente economico, non in quello politico e anche polemico, dob- biamo notare che l'economia capitalista coincide con due dati importanti: la formazione di stati costituzionalmente liberi e l'introduzione della tecnica industriale; ma, pur avendo libertà politica nel decorso dei due ultimi secoli, pur avendo quasi tutti gli stati subito mutamenti politici e notevoli crisi economiche, il progresso tecnico ha avuto una sempre crescente spinta dagli stessi avvenimenti, con il corrispondente accrescimento e adatta- mento del sistema capitalistico e dei mezzi creditizi, la sta5iliz- zazione di monete rappresentative in circolazione, anche negli scambi internazionali con appropriato valore di mercato.

Mentre quei paesi che non entrano nell'ambito degli scambi monetari tenderanno a sviluppare le proprie imprese e prove- ranno le difficoltà della pretesa autosufficienza e delle esperienze dell'autarchia; anche quegli altri i quali tendono a garantire le proprie iniziative con l'elevatezza dei dazi doganali a protezione delle produzioni povere o di speciale interesse politico, subi- ranno gli effetti della mancata o troppo limitata libertà di scam- bi e le diflicoltà inerenti allo sviluppo economico. I1 capitalismo non è un sistema-fisso; evolve i suoi elementi costitutivi secondo lo sviluppo dei mezzi tecnici e delle strutture politiche; come si prova nei due secoli di economia incentrata, dal poco al molto, sul capitale.

Ciò premesso, non è difficile arrivare a due conclusioni: pri- mo che anche nelle leggi dell'economia capitalistica (come in tutti gli altri sistemi) si deve trovare l'elemento razionale, per- chè tale elemento non può mancare in nessuna struttura umana a carattere associativo; in tale economia, d'altra parte, non man- cheranno (come non mancano in ogni sistema concreto) le infil- trazioni pseudorazionali e irrazionali, le quali, non a tempo cor-

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rette, tendono ad attenuare od elidere gli effetti della razionalità del sistema. Questa non è conclusione aprioristica, ma si deduce sociologicamente dalle esperienze storiche, fra le quali è da met- tere l'enorme progresso collettivo degli ultimi due secoli nel campo del benessere comune, ciò non ostante lo sbalzo demo- grafico avuto, anzi proprio coincidendo con una densità d i po- polazione mai registrata nella storia dell'umanità; e, quel che meraviglia non pochi economisti da Malthus in poi, coincidendo l'aumento, demografico con l'aumento di ricchezza sia propor- zionale che assoluto e anche con la generalizzazione di benessere alle classi lavoratrici pure evolute, ai ceti medi di ristretto li- vello economico e ciò in molti campi d i attività quali l'alimen- tare, la tessile, la costruttiva, compresevi abitazioni e comuni- cazioni, nonchè gli eccezionali miglioramenti nei settori igienico e assistenziale e così di seguito.

Si tratta di effetti di un'economia a sviluppo intensivo; ma chi può negare che tali effetti contengano u n cumulo d i beni morali (istmzione, cultura, sicurezza generale) che non sono se- parabili, tranne che per il metodo astrattista e analitico, i l quale per sè esige la successiva risoluzione di sintesi concrete nella realtà storica?

Passando al campo dell'economia di ciascuno stato, conside- rato nel suo particolare interesse, notiamo anzitutto che la dif- ferenza sul campo dei valori economici è quasi del tutto psicoc logica, essendo noi per abitudine mentale e affettiva indirizzati a valutare i problemi del proprio paese, come se la loro solu- zione potesse essere data prescindendo dalle condizioni interna- zionali, mettendoci sopra un piano di autosufficienza o, se vuolsi,

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di orgoglioso isolamento. L'economia di ciascun paese per una sempre più larga percen-

tuale è condizionata all'economia internazionale, e solo in senso astratto si può individuare come a sè stante. Perciò la mira d i un governa deve essere duplice: quella d i mantenere aperti gli sbocchi con l'estero mediante alleanze, amicizie, convenzioni, da regolarsi in modo sempre più aderente alle condizioni moneta-

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rie, finanziarie e produttivistiche reciproche; l'altra di assicu- rare, attraverso la sana amministrazione, l'ordine politico, giu- diziarioi e l'equilibrio fiscale, le più promettenti condizioni per la produttività del paese e per la migliore intesa etico-econo- mica fra le categorie produttrici.

Qui si inseriscono il problema dei limiti dell'intervento sta- tale nella libera espansione economica e anche quello di man- tenere intatta la capacità organica atta a correggere le sperequa- zioni economiche. I1 dibattito fra statalisti e antistatalisti, fra di- rigisti e antidirigisti parte da un punto importante: se la libertà economica abbia in sè la virtù di rimediare agli effetti svantag- giosi che può produrre sia per la violazione delle stesse leggi economiche, sia per la non esatta o per la incompleta osservanza di tali leggi.

Mettiamo fuori discussione tutti i mali che derivano,, e non solo nel campo economico, dalle violazioni della morale codifi- cata, alla quale lo stato provvede a mezzo degli organi di giu- stizia civile penale e amministrativa. Può il mondo1 eliminare tutti gli effetti economici del furto? Si ricorre (se possibile} al- l'assicurazione contro il furto come si ricorre alla assicurazione contro l'incendio, la grandine e così di seguito.

Mettiamo fuori combattimento i fallimenti e le perdite che vengono da ignoranza, incuria, spese eccessive, iniziative azzar- date: il rischio è inerente ad ogni azione umana; il rischio è correttivo dell'attività economica; eccita all'invenzione; aiuta ie opere ardue; fa superare le difficoltà. I1 rischio è un bene che si paga. Sarebbe contro natura ingenerare la convinzione clie si possa a&ere tutto quello che si desidera senza correre alcun ri- schio, per via di un intervento statale in tutte le evenienze, pur ammettendo che gli operatori debbono cercare d i attenuare i rischi con tutte le forme di assicurazione e autoassicurazione che la tecnica e la esperienza suggeriscano.

Mettiamo come dato sicuro (per quanto non avvenga quasi mai ma potrebbe avvenire) che i l sistema fiscale dello stato e degli enti autarchici locali sia il più equilibrato, il più giusto possibile, lasciando intatto il minimo necessario alla vita, non sottraendo quel che serve alla produzione e allo sviluppo delle libere attività, limitando le spese statali al necessario e curando

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che gli impieghi del denaro pubblico siano fatti con parsimonia e correttezza.

Ciò posto, lo stato oggi non può essere esonerato da due in- terventi necessari allo sviluppa di ogni paese moderno e civiliz- zato: quello di attenuare la situazione endemica o per fasi con. giunturali della disoccupazione operaia con provvedimenti atti a fronteggiarla, e quello di curare che i cittadini abbiano la pos- sibilità d i sviluppare le proprie energie e la propria attività. I mezzi adatti variano da paese a paese. In un paese libero i valori della libertà e della personalità umana restano limiti in- valicabili a l potere statale, fino a che non sia in pericolo l'esi- stenza stessa della società organizzata.

Do un esempio per farmi intendere: se una nave andata alla ventura e in attesa d i soccorso ha pochi viveri disponibili, il -

comandante ordina il razionamento più rigoroso, nella speranza dell'atteso soccorso. Nessuno potrebbe sottrarsi al rigido inter- vento di autorità. Così si giustifica il razionamento in periodi d i guerra e d i carestie. Fuori del caso di simile emergenza, il potere pubblico nel regolare il suo intervento deve cercare di rispettare le leggi economiche, pena l'aggravamento delle situa- zioni difficili e le asperità di conseguenti sperequazioni. Torna a mostrarsi l'evidenza della tesi non solo del valore intimo della legge economica nel campo suo proprio, ma dell'intrinseco va- lore etico della legge stessa.

Un esempio può essere dato dal proposito di certe correnti politiche del nostro paese a favore della cosiddetta giusta cawa permanente per la disdetta dei patti agraS. L'effetto economico dannosa è evidente; nel voler dare sicurezza al lavoratore che ha un podere si bloccano i contratti; si rende difficile, costosa, litigiosa e inefficiente la disdetta; si impedisce i l normale assesta- mento delle famiglie coloniche e la ricerca dei lavoratori pih diligenti; si dà i l premio agli incapaci e agli infingardi. Ma que- sti effetti contengono in sè un decadimento etica del rapporio del lavoratore col conduttore, una specie di distacco diffidente d i rapporti umani, una disaffezione reciproca fra uomini e per- fino verso la stessa terra che dovrebbe dare i suoi effetti, impe- dendo così la cooperazione utile e tranquilla fra i due contraenti. Che la legge debba garantire il più debole contro le soverchierie

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del più forte è evidente; che la legge sposti i termini per rendere i rapporti di associazione economica anormali è un atto immo- rale oltre che antieconomico.

La tendenza dei governi ad avere monopoli statali o di enti di diritto pubblico, a prendere sotto la propria etichetta imprese produttive incamerando partecipazioni azionarie di imprese pri- vate, ha alterato la funzione pubblicistica dello stato, che si è sostituita all'attività privata in condizione di privilegio e con tendenze sopraffattrici. L'alterazione delle leggi economiche del libero mercato non è solo da addebitarsi allo stato ma anche alle imprese private, quando queste costituiscono dei trusts o creano monopoli. La colpa dei governi, in tali casi, deriverà da tolleranza e da mancanza d i correttivi, atti a rimettere nella vera e sana linea la libertà economica. Nell'un caso e nell'altro dei monopoli pubblici o dei monopoli privati, gli effetti antie- conomici contengono anche effetti di notevole imponenza nel campo morale, come è facile vedere esaminando i casi concreti.

Pertanto la nostra formula etico-economica dell'intervento statale, ripetuta in discorsi parlamentari e in polemiche gioma- listiche è la seguente:

1) la libertà è unica e individuale; si perde la libertà p o litica e culturale se si perde la libertà economica, e viceversa;

2) la libertà è espressione di verità e d i ordine; il corret- tivo contro gli eccessi della libertà 2?: anzitiittn, I'aiitndisciplina e l'autolimitazione; a parte quella regolamentazione legislativa necessaria per la coesistenza e il rispetto dei diritti e dei doveri reciproci ;

3) lo stato ha per funzione principale e propria quella della garanzia e vigilanza dei diritti collettivi e privati, il man- tenimento dell'ordine pubblico, la difesa nazionale, la tutela e vigilanza del sistema monetario e creditizio; la finanza pubblica e la buona amministrazione dei servizi pubblici nazionali; in via secondaria e sussidiaria lo stato interviene, in forma integrativa, in quei settori d i interesse collettivo particolare o generale nei quali l'iniziativa privata sia deficiente, fino a che sia in grado d i riprendere il proprio ruolo. I casi di emergenza impongono allo stato altri compiti; ma questi sono temporanei e si eserci-

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! tano nel rispetta dei diritti politici del cittadino, la cui libertà deve essere tutelata, la cui personalità deve essere rispettata.

Passando dal campo statale a quello strettamente privato, oc- corre premettere che è difficile che l'operatore, quale ne sia il settore, osservi le leggi e le regole economiche. I più non le co- noscona; quelli che ne sanno qualcosa non credono che non valga la pena occuparsene; lo spirito egoista prevale sulle leggi morali che riguardano gli affari, leggi che spesso esprimono, in termini etici o religiosi, anche il fondo economico che esse con- tengoino.

L'osservanza dei patti è legge morale, ma chi può negare che sia anche una legge economica? È vero, si stipulano patti non equi e quindi immorali; ma chi non sa che la mancanza di equità è contraria all'interesse della parte che crede d i averne profitto? Se è il proprietario che se ne avvantaggia, il lavora- tore è indotto a fare il suoi mestiere di malavoglia maledicendo il conduttore; il quale spesso non si rende conto che se i l rendi- mento di tale operaio è inferiore a quello che egli pretende, ciò può dipendere dallo stato psico-fisico dell'operaio,. Questi, pur cercando di fare il suo dovere, manca di sufficiente nutrimento, ovvero non può curare le malattie di famiglia ovvero è preoc- cupato per i debiti; non è certo nelle migliori condizioni per la- vori diuturni e gravosi. La teoria cristiana del salario familiare equivale a quella d i salario giusto. È legittima quindi la orga- nizzazione operaia specie in sindacati e leghe per ottenere quel che in regime individualistico venga negato.

Si suole attribuire al regime economico libero da vincoli, regime che fu iniziato nel campo industriale fin dalla prima metà dell'ottocento, lo sfruttamento della manodopera come ef- fetto combinato dell'egoiamo degli imprenditori e della mancan- za di regolamento d i ore e di salario. Dal punto di vista storico, la situazione operaia era già grave nel secolo precedente, quando ancora esistevano le corporazioni d i arte e mestieri, le quali, dato il regime privilegiato e chiuso, non solo non rispondevano più alle esigenze della sviluppo demografico e tecnico, ma ren-

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devano sempre più difficile i l collocamento della manodopera cittadina, mentre la grande maggioranza delle forze del lavoro restavano nella campagna, essendo tuttora in uso la servitù del- la gleba.

Le guerre della rivoluzione e quelle napoleoniche assorbi- rono un numero notevole di forze di lavoro; le quali, a guerre finite, costituirono un vero esercito di disoccupati e di ex-lege, che l'incipiente industria non poteva assorbire, mentre i governi d i allora, rifatti da antiche classi nobili in ripresa e dalle nuove classi emerse dalla rivoluzione, non erano in grado d i compren- dere i nuavi problemi che la trasformazione politico-economica aveva posti. La dura esperienza d i quel periodo, teorizzata nella più larga indisciplinata e irresponsabile libertà da un lato e nella rivoluzione proletaria dall'altra, ci diede il laisser-faire e Eaisser-passer dell'economia borghese e l'appello comunista del 1848. Nè l'uno nè l'altro si basarono su vere leggi economiche, perchè inficiate d i quello pseudo-razionale che dalla esperienza e dall'esame più approfondito dei fatti economici è stato dimo- strato ad esuberanza.

La teoria marxista nasce proprio da tale clima e ferisce l7e- conamia capitalista nella sua affermazione autonoma e preva- lente, proprio per la violazione del contenuto morale della legge economica della collaborazione dei fattori di produzione. La storia economica è connessa strettamente con quella politica e con qiie11ti eiicu-itiligioba ed è: iiiipussiLile isolarla come a sè sianre.

Altro esempio di quel che stiamo esaminando ce lo dà il feno- meno del costo del denaro, La chiesa ha sempre combattuto l'usura fino a sostenere, con l'appoggio della Bibbia, l'immora- lità del prestito del denaro ad interesse. Poi fu ammesso un lieve interesse, che col tempo si fece arrivare al cinque per cento. Con l'istituzione delle banche popolari si consentì o tollerò fino al 6 o anche, in casi eccezionali, al 7 per cento. Attualmente in Italia banche di stato e di diritto pubblico arrivano a tassi ele- vati fino all'll, al 13, al 15 per cento. Tale sistema di interesse bancario-statale vige in Italia non ostante i ripetuti richiami fatti da chi scrive e i rilievi di economisti e di uomini di buon senso; ma governo e partiti sono stati sordi. Ebbene, qui gladio ferit, gladio perit: è questa la legge del taglione. La economia

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agricola e commerciale italiana è paralizzata dagli alti costi; si dà la colpa alle tasse, agli oneri previdenziali, ai salari, al- l'imponibile d i manodopera, e non a torto; ma il costo del de- naroi è alla base dei mali della nostra economia. E se i grandi industriali si possono dare i l lusso di finanziare partiti e gior- nali e fare anche della politica costosa, tutto ciò è a danno della sana produttività, dell'equità remunerativa, è frutto di usura; la quale dal credito passa ai costi di produzione, da questi ai prezzi di vendita, dal complesso economico al concorso politico protettivo (tariffe, doppi prezzi, monopoli tollerati); la catena continua.

Quand'ero giovanotto mi insegnavano che tre sono i fattori che turbavano l'equilibrio economico del nostro paese: il prezzo alto del pane (noi abbiamo i prezzi del grano più alti di tutto il mondo); il prezzo alto dell'acciaio (per fortuna è venuta la C.E.C.A. ad attenuare e non del tutto i nostri costi che le bar- riere doganali tenevano ad alto livello), i l prezzo elevato del de- naro, e l'Italia ne ha il primato. Noi paghiamo questi dislivelli con i sacrifici dei disoccupati veri, dei sottoccupati, dei male remunerati e dei miserabili delle nostre zone depresse; mentre premiamo (è la contropartita) i profittatori politici ed economici, i vincitori di giochi e di gare, i dirigenti di enti pubblici, coloro che formano la nuova o la futura classe di dominio con le più larghe remunerazioni possibili.

Leggi economiche queste, calpestate perchè calpestata la in- sita moralità di tali leggi? o viceversa, leggi morali calpestate perchè offesa la intima economicità di tali leggi? Nel fondo di ogni crisi economica vi è imprevidenza e politicismo dei capi e dei governi, demagogia e ignoranza della classe politica; malco- stume e monopoli criptici, cioè decadenza morale nel campo degli affari.

È vero che in ogni stadio della vita umana, certe leggi econo- miche operano automaticamente sulla base del condizionamento più o meno transitorio (oggi si dice congiuntura). Ma ogni auto- maticità si riferisce esclusivamente a problemi di quantità - sia di beni di consumo; sia di uomini ridotti ad elementi numerici, eserciti da un lato e lavoratori dall'altro sotto disciplina coat- tiva; - ciò non impedisce la valutazione etica basata sulla in-

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sita libertà individuale, nè la possibilità d i correggere e guidare i fattori produttivi a scopi determinati, nella gamma che va dal- l'autarchia alla liberalizzazione e viceversa. I1 valore etico di ogni atto, anche nell'uso di strumenti economici d i dirigibilità, resta intatto e arriva più lontano che il semplice fattore positivo d i un'economia concepita astrattamente come al d i fuori d i ogni realtà socidogica.

La conclusione può sembrare audace e solo teorica per co- loro che guardano la economia come autonomia, scienza astratta inflessibile, formula matematica inalterabile, cosa esatta sola- mente nei rapporti d i quantità guardati nella più schematica astraziane, il cui valore è stato ed è notevole per potere bene comprendere la parte determinante che ha il condizionamento quantitativo nella vita associata. Ma non può indicare il modo come potere alterare tale rapporto in più o in meno, nè i pro- cessi qualitativi delle quantità di beni, nè le attuazioni istituzio- nali che inventiva e pratica mettono in essere, dando moto a sistemi concreti e a sviluppi d i continuo adattamento.

È evidente che chi agisce e reagisce nel campo economico è lo stesso uomo razionale e volitivo che agisce e reagisce nel cam- po morale e nel campo politico, in quello religioso e in quello civico, nella cultura e nelle arti. Tutta la vita è condizionata dall'economia, e questa è condizionata dalla quantità e la quan- tità è condizionata dall'attività produttiva dell'uomo, cerchio ferreo e pur animato e vivincaio Qaiia iibertà inieriore 9ai:';ri- dividuo e associativa o inter-individuale che è la fonte della re- sponsabilità e quindi della moralità delle azioni umane, del bene e del male che si trova in questo mondo, anche nella economia guardata nella sua interiore eticità come prodotto degli uomini quali esseri liberi e responsabili.

(Sociologia, a. 111, n. 3, luglio-settembre 1958).

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SOCIOLOGIA STORICISTA (*)

La prima volta che un libro di sociologia ebbe la qualifica d i storicista fu a Parigi nel 1935 con la pubblicazione dell'Essai & Sociologie dell'autore che ha dato il nome a questo Istituto. Fu una sorpresa anche per gli amici eccitando in loro curiosità e dubbi. Non aveva forse lo storicismo moderno per capostipite lo Hegel? Non aveva dato modo a Karl Marx di trasformare l'idealismo hegeliano in materialismo dialettico? I nazionalismi del secolo XIX non erano basati sopra uno storicismo particola- ristico, limitato da barriere di lingua, di razza, di interessi? Tale qualifica data alla sociologia non fu, in un primo tempo, valu- tata nel suo esatto significato; qualcuno volle vedervi il tenta- tivo di cristianizzare I'istorisme (era questo i l termine d'uso di Benedetto Croce). Ma quando, due anni appresso (1937) fu a Parigi pubblicato il nuovo lavoro: l'Eglise et 19Etat, con il sot- totitolo: Etude de swiologie historique, i cultori di sociologia e i miei stessi amici si resero conto della novità e dell'importanza di una sociologia storicista; pur avvertendo quanto dal mio fosse lontano i l pensiero d i Croce, sul quale, per quel che poteva in- teressare un pubblico straniero, essi trovavano nei miei scritti quell'apprezzamento che meritava, pur dissentendo nel suo com- plesso come dottrina sostanzialmente immanentista.

Verso l'orientamento storicista della mia sociologia, in certi campi del pensiero e della speculazione scientifica una tal quale diffidenza per quanto attenuata permane tuttora, per vari motivi che possono così riassumersi: la tendenza a ridurre la sociologia a i fatti e dati del comportamento interindividuale, lasciando ad altre discipline lo studio della struttura della società nel suo complesso e nel suo evolversi nel tempo; la preoccupazione che lo studio della storia, diilìcilmente dissociabile dal dinamismo strutturale della società, faccia deviare dai problemi d i convi- venza sociale o li faccia vedere sotto angoli per ciò stesso defor-

(*) Prolusione tenuta in occasione delì'apertura deli'anno accademico 1958-59 del corso di sociologia storicista.

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mati; la convinzione che dalla valutazione storica si cada nella filosofia della storia, la quale a molti sembra (e forse non a torto) nè filosofia, nè storia.

A parte queste preoccupazioni di sistema, ve ne sono due d i puro orientamento culturale: quella degli immanentisti, e sono i molti, i quali reputano estraneo alla storia umana qual- siasi salto nella trascendenza; nonchè quella degli stessi trascen- dentalisti, i quali, opinando essere lo storicismo basato sulla pura immanenza, reputano che non possa mai contenere nè i l presupposto nè il passaggio di trascendenza.

Pertanto fu mia cura fin dalla pubblicazione dellYEssai de Sociologie di precisare i caratteri e i limiti dello storicismo messo a base dei miei studi, nei termini di una concezione sistematica della storia come processo umano realizzantesi per forze imma- nenti unificate nella razionalità, da un principio e verso un fine trascendentale assoluto. Per giunta, oltre a cercare nello stesso Essai, di dare ragione dell'intima trascendenza dello storicismo nei vari gradi del pensiero e dell'azione, nel volume 1'Eglise et 1'Etat presentai il quadro storico, già accennato nel primo la- voro, di una dualità che si risolve o nel dualismo o nella diar- chia su termini e valori di trascendenza. Non contento d i ciò volli affrontare il problema nel suo complesso religioso-cristiano, e pubblicai in inglese (e poscia in spagnolo e in italiano) il vo- lume The True Life (La vera vita) ponendovi come sottotitolo: sociologia del sovrannaturale, dandovi il carattere di sociologia storicista, della quale feci nella introduzione la più ampia e aperta esposizione, affrontando i problemi che l'arduo tema imponeva.

Ora non posso che compiacermi con me stesso e ringrazio Dio e in Dio i promotori di questo Istituto e i collaboratori del corso che viene ad inaugurarsi, che la diuturna e costante fatica della mia vita, dal 1898 ad oggi, lo studio della sociologia, venga por- tato sul piano di un insegnamento metodico con l'apporto delle scienze che vi concorrono, giuridiche, storiche ed economiche, per l'interessamento della Luigi Sturzo Foundation for Sociolo- gical Studies di New York e di questo Istituto che qui ha sede, nel centro culturale artistico ed umanistico del glorioso rinasci- mento romano.

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I1 punto centrale del problema è quello posto proprio dagli umanisti attuali, se si possa dare storicismo che ammetta la tra- scendenza. Noi italiani non possiamo mettere a capostipite dello storicismo lo Hegel, ma leghiamo questo metodo al pensiero di G. B. Vico. Anch'io debbo a iVico, fin dai primi passi nello stu- dio della filosofia e del diritto, il mio orientamento al concreto storico perchè anzitutto imbevuto di storia; la storia fu la mia passione giovanile; le decadi di Tito Livio commentate da Ma- chiavelli uno dei miei libri letti e riletti; Fustel de Coulange mi attraeva quanto e più dei libri geniali e vibranti del benedet- tino Luigi Tosti, e quanti altri libri di storia potei allora leggere, rivivendo il passato come presente ai miei occhi. Benedetto Croce e i suoi seguaci. perfino filologi di grido quali un Niccolini, ten- dono a presentarci un Vico quasi immanentista, il Vico delle loro simpatie, ipotizzando un secondo Vico, cristiano per tradi- zione, cattolico di forma, legato alla monarchia per convenienza, giurista per professione: uno sdoppiamento questo non giustifi- cato dai fatti, nè dagli scritti, che non sono reticenti nè mostrano una doppia coscienza e un pensiero volutamente incompleto. Può darsi che Vico non riesca sempre a crearsi un vocabolario completamente comunicativo nel suo periodare. Ma chi si impos- sessa del suo linguaggio ed entra nel suo sistema, comprende bene i l suo pensiero, sia aderendovi sia dissentendo, purch'g ne riviva lo spirito che è storicista senza essere immanentista e senza fingere di non esserlo.

I1 punto che Vico non affrontò, nè altri dopo lui ha mai af- frontato in pieno, che lo stesso Blondel come filosofo osservò ma non sviluppò nel campo della storia concreta (non facendo ciò oggetto delle sue speculazioni), è proprio quello che sedusse i l mio orientamento storico, fu lo studio della società in con- creto, studio basato sulla storia e dalla storia vivificato. Tale concezione per me non è altro che sociologia, la sociologia stori- cista che è anche sociologia scientifica. La società in concreto (oggetto delle ricerche sociologiche) non è altro che la società nelle sue dimensioni, la strutturale e la temporale. La società non è tutta fatta come una costruzione sempre uguale, sempre

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la stessa, fissa e immobile; la struttura della società è mobile, è u n processo, con evoluzioni ed involuzioni, con sviluppi di civilizzazione e periodi d i stazionarietà; non uguale, non deter- minato ma autodeterminantesi, condizionata ma perciò stesso energetica; lo stesso condizionamento di ciascun individuo che opera in società funziona da spinta e da freno allo stesso tempo.

Così va guardata la storia, naturale e umana; naturale per- chè il clima, le condizioni telluriche, le facilità o difficoltà di vita e d i comunicazione formano un condizionamento solo in parte superabile; umana, perchè solo l'uomo ha potere razio- nale, volitivo e attivo per crearsi la propria vita e svilupparla nei secoli.

La società come struttura senza avvenire sarebbe una società inesistente ovvero una società esistita ed ignorata; la società se non avesse la struttura non potrebbe muoversi e vivere; ma se non si muovesse, se non sviluppasse le proprie energie non po- trebbe esistere. La sociologia, scienza della società in concreto, è perciò lo studio della società strutturale e processuale, cioè nella sua sintesi d i esistenza e di storia.

Perchè storia? l'uomo in tanto sa in quanto ricorda; in tanto si collega al passato in quanto forma una tradizione; in tanto questa tradizione vive in quanto ci si sente legato per affetto, per senso d i obbligazione, per un creduto vantaggio, per motivi etici e religiosi. La storia è tutto questo: comprendere, ricor- dare, valutare, realizzare, ripetendo ed innovando; processo e progresso; processo ed evoluzione; regresso e involuzione; corsi e ricorsi, direbbe Vico, non certo come semplice ripetizione, perchè nel mondo che muta la ripetizione non ha posto; ma nel senso che tutte le cause di progresso e di regresso sono conte- nute nel carattere dell'uomo e nel condizionamento della natura, compresa in questa la stessa natura umana.

Si distingue la stona naturale dalla storia umana per ragioni oggettive e didattiche; non certo per la realtà del concreto uma- no; perchè in tanto è percepita e valutata la natura e la storia del complesso che chiamiamo natura, in quanto è percepita e realizzata dall'uomo; tutto quello che non entra nella sfera umana è per noi come inesistente; il giorno che vi entra sia co- me osservazione, sia come presa di possesso e trasformazione,

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diviene storia, è la storia nostra ; non storia estranea alla nostra vita, è vita nostra, come è vita nostra la terra trasformata da sterpi in giardini fioriti e in campi fecondi; come è storia nostra la ricerca nelle viscere della terra di materiali trasformabili e trasformati dalla mano dell'uomo; o lo studio degli astri, verso i quali oggi tendiamo come a zone da esplorare avvicinandoli. Questa vita in quanto realizzata e ricordata è storia, e in quanto fissata nella nostra cultura, nei nostri istituti, nelle nostre indu- strie e attività, è vita della società.

Che cosa è la vita se non l'istante che si succede e che passa? ecco, io parlo, voi ascoltate; di qui a poco è passata la mia voce che forse non riudirete o non ricorderete; ma questa rimane; lo scritto rimane; diventa un segno della strada che altri percor- rerà cancellandolo, ovvero una stazione nella quale altri pas- sando si soffermerà, non importa; la vita umana di ciascuno d i noi è fatta d i questi momenti; la vita delle generazioni che si succedono è fatta di queste linee; la storia che la noterà è lo stesso agire dell'uomo a produrre e fissare in leggi, creare e distruggere; ricercare e inventare, ripetere e innovare. Nulla di perfetto e tutto perfettibile; nulla di concreto e tutto concretiz- zabile; parte realizzato, parte perduto; quel che è perduto si ritrova, testimonio di altri tempi, motivo di riflessione, elemento di compiacimento o di riprovazione, che come tale rientra nella circolazione del pensiero e della cultura umana e si storicizza o meglio si ripresenta sotto altro punto di vista con la novità vitale che vi spira l'opera dell'uomo.

La storia riflette nelle sue linee il corso dell'umanità come coesistenza e lotta di bene e di male per quel che la coscienza umana arriva a distinguere; ma la precisazione dei confini teo- rici e dei limiti pratici del bene e del male in tutti i rapporti sociali è il lavorio della razionalità umana, come semplice spe- culazione ma anche come regola pratica, perchè la vita associata, creando rapporti interindividuali, ne impone la valutazione; que- sta dalla coscienza di ciascuno passa alla convinzione dei nuclei e degli aggruppamenti nel loro articolarsi verso una ragione su-

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taggio e l'interesse individuale; la socialità come tale opera il passaggio dell'idea d i bene dalla semplice concezione individua- lista a quella associata.

Un passo ancora: tutto ciò che la società in concreto realizza anche se non è bene, è realizzato sotto il motivo di bene; la stessa spinta all'associazione sempre più larga è un bene. Se non fosse un bene, non potrebbe realizzarsi in società; invero, l'as- sociazione a delinquere non è società, non crea diritti e doveri non al suo interno non verso terzi; non ha capacità di edificare e produrre; solo distrugge; è fuori del ciclo sociale razionale; nega la socialità e nega il bene.

Che cosa è mai l'aspirazione comune, insistente, imperiosa verso i l bene? L'uomo aspira ad un possesso senza pericolo d i perderlo; ad una vita senza il timore di un termine fatale; ad un benessere durevole e completo; è questo un sogno? un'eva- sione nel campo dell'impossibile? ovvero la coscienza di una realtà extramondana?

La storia risponde ai nostri desideri con l'inserimento di una concezione soprannaturale nel pensiero, nella coscienza, nella vita. Mosè sul Monte Sinai è solo con l'Essere supremo che lo ha chiamato a sè per parlargli: è un at to.di comunicazione fra il creatore e la creatura; individualmente questo resterebbe nel- l'intimo della sua personalità cosciente. Ma .Mosè discende dal monte con ie tavoie deiia iegge, irova ii popoio che adora ii vi-

tello d'oro, banchettando e. festeggiando attorno l'idolo; allora nella sua collera rompe le tavole, affronta la folla, distrugge l'i- dolo. Ecco il simbolo della lotta religiosa che si fa storia. Di que- sta storia vivono tuttora gli ebrei fra la legge divina e le devia- zioni umane; di questa stessa storia, vivificata dal Vangelo, vi- viamo noi cristiani. Invenzione umana o realtà misteriosa? E di questa realtà son vissuti nei secoli popoli diversi di origine, d i razza, di cultura, di costumi, di sviluppo; sempre aspirando ad un passaggio d i trascendenza dal male al bene; dall'idolo alla legge, dalla legge al Vangelo, da una vita transitoria ad una vita senza limiti; sempre credendo o cercando di credere ad una realtà extra o ultraterrena, come ad un principio ed una pre- senza divina.

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Per poter comprendere e analizzare la società in concreto, il sociologo non può ignorare la inserzione, o meglio la storicizza- zione del divino nella vita. P u r ammettendo che questo fatto - di una portata eccezionale oltre che perenne nella storia del- l'umanità - sia stato e possa essere interpretato in maniere di- verse e anche opposte, coloro che trattano la società in concreto nel suo complesso morfologico e nel suo divenire, se omettono o sottovalutano i l fattore religioso nel suo valore storico, man- cano al compito propostosi e deformano la realtà umana.

È vero: la realizzazione storica della influenza religiosa varia nel tempo e nello spazio; può essere ed è inficiata da supersti- zioni, da traduzioni falsate, da infiltrazioni erronee, da teorie aberranti, da complicazioni e passioni politiche; cose tutte che formano la trama storica della religiosità umana e che la storia del cristianesimo registra nella lotta costante della chiesa contro le deviazioni e corruzioni della umana fragilità e perversità.

Molti oggi nel mondo della speculazione e della tecnica, della politica e dell'economia e nella stessa compagine familiare, sono abituati a guardare la religione come un passato che va ad estin- guersi, ovvero come formalità sociale priva di vita, ultimo re- siduo d i una concezione già superata dal razionalismo prima, dal positivismo dopo e infine dal marxismo. Oggi si stenta a far riprendere i l suo posto nella cultura (e quindi anche nelle discipline di insegnamento) a qualsiasi concezione religiosa della vita. La resistenza al principio di storicizzazione del divino, cioè l'apporto reale nella società d i una concezione trascendentale non si adegua alla comune educazione anche di una certa cate- goria di credenti. Eppure, la storia, la vera storia, bene studiata e obiettivamente valutata, ci presenta la storicizzazione del di- vino come un dato costante; la sociologia non può non te- nerne conto.

Tengo a precisare che la storicizzazione del fatto religioso non può essere dal sociologo esaminata come visione unilaterale o particolaristica della società, e neppure in posizione polemica con i negatori del soprannaturale o con gli assertori della reli-

20. S m ~ z o - Del Metodo Sociologico

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giosità naturale. La sociologia non è disciplina adatta ad affron- tare la questione se la ragione umana possa o no superare il mistero o se la religione soprannaturale possa o no violare i di- ritti della ragione. La società in concreto storicizza anche tali problemi con tutte le varie conseguenze che ne derivano sia nel campo scientifico e culturale, sia in quello etico e religioso, co- me anche nella coesistenza di una chiesa autonoma, quale la cattolica, in uno stato uscialmente separato o anche in aperto contrasto.

Per quanto certi storici cerchino d i minimizzare i termini di rapporto fra chiesa e stato, e per quanto certi stati, come oggi la Russia e relativi satelliti, cerchino di eliminare per quanto possibile l'organizzazione della religione cristiana, pure il socio- logo che studia la società in concreto non può sottovalutare nè omettere d i occuparsi della esistenza, influenza e dei contrasti del fattore religioso nella vita associata. E se gli sforzi dei p e r secutori della religione stabilita si volgono a trasferire i valori, i simboli, i significati, la stessa disciplina religiosa nella sfera politica come u n surrogato del quid assoluto che la società cerca nella religione o tenta di trovare nella filosofia, nella scienza, nell'arte, la sociologia storicista non può non rilevarne gli effetti.

Non credano gli studiosi di sociologia che il loro compito sia assolto solo studiando i rapporti interindividuali e i significati di valore dell'attività spicciola d i ogni giorno. I1 tema della so- cietà in concreto non si esaurisce se non affronta tutti i settori di vita associata e nella sua stessa completezza d i funzioni, d i atti- vità, d i aspirazioni umane, sui temi complessi dell'attività ra- zionale e volitiva, sensibile ed emotiva, costruttiva e distruttiva deil'uomo. E se fra gli aspetti più notevoli della vita esiste il bisogno dell'assoluto come orientamento, elemento d i stabilità, bisogno di certezza, superamento delle difficoltà e delle miserie quotidiane, il sociologo non può ignorare nè trascurarne l'esame e la ricerca, quasi fosse una riserva inaccessibile alla ricerca e allo studio scientifico.

Che se tale fosse, il sociologo dovrebbe spiegare (e già lo ha tentato da tempo) come verrebbe ad inserirsi nel processo umano la concezione d i una vita inesistente e pur creduta realtà; d i un nulla trasformato in un tutto che, in un modo o in un altro,

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prende possesso del pensiero e del cuore di molti, anzi moltissi- mi nel passato e nel presente; e dovrebbe conoscere e rendersi conto del come questo preteso inesistente si sia storicizzato e operi nella società.

Non sono mancati grandi sociologi, fra i più noti i l francese Levy-Bruhl, ad occuparsi del fenomeno religioso; ma per molti di essi si tratta di materia etnografica, nella ricerca e studio di forme primitive, di una umanità ignara di se stessa; di società arretrate, isolate e immobili, a l di fuori del ritmo della socialità. Ed è difficile trovare nei sociologi moderni adeguati studi siste- matici riguardo due punti fondamentali della socialità quale la funzione sociale della razionalità nella sua affermazione, come nei suoi aspetti deficienti, quali pseudo-razionalità e sensitività irrazionale; nonchè la funzione sociale della coscienza come com- plesso della razionalità e volitività umana tesa verso un fine che trascende il reale presente per un bene intuito sotto aspetto di assoluto.

Queste idee svolte da chi scrive nella Revue internationale de sociologie e in altri scritti fecero, venticinque anni addietro, in certi circoli francesi, addirittura scandalo, credendo che io in- troducessi nel campo chiuso della sociologia tesi filosofiche. Un critico americano scrisse che la mia sociologia faceva addirittura del tomismo. Sarebbe stato onore per me fare del tomismo; ma la sociologia non teorizza tesi filosofiche, nè vi introduce surret- tiziamente filosofia e teologia; se queste scienze hanno influito nella realtà del processo umano, il sociologo non può fare a meno d i tenerne conto, come tiene conto di ogni altro elemento culturale che valorizza o caratterizza qualsiasi fase della società in concreto.

I1 sociologo oggi studia il marxismo come inserito nel pen- siero e nell'attività moderna da un secolo ad oggi; come studia la stessa sociologia di Comte o d i Durkheim come aspetti di una concezione che ha avuto sviluppi importanti in Francia e altrove. E non studierà il fenomeno imponente della ricerca dell'assoluto come bisogno vitale dell'uomo non solo nell'intimo della sua co- scienza ma della stessa società in cui l'individuo si realizza e si esprime? vero che il quid assoluto non è stato sempre simbo- lizzato da un Dio invisibile, infinito e personale. A non parlare

a*. STCPZO - Del Metodo Sociologice

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degli dei pagani che avevano sì un Giove - Dio Padre - ma con tutte le passioni umane, nonchè dei feticci di tribù primitive (notevole che anche popoli primitivi arrivino alla nozione dì un Essere supremo); nel mondo moderno si è cercato l'assoluto nella Ragione ( i l fallimento dei razionalisti è stato notevole); ovvero nella Materia come unica realtà infinita (oggi in ribasso); ovvero nella stessa società deificando lo Stato come ultima e completiva realizzazione della Idea (gli hegeliani di oggi non amano la teologia del loro capostipite). Dalla Idea » che si realizza si è ricorsi insoddisfatti alla Esistenza che si infrange; alla Realtà che svanisce; alla Relatività che si ripete in circolo chiuso. I n tanta diversità di correnti si diventa solipsisti pur non potendo concepire esistenza umana senza società; si diventa evanescenti, pur sentendo che una vita pulsa dentro d i noi con desideri infiniti; si vuole ridurre tutto a materia perchè questa nella sua forza cieca arrivi ad essere la realtà panteista dell'esi- stente visibile. La società in concreto ha anche questi aspetti, che la filosofia dirà aberranti e i sociologi che se ne occupano presentano come elementi pseudorazionali, o irrazionali del pro- cesso storico che tende irresistibilmente verso un assoluto.

Benedetto Croce ha qualificato l'ultima sua concezione sto- rica, ma non sociologica, come storicismo assoluto. Carlo Antoni h a scritto in proposito, ciò che divide lo storicismo crociano dallo storicismo tedesco essere u il concetto stesso dello spirito come universale natura umana identica nella sua struttura e nelle sue forme in tutti i tempi e in tutti i luoghi. Qui ritroviamo sotto forma storicista l'antichissimo concetto stoico e cristiano della comune natura dell'uomo. E l'idea della universale ratio, che non soltanto rende uguali gli uomini, ma riconosce in cia- scun individuo una universale dignità, da cui si è tratta poi l'idea d i un diritto d i natura che è altresì quel concetto d i scintilla di- vina che è imita nell'anima di ciascun uomo secondo la tradi- zione cristiana, e che ne fa la bellezza e la dignità n (*).

L'Antoni passa quindi ad esaminare nel pensiero crociano, sotto la visione dello storicismo assoluto, i l problema dell'utile, e dopo averne constatato l'autonomia rileva l'affermazione del

(*) Lo storicumo, p. 191.

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Croce, non potere l'utile non essere sottoposto alla valutazione morale. Perfino il carattere della politica come potere va sotto- posto secondo il Croce alla limitazione posta dalla libertà come elemento necessario del convivere civile. Mettendo l'accento del- l'assoluto sullo Spirito, dice l'Antoni, Croce u si sentiva (d i tale Spirito) servo e ministro e debitore, questa era la sua religione D,

ed aggiunge: a Si può obiettare che questo sentirsi servo e mi- nistro del Signore, già l'invocare ed attendere la sua grazia, già i l sentire la responsabilità di questo ufficio, è coscienza ed affer- mazione della propria personalità n. Comunque si può osservare che la negazione del concetto d i individuo rischia di « separare ancora una volta l'uomo dalla storia e. d i togliere alla libertà la sua base. Le opere infatti, attraverso le quali gli individui si inseriscono nel corso della storia e in esso si perpetuano, se as- segnate all'unico Spirito Creatore, cessano di fungere da mezzo nel rapporto tra uomo e storia, e l'individuo cui è sottratta la dignità di creatore di valori, rischia di perdere nella mera vita- lità in cui è confinato, il diritto alla libertà ». Carlo Antoni aveva già osservato più sopra che « non tutto della teologia hegeliana della storia si può dire scomparso nel pensiero crociano n.

Lo storicismo moluto di Croce ad un filosofo potrà sembrare intaccato interiormente da una concezione della libertà che de- riva più dal cristianesimo che da Hegel; ma in complesso vi prevale I'idedismo con quel fondo panteista che non può esservi eliminato. Non per questo i crociani relativisti possono accettare lo storicismo assoluto senza fare un salto anche loro nel pantei- smo hegeliano. La difficoltà principale per superare l'uno e l'al- tro, il relativismo e I'assolutismo storico, è data dal contrasto fra libertà individuale e l'assoluto trascendentale che noi chia- miamo Dio.

Tale dualismo risulta da tutta la storia umana, ed è conden- sato nelle due frasi bibliche: « Non serviam n e « Fid voluntas tua n, parole dell'uomo libero sia che rifiuta sia che accetta i valori assoluti.

La sociologia storicista rileva il fatto storico permanente della coesktenza del bisogno dell'assoluto e della rivendicazione della libertà personale e associativa; è i l dramma umano dei millenni d i un passato che preme sul presente e si proietta sul futuro.

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Filosofia, teologia, scienze umanistiche, poesia, arte, tutio il più nobile sforzo dell'uomo ci rivelano il dramma della storia e ce ne danno, per quanto è possibile, dimostrazione e spiegazio- ne; solo la fede cristiana storicizzata ci rivela l'esistenza del mistero.

Sta all'uomo individuo, nella sua quotidiana attività e nelle sue gioie e nei suoi dolori, trovare quella verità pacificatrice e quella comunione intima d i anime, che dia a ciascuno di noi i l senso della nostra personalità e il soddisfacimento della sete che trascende l'oggi per il domani, il presente tormentato per un avvenire di pace, i l relativo che non basta per un assoluto nel quale poterci fermare.

Sta a voi, giovani volonterosi, nella sociologia e nelle ma- terie a 5 n i che la completano e la valorizzano, cercare quella realtà storica che è come un prezioso tesoro nascosto sotterra, in mezzo a un cumulo di errori e d i pregiudizi e a una stratifi- cazione che i secoli hanno accresciuto, quel tesoro da farsi pro- prio con pazienza, metodo, obiettività e perseveranza, verifican- dolo, purificandolo e dandovi i l posto che spetta nel piano ar- monico della verità.

Solo con l'intento di cercare la verità, di amarla, potrà otte- nersi i l miglioramento culturale e spirituale della società, mi- glioramento a l quale ciascuno di noi, per le proprie forze e op- portunità, deve contribuire con fedeltà ed umiltà.

(Sociologia, a. 111, n. 4, ottobre-dicembre 1958).

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INDICI

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INDICE ANALITICO

BANCA, 114115. BENE COMUNE, 60, 6469. BIGAMIA, 190. B o ~ s a n s m o , 107, 225, 255-257. BOMBA ATOMICA, 36, 48. BORGHESIA, 254255, 262-265, 2%.

CIVILTÀ CRISTIANA, (v. pure cristia- nità), 54

CLASSI MEDIE, 225-220, 253-265. CLASSI SOCIALI, 4, 6-10, 80, 121, 225.

228, 243-244, 247-252.

146, 177, 225, 244, 256-257, 261, 296

COMUNIT~\ INTE3%NAZIONALE, 188, 1 9 2 202.

Co~cnenzzaz1oNs (della socialitk), 69, 71, 72, 74, 95.

CONDI~IONAMENTO soc~o~oc~co , 13-14, 17, 23, 24, 25, 45, 52, 58.

C O N S E R V A ~ S M O , CWSERVATORI, 216- 219.

CONTROLLO DELLE NASCITE, 72. C O ~ P ~ ~ U I O N E , CORPORATIVISMO, 3, 103-

118, 137-152, 161-178, 254. CORPO~A~IONE FASCISTA, 109-118, 123. Coscrmza COLLETIIVA (O sociale), 16-

21, 58, 69-75. CRISTIANESIMO, 46-49, 204205. CRISTIAIYITÀ, 78, 204, 248.

DEMOUMIA, 4143, 71, 119, 123, 128, 129, 131, 132, 163.

I)EMOCUAZIA CRISTUNA, 106, 140, 214 215, 219, 225, 228-231.

DETERMINISMO, 16, n, 39, 52, 80. DM~EIA, 11, 32, 7 5 a , 98, 222-232,

300. DLFIAMISMO SOCIACE, 12, 14, 50.51, 74,

95-96, 105, 221, 224, 269-270. DIT~ATUM, 119. DIVORZIO, 72. DOGMA, 47. I~JALISMO SOCIALE (dualizzazione),

11, 75-81, 91-92, 95, 97, 156, 221- 232, 246-252, 300.

DUALITÀ, 16, 32, 300.

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ECOLOGIA, 24-25, 87. ECONOMIA, 9-10, 48, 87, 98, 104, 107,

113, 118-137, 16U-161, 165-208, 273, 283.298.

EGOXOMIA ORGANICA, 147-149. E~>No~¶IA ~IEGOLATA ( O diretta), 113,

133-136, 1G-147, 165, 177. EDONISMO, 64. EGUAGUANZA, 19. ERESIA, 47. ETICA, 179-213, 283-298.

FAMIGLIA, 18, 24, 29, 35, 65-66, 71- 72, 170.

FASCISMO, 80, 103-118, 122, 123, 130, 135, 146, 150, 151.

FATII SOCIALI, 179-213. FENOMENOU)GIA, 24, 33. F ~ L O S O F ~ A , 45-49, 74, 82-85, 87, 89-

90, 96, 105, 238, 273. FINALITÀ, FINALISMO, 14-16, 36, 46, 58,

60, 6%9, 72, 77. FORME DELLA SOCIALITÀ, 28, 57, 65,

75-76, 78-79, 85, 98, 233, 279.

LABURISMO, 216-217, 261. hvoao, 122, 141, 171, 210, 255-260,

263. LEGGI ~OCIOLOGIGHE, 7, 11, 22-32, 33,

51-53, 6344, 83, 98, 159, 236-2389 278-282.

LIR&LISMO, LIBERALI, 5-6, 8, 105-107, 119, 134, 145, 161, 169, 215, 217, 219, 229-230.

LIBERO ARBITRIO, 7, 74, 77. LIBERT~, 9, 15, 49, 71, 99, 107, 108,

118, 129, 135, 147, 174, 245, 253,

MARXISMO, 4, 6, 43-44, 73-74, 166, 255-257, 260, 296, 307.

MASSONERIA, 41. MATERIALISMO, 16, 80. METODO SOCIOLOGICO, 22, 49.50, 59, 82,

85, 89, 97-99. MONARCHICI, 220, 230. MONISMO, I l , 7541, 92, 98, 156.

O.N.U., 21, 68. ORDINE SOCIALE, 61, 64, 74, 92, 93. ORGANIZZAZIONI PROFESSIONALI, 4

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RAZIONALITÀ, 13, 14, 27, 59-61, 64, 74, 78, 80, 89, 98, 274278, 280, 287, 290.

RAZZA, RAZZISMO, 120. RELIGIONE (V. anche forme della so-

cialità), 45, 46, 273, 305-310. REPUBBLICANI, 220, 230, 251. u RERUM NOVARUM D 104, 136, 137,

161. SALARIO, 295. S~HIAVITÙ, 19, 29, 43, 158, 179-183,

190, 202, 207, 208, 258-259. SCIENZA, 48, 53, 75, 82-86, 87, 89, 232-

243, 266-282. SCIOPERO, 36, 117-122, 143, 144. SERVITU DELLA GLEBA, 105, 183-187,

190, 258, 260. SINDACATI, 105, 109-112, 115, 117, 121,

126, 135, 140.142, 150, 163, 173-174, 218-219, 265.

S m s r SOCIALI (V. anche forme del- la socialità), 75, 279.

~OCIALDEMOCRATICI, 105-106. SOCIALISMO, SOCIALISTT, 3-7, 43-44, 106,

120, 140, 146, 163, 165, 214-2159 217, 219, 220, 251, 261.

SOCULITÀ, 59, 60, 65, 95, 98. SOCIETÀ, 1418, 22-23, 25-33, 43, 45,

49-52, 55, 57, 59-68, 76, 79, 82.85, 88, 91, 93, 105, 152-156, 164, 232- 243, 269-282, 301-310.

SOCIETÀ DELLE NAZIONI, 20, 68. SO~IOLOGIA, 22-23, 2!3, 34, 38, 4547,

49-55, 7475, 81-88, 91, 94, 96, 98- 100, 152-160, 232-243, 266-282.

SOCIOLOGIA DESCRITIIVA, 87. SOCIOLOGIA EMPIRICA, 87, 88. SOCIOLOGIA MORFOLOGICA, 87. SOCIOLOGIA ORGANICISTA, 28, 29, 272. SOCIOLOGIA POSITIVISTA, 13, 2426, 47-

48, 87. SOCIOLOGIIA DEL SOPRANNATURALE, 82,

274, 300, 305310, SOCIOLOGIA STORICISTA, 86-100, 152-160,

278-282, 299-310. SOPRANNATURALE, 30, 54, 61, $1, 82,

85, 274, 300. SPIRITUALISMO, 23, 86, 93-100. STATISTICA, 3436, 52-53, 158. STATALISMO, 120, 292.294. STATO, 18, 78-79, 81, 91, 106, 111, 118-

137, 162, 222, 249, 292-298, 306. STATO CORPORATIVO, 103-118, 149-162,

178. STORIA, 30, 38, 49, 50, 53, 61, 63, 96-

98, 155, 157, 302.310. STORICISMO, 86-101, 152-157, 237, 308-

309.

TENDENZA ORG.&NIZZATIVA E MISTICA

(v. anche dualismo), 211. TEKICRAZIA, 92. TEOLOGIA, 75, 85. TERZA FORZA, 214232. TERZO STATO, 254, 262. TOTALITARISMO, 108-111, 138-139, 142,

152, 162. TRASCENDEVZA (V. anche soprannatu-

rale), 62, 156-157.

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I N D I C E D E I N O M I

A I ~ M O , 190 n, 249. ADAMO, 77. ALBERTARIO don Davide, 214. ALESSANDRO MACNO, 281. ANCHISE, 131. ANTONI Carlo, 308, 309. ARISWJTILE, 27, 72, 277. AVERROÉ, 73, 80.

BALDWIN Stanìey, 217. BARBE~IS, 226. BARBANO Filippo, 266 n. BASSO Lelio, 226. BENEDETTO XV, 209 n. BERKELEY George, 69. BEVIN Emst, 226. BLONDEL Maurice, 301. BONAPARTE Napoleone, 132, 182, 281. BONOMI Ivanhoe, 215. BRODAIO DEI SAC(MEITI, 185. B ~ u c c u ~ n i r p. Angelo, 117. BRUNING Heinrich, 128. BRUNO Giordano, 128.

CALVINO Giovanni, 43. CAMPANELLA Tommaso, 64, 251. CAPPI Giuseppe, 226. CAVOUII Camillo Benso conte di, 229. ~ M B E R L A I N Neville, 40, 217. CHURCHILL Winston, 39, 40. COMTE Auguste, 48, 85, 266, 307. COSTA Andrea, 226. COSTANTINO (imperatore), 250. CROCE Benedetto, 3, 12, 238, 299, 301,

308, 309.

Dmm, 185, 227. DE C u m n s Gaspar, 137. DE Fmrce Gaetano, 226. DE GASPERI Alcide, 226. DWS O. P-, 157, 158 n. DE MUN Albert, 261. D E P ~ E ~ S Agostino, 214, 216. DEWEI John, XIII. DONATI Giuseppe, 226. D U ~ ~ A E I M Emile, 12, 26, 85, 307.

F ~ a a ~ a r Francesco Luigi, 226. F I C H ~ Johann Gottlieb, 48. FURFEY Paul H., IX, XI, XII, XIII, 56. FUSCHINI, 226. F u s a DE COULANCE Numa Denis,

301.

GEar DEL BELLO, 185. Gesù CRISWJ, 26, 43, 80, 205. GIBRONS card. Jamea, 198. G r ~ ~ s w i o Cornelius, 43. GIOBBE, 252. G r o ~ l r n Giovanni, 229. GIOVANNI (santo), 207. Grove, 308. GIULIO CFSAEE, 281. GRANDI Achille, 226. GREGOUIO Magno, 25. G~econro VII, 26.

H A ~ I O N Maurice, 58, 75 n. HWEL Friedrich, 6, 7, 12, 73, 80, 85,

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299, 301, 309 HLYDEMBURC von Paul, 128. HITLEB Adolf, 48, 136. HONICSHEIM Paul, 84 n. HOOKE RICE Madeleine, 183 n.

JAMES William, XII n.

K- Wilhelm, 137, 161. KILZER dom, 60 n.

LABRIOLA Antonio, 3, 4. LECLERQ Jacques, 192. LEMONNYER A. O.P., 157, 159, 160. LENIN Vladimir Ilyich, 48. LEDNE XIII, 104, 137, 138, 215. LEVY-BRUHL Lucien, 307. LICAUSI Girolamo, 226. LLOYD GEORGE David, 216. ~ N C O Luigi, 226. LOT, 249. LUTERO Martin, 43.

M4c DONALD James Ramsay, 217. MACHIAVELLI Niccolò, 301. &cIvm R. M., 26. M a ~ a u s Thomas Robert, 291. ?Y~ANGANO Vincenzo, 226. IMAROECELU) Giuseppe, IX, 86, 87, 88,

89, 91, 92, 93, 100. .

~ZABSHALL George, 218. Mmx Karl, 4, 6, 43, M, 64, 255, 299. MAURI Angelo, 226. ZMAZZINI Giuseppe, 251. MEDA Filippo, 215, 226. MICHELI Giuseppe, 226. MORO Tomaso, 64, 118. Mosw Gaetano, 8. MosÈ, 190 n., 207, 304. MWLLER Franz H., 56. 58, 59, 64n.

69, 70, 74 n. M u m r John Courtney S. J., 18811. MURRI Romolo, 214, 226.

MUSSOLINI Benito, 48, 134, 226.

NABUCC~~NOSOR, 48. N-I Pietro, 226. NICCOLINI Giovan Battista, 301.

OES'IEBLE John A., 56, 57, 59, 61, 62, 64, 69, 72, 73, 75, 77, 80, 81 n., 83, 91.

OWNAM Frédéric, 275.

PAOLO (santo), 63, 208. P- Wilfredo, 8. PARNELL Charles Stewart, 216. PÉTNN Henri Philippe, 220. PICCIONI Attilio, 226. PIETRO (santo), 208. PIO XI, 37, 38, 79n., 103. PIO XII, 188, 209. P L A ~ N E , 64, 73, 118. POLLOCK Robert C., IX, XII, XIII, 56. PÌUMPOLISI Camillo, 226.

~ W A Z Z I Urbano, 229. ROOSEVELT Franklin Delano, 40, 127,

138, 218. Rousswu Jean Jacques, 43, 64.

SAINT SIMON Louis, 4.

SALANDBA Antonio, 229. SALVADORI, 226. SALVEMINI Gaetano, 226. SCELBA Mario, 226. S ~ A M I ~ , %n. SCQCCIMARRO Mauro, 226. Scom, 226. SEGNI Antonio, 226. S I C ~ I , 231. SOLAGE Bruno de, 210 n. SOREL Georges, 8. STURZO Luigi, IX, XI, XIII, 4 n., 11,

28 n., 30 n., 43 n., 49 n., 54 n., 56 n., 57 n., 61 n., 63 n., 73, 74 n., 81 n., 82n., 83, 86, m, 90n., %n-, 93, 94, 95, 96, 97, 98, 99, 100, 210 n,,

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222 n., 238 n., 266 n., 274, 276.

TAFT William Howard, 218. TAPARELLI D'AZEGLIO Luigi, 210 n. TAVIANI Paolo Emilio, 226. TITO LIVIO, 301. TOGLIATTI PaImiro, 226. TOMMASO d9Aquino, 73, 78, 92. TONNEAU J., 157 n., 160. TONIOLO Giuseppe, 3, 4, 92, 99, 137. Tosn Luigi, 301. TOYNBEE Amold Joseph, 276. TREVES Claudio, 215. TROUDE R., 157 n,, 160.

TRUMM Harry, 40, 218. TURATI Filippo, 214, 226.

V A L E N ~ Giovan Battista, 226. Vrco Giovan Battista, 99,1100, 301, 302. V m o a ~ o Emanuele 11, 215. VOGELSMG Karl, 261. VOLTAIRE Franqois Mane Arouet, 43.

WEBEU Max, 8, 75. WILKIE W., 37. W r m ~ o a s ~ Ludwig, 219. WILSON Thomas Woodmw, 20.

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T A V O L A D E L L E M A T E R I E

. . . . . . . . . . . Awertenza pag . ix

. . . . . . . Prefazione alla I edizione italiana D XI

PARTE PIUMA: DEL METODO SOCIOLOGICO . . . . . . . . RISPOSTA AI CRITICI D 1

. . . . . . . Cap . I: Ricerche ed esperienze n 3

. . . . . . . Cap . 11: Le leggi sociologiche D 22

. . . . . . . Cap . III: Norme metodologiche D 33

RISPOSTA AI CRITICI

. . . . . Cap . I: Società in astratto e in concreto . . . . . . Cap . 11: Ordine sociale e razionalità

Cap . 111: Bene comune . Finalismo sociale e sua risoluzione sociologica . . . . . . . . .

Cap . IV: La coscienza sociale . . . . . . . . Cap . V: Dualismo e monismo . . . . . . . Cap . VI: Che scienza è la sociologia? . . . . . . Cap . VI1 : Post-scriptum . . . Storicismo e spiritualismo . La sociologia storicista di Luigi

Shrrzo (G . Marchello) . . . . . . .

PARTE SECONDA: STUDI E POLEMICHE DI SOCIOLOGIA . . D 101

. . . . . . . 1 . Lo stato corporatico 2 . La b i o n e economica dello stato secondo il popolarismo 3 . La corporazione moderna . . . . . .

-Sindacat iecorporazioni . . . . . . . . . - Il funzionamento del sistema corporativo

- L'economia diretta . . . . . . . . L'economia organica . . . . . . . . h stato corporativo . . . . . . .

4 . Sociologia e s t o n c h o . . . . . . . . . . 5 . A proposito di un manuale di sociologia

6 . Un problema dac i le : a proposito di corporativismo .

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7 . Capitalismo e corporativismo . . . . . 8 . L'influenza dei fatti sociali sulle concezioni etiche .

. . . . . . . . - La schiavitù . . . . Vendetta. servitù della gleba. poligamia

- L a m o r a l i t à d e l l a g u e r r a . . . . . . . . . - La comunità internazionale organizzata

-Revis ionediconcett iet ic i . . . . . . . . . . . . L'immutabile legge dell'amore

- I l r i t m o d e l p r o g r e s s o . . . . . . . . . 9 . La a dualità sociologica » e la a terza forza m

10 . La sociologia e il suo collegamento con le diverse scienze . . . 11 . Pluralismo strutturale e pluralismo politico . . . 12 . Indagine sociologica sulle a classi medie a

13 . La sociologia come scienza . . . . . . 14 . Eticità delle leggi economiche . . . . . 15 . Sociologia storicista . . . . . . .

. pag . 165 . n 179 . m 179 . n 183 . n 187 . a 192 . a 202 . n 206 . a 211 . n 214 . a 232 . W 243 . n 253 . n 256 . 2 283

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