Dante, I, 34 la Ludla · 2019. 10. 24. · che, non voglio esagerare, potrebbe contenere...

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la Ludla 1 “Poca favilla gran fiamma seconda” Dante, Par. I, 34 la Ludla (la Favilla) Periodico dell’Associazione “Istituto Friedrich Schürr” per la valorizzazione del patrimonio dialettale romagnolo Autorizzazione del Tribunale di Ravenna n. 1168 del 18.9.2001 Questo numero è stato realizzato con l’apporto del Comune di Ravenna Società Editrice «Il Ponte Vecchio Anno XXI • Settembre 2017 • n. 8/9 (180°) SOMMARIO Giorgio Faggin - Biele lenghe Generazioni di Alessandro Gaspari Lambretta Club Testo e xilografia di Sergio Celetti U j era una vôlta la balera Un amarcord di Sauro Mambelli Illustrazione di Giuliano Giuliani La biciclèta nóva di Francesco Bartolini Illustrazione di Giuliano Giuliani Spigolando fra i modi di dire di Bas-ciân Parole in controluce: calzéder, tèvla Rubrica di Addis Sante Meleti Stal puiðì agl’à vent Concorso “Omaggio a Spaldo” La bughê di Renzo Guardigli Illustrazione di Giuliano Giuliani Pr i piò znen Giorgio Paganelli - Haiku di Paolo Borghi p. 2 p. 4 p. 5 p. 6 p. 8 p. 10 p. 11 p. 12 p. 14 p. 15 p. 16 Informiamo i nostri lettori che è disponibile l’edizione rilegata che raccoglie i numeri della Ludla usciti nei quattro anni dal 2013 al 2016. Sono in tutto 38 fascicoli - per un totale di 608 pagine - che, oltre a costituire una ricca antologia della prosa e della poesia roma- gnola, affrontano a 360 gradi le problematiche legate allo studio e alla valorizzazione del dialetto e del folklore romagnolo. La raccolta, come già avvenuto per le tre edizioni precedenti, è impreziosita da un utilissimo - diremmo indispensabile - indice degli autori, dei nomi propri e dei toponimi, che agevola la ricerca degli articoli ai quali si è interessati. Gli indici sono stati curati, come nelle precedenti edizioni, dal con- socio Pier Giorgio Bartoli, al quale vanno i rigraziamenti della reda- zione della Ludla, del Comitato direttivo della Schürr e di tutti i soci per la pazienza e l’accuratezza con cui ha condotto il lavoro di indi- cizzazione. Settembre 2017 La Ludla rilegata (Annate 2013-2016)

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la Ludla 1

“Poca favilla gran fiamma seconda”Dante, Par. I, 34

la Ludla(la Favilla)

Periodico dell’Associazione “Istituto Friedrich Schürr”per la valorizzazione del patrimonio dialettale romagnolo

Autorizzazione del Tribunale di Ravenna n. 1168 del 18.9.2001

Questo numero è stato realizzato con l’apporto del Comune di Ravenna

Società Editrice «Il Ponte Vecchio Anno XXI • Settembre 2017 • n. 8/9 (180°)

SOMMARIO

Giorgio Faggin - Biele lenghe

Generazionidi Alessandro Gaspari

Lambretta ClubTesto e xilografia di Sergio Celetti

U j era una vôlta la baleraUn amarcord di Sauro MambelliIllustrazione di Giuliano Giuliani

La biciclèta nóvadi Francesco BartoliniIllustrazione di Giuliano Giuliani

Spigolando fra i modi di diredi Bas-ciân

Parole in controluce: calzéder,tèvlaRubrica di Addis Sante Meleti

Stal puiðì agl’à ventConcorso “Omaggio a Spaldo”

La bughêdi Renzo GuardigliIllustrazione di Giuliano Giuliani

Pr i piò znen

Giorgio Paganelli - Haikudi Paolo Borghi

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Informiamo i nostri lettori che è disponibile l’edizione rilegata cheraccoglie i numeri della Ludla usciti nei quattro anni dal 2013 al2016. Sono in tutto 38 fascicoli - per un totale di 608 pagine - che,oltre a costituire una ricca antologia della prosa e della poesia roma-gnola, affrontano a 360 gradi le problematiche legate allo studio ealla valorizzazione del dialetto e del folklore romagnolo. La raccolta, come già avvenuto per le tre edizioni precedenti, èimpreziosita da un utilissimo - diremmo indispensabile - indice degliautori, dei nomi propri e dei toponimi, che agevola la ricerca degliarticoli ai quali si è interessati. Gli indici sono stati curati, come nelle precedenti edizioni, dal con-socio Pier Giorgio Bartoli, al quale vanno i rigraziamenti della reda-zione della Ludla, del Comitato direttivo della Schürr e di tutti i sociper la pazienza e l’accuratezza con cui ha condotto il lavoro di indi-cizzazione.

Settembre 2017

La Ludla rilegata

(Annate 2013-2016)

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la Ludla2 Settembre 2017

Raffaello BaldiniCla sàira (da “La nàiva”)

La Renata, cla sàira. Quatar bal atachèd, senza dì gnént, a i ò ciap una ména

Raffaello BaldiniIn chê sere

Renata, in chê sere.Cuatri baj daurman, cence dî nuje,j ài čhapade une man

La morte A me la morte / mi fa morire di paura / perché morendo si lasciano troppe cose che poi non si vedranno mai più: / gliamici, quelli della famiglia, / gli alberi del viale che hanno quell’odore / e tutta la gente che hai incontrato anche una volta sola.// Io vorrei morire proprio dentro l’inverno mentre piove / in uno di quei giorni in cui è sera presto / e per la strada le scarpe sisporcano di fango / e la gente è chiusa nei caffè / stretta intorno alla stufa.

Tonino GuerraLa mòrta (da “La Chésa nòva”)

Mu me la mòrta la m fa una pavéura che maich’u s lasa tròpa ròba ch’la n s vàid piò:i améigh, la tu faméia,al piènti de Pasègg ch’agli à cl’udòur,la zénta te incuntrè una vòlta snò.

A vrèa muréi d’invéran quant che piòv ch’u s fa la sàira prèst, e ’d fura u s spòrca al schèrpi te pantèn e u i è la zénta céusa ti cafè datònda ma la stòva.

Giorgio Faggin, docente emerito diLingua e Letteratura neerlandese, èstorico dell’arte, traduttore e friulani-sta. In questa ultima veste ha pubblica-to nel 1985 il Vocabolario della linguafriulana, in quella di traduttore haèdito recentemente (Vicenza, Esca,2017) Biele lenghe [Bella lingua], unaraccolta di cento versioni poetiche infriulano riferentesi a cinquanta poetieuropei degli ultimi due secoli. Fra costoro sono presenti cinqueromagnoli, uno in lingua (Pascoli) e

quattro dialettali (Talanti, Guerra, Bal-dini e Nadiani). Crediamo di fare cosagradita ai lettori pubblicando tre poe-sie rispettivamente di Tonino Guerra,Raffaello Baldini e Giovanni Nadiani:alla versione friulana abbiamo premes-so il testo originale romagnolo conannessa la traduzione in italiano. Ringraziando il prof. Faggin per averciconcesso la pubblicazione, ricordiamoche il friulano (al pari ad esempio delladino e del sardo) non viene conside-rato dagli sudiosi un dialetto, ma una

vera e propria lingua e gode dunque diuno status privilegiato per quantoriguarda gli interventi culturali ed eco-nomici di tutela e valorizzazione.

Giorgio Faggin

Biele lenghe

Tonino Guerra La muart

A mì la muartmi fâs une pôre malandrete,parvìe che tu lassis masse robis par simpri:amîs, famee,i arbuj dal stradon cun chej odôrs, la int che tu âs viodût nome une volte.

O orès murî d’Unviêr cuanch'al plûv e che la sere a fâs svelte a vignî,e difûr tu ti impantanis lis scarpis e tes ostarìis a jè sierade la int daprûv de stue.

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la Ludla 3Settembre 2017

e la m’è vnéuda dri cmè una burdèla,fina la Bosca, a stémmi sémpra zétt, a la ò zirca te schéur, a n’i cridéva,a la ò sintéida tótta, e cla bòcca, cl’udòur, la camisètta sbutunèda, a treméva, c sòtta senza gnént, u i era li, la è vnéuda zò pianìn, dòulza, si ócc céus.E pu la dmènga dop la s’è spusèda.

e jê mi è vignude daûr tanche une frutefin te Bósca, o stèvin simpri cidìns,le ài cirude tal scûr, no crodevi,le ài sintude dutee chê bočhe, chel odôr, il camisìndisbotonât, a trimave,e sotvìe cence nuje, a jere jê,a jè vignude jù a planchìn, dolce, cui vôj sierâts.E la domenie daûr a jè lade a marît.

Giovanni Nadiani Stracherie

Lune plene parsoredai camiòns ch'a traviersinla gnot,grìis acanâts in cheste Istât inčhocade di soreli, e jo sturnît tai strops di un ort ch’o čhali adalt chê lune cence savê parcè.

Parons dal scûr, a passin parmìs i pîds indolentrâts ğhats neris cidìns cutìns,ch'a van cence abadâmi,a san lôr dulà...

Cuanche mi môv,al sbrisse il pîd sui scus dai caisch’o voi tibiand:e la ferade slichignote a contech'o ài stât culìančhe jo.

Cui pîds moj di agačon o rivi a čhase a sierâ i scûrs, a impiâ une lum par čhalâmi tai vôj:

nissune voe di meti i vuès in rie.

Stanchezza la luna piena a piombo sopra / i tir che stirano / la notte / i grilli rochi per l’estate mai stanca / di sole / ilnostro stare assordati al centro / di un orto / a guardare in su senza chiedere / il perché // padroni del buio / zitti e neri cipassano i gatti / tra le gambe indolenzite / indifferenti / senza badare a noi / sembrano sapere dove andare... // se ci spostia-mo / è per sentire il viscido / degli scricchiolii di lumache / calpestate nell’erba / il segno / che anche noi eravamo qui // ipiedi fradici di rugiada / scivoliamo in casa / a chiudere le finestre / ad accendere una lampadina / per guardarci negli occhi// nessuno parla di andare a letto...

Cla sera La Renata, quella sera. / Quattro balli di seguito, senza dire niente, / le ho preso una mano / e mi è venuta dietro comeuna bambina, / fino alla Bosca, stavamo sempre zitti, / l’ho cercata nel buio, non ci credevo, / l’ho sentita tutta, / e quella bocca,quel profumo, la camicetta / sbottonata, tremavo, / e sotto senza niente, c’era lei, / è venuta giù piano, dolce, con gli occhi chiusi./ E poi la domenica dopo s’è sposata.

Giovanni NadianiStracona (da “TIR”)

la lona pina a piomb sóra i tir ch’i tira d’longh la nöti grel aragalé dl’istê mai straca ad sóle’ nöstar stê inzurlì ’t e’ mèþ d’un ôrta gvardêr in so senza cmandê e’ parchè

padron de’ bur zet e nìgar u s’pasa i ghët trâma al gamb indulidi faðend cont d’gnîtsenza badêse’ pê ch’i sépa in do ch’i va...

se nó a s’muven l’è par sintìr e’ sgvegndi crech d’lumêgh stamþèdi int l’érba e’ segnche nenca nó a segna a cve

i pi ingvazé a ðghinlen in ca a srê al finëstar a ’piè ’na lampadena par gvardês int j oc

incion e’ scor d’andês a lët...

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la Ludla4 Settembre 2017

Sono andato, trascinato anche dallacuriosità, a vedere la vecchia casadegli avi di un amico. Dispersa inuna vallata del Montefeltro, raggiun-gibile a malapena e solo dopo che lastrada di accesso è stata rabberciataalla meglio, in posizione dominantesui poveri campi che hanno permessoil sostentamento fino alla diasporadell’industrializzazione.Sulla chiave di volta dell’arco dientrata c’è una data: 1609. Anno dicostruzione e, sicuramente, di ingres-so in una abitazione che per queitempi rappresentò un notevole passoin avanti rispetto a quanto disponibi-le in precedenza.Stanze ad altezza ridotta e dotate difinestre piccole, sia per questioni disicurezza che per questioni di riscal-damento, sotto tutti locali per l’attivi-tà giornaliera, sopra tutte camere adi-bite a riposo e a magazzino. Ora èstata restaurata alla buona, conaggiunta di un bagno, di un localeuso cucinotto, di un sempliceimpianto elettrico e di due bomboleper avere il gas per la cucina. Untempo centro di vita vissuta ora sem-plice rifugio per qualche giorno direlax. Mi racconta l’amico che infamiglia ai tempi andati sono statipersino in trenta in casa, intere gene-razioni a stretto contatto. Lo testimo-nia il fatto che la casa è dotata di unimmenso forno a legna per il paneche, non voglio esagerare, potrebbecontenere comodamente un lettomatrimoniale. Dalla stalla si entradirettamente in cucina dove ti acco-glie un grande camino la cui funzio-ne principale è quella di fornire calo-re per la cottura dei cibi e, d’invernodi scaldare la casa, un po’ più i localipiano terra, un po’ meno i localisuperiori. Una conca in pietra colgancio per il secchio ed una nicchianel muro con due ripiani in legnogrezzo completano le attrezzaturefisse, oltre naturalmente un lungotavolo ed un numero congruo disedie. Unica concessione alla moder-nità, aggiunta tre secoli dopo la suanascita, una stufa economica colpiano in ghisa e lo stendipanni a rag-gera sul tubo di scarico dei fumi, rigo-rosamente dipinto con l’argenteaporporina classica. Di frigoriferi e

lavatrici neanche parlarne. D’invernoil frigo era ovunque si potesse creareun ripostiglio, all’esterno, protettocontro topi e predatori vari, d’estatealla meno peggio una rudimentaleneviera finché durava, una lanternaper il formaggio e il cassone del pane,fondamentale; e, per lavare, il ruscel-lo in fondo alla forra, su una lastra dipietra. Vita semplice, ridotta all’es-senziale, senza fisime mentali e nean-che complicazioni etiche. Tutti i bam-bini sapevano tutto sul sesso e suirapporti; l’approccio non era certomorboso come oggi che guai parlar-ne, ma che, se accendi la TV, ad ogniora del giorno trovi espliciti riferi-menti senza alcun ritegno; allora dor-mivano in sette od otto nella stessacamera, senza problemi. Questo èuno dei primi pensieri che mi vengo-no in mente, ma altri aspetti sono incontrasto con l’oggi. Fondamentalela nutrizione. Piatto unico per tutti:inutile dire “non mi piace”. O così onon mangi. Solo in casi eccezionaliun brodo per un malato o un man-giare in bianco, per il resto minestra,stufati e castagne bollite o polenta

d’inverno, insalate, verdure e fruttid’estate, un poco di formaggio e salu-mi, raramente la carne, con qualcheconcessione in più per le festività,pane misurato perché costava la fari-na e costava anche bruciare fascine,specie d’inverno. Una bella differen-za col mondo che conosciamo! Ilfiletto ti viene a noia, cinghiale, lepree fagiano ai bambini non piacciono,le verdure che schifo, non parliamopoi di trippa e frattaglie, bisogna esse-re degli amatori per mangiarli. Eppu-re il mondo è progredito comunque,i piccoli pensano che i polli crescanonei banchi dei supermercati e quan-do riferisci i sacrifici e le mancanze dicomodità delle generazioni pregressehanno l’aria di non crederti o pensa-no di essere presi in giro.A dieci anni un bambino ha già per-corso almeno centomila chilometri inauto o con qualsiasi altro mezzo,aereo compreso, trova naturale muo-versi e cambiare paesaggio, angolazio-ne del punto di vista, ambienti di rife-rimento, alimentazione. Tutto il con-trario di un tempo. Ma è un tempoche è durato fino a non molti anni fa.

Generazioni

di Alessandro Gaspari

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la Ludla 5Settembre 2017

Ancora alla fine degli anni ’50 era unviaggio andare da San Leo a Rimini,per esempio, per non parlare di tra-sferimenti più lunghi ancora. Poitutto è esploso, l’ansia ci ha sopraffat-to, ci ha attanagliato la paura chemanchi sempre qualcosa, che la pre-stazione sia inadeguata, che non si siafornita sufficiente esperienza, che ilpiù delle volte è negativa, oppurerisorse alle generazioni che mandia-mo avanti. Frotte di bambini sballot-tati per il mondo costretti a subire lescomodità dell’ignoto anche quandomagari avrebbero preferito restarsenea giocare ai giardini pubblici coi loroamici piuttosto che essere trascinatiper treni od aerei da genitori fascina-ti dall’esotico a tutti i costi. Bimbiche hanno visto l’aurora boreale oche han corso il rischio della febbrespaccaossa ma che in compenso nonhanno mai visto dal vero un maiale

vivo o non sanno che a Forlì c’è ilMuseo etnografico. Crescono ansiosidi novità a tutti i costi, di consumoveloce e distruttivo. Il brutto dellafaccenda è che quest’ansia verràlasciata in eredità e se per caso i mezzieconomici non permetteranno que-sto desiderio insoddisfatto rimarràlatente, ma pronto a riesplodere suipiù vari bersagli con conseguenze avolte deleterie. È un mondo in sca-denza, da consumare subito e da but-tare subito dopo, infischiandotene sei rottami rimarranno ai tuoi figli e sein larga parte non potrà essere piùriutilizzato o rabberciato per poterlofar durare un altro poco. Che t’im-porta se brucia la California o se1’Amazzonia sparirà nel giro di cin-quantanni o se la Valle dei Templisarà riempita di cemento? Ci penseràchi rimane, non preoccupiamoci, fac-ciamo tanti chilometri, bruciamo

petrolio il più possibile, maciniamopiù alberi che si può, viviamo adesso!Una bella differenza da quando unabottiglia usata aveva un valore e lalatta di una scatoletta poteva servireper rinforzare una giuntura in unattrezzo e stracci ed ossa venivanoraccolti e recuperati ad altra vita. Ivestiti rammendati non urtavano lasuscettibilità di alcuno ma ora deviavere anche le mutande firmatesennò sono guai per l’immagine,non conti, non esisti. Non so sepotrà durare ma secondo me si pre-parano tempi grami e molti segnalidicono che forse sono già comincia-ti. Non so se la generazione dei tele-fonini riuscirà a rimboccarsi le mani-che per mettere mano ad un ridi-mensionamento di un modus vivendiche comporterà sicuramente sacrificie rinunce. Vedremo.

La Lambretta mesa a nôv la starlu-cheva a e’ prem sol ad che dè ad pre-mavera.L’aveva lavurê d’ignascöst par totl’invéran e adës la jera a lè prontapar e’ prem raduno.Piston magiurê, testa ðbasêda, carbu-radór Dell’Orto special, varniðaduraa fugh e crumadura arluðenta.I söci de’ Lambretta club i l’avevatôlt in þir par tota la staðon pasêdapr e’ fat che e’ su scooter malandê e’pirdeva i pez par la strê e piò d’navôlta l’era turnê a ca faðèndas tirêcun ‘na côrda da un amigh.U n’ avdeva l’óra ad mustrê a chifiul ad bona dona quel ch’l’era stêcapêzi ad fê Medeo dla Scôrga.La prema usida l’era Sân Maren el’artrôv l’era int e’ viêl dla stazion,davânti a e’ palaz dl’INPS.E’ dicidè ch’ e’ sareb arivê a l’ùtummument, ânzi, nenca un pô inritêrd, parchè i j aveva da lësar tot,pröpi tot quent.U s mitè la tuta nôva, biânca scana-dêda, cun la screta Lambretta int laschena e l’infilè viale Colombo a totgas, marmita averta.Göb sóra e’ manubrio l’avdeva avði-

nês la rotonda dla stazion, l’aspitèfena a l’ùtum par fê la stachêda, e’scalè in ðgonda e þo ‘na grân piga.La pedâna la tuchè i lastron de’ piazêlfaðend un grân sfiaclê e pu e’ scootere’ pirdè aderenza, Medeo e’ strinþevadisperatament e’ manubrio mo a unzert pont e’ pirdè la preða e la Lam-bretta la tachè a pirulê pr êria e pul’andè a ðbàtar int ‘na fila ad Lambret-ti ðvarsèndan e’ mânch ‘na duþena.

Medeo, dop a ‘na longa sbrisêda inte’ sfêlt u s’artruvè dri e’ marciapì,cun al mân ch’al sanguneva e da latuta strapêda u s’avdeva al þnöcfridi.E’ gvardeva stralunê qui ch’i zarche-va ad tirê so al Lambreti ðvarsêdi,mèntar che dj ìtar i cureva vers a lò:coma ch’i j fo dri i j dmandè comach’e’ staðeva, s’u s’era fat mel.L’arspundè cmè un automa: “A num so fat gnint... gnint, a n um sofat gnint”.U s gvardè d’atórna, tot i söci j avevaj oc punté sóra lò, u s tirè so, u smitè in ðdé int e’ marciapì e a vóðbasa e’ marmugnè:“A n um so fat gnint... gnint...parò... a m vargogn!”E cvaði, cvaði u j’avniva da piânþar.

Lambretta Club

Testo e xilografia di Sergio Celetti

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la Ludla6 Settembre 2017

Int i vent en che i à seguì la fendl’utma gvëra mundiêla l’era invôga la balera. In tot i pais u j n’eraimânch ona; ad sölit la jera uncamaron dov che spes i dasevanench e’ cino, cun un pêlch par agliurchèstar e dal vôlt dri da i sunaduru j era e’ pöst par una fila ad tavu-len. Pugêdi al muraj u era toti fili adscaran ad pavira druvêdi dal mâmiche al purteva a balê al fiôli, e spesa gli staseva sóra in pì par puté seguìmej cvel ch’e’ zuzideva int la pestagremida ad cöpi ad balaren, sopra-tot cvând j urganizatur i aveva inga-gê un cantânt famós che magaril’aveva cantê nench a e’ fëstival adSanremo. Ad sölit la serêda la jera cundota daurchèstar che al s’era specializêdi inte’ liscio, mo che al suneva nench dipez ad musica muderna cun di bëlche i vniva da l’ëstar coma e’ cha-cha-cha, e’ twist, e’ rock and roll. Lapiò famósa l’era cvela ad SecondoCasadei che la suneva tot i dè dlastmâna, tânt è vera che u s dgeva “tci impignê coma i Casadei!” L’andaz int una balera l’era sèmpliz:se t’aviva una filarena ch’la t tnevad’asptê, t fasivta e’ zir atórna la sêladov che al ragazi al staseva d’asptêdavânti al mâmi in atesa. A ladmânda ad fêr un bal agl’arspunde-va o sé o no o a so zà impignêda. Una vôlta che a sema a Calisese unaragaza la m’arspundet: “a so zà impi-gnèda sla manèda” e un zuvnöt ch’-l’aveva sintì u m traduset “la jè impi-gnèda par zencv bèl”. Int e’ prem bal che u s faseva cununa ragaza nôva u s scureva parecpar cnòsas mej e u s staseva abastân-za lêrgh, mo döp pu se e’ subentra-va una zerta simpatì i curp i s’avsi-neva cun una quêlca scricadena e algvânz che al s sfargheva. Tot cvestcvând ch’u s’era int e’ mëz dla pesta,luntân da j oc dal mâmi. Nonostânt agli urchèstar al sunes inprevalenza de’ liscio cun di bël svilt,me a sera sölit a pratichêr e’ bal de’curiândal ch’e’ vleva dì, cvând che laragaza la j staseva, piazês int un pöststratëgich dla sêla e fê sol un cvêlchpas in tond scrichend la balarena.Int j en che me a jò frecventê albaleri, da e’ ’58 a e’ ’66 a javeva

furmê una bânda ad amigh ad Sa’Pir a Vèncul. U j era Gemni e’ foto-grafo, e’ piò grând amigh che a jépamai avu, e pu Claudio dla Minghinach’e’ sareb dvintê un grös dirigentdla Fiat, e’ Böb, ch’l’aveva una Fiatmelezent cun al códi longhi, e Pine-to ch’e’ faseva e’ muradór cun e’ subab e e’ su fradël piò grând. Böb l’era sèmpar strach môrt ecvând e’ sàbat sera a l’andeva a tu’da ca l’era stravachê int e’ divâncoma un marsion. Piò avânti cun jen l’avreb fat i bajoch cun l’humuspar al piânt a al bal par i fonz. Dal vôlt cvând ch’l’era a ca da i viëzch’e’ faseva a l’ëstar par imparêr allengvi, e’ vneva cun nó nenca Lucia-no Gatta e cla sera a Sântamarìnôvacun lò a cumbinèsum un scherz. Us presentep a e’ microfono scurendun pô in itagliân e un pô in inglés

par dì ch’l’era un rapresentântd’una ca d’parfom inglésa e chel’avreb rigalê dal bël cunfezion alpremi ragazi d’un cuncors ad belezache i su culaburadur i staseva urga-nizend. Naturalment nujétar avemapreparê dis cartunzin numaré che acunsgnèsum al ragazi piò carini dlafësta che al s’i tachet int al spal. Parmètas piò in mostra al cuncurenti albaleva cun nó che acsè a s divarte-ma: la fazenda la duret piò d’më-z’óra. Un grupet ad zuvnot de’ paés,che la stôria la n i sfasuleva, e’ cmin-zet a fê dal dmândi e pu a spatasê eme alóra a un zert pont a urdinet laritirêda e in do e do cvàtar a tajè-sum la côrda. Ad sölit a balê a j andema e’ sàbat ela dmenga sera, mo u j è stê untemp che a s sema mes a segvì l’ur-chèstra ad Casadei che la jera vi totcvânt al ser. A sema dvinté amigh disunadur e de’ mèstar e spes cvândch’i smurteva i strument a dasemauna mân par traspurtêr int e’ pul-lman e’ pianofôrt che l’era abastân-za pesânt. Una sera che a sema a la Piaztenaintânt che a fasema la sölita upera-zion, e’ mèstar u m dget: “Se a n’avìprisia dop a vnì cun nó u j è unasurpresa!” A s’atruvèsum a ca d’uncuntaden de’ pöst: int la câmbrad’ca u j era una tavulêda parcêdacun ogni ben di dio, parsot apenasfitlê cun e’ curtël cun e’ gras ch’u ssfaseva in boca, salâm da i lardel sta-sunê int la budëla zintila, caplet inte’ brôd ad gapon, arost ad toti alraz, sopinglesa e sanzvés ad che bon,

U j era una vôlta la balera

Un amarcord di Sauro MambelliIllustrazione di Giuliano Giuliani

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la Ludla 7Settembre 2017

dla bota de’ canton. Me a sera insdé pröpi avsen a Secondo e a scurè-sum ad tent cvel, lò u s’in fasè chêsche me acsè zóvan a fases zà e’mèstar d’scôla. A j dmandet comach’l’andeva cun e’ su lavór: “Ajavem pasê dj en difèzil sòbit dop ala guëra, cun tota cla musica ameri-câna, ma adës anden ben; e pu tot imis u m’ariva un asignin che u mmet ignacvël a pöst”. U s trateva adcvel ch’u j ariveva da la SIAE par idiret d’autór ad toti al su canzon esopratot par Romagna mia che l’ave-va scret zà da un pô d’en. E’ temp ch’a jò frecventê al baleri esopratot j ùtum en, l’è stê e’ piòspensierê dla mi vita e coma metânta êtra zenta la viveva un period

ad entusièsum e ad fiducia int undmân parchè u s cminzeva a stê benun pô tot. Incóra ragaz, a ciapeva unbon stipendi, a viazeva cun una Fiat850 coupè e a javeva dal murosi intot i canton. Mo una sera me e i mi amigh, tur-nend a ca da Ziria, a s’afarmèsumvers a mezanöt a Cas-cion d’ Ziriach’u j era una fësta int e’ camarondi cumunesta. Int e’ pêlch, dri dal’urchèstra, u j era du tri tavulen edal ragazi ch’al rideva; ona l’era par-ticularment bëla e a m j acustet pardmandej ad balê. Li la m scvadretun pô e pu l’arspundet: “Se on e’ vôbalê cun me u n ven dop mezanöt,ch’l’è óra d’andês a ca, mo u s pre-senta a cve ad prema sera e pu u s’in

scurrà”. A fot culpì dal su parôl eincóra d’piò da la su bleza e a con-cludet e’ scórs cun “a s’avden prëst”.A turnet a Cas-cion int l’urêri gioste a balet tota la sera cun la Mariache dop un cvelch ân la sareb dvin-têda la mi moj. Dop e’ mi matrimoni a n’ò piò mespè int una balera, mo ormai i tempi staseva cambiend. Dop al cuntesta-zion de’ ‘68 e cun e’ sucès di cum-ples e di cantautur, al baleri agl’an-det zo d’môda e i zùvan i s’atruvevaint al discotech. Zert luchél i funzio-na incóra coma al vëci baleri, frec-venté da zenta dla terza etê, da i san-t’en in so, ch’la s’atrôva par balê eforsi par inlùdars d’ësar incórazóvna.

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la Ludla8 Settembre 2017

Ai pansèva própi ir dopmezdè, caséra lè diznòć a guardèla, parché daquand ch’iè alnù i lédar in ti gareg,chi dis chi sipa stè quei dla détta adcostruziòun chi ha fat di lavòur in tecondominio, chi aveiva dal fazazistórti, mè al savéiva, ènzi a sòsicóur, a gli ò ènca dét ma e caposca-la, Suzzi, e rasunìr ad bènca, ma lògnint, e slarghet al brazi “Non abbia-mo le prove” e gèt, e mi Signòur! Afasém agli asti al ribasso, as mitémin ca’ di delinquìnt par du baióc epodòp as lamantém! Beh, a geiva,mè adèss am so fat fóurb, a la téngin tla mi cambra da lèt, cla fa ènca,s’ us pò dèi, un po’ ogeto d’areda-mento: t’avré vést cla publicità docui è lò, un òman in ti trent’an chee sta disdèi a guardè la televisioun,clà da lès e su programma preferitoparché e sta tènti, e fa du oć cum’uiscuréss la Madòna, e pò dòp esòuna e talèfan e un arspònd, esòuna d’arnóv, l’arspònd e fa «Sìmamma ti stavo per chiamare», cunè miga vera ma quest l’è un ètscours, a vleiva dèi che puzèda ma emóur in te sfònd us veid cui è unabicicleta, magari un la drova gnen-ca, lè una truveda di creativi despot, però l’è lé, d’un azurino pali-do, cun la sèla marunzeina ad pèla;la mìa invici l’è nira, tota nira, èncaal rodi se tai fé chès. Cun è pr’evalòur, sut e valòur, lan gòsta gnent,l’è che si m la ciula po dòp me a pìado ca vag? Sé a vag a e Mòunt, a vagsó a la Ròca, ma mè um pis d’andèpiò da long, d’istèda quan cui ècl’afa, e sòul, trentòt gréd, la zéntaciusa in cà in tl’ombra, e vantaj intal mèn, un giazól veird pr’ i bur-dél... quèla l’è la mi temperadouraideèla, a sò cm i sarpint, e via, a tóisó, a vag a Suièn, a Montcudróz, afag ènca e Barbotto, de mi ritmo, uscapés, ugn è bsògn ad fè al cóursi,che e bèl e ven dop, quan ci rivèt alà so: in discesa am met in posizioneaerodinamica, a uovo, cun e cul drétinsòma, e zò cmè una saèta, ca miimpać, e pensa cui è un mi amigh,cun po’ capei, l’è oun che va inmachina, e sta int una bèla cà sòtaBartnóra cus vèid e mèr, al lusibiènchi e zali dia riviera cal brella adnòta, lò e va in machina dimpartot,

beh tal sé, um dis sempar «Parchètant cumpar e casco, ci mat, se tchesch tat’arvin». E casco? Valà, an’ho miga e mutour, a mè um pisprópi quél, e vent in ti oć, cla sensa-ziòun int agli ureci che pè t’epa unatempesta cun i cavalòun, i cavèldrét. Parchè tè tl’é mai vést, tatl’imàzin, Indurain cun e casco, tatarcùrd Indurain, che bascianazz,l’avèva e bret biènch dla Banesto,che e mi bà ul’aveva truvè in t’unnegòzi a la Pinarèla, us e mitèiva parfè al caminedi in spiagia. Pantani?T’scarzaré, ui è stè una volta che us’è cnù cavè e pirsing da e nès, e gétcui dasèiva fastidi, clè una cazèda,us capés, ma par dei che figurati ecasco. Adès chi ha fat la regola parla sicurèza, ca so d’acórd, ma a mèim pè tot praciìs, tan i cnos piò:quél l’è Nibali, no quél l’è Conta-dòr, cun chi ucél scour , e casco, tancapés gnènca piò si è in crisi, si gliala fa ancoura; mè, ènca mè a pórtun brét, no quél ad Indurain, anl’ho piò quél, ce ne ho uno rosso,sla visiera, cun la scrèta HONDA - atò dèt can l’ò e mutòur, a l’ò tolt a laconcesionaria, il rigalèva, te capèi? -Ui era la presentaziòun d’unamachina, una spyder, ad cal spurtéi-vi, decapotabile, da zero a cento insei secondi, am arcórd agli hostessèlti, suridènti cun i cavél long catdasèiva e bicìr de spumènt e untèval cun la tvaia biènca cun di stuz-zichini, la machina an l’ò guardèdabèn, mè an aveiva ancòura la paten-ta, e guidéva e mi bà, am so tnù e

brèt, e spumènt un era gnèncadoulz, l’era che sèch, a lò lasè amità. Che pò adess a dróv quél par-chè ho pérs par strèda che nir, chebrèt nir dl’asicuraziòun, da quan casera burdèl a purtèva sémpra quél:l’è suzèst un dé st’istèda, e tireiva unvangiàz. La mi mà, cl’è una maestrala ml’ha det, però dopo, se me lodiceva prima, - che lei è laureata - lamla dét «E brèt tal’e da tnéi d’ar-vérs, senò e fa l’effetto vela», soccial’effetto vela, sut ca sépa mè, a sérain tla discesa de sdèl, un vangiàz adtravèrs, e fùm! um è vulè via; am sofarmè, zeirca zeirca sòta al machini,in ti ciaspói, gnint; a un zertmumènt um bossa in tla spala unsgnòur in ti stènta, oun ad quei chista fora in tal scarani de bar e l’à dafè sèira, i survéia la situazioun, iècm’i carabinir, pezz di carabinir.Um fa «Dei, sét pérs?» e mè «E migat». «E tu gat? Ma se ci in biciclè-ta!». «Beh, saièl? A lo purtè a fè unzéir, seno e sta tot e dè davènti a latelevisiòun». «Tam tu pre cóul».«Cumò, lei scherzerà! I róss i àmandé in orbita un chèn, mè anpòss purtè in biciclèta e mi gat, stamò da vdèi!». Fatto sta che e gat anl’avem truvè, mo gnènca e brèt. Par-chè tal sé, ui è dal volti cum ciapa-rèbb la vòia, in tal vidrèini ai n’ òvesti dal bèli, cam piasaréb, parchèquesta ch’ai ò adès, pesènta, la n’èda coursa, a fag piò fadeiga. Prèmaan’ avèva un’ èltra, prèma a voi deiot an fa: i mla rubéda propi l’utumdé dl’an, cui vó dla sfìga, int un an

La biciclèta nóva

di Francesco BartoliniDialetto di Cesena

Illustrazione di Giuliano Giuliani

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la Ludla 9

ad tot i dé cui è, e trentóun adDicémbar, i l’avrà fat apòsta, magarisl’era e dè prèma i gni truvèva góst arubéla. Dèi, an vói fètla lónga: amso svigè, ò dè un’ucèda fora, e l’angnera piò! Porca boia, ch’ai avevames da póch una sèla nova! - E capo-schèla? Sta zet valà, lò l’era e stesènca alóura, «Nessuno ha visto nien-te, son cose che capitano». Sonocose che capitano sti du maróun,però cumèla c’al capita sempra mamè? - un gnè niént da fè, l’era unquaiòun zà aloura. Pensa: una Vici-ni nera, cun la scrétta color oro e unmotivo iridato, te capei?, iridatocome la maja del campione delmondo: l’era de mi non, u l’avevatòlta poch smèni prèma ad muréi,

in te nuventaquatar, u la tnéiva inca’ ènca lò, proprio int l’ingrèsprèma dal schèli; gnént, l’è alnù ca’un dé da fè la spèisa e l’è rmast matèra in cusèina... in tè nuventaqua-tar, l’an di mundiél, Baggio che esbaja e rigòur e dop a sem andè tòta lèt, ma lò un l’à vést , l’è mórt adFabrèr. L’è par quèst can sò sicóur:sé, a sò d’acórd, a gl’è alziri cm’euna pióma, ma turném a e scòurs adprèma: mè cun la bici an fag miga alcoursi, gnènca la Nove Colli, par fètcapei; l’è piò una roba affettiva perme, a sem mè e lia, a decidémmd’andè in tun pòst, a scurémm,(cioè, al sò, dal vólti a scórr da parme), in t’una curva us veid SanMarèin, a vag pianéin, magari a m’

a férum... e una biciclèta nova, a neso, avrebb da fè conoscenza, an so etéip, l’è cumè cun al dóni, ui vó e sutèmp, ai ò al mi dificoltà, tal sé cuma sò fat. Za adèss s’avess incòura lami Vicini, cum a fagh a cumprèmuna biciclèta nova, ta lì véi ènca tè,agli è lè algidi, al pè dal mudèli, uimènca l’anma, mè pò am vargogn,cum us dèis in italièn?, aiutum... ipunti in comune!, ecco, an avém ipunti in comune - no no, l’a né robapar mè! L’è fazil scorr par tè che ttésèmpra cla machinaza sòta e cóul.T’dì bèn: tùt la biciclèta, e casco etòt l’ambaradàn. Ma cum a faghi mèa tom una roba nova quand ch’ai ònostalgìa ad cal véci? E po, stam móda santéi. Tam i dé té i baióc?

Settembre 2017

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la Ludla10 Settembre 2017

E’ ðmarì ad CatarnonFê e’ ðmarì ad Catarnon significa ‘farelo gnorri’, cioè fingere di non capireo, meglio, di essere estraneo a certesituazioni nelle quali invece si è chia-ramente coinvolti. E’ ðmarì ad Catar-non è quello che una volta sorpreso inun pollaio a riempire il sacco di galli-ne, alla domanda su che cosa facesselì, rispose che si era smarrito. Lo stes-so un’altra volta fu sorpreso mentreconduceva un paio di buoi per unacorda: accusato di furto rispose chelui aveva raccattato una fune per stra-da e mai avrebbe pensato che a quel-la ci fossero attaccati dei buoi. Ci si chiederà: chi è il Catarnon diquesto modo di dire? Pare che si trat-ti nientemeno di Caterina Sforza,signora di Imola e di Forlì. Si dice,ma la cosa è tutt’altro che sicura, chela signora controllasse i suoi sudditiattraverso spie travestite da contadiniche andavano in giro con tanto dibuoi al seguito. Sconfitta da CesareBorgia, il Valentino, perse la signoriae alle sue spie, per non fare una brut-ta fine, non rimase altro che fare gli‘smarriti di Caterinona’ dissimulan-do quella che era stata la loro attività.Un’ultima notazione: in romagnolopuò succedere che i nomi personalifemminili, quando vengono alterati,passino al maschile come nel caso diCatarnon: da Maria abbiamo e’Marion, da Lucia e’ Luzjin ecc.

Cativ com’ e’ lojAd essere cattivo non è luglio, che dasempre senza colpa fa il suo mestieredi mese più caldo dell’estate, ma illoglio, una graminacea nota anchecome ‘zizzania’, che cresce spontaneain mezzo al frumento e che gode dipessima fama a causa della parabolaevangelica del grano e del loglio (Mat-teo, 13, 24-30), nella quale, al tempodella mietitura, il primo viene porta-to nel granaio, mentre il secondoviene raccolto in fasci per essere bru-ciato. Ma perché il loglio è cattivo? Perché èspesso infestato da funghi che produ-cono un alcaloide tossico, la temuli-na, che provoca effetti sulla luciditàmentale di chi ne consuma la farina.

Un tempo era normale che chicchi diloglio rimanessero mischiati ai chic-chi di grano, contaminandone la fari-na e di conseguenza il pane o lapolenta.

Oggi è un termine che non si usa più,ma i dizionari dialettali romagnoliottocenteschi registrano l’aggettivoalujê, letteralmente ‘allogliato’, con ilsignificato di ‘stupido’. Come avverteil Morri nel suo vocabolario: “Il panedove sia in molta abbondanza la sua[del loglio] farina, imbriaca, ed ènocivo”.

Lóv com’un gat rosLóv com’un gat ros ‘Goloso come ungatto rosso’. Non è chiaro il perché diquesto modo di dire. Evidendementesi attribuisce ai gatti rossi una golosi-tà superiore a quella degli altri felini.D’altra parte - a livello di culturapopolare - chi è rosso di pelo (o dicapelli, visto che questo vale ancheper le persone) non ha mai godutobuona letteratura: Ad pél ros u n è bongnânca i videl ‘Di pelo rosso non sono

mansueti nemmeno i vitelli’. C’eradunque un pregiudizio nei confrontidi coloro che avevano i capelli rossi,considerati irrequieti fisicamente emoralmente. Questo valeva soprat-tutto per le donne: La dona ad pél ros,chi ch’u n la prôva u n la cnos ‘Ladonna di pelo rosso, chi non la provanon la conosce’. La scarsa considera-zione valeva anche per al gagi, cioèper le bionde o biondo rossicce. E’ vêlpiò una möra a la finëstra che zent gagiad una fësta ‘Val più una bruna allafinestra che cento bionde ad unafesta’. Ma torniamo al gatto rosso,anzi alla golosità che il romagnoloesprime con lóv: un nome (lupo) che èdiventato aggettivo (goloso) a causadella proverbiale voracità dell’anima-le. Si ricordi che in Romagna l’ultimasettimana di Carnevale, la settimanagrassa, si chiama stmâna lóva.

E’ sêlt de’ garnadëllFê e’ sêlt de’ garnadël significa ‘peggio-rare gravemente la propria condizio-ne’. Il ‘granatello’, diminutivo di gra-nata (garnê), era lo scopino fatto conun mazzo di saggina (mëlga), così chia-mato perché negli steli essiccati disaggina vi rimaneva sempre attaccatoqualche chicco (garnëla). E’ garnadël siusava per pulire il tagliere dai residuidi impasto o farina, ma, una voltache il pennacchio si era consumato enon era più in grado di svolgere benequesta sua funzione, veniva declassa-to a spazzare la cenere dell’irôla, cioèdel focolare. Infine concludevaingloriosamente la sua carriera, conun ultimo amaro salto, a pulire… e’lucòmud (il cesso).

Spigolando

fra i modi di dire

di Bas-ciân

E’ loj

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la Ludla 11Settembre 2017

calzéder: secchio di rame infine asse-gnato al pozzo, oppure, catino solita-mente lavamano. Dal lat. carchesium,quindi dal greco karchesion ‘coppa’ma, anche, ‘coffa’ delle navi a vela.1

Come calcedrus (‘secchio’), ricomparenel lat. mediev. (P. Sella, GLE): forseè un lascito bizantino. Il Bolelli, Diz.Etim., e il Devoto, Avviam., ne ripor-tano il nome ital. ‘calcese’, sotto cuiben pochi però si sognano di cercar-lo, affogato com’è tra un lungo elen-co di omonimi, comprese la ‘coffadei velieri’2 e la ‘cesta’ di legno aforma di parallelepipedo. Chi ha lamia età poi ricorda appena le paretidi alcune cucine che ostentavano iloro oggetti di rame, spariti in pochigiorni: donati alla patria in guerra osottratti alla meglio alle requisizioni.In tempo di pace, lucido, pulito ecoperto da un lino il nostro calzédertransitò in camera da letto, a dispo-sizione del medico nelle visite adomicilio. Invece i catini malconci,inutilizzabili altrimenti, forniti di unlungo manico, e chiamati caplét,furono destinati a tô só e’ brudòndal letamaio.3

Al pozzo poi, qualche assetato e

senza scarziòn ‘senza discrezione’,come avrebbe detto mia nonna, nonaveva scrupoli a bere per primo dal-l’orlo de’ calzéder sollevato e inclina-to, appena estratto dal pozzo. A lafaza ad ch’ìter che par chés i ’n sn’aþuvès! cioè provassero schifo a bereda un recipiente non pulito o giàusato da altri, sulla cui salute opulizia era il caso di dubitare. Chivoleva mostrare un pó pió ad scar-ziòn ‘discrezione’, prima di bereavrebbe chiesto: a vlì bé prema vo?Parchè me a mn’ aþuvareb dl’istèss.4

Note

1. La ‘coffa della nave’ somigliava auna botte tagliata a metà per illungo, col parapetto che sembravafatto da mezze doghe; qualcuno,equiparandolo al ‘costato’ pensòpure che karchesion fosse all’originedi carcasa. Questa conclusione è inogni caso meno peregrina di quelladel Devoto, Avviam.: «‘carcassa’incrocio in parte di carne e in partedi carico con cassa». 2. Sopravvissero alla guerra soprat-tutto calzéder e urzètti, oltre checaden ‘catini’ emisferici: i primilegati alla catena del pozzo: il catinocon base d’ottone ed usato fino adun secolo fa come lavamani, in ca-mera. 3. Il nome greco originario còphinos(còfano) giunse due volte dall’Oriente:la prima in epoca classica tramite illatino, dando infine origine ai no-strani còfen e cufanèt ‘portagioie’;una seconda nel medioevo sempreda còphinos, mediato dall’arabo quffa‘coffa’, sia come la marinaresca ‘coffadella nave’, sia come ‘cesto’ adattoper la sua forma ad essere impilatoper il trasporto nella sentina dellanave o la sistemazione in cantina. Inquesto caso, il parallelepipedo erafatto di strisce di pollone di castagnolarghe circa quattro dita, scheggiatecioè ricavate con l’ascia e, infine, di-sposte a scacchiera. La scheggiaturarispettando l’andamento delle fibre,faceva durare la cesta più a lungo.Tra coffa lignea e oggetti di rame,non c’è nessun legame etimologico.Alla fine del medievo alcuni soldaticon un elmo simile al catino di rameerano chiamati caplét ‘cappelletti’ o

miclét ‘micheletti’. Evidentemente icontadini ne ricordavano le sgraditeincursioni.4. L’avrebb fat bé prema i pió pzen[piccoli]: talora con una strana spie-gazione: un vec’ u pò tachét tot imél de mond; ma un þoven u t’ po’sol tachét la þuvintó; oppure s’u s’mor un vec’ ch’ l’ha þa campè, pócdann; ma un þoven u ’n ha incora sa(o asé) da campè.

tèvla: in dial. è la ‘tavola’, per qual-siasi uso e dimensione. Ma questa,soprattutto se sosteneva le pietanze1,in latino era chiamata mensa, collega-ta per etimo a mensura, ‘misura’2: lamensa sorreggeva le portiones‘porzioni’ (da parte?) a misura deicommensali. Tabula però era un ter-mine più generico come avvieneanche per l’italiano: da piano d’ap-poggio anche per lavorare a riparo; damateriale scrittorio ad asse di legnosagomata per gli usi più disparati.Sono collettivi tavlèda ‘tavolata’; il‘tavolato’ costituiva l’impiantitodella camera sovrastante. Differen-ziatisi nel tempo, significano cosediverse anche i diminutivi tabéla‘tabella’, ‘insegna’, accanto a tavéla‘tavella’: mattone di terracotta piùsottile del normale: disposti sutravetti fitti equidistanti. Le tavolettescrittorie antiche erano spalmate dicera su cui si scriveva con uno stilo,fornito all’altro estremo di una palet-ta usata per cancellare.

Note

1. Pi[e]tenza ‘pietanza’, oggi intesacome ‘secondo piatto’ dopo laminestra, viene dall’uso medievaledi fornire in certe ricorrenze gra-tuitamente ‘per pietà’ del cibo apoveri e miserabili: si facevanoanche queste differenze. Il poveroviveva alla giornata in attesa d’esserchiamato a fè l’ovra (una giornata dilavoro), guadagnandosi il minimoper campare; il miserabile non era ingrado di sostentarsi, aggravato taloraanche da malattie croniche defor-manti.2. Anche mense[m], méð ‘mese’; tra iderivati m[i]ðèda ‘mesata’.

Rubrica curatada Addis Sante Meleti

da Civitella

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la Ludla12 Settembre 2017

Concorso di Poesia dialettale romagnola “Omaggio a Spaldo” - XVI edizione

Bertinoro

E’ bôrg

di Rosalda NaldiPrima classificata

E’ dóndla la lanternaint e’ bôrg indurmènt,e’ vént sgarbê l’armès-ciala porbia tra la nébiach’ la vén só cme un ónda.E’ sbàt un scur,dal trêv tarlêdie’ vola vi‘na nuvla ‘d pipistrël,u s’strôpia l’ómbraint al muraj lugrêdi

coma fantêsumsmarì dènta un sôgnin cla nót ch’la n fnés pió.

Il borgo

Dondola la lanterna / nel borgo addormentato, / il vento sgar-bato mescola / la polvere fra la nebbia / che viene su come unonda. / Sbatte uno scuretto, / dalle travi tarlate / vola via / unnuvolo di pipistrelli, / si distorce l’ombra / nei muri consumati/ come fantasmi / persi dentro un sogno / in quella notte chenon finisce più.

U s’è fat nòta e pu e vnirà e dé

di Piero RaffaelliSecondo classificato

E su furchêl l’ha piantè tla paja, intènt la sóna cavéja da i anél; e cuntadén s’ardùs, i bu i sbadàja, un vëcc, int l’ós, za sbicìra arzél.

“Òman di chémp, quant i t’ dà la mdàja, che da la tëra te ta i chèv gnaquel?”Sira la chèla, int l’èra e can e baja, ui è l’arpóns e mo no pr’i grél.

La buravéna l’è za ‘d fura, scàja,pu un miglierd ‘d lusi, tan li cónt cal stël. U s’è fat nòta, zil l’ha stés su tvàja; dórma al fadìg, lò, la moj, burdél.

Cun e sudor l’ha parghè, cla màja, adèss ac pêsa, ac silénzi bel!

Stal puiÝì agl’à vent...

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13la Ludla Settembre 2017

Pasa la lóna; se e su lóm s’incàja,‘na Madunéna 1’ars-céra e canzèl.

Vnirà l’invéran, mo s’e giàz ch’e taja, sot’a la neva e gran s’i su garnël.Tla premavìra, quant s’arvéss carvàja de sol ch’e cress i fiùr, a mél, a mél!

“Oh, contadén, che e tu mond u n’ sbàja!”

Si è fatto notte e poi verrà il giorno

Ha piantato il suo forcale nella paglia, / intanto suona cavi-glia dagli anelli; / il contadino ritorna a casa, i buoi sbadiglia-no, / un vecchio, sull’uscio, già sbicchiera arzillo. // “Uomodei campi, quando ti danno la medaglia / che dalla terra tusai ricavare ogni cosa?” / Cala la sera, nell’aia il cane abba-ia, / c’è il riposo, ma non per i grilli. // La stella dell’oscuri-tà è già di fuori, scaglia di luce, / poi un miliardo di lumi, nonle conti quelle stelle. / Si è fatto notte; il cielo ha steso la suatovaglia, / dormono le fatiche, lui, la moglie e i bambini. //Quella maglia ha pregato con il sudore / adesso quale pace,quale silenzio bello! / Passa la luna; se la sua luce s’incaglia,/ una Madonnina rischiara il cancello. // Verrà 1’inverno,ma, col gelo che taglia / il grano con i suoi chicchi, sotto laneve. / Nella primavera, quando si apre fessura, / del sole checresce i fiori, a mille, a mille! // “Oh, contadino, che il tuomondo non sbaglia!”

Avèma al mèni sfòndi

di Antonio GasperiniTerzo classificato

Quanti ròbi ch’avèm pérsint la priscia di nóst vièz

sal strèdi lèrghi d’j èn indrì…Avèma al mèni sfòndie e’ témp piò bèle’ sguiléva visénza che nôuna s’n’adasésum.D’atònd, cantìr fiuréie végni d’uva fatach’a guardèma ad côursasénza gnènca santéil’udòur e l’umòur ch’i s’rigalèva.

Adès un vént giazée’ cala da la muntàgnae sénza farmèse’ fés-cia m’al finèstri dla chèsacun al paróli dla memória stracae nôun ad dôentra a guardèse a mét insénun dè sòura cl’èltsfujènd un calandèri sbiavéicun al mèni dl’abitudinach’al sént e’ frèd.

Avevamo le mani bucate

Quante cose abbiamo perdute / nella fretta dei nostri viaggi /sulle strade larghe degli anni lontani… / Avevamo le mani buca-te / e il tempo migliore / scivolava via / senza che noi / ce neaccorgessimo. / Attorno, campi fioriti / e vigne d’uva matura /che guardavamo di sfuggita / senza neppure gustare / il profumoe il sapore che ci regalavano. // Adesso un vento freddo / scendedalla montagna / e senza fermarsi / sibila alle finestre della casa/ con le parole della memoria stanca / e noi dentro a guardarci /e ad ammucchiare / un giorno sull’altro / sfogliando un calenda-rio sbiadito / con le mani dell’abitudine / che sentono il freddo.

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la Ludla14 Settembre 2017

S’anden int e’ period tra al do guër,int al famì cuntadeni u n era abitudi-na fê la bughê cun e’ câmbi di linzultânt spes; zert che non toti al famì als’riguleva int e’ stes môd, u i n’era adqueli che al la faseva abastânza spes; ui era dal famì, che fra una bughê ecl’êta al puteva lasê pasê nench piòd’si mis. Zerta che la barzeleta ch’u scunteva una vôlta, la dgeva bene e’fat dla bughê.In campâgna al ca al n’era tânt avsenuna da cl’êta; un cuntaden u s’acöstaa la ca de’ su avsen, e e’ trôva la famì,ch’la staseva fasend i lavur torna aca: e’ bab, invstì sol cun e’ curzen; lamâma cun al pianël e la fiôla cun lacufia da nöt. E’ bab e’ spiega, “a senun pô alzir ad pen; cal donn agli à fatla bughê de’ pôrch”. A que a sen a e’màsum, mo puch vstì i aveva e’ricâmbi.U i era du tip d’bughê, quela di vstìciamêda “lavê la röba d’culór”(ch’las’faseva un pô piò spes), e la bughêvera, par la biancarì: frudet, tvaj biân-chi e linzul.E’ prem lavór l’era preparêr e’ rân: e’parôl d’râm, int la furnasëla, e’ vnevaimpinì d’aqua, u s i azunzeva la zen-dra ad legna (pasêda par cavêj, s u ifos stê, dla ciustê), e la s’faseva bulì,fata giazê, mèntar che la zendra las’era depositêda int e’ fond, u s tule-va l’aqua, che bulend cun la zendral’era dventa culór dla paja, e cun e’

pasê de’ temp la dvinteva culórmaron ciêr. St’aqua l’era cnunsudacun e’ nom d’rân, la javeva dal pro-prietê particuleri, int al mân la sbrise-va, e l’aveva una zerta curusion, ch’l’andeva a intachê cun fôrza e’ spôrchatachê a i pen. U s druveva par tentservizi, oltre a lavê qualunque tip adpen, l’era bon in particulêr par lavêsla tësta, oltra a la pulizi e’ laseva icavel les e lòstar. Cla pêrt ad curusionla s faseva avdé nench int la pël dalmân ch’la dvinteva lesa e stila, comatrasparenta; se al lavandêri agli avesdurê un dè intir, a sbàtar, strufignê espazarinê int e’ smujadur, a sera almân al puteva dvintê rôsa e quêsi ascurghês.Fnì e’ lavag, scriché i linzul i vnevames int una mastëla grânda “la mastë-la dla bughê”, i vneva quirt cun e’“zindrôl” (linzôl vëc ormai smes), ch’l’areb fat da fìltar, u s ripiteva l’opera-

zion coma par fêr e’ rân, mo stavôltaapena bulida, l’aqua cun la zendra, lavneva pasêda int la mastëla sóra a labiancarì querta da e’ zindrôl. E’ dèdop sóra a e’ zindrôl u i era armastsol la zendra, depositêda int e’ tél,mèntar l’aqua dvintêda rân l’eraandêda zò insupend la biancarì; e’vneva cavê e’ zindrôl, cargh cun tot lazendra, (che la s tneva da cont pardruvêla coma cunzem). La mastëlaint e’ fond l’aveva un bus (par cavêr e’rân) srê cun un tap: e’ dós.La biancari, sculêda, l’avneva tôlta dala mastëla, pasêda pëz par pëz, int e’smujadur, par sbatla e s-ciarêla intl’aqua curenta in do’ che u i era lapusibilitê, (int e’ fiom o int uncanêl), sinò int l’ébi, prema ad sten-dla par sughêla.L’ultma operazion la sarveva par cavêagl’ultmi impuritê armasti, e arvivì e’biânch dla bughê.

La bughê

di Renzo GuardigliIllustrazione di Giuliano Giuliani

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la Ludla 15Settembre 2017

Pr i piò

znen

Scrivi nelle caselle orizzontali le risposte alle definizioni. Nella colonna contrassegnata con la freccia leggerai il nome di un mobile comodo.

1. Tent élbar.2. La mâgna, la rid, la scor.3. Tot a javlen ben.4. La pò èsar a vela.5. A i tnen e’ fazulet da nês o… al mân.6. Al disignen cun agl’él.7. E’ chêva la fâm.

BËLBAS

CURAGIÓÐSERI

ÞIGÂNTGENERÓÐ

Questo mese c’è una piccola novità: una pagina interamen-te dedicata all’enigmistica.Se non ci riuscite provate a chiedere l’aiuto di un adulto.Le soluzioni le troverete nel prossimo numero.Buon divertimento!

Rosalba Benedetti

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Scrivi a fianco degli aggettivi in colonna il loro contrario.Leggendo in verticale le iniziali dei contrari troverai chi porta i doni.

Microcruciverba

Orizzontali1. Muto - 2. Arare -3. Giallo

Verticali1. Maggio - 2. Ombra - 3. Telo

Non ci sonodefinizioni.Basta tradurrein dialetto leparole sotto indicate.

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la Ludla16

In un’epoca nella quale il nostro dialetto viene reputatoormai prossimo alla scomparsa, sarebbe quantomenoauspicabile che l’interesse e la dedizione dei residuiseguaci si concentrassero sul caparbio insieme di autorie poeti che ciò nonostante insistono a frequentarlo.Presenza, questa, passibile di trovare idonee ricompenseevolvendo da impegno responsabile in appagamento econsenso, ogniqualvolta, in luogo di frequentare un’ana-cronistica poesia romagnola che ha ormai ultimato ilsuo ciclo, càpiti di imbattersi nell’impegno di poetiattuali che perseguono itinerari inediti e divergenti dallaconsuetudine.Potrebbe forse apparire eccessiva o di parte la tesi diun’ipotetica conversione delle parlate locali “da linguedella realtà a lingue della poesia” (Brevini), è tuttaviamanifesto, specie in ambito poetico, che una motivata eopportuna riforma delle loro specifiche competenze,solo ieri osteggiata dai più e verosimilmente ardua agli

occhi degli stessi interessati, sia con evidenza in atto.Nello scorcio degli ultimi anni, in effetti, più di un auto-re dialettale ha posto fine agli indugi e si è messo allaprova, affrontando persino gli azzardi e le seduzioni del-l’Haiku, quel genere di poesia sorto in Giappone nelXVII secolo che vanta nondimeno estimatori e proselitiin svariati angoli del mondo, Romagna compresa.Segno palese, questo, che si tratta di una forma, omeglio di una struttura espressiva, che oggigiorno siamalgama senza complicazioni alla natura del dialetto eall’indole di coloro che in un modo o nell’altro intendo-no avvalersene.Esprimendosi nel linguaggio delle colline cesenati, Gior-gio Paganelli è parte in causa del processo in atto e diconseguenza autore, sugli schemi dell’Haiku, di poesiecontraddistinte da un tono palese ed essenziale, liricheprive di titolo, artifici linguistici e verbosità, che traggo-no efficacia dagli incanti di una natura indagata neldipanarsi dei suoi cicli, imprigionando le sfumature e lacaducità dell’attimo in corso all’interno di versi provvi-sti di un’incisiva e compiuta essenzialità.Campo libero all’immaginazione, pertanto, e nel giro dipochi versi lasciamo che il poeta ci conduca dall’epilogodi una torrida estate che ha lasciato il segno, al sognoammantato di bianco di una neve, resa più incerta dianno in anno dal surriscaldamento globale.

Paolo Borghi

1E’ corr al novliIncù l’è grand e’ zilE’ mor l'instèda.

2E pou d’inveranCoi la moela sla vètaCum l’è doulza.

3Ui dà che bufaL’è noeva dimpartotNa cverta bienca.

1. Corrono le nuvole / oggi il cielo è grande / se ne va l’estate. 2. E poi d’inverno / raccogliere la mela sulla vetta / è così dolce. 3. Come nevica / È neve dappertutto / Coperta bianca. [Traduzione di Sante Pedrelli]

«la Ludla», periodico dell’Associazione Istituto Friedrich Schürr, distribuito gratuitamente ai sociPubblicato dalla Società Editrice «Il Ponte Vecchio», Cesena • Stampa: «il Papiro», Cesena

Direttore responsabile: Pietro Barberini • Direttore editoriale: Gilberto CasadioRedazione: Paolo Borghi, Roberto Gentilini, Giuliano Giuliani, Addis Sante Meleti

Segretaria di redazione: Veronica Focaccia Errani

La responsabilità delle affermazioni contenute negli articoli firmati va ascritta ai singoli collaboratori

Indirizzi: Associazione Istituto Friedrich Schürr e Redazione de «la Ludla», Via Cella, 488 •48125 Santo Stefano (RA)Telefono e fax: 0544.562066 •E-mail: [email protected] • Sito internet: www.dialettoromagnolo.it

Conto corrente postale: 11895299 intestato all’Associazione “Istituto Friedrich Schürr”Poste Italiane s.p.a. Spedizione in abbonamento postale. D. L. 353/2003 convertito in legge il 27-02-2004 Legge n. 46 art. 1, comma 2 D C B - Ravenna

Settembre 2017

Giorgio Paganelli

Haiku