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DOMENICA 7 NOVEMBRE 2010 / Numero 300 D omenica La di Repubblica le tendenze Eva, Linda e le splendide quarantenni IRENE MARIA SCALISE l’incontro Clint Eastwood, la febbre del nuovo MARIO SERENELLINI cultura Mario Giacomelli, fotografie in versi EMANUELA AUDISIO spettacoli In un taccuino tutta la forza del Boss GINO CASTALDO e BRUCE SPRINGSTEEN l’attualità Le ultime voci delle lingue scomparse MARINO NIOLA CARL GUSTAV JUNG © 2009 STIFTUNG DER WERKE VON C. G. JUNG / W. W. NORTON & COMPANY, NEW YORK, PER GENTILE CONCESSIONE DI BERLA & GRIFFINI RIGHTS AGENCY © 2010 BOLLATI BORINGHIERI EDITORE, TORINO Jung Libro rosso Il Il lungo viaggio segreto del maestro dell’inconscio in esclusiva per l’Italia LA DOMENICA NUMERO 300 La Domenica di Repubblica è arrivata al numero trecento. Da oggi sul canale digitale terrestre e poi online su Repubblica.it, andrà in onda uno speciale di Repubblica Tv che ne ripercorre la storia. Un documentario che racconta, attraverso interviste agli autori dei servizi, ai collaboratori e alla redazione come nasce un numero della Domenica dall’idea iniziale alla sua realizzazione Lo speciale è stato curato da Giulia Santerini con il montaggio di Giulio La Monica Q uando, nell’ottobre 1913, ebbi la visione dell’allu- vione, mi trovavo in un periodo per me importan- te sul piano personale. Allora, all’età di quarant’an- ni, avevo ottenuto tutto ciò che mi ero augurato. Avevo raggiunto fama, potere, ricchezza, sapere e ogni felicità umana. Cessò dunque in me il deside- rio di accrescere ancora quei beni, mi venne a mancare il desi- derio e fui colmo d’orrore. La visione dell’alluvione mi sopraf- fece e percepii lo spirito del profondo, senza tuttavia compren- derlo. Esso però mi forzò facendomi provare un insopportabi- le, intimo struggimento, e io dissi: «Anima mia, dove sei? Mi sen- ti? Io parlo, ti chiamo… Ci sei? Sono tornato, sono di nuovo qui. (segue nelle pagine successive con un articolo di Antonio Gnoli) Repubblica Nazionale

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DOMENICA 7NOVEMBRE 2010 / Numero 300

DomenicaLa

di Repubblica

le tendenze

Eva, Linda e le splendide quarantenniIRENE MARIA SCALISE

l’incontro

Clint Eastwood, la febbre del nuovoMARIO SERENELLINI

cultura

Mario Giacomelli, fotografie in versiEMANUELA AUDISIO

spettacoli

In un taccuino tutta la forza del BossGINO CASTALDO e BRUCE SPRINGSTEEN

l’attualità

Le ultime voci delle lingue scomparseMARINO NIOLA

CARL GUSTAV JUNG

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Il lungo viaggio segretodel maestro dell’inconscioin esclusiva per l’Italia

LA DOMENICA NUMERO 300

La Domenica di Repubblica è arrivataal numero trecento. Da oggi sul canale digitaleterrestre e poi online su Repubblica.it, andràin onda uno speciale di Repubblica Tvche ne ripercorre la storia. Un documentarioche racconta, attraverso interviste agli autoridei servizi, ai collaboratori e alla redazionecome nasce un numero della Domenicadall’idea iniziale alla sua realizzazioneLo speciale è stato curato da Giulia Santerinicon il montaggio di Giulio La Monica

Quando, nell’ottobre 1913, ebbi la visione dell’allu-vione, mi trovavo in un periodo per me importan-te sul piano personale. Allora, all’età di quarant’an-ni, avevo ottenuto tutto ciò che mi ero augurato.Avevo raggiunto fama, potere, ricchezza, sapere eogni felicità umana. Cessò dunque in me il deside-

rio di accrescere ancora quei beni, mi venne a mancare il desi-derio e fui colmo d’orrore. La visione dell’alluvione mi sopraf-fece e percepii lo spirito del profondo, senza tuttavia compren-derlo. Esso però mi forzò facendomi provare un insopportabi-le, intimo struggimento, e io dissi: «Anima mia, dove sei? Mi sen-ti? Io parlo, ti chiamo… Ci sei? Sono tornato, sono di nuovo qui.

(segue nelle pagine successivecon un articolo di Antonio Gnoli)

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36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 7NOVEMBRE 2010

la copertinaMaestri

(segue dalla copertina)

o scosso dai miei calzari la polvere di ognipaese e sono venuto da te, sono a te vici-no; dopo lunghi anni di lunghe peregrina-zioni sono ritornato da te. Vuoi che ti rac-conti tutto ciò che ho visto, vissuto, assor-bito in me? Oppure non vuoi sentire nulladi tutto il rumore della vita e del mondo?Ma una cosa devi sapere: una cosa ho im-parato, ossia che questa vita va vissuta.Questa vita è la via, la via a lungo cercata

verso ciò che è inconoscibile e che noi chiamiamo divino. Nonc’è altra via. Ogni altra strada è sbagliata. Ho trovato la via giusta,mi ha condotto a te, anima mia. Ritorno temprato e purificato.Mi conosci ancora? Quanto a lungo è durata la separazione! Tut-to è così mutato. E come ti ho trovata? Com’è stato bizzarro il mioviaggio! Che parole dovrei usare per descrivere per quali tortuo-si sentieri una buona stella mi ha guidato fino a te? Dammi la ma-no, anima mia quasi dimenticata. Che immensa gioia rivederti,o anima per tanto tempo disconosciuta! La vita mi ha riportato ate. Diciamo grazie alla vita perché ho vissuto, per tutte le ore se-rene e per quelle tristi, per ogni gioia e ogni dolore. Anima mia, ilmio viaggio deve proseguire insieme a te. Con te voglio andareed elevarmi alla mia solitudine».

Questo mi costrinse a dire lo spirito del profondo e al tempostesso a viverlo contro la mia stessa volontà, perché non me l’a-spettavo. In quel periodo ero ancora totalmente prigioniero del-lo spirito di questo tempo e nutrivo altri pensieri riguardo all’a-nima umana. Pensavo e parlavo molto dell’anima, conoscevotante parole dotte in proposito, l’avevo giudicata e resa oggettodella scienza. Credevo che la mia anima potesse essere l’ogget-to del mio giudizio e del mio sapere; il mio giudizio e il mio sape-re sono invece proprio loro gli oggetti della mia anima. Perciò lospirito del profondo mi costrinse a parlare all’anima mia, a ri-volgermi a lei come a una creatura vivente, dotata di esistenzapropria. Dovevo acquistare consapevolezza di aver perduto lamia anima. Da ciò impariamo in che modo lo spirito del profon-do consideri l’anima: la vede come una creatura vivente, dotatadi una propria esistenza, e con ciò contraddice lo spirito di que-sto tempo, per il quale l’anima è una cosa dipendente dall’uomo,che si può giudicare e classificare e di cui possiamo afferrare iconfini. Ho dovuto capire che ciò che prima consideravo la miaanima, non era affatto la mia anima, bensì un’inerte costruzio-ne dottrinale. Ho dovuto quindi parlare all’anima come se fosse

Nel 1913 Carl Gustav Jung ha quarant’anni ed è un uomo realizzato: ha “fama,potere, ricchezza, sapere”. Ma all’improvviso incominciano incubi e visioniapocalittiche. Il padre della psicologia analitica li annoterà e li disegneràper tutta la vita su un quaderno che diventerà il “Libro rosso”Uno stupefacente diario intimo, monumento all’inconscio, testo alchemicodi straordinaria ricchezza. L’opera, rimasta a lungo segreta, ora esce in Italia

Dio nella mia animadraghi nel mio cuore

CARL GUSTAV JUNG

Appunti di viaggioverso l’abisso

ANTONIO GNOLI

Glianni che precedettero la prima guerra mondiale fu-rono per Carl Gustav Jung (1875-1961) attraversati dastrane premonizioni. Poco più che trentenne, co-

minciò ad avere delle visioni apocalittiche. I suoi occhi era-no colmi di terrificanti inondazioni, vedeva macerie ovun-que e fiumi di sangue scorrere per l’Europa. Pensò di esserepazzo. Quegli stati di veglia, durante i quali gli accadeva diprovare angoscia e tremore, non potevano tuttavia ridursi asemplici fantasticherie. Da bambino, gli accadde spesso disognare una figura che la voce della madre definiva il «divo-ratore di uomini». Chi era quel personaggio che di notte por-tava lo scompiglio nella testa del giovane Carl?

Ancora molti anni dopo, riflettendo su quell’esperienza al-lucinatoria, Jung non sapeva se ricondurla alla favolistica di-mensione di un orco o alla figura del Cristo. Forte era il diso-rientamento, ma forte al contempo la necessità di cercare unaspiegazione che andasse oltre la pura ragione e la sempliceesperienza sensoriale. Fu così che Jung cominciò ad annota-re, come un allucinato sismografo, tutto quello che accadevanel proprio mondo interiore. Non solo i sogni e le visioni, maanche le letture fatte, gli scrittori compulsati, i saperi tortura-ti, le civiltà confrontate, le mitologie, il folclore, l’arte, le reli-gioni, insomma tutto, o quasi, confluì in quel grande e miste-rioso affresco incompiuto che è il Libro rosso, di cui esce oral’edizione italiana.

Nelle intenzioni di Jung, quel testo — per decenni conside-rato una sorta di Santo Graal della psicoanalisi junghiana —avrebbe dovuto descrivere le varie componenti della sua per-sonalità, proprio a partire dalle sue fantasie. Le quali, sebbe-ne agissero liberamente, appartenevano al sostrato antichis-simo del mito. Jung aveva compreso che per conoscere se stes-si occorreva perlustrare quel cantiere di sogni e di apparenti

bizzarrie, di visioni e perfino di mostruositàche talvolta ci portiamo dentro. Era con-

sapevole che non si trattava di sempliciallucinazioni, ma di un mondo simbo-licamente ricchissimo che l’epocamoderna aveva tentato di cancellare.

Il Libro rosso (o Liber novus) metteil lettore di fronte a due situazioni: gli

fa conoscere Jung attraverso Jung; econtemporaneamente lo introduce a

un metodo di lavoro che può illuminarela sua vasta produzione. È noto che egli fu

allievo di Freud, con il quale scambiò, oltre chel’amicizia, lettere, giudizi e riflessioni. Quel rapporto — pro-prio negli anni in cui vennero poste le premesse alla sua ope-ra più intima — si esaurì. Nel 1914 Jung uscì dall’Associazionepsicoanalitica internazionale. Alla base della rottura ci fu piùdi un motivo. C’era, innanzitutto, quella che Jung definì l’or-todossia freudiana e l’eccesso di dogmatismo dottrinario; c’e-ra il diverso modo di interpretare la libido (per Freud la libidoera riconducibile esclusivamente alla pulsione sessuale;mentre per Jung essa si apriva anche ad altre pulsioni psichi-che); c’era la diversa lettura che entrambi davano dell’incon-scio (per Freud all’inizio una tabula rasa su cui via via vengo-no depositati gli atti rimossi dalla coscienza; per Jung vicever-sa l’inconscio è già definito fin dall’origine); infine il metodofreudiano era soprattutto un’analisi retrospettiva, tendevacioè a ricostruire gli antecedenti del materiale psichico osser-vato; quello junghiano privilegiava la vita nella sua comples-sità simbolica e immaginativa. Di qui l’importanza che agliocchi dell’ex allievo assunsero alcuni archetipi: “Persona”,“Ombra”, “Anima”, “Sé”, che egli interpretò come manifesta-zioni differenti della personalità.

IlLibro rossopuò dunque esser letto anche come il tormen-tato emanciparsi dalla figura del maestro. Il differente ap-proccio junghiano alla vita psichica, includeva l’esistenza diun conflitto con la figura paterna, sia reale (come nel caso deldistacco da Freud) sia simbolica (quando gli accadde di riflet-tere sulla morte di Dio). Jung meditò a lungo sullo Zarathustradi Nietzsche. Ne concluse che — grazie all’anima — il dio chemuore rinasceva nelle sue multiformi espressioni.

Il Libro rosso è una delle grandi avventure clandestine delNovecento. Jung ne interruppe improvvisamente la stesuranegli anni Venti, per poi riprenderla nel 1959. Ma anche inquella occasione prevalse la sospensione. Per anni il testo fuinaccessibile. Del resto, non era chiaro se Jung lo consideras-se pubblicabile. Gli eredi, grazie al lavoro di persuasione di So-nu Shamdasani, lo hanno infine consentito. E questo, sebbe-ne la parte scritta e quella disegnata (vi ricorre, ad esempio, ilgrande tema del Mandala) inducano a catalogarlo tra i suoifrutti più esoterici. D’altro canto, il Libro rosso rivela un mon-do che ci sorprende per ricchezza concettuale, per affezionea civiltà remote e diverse dalla nostra, per quei nessi sotterra-nei che mostrano l’immenso talento di chi li ha saputi creare.Più che un monumento alla psicologia, o un semplice docu-mento intimo, il Libro rosso è la prova che i grandi spiriti san-no guardare l’abisso della follia senza esserne inghiottiti.

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ALBERO DELLA VITALe immagini di queste pagine sono parte integrantedel Libro rosso. Ognuno di questi disegni è legato a un sognoiniziatico o una visione di Jung. Si riconoscono alcunidegli archetipi principali: il serpente simbolo della conoscenza,la nave del viaggio di Osiride e del sole, l’uovo cosmicoispirato dai Veda indiani in copertina, il grande alberodella pagina accanto o la creatura da incubi qui sopra

Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37DOMENICA 7NOVEMBRE 2010

il suo desiderio ne è immagine ed espressione.Se possediamo l’immagine di una cosa, possediamo la metà

di quella cosa. L’immagine del mondo costituisce la metà delmondo. Chi possiede il mondo, ma non invece la sua immagine,possiede soltanto la metà del mondo, poiché l’anima sua è po-vera e indigente. La ricchezza dell’anima è fatta di immagini. Chipossiede l’immagine del mondo, possiede la metà del mondo,anche se il suo lato umano è povero e indigente. Ma la fame tra-sforma l’anima in una belva che divora cose che non tollera e dacui resta avvelenata. Amici miei, saggio è nutrire l’anima, pernon allevarvi draghi e diavoli in cuore.

Traduzione Marianna Massimello

(© 2009 Stiftung der Werke von C. G. Jung / W. W. Norton &Company, New York, per gentile concessione di Berla & Griffini

Rights Agency © 2010 Bollati Boringhieri Editore, Torino)

© RIPRODUZIONE RISERVATA

IL LIBRO

Uscirà per BollatiBoringhieril’11 novembre il Libro rossodi Carl Gustav Jungcurato da SonuShamdasani(393 pagine, 150 euro)

qualcosa di distante e ignoto, che non esisteva grazie a me, magrazie alla quale io stesso esistevo.

Giunge al luogo dell’anima chi distoglie il proprio desideriodalle cose esteriori. Se non la trova, viene sopraffatto dall’orroredel vuoto. E, agitando più volte il suo flagello, l’angoscia lo spro-nerà a una ricerca disperata e a una cieca brama delle cose vacuedi questo mondo. Diverrà folle per la sua insaziabile cupidigia esi allontanerà dalla sua anima, per non ritrovarla mai più. Cor-rerà dietro a ogni cosa, se ne impadronirà, ma non ritroverà lasua anima, perché solo dentro di sé la potrebbe trovare. Essa sitrovava certo nelle cose e negli uomini, tuttavia colui che è ciecocoglie le cose e gli uomini, ma non la sua anima nelle cose e ne-gli uomini. Nulla sa dell’anima sua. Come potrebbe distinguer-la dagli uomini e dalle cose? La potrebbe trovare nel desideriostesso, ma non negli oggetti del desiderio. Se lui fosse padronedel suo desiderio, e non fosse invece il suo desiderio a impadro-nirsi di lui, avrebbe toccato con mano la propria anima, perché

REPUBBLICA TV

Su Repubblica.itè online una galleriadi immaginisul Libro rossoVenerdì 12 novembrealle 20,15 su Repubblica Tv,puntata specialedi Libridine

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Ogni lingua è un angolo di mondo.E le parole non servono solo a co-municare la realtà, ma la creano.Perché tutto ciò che esiste è nellinguaggio e ciò che non è più no-minato smette di vivere. Le idee, le

emozioni, i senti-menti, le istituzionidegli uomini, ma an-che le cose, gli oggetti,i luoghi sono in realtàmodi di essere dellaparola, sedimentatidal tempo. In questosenso ogni lingua èun’eredità, come di-ceva Ferdinand deSaussure, l’inventoredella linguistica mo-derna. E ogni linguache scompare è unpatrimonio che vaperduto, un pezzo diumanità che tace persempre.

Proprio agli idiomia rischio di estinzioneil linguista americanoK. David Harrison de-dica il suo ultimo libroThe Last Speakers: TheQuest to Save theWorld’s Most Enden-gered Languages, un

l’attualitàBabele

Lingue che rischiano di morire, idiomi in via di estinzione, vociche si stanno spegnendo per sempre. K. David Harrison è andatoa cercarli in un lungo viaggio attraverso il pianeta dall’Australiaalla Siberia al Sudamerica.Ha raccolto un patrimonio di canti,saperi, storie tramandate con vocabolari millenari e sconosciutiPer dimostrare che parlare non significa solo comunicare

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affascinante e avventuroso viaggio attraverso leparole che il pianeta rischia di lasciarsi sfuggireper sempre. Dalla Siberia agli altipiani boliviani,dalla Nuova Guinea fino alle isole linguistichedell’Occidente. Quelle che oggi rischiano di esse-re sommerse dalla marea montante della globa-lizzazione e dal suo monolinguismo. Che riducele voci del pianeta a una cattiva declinazione del-

l’inglese. Una formattazione del pensiero che sa-crifica le diversità in nome della praticità. È il pa-radosso di oggi. Comunichiamo sempre di più,ma le parole per farlo diminuiscono. E così gior-no dopo giorno molte comunità adottano le lin-gue dominanti lasciando morire quelle native.

Spesso consegnate unicamente alla tradizio-ne orale, a un passa parola millenario che il ru-more della civiltà tecnologica tende a coprire. Enon è solo una questione di termini, ma anche esoprattutto di contenuti. Di tutti quei saperi, les-sici, tassonomie, sensazioni, storie che altri-menti non conosceremmo. E in questo senso ildestino delle lingue è strettamente legato a quel-lo delle specie, le cosiddette biodiversità. Molteci sono del tutto sconosciute. Come i loro nomi.Saperi botanici, chimici, farmacologici, agricoli,tecniche di caccia, di pesca sparirebbero persempre con gli ultimi parlanti. Perché non tuttoè traducibile. E una lingua non vale l’altra.

In questo senso il fatto che l’inglese sia diven-tato l’idioma del villaggio globale, non è solo unvantaggio, ma un problema. Proprio così recita-va il titolo di un importante servizio apparsoqualche tempo fa sulla Herald Tribune e dedica-to alle derive linguistiche del dominio imperialeamericano. Siamo sicuri insomma di poter fare ameno di tanta ricchezza? A questa domanda —che è il leit motiv del libro — Harrison rispondecon un secco no. Le lingue a rischio di estinzionesi devono e si possono salvare. Cercando di in-crementarne il valore, il prestigio, l’appeal agliocchi dei parlanti, ma anche a quelli degli altri.Facendo crescere la quotazione delle cosiddetteparlate minori nel mercato mondiale dei lin-guaggi. Riconoscendo a ogni lingua una sua vo-

LINGUA: MONCHAK

La famiglia Nedmit Padre, madre e due figlie. Vivono nella Mongolia occidentale

Parlano la lingua Monchak, considerata a rischio di estinzione

Sono meno di un migliaio le persone che la parlano

LINGUA: YOKOIM

Luis Kolisi È una delle ultime voci della lingua Yokoim

un tempo diffusa in Papua Nuova Guinea

Luis scrive e canta canzoni per tramandarla

Le ultime parole del mondo

IL LIBROSi intitola The Last Speakers il librodi K. David Harrison pubblicatonegli Stati Uniti dal National Geographicda cui sono tratte le immagini di questepagine. È un viaggio alla scopertadegli ultimi speaker, “parlatori” di lingueche si stanno estinguendo. Il libroè diventato anche un documentario,The Linguists, selezionatoal Sundance Film Festival

MARINO NIOLA Carlo V diceva: usalo spagnolo con Dio,l’italiano con la tua amante,l’inglese con le oche

LINGUA KALLAWAYA

Antonio e Illarion Ramon CondoriBoliviani, padre e figlio si tramandano

la lingua che conserva ancora reminiscenze

Quechua che si parlava nell’antico impero Inca

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39DOMENICA 7NOVEMBRE 2010

cazione, una destinazione, una tipicità. Non tut-te le lingue possono dire tutto a tutti, ma ciascu-na può avere qualcosa da dire.

Carlo V, che non riuscì mai a imparare il latino,ma sulla globalizzazione la sapeva lunga, visto chesul suo regno il sole non tramontava mai, dicevache si dovrebbe parlare spagnolo con Dio, italiano

con la propria amante, francese con il proprio ami-co, tedesco con i soldati, inglese con le oche, un-gherese con i cavalli e boemo con i diavoli.

Forse per salvare gli idiomi a rischio bisognaprendere esempio dagli indigeni dello stretto diTorres, uno dei paradisi dell’antropologia, che sipongono il problema di rendere più contempo-

ranea la loro lingua, creando nuove parole pertradurre termini come computer. Un problemache, peraltro, neanche l’italiano ha risolto. Inrealtà per i Papua come per noi il problema è lostesso. Quando mancano le parole a mancare è ilpensiero.

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LINGUA: MURRIN-PATHA

Cyril NinnalFa parte della tribù Yek Nangu, vive a Wadeye, nel nord dell’Australia, è un narratore di storie e leggende aborigeneSolo 2.500 persone parlano la sua lingua, il Murrin-Patha

LINGUA: KARIM

Christina Yimasinant Di etnia Yimas, vive nella regione del Karawari, in Papua Nuova Guinea. Parla la lingua KarimÈ una della ultime a conoscerla

Gli indigeni dello strettodi Torres si pongonoil problema di tradurretermini come computer

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È stato il fotografo dei “pretini” e dei gabbiani, ma non soloLo interessava la perdita, la vita dal basso: la campagna invasadai trattori, le case crollate dei contadini, i vecchi negli ospizi

senza più denti in bocca. Dieci anni fa se ne andava, e ora la sua Senigallia lo ricordacon una mostra, “Piccoli inediti”. Sono alcuni versi e i primi clic trovati dal figlioSimone nella soffitta di casa. Non scarti: “Papà non pubblicava quello che amava”

CULTURA*

peva, strappava le foto, le buttava in un cesto. Io da bambino gli face-vo da modello, anzi facevo l’ombra, una figura in movimento, ma nonriuscivo a stare serio, e lui si arrabbiava. Finché nell’83 esce il libro IlGabbiano Jonathan Livingston, e lui mi coinvolge, mi chiede: cosa nepensi? Inizia una ricerca sui gabbiani che quasi gli costa la vita, cadenella discarica, in un fosso di spurgo e grazie al cavalletto, tenuto sem-pre allungato, riesce a salvarsi, ma la puzza gli resterà addosso per unasettimana. La poesia era la sua spalla creativa, odiava tutto quello cheè didascalia, la Cavallina Storna con l’immagine del cavallo che pas-sa, aveva una menta astratta, vedeva le macchie, i segni».

Li vede da subito: il padre muore che lui ha nove anni, la madre Li-bera lavora come lavandaia all’ospizio in cambio di un piatto di mi-nestra, la sorella più piccola viene data in affidamento per un annoperché non ci sono soldi. Mario inizia a disegnare sui tronchi degli al-beri. Non cuori, ma croci. A tredici anni diventa tipografo. Segni, an-cora una volta: le macchie sui muri, i fili di ferro. «Meravigliosi». Nel’53 acquista una Bencini Comet 5 e scatta due rullini al mare d’inver-no. È la vigilia di Natale. Una ciabatta rotta, una stella di mare, la schiu-ma delle onde. Resti, per noi. Per lui: L’approdo. Nel ’57 gli pagano (inanticipo) un servizio su Lourdes. Parte, arriva, se ne va, sotto la piog-gia. «Mi vergogno, non ce la faccio». Ridà indietro i soldi, anche quel-li del viaggio. «C’era un bambino in carrozzella, con le gambe intrec-ciate, urlava come un gorilla». Lo rimproverano: ma come, hai ritrat-to i vecchi rotti e sdentati all’ospizio, nella sala d’attesa per la morte.E lui: «Sì, ma quelli avevano vissuto, questi invece no».

Giacomelli non è uno spettatore. Va al mattatoio, vede i maialinipiangere, e scappa via. Va all’ospizio per tre anni, e non riesce più amangiare. Ma dopo uscirà Verrà la morte e avrà i tuoi occhi. Va in se-

minario, sempre per tre anni, curioso dei pretini, «figli di contadini»,e butta via tutto. Però a Lourdes torna, con la moglie, per esigenze pri-vate, e stavolta fotografa. Spiega Simone: «Nel ’59 era nato Neris, miofratello, che a pochi mesi dalla nascita ingoia una spilla da balia, ha unprincipio di soffocamento, con un deficit che lo lascia senza parole».Giacomelli vuole realizzare una serie sui disabili, I miei fratelli, manon lo lasciano fare. Un anno prima si è rotto una gamba, e a causa delgesso, si è dato alla composizione, a quelle nature morte che giudicamale. Nel ’65 inizia a frequentare una famiglia di contadini, ogni do-menica mattina d’inverno fotografa sempre la stessa casa fino aquando nel ’95 la casa crolla. Per lui sono Le ragioni del tempo. Nel ’68conosce Burri che gli piace molto: «Fossi un pittore mi piacerebbe es-sere lui». Tagli, vuoti, crudezza.

Dieci anni dopo Giacomelli è ancora vivo. Usato, conosciuto, imi-tato. Dice il pittore Leonardo Cemak: «Ha dato a tutti l’illusione chefosse semplice guardare il paesaggio, ma lo era per il suo sguardo». Pa-trizia Molinari, artista: «Ha visto l’incommensurabile in un campoarato, nel volo di un gabbiano, nel viso di un folle in manicomio».Mirko Procaccini, grapich-designer: «Con una macchina fotograficascalcinata ha dato forza e visibilità a un panorama invisibile». Comespiega Ferdinando Scianna ai suoi allievi: «Giacomelli insegna cheanche una tipografia di provincia può essere vissuta come una navedi pirati. Ognuno trovi il suo modo». Ricorda Simone: «Mi diceva sem-pre: quando sarai grande capirai. Non accettava l’ambiente che cam-biava, la terra che si disfaceva, la violenza dell’uomo sulla natura.Chiedeva: perché? Ora che ho un figlio di sette anni capisco. Papà nonmi ha lasciato foto, ma pezzi di vita, con un vocabolario». Una altromodo per dire: guarda le suture, il male che c’è sotto, non avere pau-ra di abbassare gli occhi. E noi infatti oggi li alziamo.

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EMANUELA AUDISIO

SENIGALLIA

Se ne andò alle tre di notte, dieci anni fa. Il 25 novembre, diun anno che non voleva nominare. Lo avevano operatod’urgenza a gennaio, i medici non avevano dato speran-ze. Tumore. Simone, il figlio, ricorda: «Papà uscì dalla ria-

nimazione e mi chiese di portare la mia macchina fotografica. La mia?Sì, non voleva la sua. Scese dal letto, me la impostò, e me la restituì, di-cendo di non toccare niente, neanche il vuoto. Poi si sistemò accan-to alla finestra e mi disse: scatta». Così è nato Questo ricordo lo vorreiricordare. Vorrei, appunto, non voglio. L’umiltà dei desideri, di chiringrazia per il niente, una fetta di ciambellone da dividere per cena.«Quello che ho avuto di bello dalla vita sono la povertà e le botte chemi ha dato mia madre». Già, lividi veri. Anche se la madre gli confes-sò che poi andava a piangere al gabinetto. Mario Giacomelli se nonaveva mani che accarezzassero il suo volto, aveva occhi che sapeva-no raccontare. E riconoscere la guerra in tempi di pace. I segni, le fe-rite, le cicatrici della campagna e del mondo. La vita dal basso, schiac-ciata, senza colore, senza cielo.

Ora la sua città lo ricorda con una mostra, I piccoli inediti. Dieci ver-si in dieci fotografie, dal 14 novembre al 14 dicembre, alla GalleriaPortfolio di Senigallia, a cura di Paola Casagrande e Giovanni Ferri,con presentazione di Alfio Albani. Non solo i primi clic, ma anche leparole. Perché a Giacomelli non interessava la foto singola, ma la se-rie, il racconto. «Ciò che conta è quello che nasce nella mia mente».Non era scanzonato come Fellini, era più estremo, non ne divideva ilritmo da Vitelloni, anche se le onde dell’Adriatico erano le stesse, piut-tosto come Pasolini si lamentava di una perdita. Anche se le lucciolein collina resistevano. «La campagna è cambiata. È diversa, adesso èuna terra piatta, passa una macchina che taglia, miete, macina, fa tut-to. Non c’è più fantasia. Arrivano questi bestioni meccanici e non c’èpiù gioia in chi lavora, in nessuno», dice a Giorgio G. Neri. E lui foto-grafa la scomparsa, le sue paure, le sue ossessioni, mascherandoledietro le serie.

Questi inediti, questi provini, scelti tra un centinaio, erano negliscatoloni nella soffitta di casa, dove lui stampava. Non robaccia, nonscarti, perché come dice Simone: «Papà non pubblicava quello cheamava, lo teneva per sé, aveva paura di non essere capito, nel ’63 vo-leva addirittura smettere, era rabbioso con il suo lavoro, di notte rom-

Scatti solo per meGIACOMELLI

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41DOMENICA 7NOVEMBRE 2010

Leonard Cemak“Ha dato a tutti l’illusione che fosse

semplice guardare il paesaggio,ma lo era per il suo sguardo”

Ferdinando Scianna“Insegna che anche una tipografia

di provincia può essere vissutacome una nave di pirati”

IMMAGINI E VERSIA sinistra: “Colonie - Il pensare respiro”. Sopra: “Paesaggio 0 - In filari disuguali”. Sotto: “Paesaggio 1 - Semina senza raccolto”

In basso a sinistra: “Nonna Zia Maria - Nutrita di silenzi”. In basso a destra: “Nudo - Spazio attorno al corpo”

€ 16,00

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Quando Bruce Springsteen, dopo “Born to Run”,iniziò a lavorare a “Darkness on the Edgeof Town”, fece la sua più grande scommessa:

rischiare il successo appena ottenuto per restare fedele a se stesso. La vinseMa nessuno aveva mai raccontato i dubbi, la fatica, le giornate in saladi registrazione. Ora spunta un quaderno di appunti che non abbandonava mai

SPETTACOLI

42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 7NOVEMBRE 2010

Potere dell’immaginazione: la TerraPromessa in un quaderno di appunti.Era così quando il Boss si struggeva didubbi e fervore rock e cercava di capi-re come gestire il successo che gli eraarrivato violento e rumoroso dopo

Born to Run, lui che era un ragazzo del New Jersey,fermamente deciso a incendiare il mondo delrock, ma senza perdere quello che lui sapeva esse-re la sua unica, indispensabile forza: l’attacca-mento alla terra, agli amici, a quella realtà da eroidella working class a cui sentiva di appartenere. Eallora scriveva, annotava versi, accumulava idee ele riversava su quel quadernone con la copertinablu che teneva sempre pronto, aperto in studio

mentre lavorava con i compagni fidati della EStreet Band. Come in una sceneggiatura, ci sono leterre avvelenate, i quartieri dei diseredati, l’ideastruggente di una Terra Promessa, le tenebre cheincombono ai confini della città. È il notebook diDarkness on the Edge of Town.

Fa un certo effetto maneggiare quel libro di ap-punti di Bruce Springsteen. Certo, è una copia, mariprodotta talmente bene da sembrare l’originale,con tanto di macchie di caffè, strappi, cancellaturee pezzi di scotch che uno tocca pensando siano ve-ri e invece al tatto risultano pura e semplice ripro-duzione. Ma l’effetto rimane, ed è soprattutto unaquestione di intimità. In vena di generosa sincerità,in occasione del boxset legato alla riedizione diDarkness on the Edge of Town, (un tesoretto di cd,documentari, live, da far ammattire i fan) a confer-

ma di come sia stato un disco cruciale, una boa fon-damentale nella definizione della sua identità, hadeciso, o meglio si è lasciato convincere ad acclu-dere anche una copia, perfetta, del quadernone. E asfogliarlo si vedono i tentativi, i primi versi di Bad-lands, poi cambiati, le note, le cancellazioni, si per-cepisce il processo creativo che tormentava Spring-steen in quei giorni del 1978, quando la vena punkaveva ammantato la scena del rock di nuove ribel-lioni, di oscurità (guarda caso il titolo, Darkness...),la sua voglia di costruire un viaggio duro, rigoroso,senza deviazioni. Quel disco è così, una rispostanetta, tagliente, più riflessivo di Born to Run, maegualmente intenso, forse ancora più profondo,immerso nella solitudine di un artista sull’orlo delbuio. Il disco è tra i più amati, se non il più amato daifedelissimi, proprio per la sua integrità, oltre al fat-

GINO CASTALDO

BossI taccuini

Le tenebre e la Terra PromessaIL COFANETTO

Esce il 16 novembre The Promise:Darkness on the Edge of Town StoryUn cofanetto che contiene tre cd: la versione rimasterizzata dell’albume 21 tracce inedite del periodo 1976-78Tre dvd (o bluray): il documentariodi Thom Zimny sul making of dell’album,il concerto di Houston del ’78 e un set d’archivio di quattro oreIn più, il facsmile del taccuino di appuntidel Boss che illustra queste pagine

“Devo alle scelte di allorae a quel ragazzo il rispettoche meritanoMa tanta magia, dolcee importante, è andatamomentaneamente perduta,c’è una stagione per tutto”

‘‘

Bruce Springsteen, 2010

del

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43DOMENICA 7NOVEMBRE 2010

to di contenere alcune delle sue migliori canzoni,un’integrità che gli aveva suggerito di scartare pez-zi clamorosamente belli come Because the Night,affidata poi per fortuna a Patti Smith, solo perchépezzi d’amore in quel disco proprio non potevanoentrarci. Tutto questo è raccontato con dovizia diparticolari, e molto materiale filmato d’epoca, neldocumentario The Promise, the Making of Dark-ness on the Edge of Town, ovviamente incluso nelcofanetto. Si vedono il Boss e compagni che fatica-no in studio, che provano, si percepisce perfetta-mente la compulsiva ostinazione di Springsteennel cercare di centrare l’obiettivo, di seguire fino infondo la sua visione, senza deroghe. Anche questeimmagini, lavorate poi dal regista Tom Zimmy emontate con materiale nuovo, attuale, le dobbia-mo al tipico approccio di quei ragazzi del New Jer-

sey. In genere non si facevano riprendere in studio,ma in quei giorni girava in sala un loro amico con lacinepresa. Era un amico, e allora lo lasciarono fare,finché si dimenticarono di lui, e per questo le im-magini sono straordinarie, spontanee, naturali.

E uno dei protagonisti di questa storia è proprioil quadernone. È lì, campeggia, è amato e temutodai compagni di lavoro perché contiene l’inesau-ribile e cocciuta voglia di Springsteen di arrivare infondo, perché contiene una valanga di idee chevanno provate, vagliate, e in molti casi scartate. Equando il Boss apre il notebook si ricomincia dazero. E ora, in copia, il quaderno è a disposizionedi tutti, per capire, per entrare nell’intimità, nelprocesso creativo del più grande performer dellastoria del rock.

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Ore e ore in cerca di una strofacosì ho reagito alla buona sorte

BRUCE SPRINGSTEEN

DopoBorn to Runvolevo descrivere come si vive entro i confini ristrettidelle piccole città in cui sono cresciuto. Nel 1977 abitavo in una fat-toria a Holmdel, nel New Jersey. È lì che ho composto gran parte dei

brani per Darkness on the Edge of Town. Avevo ventisette anni ed ero il pro-dotto dei successi radiofonici del momento. Brani come It’s My Life e WeGotta Get Out of this Place erano intrisi di una precoce coscienza pop. Que-sto, associato alla mia esperienza personale — lo stress e la tensione dellavita che conducevano i miei genitori alle prese con le difficoltà economiche— influenzava la mia produzione. Reagivo alla mia buona sorte. Mi ponevonuove domande. Mi sentivo responsabile nei confronti delle persone concui ero cresciuto. Iniziai a chiedermi come affrontare la cosa. All’epoca eroanche in contrasto con il mio ex agente per i diritti e il controllo sulla miamusica. Correvo il rischio di perdere molto del mio lavoro, di quello che ave-vo realizzato. Tutto questo contribuì alla svolta che la mia produzione eb-be con Darkness.

In quel periodo iniziai ad ascoltare seriamente musica country. ScopriiHank Williams. Del country mi piacevano i riferimenti a tematiche adulte,e io volevo scrivere brani che avessero un’eco. I film che erano sempre sta-ti importanti per la mia attività di cantautore ebbero ancora più impatto suquesto album. Mi erano sempre piaciute le tinte forti, i fuorilegge dei B —movies, Robert Mitchum in Il contrabbandiere, e Gun Crazy di Arthur Ri-pley. Avevo visto di recente per la prima volta Furore di John Ford. Scovavonoir degli anni Cinquanta e Sessanta come Le catene della colpa di JacquesTourneur. Di quelle pellicole mi attiravano gli uomini e le donne in lottacontro il mondo circostante. Persino il titolo Darkness on the Edge of Towndoveva molto al noir americano.

Sotto il profilo musicale volevo un disco più snello, meno grandioso diBorn to Run. Le sonorità di quest’ultimo non sarebbero state consone ai bra-ni che componevo e alle persone di cui ora narravo. Chuck Plotkin, un di-scografico di LA, comparve alla fine dell’album e ci aiutò a ottenere un mis-saggio più incisivo, più moderno. Ci aiutò a mettere a fuoco i brani come al-trimenti non saremmo riusciti a fare e ci permise di portare il disco a con-clusione. Nel materiale registrato c’erano molte varianti ma tolsi tutto quel-lo che a mio avviso interrompeva la tensione dell’album. Dopo Born to Runvolevo che la mia musica continuasse ad avere un valore e fosse radicata inun mondo.

Era difficile comporre. Ricordo che passavo ore cercando di tirar fuori unastrofa. Badlands, Prove It all Night e Promised Land avevano tutte un ritor-nello ma poche strofe. Ero in cerca di un’atmosfera intermedia tra lo spiritofiducioso di Born to Run e il cinismo degli anni Settanta. Volevo che i mieinuovi protagonisti si sentissero logorati, invecchiati, ma non sconfitti. Inogni brano era sempre più vivo il senso della lotta quotidiana. Era molto piùdifficile inserire la possibilità della trascendenza o di una qualche redenzio-ne individuale. Era quello il tono che volevo tenere. Mi mantenevo volonta-riamente alla larga da qualunque evasione dalla realtà e calavo i miei perso-naggi nel bel mezzo di una comunità sotto assedio. Passarono settimane,mesi addirittura, prima di arrivare a qualcosa che mi sembrasse valido.

I brani presero corpo lentamente, strofa dopo strofa, pezzo dopo pezzo. Ititoli erano pesanti: Adam Raised a Cain, Darkness on the Edge of Town, Ra-cing in the Street. Adam Raised a Cain utilizzava immagini bibliche per evo-care l’amore e l’acredine tra un padre e un figlio. Darkness on the Edge of Townesprimeva l’idea che lo stimolo a intraprendere una trasformazione indivi-duale spesso si trova quando si arriva al limite delle forze. In Racing in theStreet l’idea era fare da ponte tra le canzoni sulle corse in macchina degli an-ni Sessanta e l’America del 1978. Per personalizzare Racinge gli altri titoli do-vevo infondere nella musica le mie speranze e le mie paure. Altrimenti i per-sonaggi suonano falsi, e resta solo retorica, parole vuote di significato.

Gran parte della mia produzione è autobiografica sotto il profilo emoti-vo. Devi tirar fuori le cose che hanno un senso per te se vuoi che lo abbianoper il tuo pubblico. Così i tuoi ascoltatori sanno che non è un gioco. La stro-fa finale del disco, Tonight i’ll be on that hill, stasera sarò su quella collina,indica che i miei personaggi sono sì incerti sul loro destino, ma saldi, deter-minati. Arrivato in fondo a Darkness avevo scoperto la mia voce adulta.

(Introduzione del 1998 a Darkness on the Edge of Town)Traduzione Emilia Benghi

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44 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 7NOVEMBRE 2010

«Un paese vuol dire nonessere soli, sapere chenella gente, nelle pian-te, nella terra c’è qual-cosa di tuo, che anchese non ci sei resta ad

aspettarti». Difficile raccontare meglio il terroirdelle Langhe del langarolo Cesare Pavese ne Laluna e i falò. Un insieme di facce, umori, odori,profili di colline e profumi di mosto, nebbie sot-tili e zolle ruvide, silenzi che riposano il cuore el’ovattato scalpiccìo dei cercatori di trifola. Unacomunità antica, unita nell’inestricabile intrec-cio di piatti e vini che fanno continuamente il gi-ro del pianeta e ogni volta ne tornano vincitori.

Facile come lo spazio di poche sillabe: tar-tu-fo e ba-ro-lo. Basterebbe questa coppia bene-detta dal dio dei buongustai per definire i con-fini del paradiso del cibo in terra. Fiere, sagre,aste, degustazioni, mercati, raccontano moltoma non tutto il mondo di gourmandise che ilfazzoletto ritagliato tra i margini delle provincedi Cuneo e Asti sa regalare ai suoi abitanti.

Certo, il tartufo bianco sa essere seduzionepura, così unica e impalpabile da indurre Fer-ran Adrià a servirlo affettato in sfoglie soavi, co-sì come natura l’ha fatto, in un ballon per tra-sformarlo da cibo in profumo.

Il barolo non è da meno. La sua storia comin-cia quando Napoleone, combinando il matri-monio tra Giulietta Colbert e il Marchese Falet-ti di Barolo, trasforma la giovane parigina in vi-ticultrice. A quel tempo, il vino della zona sichiamava nebbiolo vecchio. Giulietta, amica diCavour e Silvio Pellico (che morì a palazzo Ba-rolo), fece arrivare dalla Francia le prime bottidi rovere, per aggiungere eleganza al rosso daoffrire ai dignitari delle corti europee.

Ma le Langhe sono molto altro. Anche nellecase più povere, il rito della merenda cinoira(si

legge sinoira ed è la merenda capace di allun-garsi fino alla cena) sposa il piacere della so-cialità e un’infilata di ghiottonerie da urlo: to-mini di latte crudo, bagnetto verde, acciughe— la via del sale! — salame, salsiccia di Bra, ter-ra-madre dello Slow Food di Carlin Petrini, unascheggia di castelmagno venato dall’azzurrodelle muffe. A bagnare le gole, i rossi della zo-na, dalla sbarazzina freisa in su.

Dietro tanta bontà, le facce di chi ha fattograndi le Langhe, a cominciare dai barolisti du-ri e puri come Bartolo Mascarello (e oggi da suafiglia Teresa), Beppe “Citrico” Rinaldi, Teobal-do Cappellano, Domenico Clerico, AngeloGaja (con sua figlia Gaia), più una serie di fra-telli vignaioli: Oddero, Ceretto, Conterno... Ac-canto a loro, il formaggiaio Beppino Occelli, iltorronaio Giuseppe Sebaste, l’uomo dellegrappe Romano Levi, e poi i cuochi: la famigliaAlciati, Cesare Giaccone, Cesare e Pina Marca-rino, fondatori dell’Osteria dell’Unione di Trei-so, nelle cui sale nacque “La Gola”, associazio-ne antesignana di Slow Food.

Storie antiche che hanno guidato i passi deinuovi artigiani langaroli, dal mastro birraio TeoMusso al torronaio Alessandro Marengo, finoad Alessandro Boglione — ristorante del Ca-stello di Grinzane Cavour — altro figlio d’arte(pasticceria Converso di Bra). Per questo, leg-gere le Langhe non basta, bisogna viverle. Traun piatto di ravioli del plin e un bicchiere giu-sto, d’obbligo un brindisi a Pavese e Fenoglio.

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Italia gourmet

BarbarescoSulle colline a pochi chilometri

da Alba, tra Barbaresco,

Treiso e Neive, l’uva nebbiolo

acquista profumi e struttura

complesse. Il rosso che nasce

da queste terre sabbiose

e biancastre è unico

per forza e personalità

Tartufo biancoFin dal Settecento, il prezioso

Tuber Magnatum Pico –

zona di elezione le Langhe,

il Roero e il Monferrato –

veniva esportato da Alba

nelle principali corti europee

e considerato una raffinata

prelibatezza

LICIA GRANELLO

i sapori

Langhe

l’appuntamentoSettimane di passione

per gli amanti del tartufo bianco,

cui Alba dedica una fiera

che si protrarrà fino a metà

novembre, tra degustazioni,

vendita e menù dedicati

Il 14 novembre, appuntamento

con l’asta mondiale

al Castello di Grinzane Cavour

Le prime nebbie, la sera che cade sulle colline,le zolle smosse e i colori dell’autunno. È il periodomigliore per visitare il fazzoletto di terra piemontesetra Asti e Cuneo e tutte le sue sagre. Per consolarsidella bella stagione finita con tomini, castelmagno,agnolotti e lunghe e riposanti “merende cinoire”

Luna, falò, tartufi e barolo

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 45DOMENICA 7NOVEMBRE 2010

NocciolaLa “tonda gentile trilobata”,protetta dalla Dop, ricca di vitamine e pregiati oliessenziali, ha ispirato alcuniceleberrimi alimenti di Langa,dal torrone alla crema di nocciole, fino ai sempiternie speciali gianduiotti

DolcettoIrriverente e fragrante,l’alter ego dei corposi rossidi Langa ha colore rubino vivo,odore vinoso, sapore seccoe fruttato. Ben tredicile denominazioni sparsein Piemonte. D’Albae di Dogliani le più conosciute

Bue grassoFieno, cereali e cruscaper i buoi “dalla cosciadoppia”, utilizzati finoal dopoguerra nella campagnadi Carrù per lavorare i campiQuando vengono macellati,i buoi hanno quattro annie pesano fino a una tonnellata

CapponeA metà strada tra Cuneoe Mondovì, il paesedi Morozzo vantal’allevamento virtuosodi magnifici galletti castratinostrani, presidio Slow Food,con fiera dedicata, quest’annoin programma il 12 dicembre

Salsiccia di BraTra i gioielli della tradizioneculinaria braidese spiccal’insaccato di carne magrabovina piemontese e pancettadi maiale, unico esempioitaliano di salsiccia di vitelloSi gusta cruda spalmata sul pane o alla griglia

RobiolaSolo latte crudodi capre razza alpinache pascolano libere nei pratidi Roccaverano, in alta Langa,per la suadente formaggettaDop dai sentori aciduli di erbaappena tagliata. Esisteanche in versione sott’olio

TorroneMiele, zucchero, bianchid’uova e nocciole di Langatostate per la ricetta esportatada Alba in tutto il mondo,che prevede la cotturadella pasta in caldaie a vapore e raffreddamentoin stampi di legno

Il bello e il buononati dalla fame

CARLO PETRINI

L’autunnoin Langa è sempre una grande emozione,anche per chi ne è abituato. Sali sulla cima delle col-line e dai belvedere rimiri a perdita d’occhio pen-

dii, vigne, castelli… La nebbiolina che spesso sale in questastagione è quasi confortante, pensi al tartufo e al barolo,pensi a Pavese e Fenoglio, ma se conosci un po’ la zona o haiavuto la fortuna di nascervi contestualizzi subito tutto, evo-chi le osterie, la gente in cantina, i bar di paese e tutta l’u-manità che li frequenta. Facce e voci che raccontano me-glio di qualsiasi altra cosa un territorio: vizi e virtù, saperi esapori, modi di essere simpatici o antipatici.

Il quadro che ne emerge obiettivamente è davvero bello,e buono. Nonostante «l’improvviso benessere che ha col-pito le Langhe», ciò che sosteneva spesso Bartolo Masca-rello per stigmatizzare le orde di capannoni e tante altrebrutture sorte negli ultimi anni, questa terra generosa manon certo facile ha mantenuto tutto il suo fascino sempli-ce, un vero condensato di piemontesità. Siamo di fronte aun bello e un buono che non possono passare inosservati,sia per chi si avventura per la prima volta tra le colline, siaper gli indigeni, i quali non è raro che continuino a farsi sor-prendere. Il langarolo magari crede di sapere tutto della suaterra, di avere visto tutto ciò che c’era da vedere, poi è suffi-ciente che svolti in una stradina di campagna mai percor-sa, e subito gli si apre uno scorcio del tutto inedito ai suoi oc-chi, che lo lascia puntualmente a bocca aperta.

È terra fortunata la Langa, perché se siamo convinti cheil diritto universale al bello e al buono sia la prossima con-quista di civiltà, la prossima importante battaglia politicada fare, essa parte senz’altro avvantaggiata. È merito di chici ha vissuto, di «chi ha camminato le sue vigne» (per dirlaalla Veronelli), di chi ha fatto agricoltura, combattuto, tra-mandato affascinanti tradizioni o piatti geniali (perchépartono tutti dalla memoria della fame, che un tempo quiera di casa). Siamo di fronte alla dimostrazione che un’eco-nomia locale, se sa mettere a frutto con giudizio ciò che lanatura le ha donato, può ottenere risultati incredibili. Ma civuole sempre il senso del limite, perché se in alcuni conte-sti locali il bello e il buono per tutti devono essere conqui-stati, in altri vanno tutelati e difesi, non vanno sperperati. Èil caso della Langa di oggi. I suoi abitanti devono essere con-sapevoli dei limiti della loro terra e non chiedere più diquanto non abbia già dato o possa ancora dare. Per esem-pio la monocoltura della vite a scapito della biodiversità èstata un rischio concreto in anni di grandi successi econo-mici e non basterà una crisi del vino per fermarla.

Le generazioni precedenti hanno fatto un capolavoro,quelle attuali dovrebbero saper continuare su quel solco,che era stato tracciato a partire da umiltà, radici povere, unrapporto viscerale con la terra che non solo ha cambiato itratti delle colline rendendole belle e buone, ma ha forgia-to le persone. Loro, che sono la vera ricchezza di Langa.

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itinerariFiglia di Brunoe nipote di Marcello,i due fratelli che hannocontribuito a costruireil mito delle Langhe da bere, Roberta

Ceretto seguealcuni progettitra cantine di designe il ristorante bistellato“Piazza Duomo”, nel centro di Alba

Alba (Cn)La capitale delle Langhe è approdo obbligatoper i turisti del vino, che riempiono le bellestradine di acciottolato nelle ore serali, dopo aver trascorso la giornata tra cantinee locande del buon mangiare

DOVE DORMIRELA TERRAZZA SULLE TORRI Viale Torino 6 Tel. 0173-440741Camera doppia da 90 euro, colazione inclusa

DOVE MANGIAREOSTERIA DEI SOGNATORIVia Macrino 8Tel. 0173-34043Chiuso mercoledì, menù da 30 euro

DOVE COMPRARELE SPECIALITÀ ALIMENTARIPiazza Risorgimento 3Tel. 0173-33511

La Morra (Cn)Bisogna arrampicarsi fin qui, per regalarsi il più struggente panorama delle Langhe e per rendere omaggio al monumento al vignaiolo. Non perdete i goduriosi tajarin,i tagliolini al burro e tartufo

DOVE DORMIREL’ATELIERBorgata Mascarelli 11Tel. 0173-509849Camera doppia da 75 euro, colazione inclusa

DOVE MANGIAREOSTERIA DEL VIGNAIOLO (con camere)Frazione Santa Maria 12, tel. 0173-50335 Chiuso tutto mercoledì e giovedì a pranzo,menù da 30 euro

DOVE COMPRARECANTINA COMUNALEVia Carlo Alberto 2Tel. 0173-509204

Monforte (Cn)Il piccolo borgo, battezzato dal castello cintoda mura costruito nel 1028 e sede di una comunità catara, si arrampica tra le vigne sulle colline a nord di Cuneo,in una zona benedetta per il barolo

DOVE DORMIRELE CASE DELLA SARACCAVia Cavour 5Tel 0173-789222Camera doppia da 130 euro, colazione inclusa

DOVE MANGIARETRATTORIA DELLA POSTALocalità Sant’Anna 87, tel. 0173-78120Chiuso tutto giovedì e venerdì a pranzo, menù da 30 euro

DOVE COMPRAREBAR BAROLOVia Garibaldi 11Tel. 0173-789243

BaroloIl re dei vini deve il nomeai Falletti, marchesi di BaroloUndici i comuni di produzione:Barolo, Castiglione Falletto,Serralunga, Cherasco, Diano, Grinzane Cavour, La Morra, Monforte, Novello, Roddi, Verduno

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46 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 7NOVEMBRE 2010

le tendenzeIntramontabili

PREZIOSOÈ un anello importantequello di Giorgio Viscontiin diamanti bianchi e neriDa indossare e regalarenelle occasionipiù significative

PRECISIONEÈ bello, oltre che preciso,il modello Dolcevita Longinescon cassa e braccialein acciaio e oro rosa. La cassaè decorata con due filedi diamanti che donano luce

NAOMI CAMPBELLLa venere nera, regina delle cronachemondane, sembra aver trovatola serenità. Dopo anni di avventureturbolente, arrivata ai quaranta,ha finalmente messo la testaa posto con il miliardario russoVadislav Doronin

dato dedicando loro la mostra The Model as Muse:Embodying Fashion.

Ma la cosa che più stupisce è la capacità di esse-re ancora oggi desiderate. Stravolgendo una rego-la aurea, che come per i calciatori, prevedeva perle top model una carriera milionaria ma breve,hanno superato ogni previsione. Tanto splendorenon deve suscitare invidia, ma servire da esempio.Le super top non usano, ma soprattutto non abu-sano, di botox o lifting. Niente facce gommose o zi-gomi alterati. Nel lavoro sono delle macchine: pre-cise, firmate, lussuose. Ma anche nelle immanca-bili foto rubate dal privato conservano una certamisura che dovrebbe essere d’insegnamento. Maiuna scollatura di troppo, un tacco ridicolo, unatrasparenza volgare. Le super modelle insegnano,con la loro freddezza, come fare tesoro del propriopatrimonio genetico.

Certo, non tutte hanno quelle circonferenze per-fette. Ma le quarantenni di oggi, donne perenne-mente sospese tra carriera e omogeneizzati (perchéspesso hanno bimbi piccoli), riescono a dare agliuomini lezioni di estetica. Complice di questo man-tenimento è la disponibilità economica. Le qua-rantenni, infatti, hanno un budget molto più altodelle trentenni. Una disparità che nei decenni è au-mentata: basti pensare che se nel 1975, a parità diimpiego, la differenza tra il reddito medio di unatrentenne e di una cinquantenne era del 15 per cen-to ora è salito al 40. Non solo, la stabilità professio-nale, secondo l’Istat, arriva più tardi: nel 2009 quel-li tra i 25 e i 34 anni occupati erano poco più di cin-que milioni mentre, tra i 35 e i 44, ben più di sette mi-lioni. Tirando le somme è solo intorno ai quarantache si comincia a disporre di un buon budget per ve-stiti, massaggi e parrucchiere.

Ma non è ancora tutto. Le quarantenni combat-tono la lotta di ogni giorno con la consapevolezzadi sé. Perché, come ha recentemente dichiarato lascrittrice Erica Jong in visita a Roma, «quello cherende eternamente bella una donna è solo l’auto-stima».

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SPLENDIDEQUARANTENNI

AMAZZONELook da corsedei cavalliquellodi CostumeNationalcon pantaloniin pelle, giaccabordatadi pellicciae guanticolorati

MASCHERINASono avvolgenti e misteriosigli occhiali Prada con lenti scureUn modello che starà bene a tuttee che protegge totalmenteil contorno degli occhi

ICONAÈ la regina delle borse, la busta matelassédi Chanel. In color tabacco, con mini catenaintrecciata, rende elegante qualsiasi abito

VERTIGINOSETacco a stiletto e triplo cinturinoper la scarpa Dior in pelle nerae plateau sul davanti. Da indossareindifferentemente giorno e seracon gonna e pantaloniPraticamente perfetta

Vestite per piacersiè il fattore “Q”

Come loro nessuno mai. Linda,Cindy, Naomi, Carla, Claudia, Eva,Christy e Helena, le regine della mo-da anni Ottanta. Oggi splendidequarantenni resistono inossidabiliall’avanzare del tempo e alla con-

correnza di un esercito di giovanissime, spesso in-colori, rivali. Praticamente eterne. Una vita in co-pertina segnata da cachet di milioni. La bellezzache diventa business. Diventate famose al grido di«sotto il vestito niente», hanno dimostrato che, alcontrario, sotto il vestito (griffatissimo) c’è molto:intelligenza, tecnica, calcolo. Gli stilisti le cercanoe le ripropongono, icone incontrastate per tantecoetanee.

Sono le uniche top model che tutti hanno cono-sciuto per nome e cognome: Linda Evangelista,Cindy Crawford, Naomi Campbell, Carla Bruni,Claudia Schiffer, Eva Herzigova, Christy Turling-ton, Helena Christensen. Bastava citarle per evo-carne un particolare: la somiglianza con B.B. diuna, il neo di un’altra, il broncio di un’altra anco-ra. Simboli dell’eterna giovinezza hanno dimo-strato di essere ottime imprenditrici di se stesse.Nella vita pubblica come nel privato. Pochissimasregolatezza e molta disciplina. Manager, madri,mogli. Insomma, perfette. Anche il MetropolitanMuseum di New York, lo scorso anno, si è scomo-

IRENE MARIA SCALISE

Linda Evangelista, Cindy Crawford, Claudia Schiffer,Naomi Campbell: erano al top negli anni Ottantasulle passerelle, lo sono ancora oggi nella vitaDinamiche e in carriera, ma senza avere l’ansiadel tempo che passa. Sono il simbolo di tutte le lorocoetanee che fanno la gioia degli stilisti

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 47DOMENICA 7NOVEMBRE 2010

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“Donne consapevoliche puntano alla qualità”

L’intervista Giorgio Guidotti di Max Mara

La cliente più importante. Per Max Mara la«giovane quarantenne» rappresenta il tar-get più significativo. Una donna consape-

vole che punta alla qualità. Ma c’è di più. Le qua-rantenni sono le preferite anche come testimo-nial. Il presidente della comunicazione del grup-po, Giorgio Guidotti, non ha dubbi: «Noi di MaxMara abbiamo lavorato con le modelle più belledel mondo ma, ancora oggi, le top model che han-no quarant’anni, e che hanno fatto furore negliOttanta, restano delle bellezze insostituibili».

Cosa avevano di più le modelle di quegli anni?«La loro fortuna è stata di diventare delle star al-

la stregua delle colleghe degli anni Sessanta, comeVeruska o Twiggy. Probabilmente tanto successonasceva anche dal fatto che tra gli Ottanta e i No-vanta ci fu l’esplosione mediatica del prêt-à-por-ter. Erano conosciute per nome dalla gente, comefossero delle rock star».

Ma erano davvero così belle?«Indubbiamente erano di una bellezza assolu-

ta e con un forte carisma. Però c’è stato qualcosadi più».

Cosa?«Sono state circondate da perfette pierre che

hanno insegnato loro come gestire al meglio lapropria immagine. Tanto che, ultimamente, tut-te le griffe hanno sentito il bisogno di “ripescar-le”».

Sono state anche abili nel mantenersi nell’a-spetto?

«Il loro viso è il loro patrimonio e decisamentehanno saputo come curarlo, senza mai abusarenei trattamenti. Hanno poi condotto una vita sa-na e tranquilla, spesso con mariti e figli. Niente tra-sgressioni tranne per Kate Moss che però, delgruppo, è la più giovane».

Parliamo della quarantenne che compra MaxMara. Chi è?

«Per noi, oltre a essere la cliente più importan-te, è comunque una donna giovane. Una che vuo-le vestirsi alla moda, con un fisico asciutto, abi-tuata a frequentare le palestre e con più potere diacquisto. Le quarantenni sono la prima genera-zione femminile che, al pari di mariti e fidanzati,ha sdoganato la palestra o lo sport come praticaabituale».

Cosa ci dice di quelle che hanno dieci anni dimeno: le trentenni?

«Sono anche loro preziose perché rappresen-tano il futuro, però devono ancora capire la diffe-renza tra qualità e quantità. Diciamo che vannoistruite, dopo anni di low cost, sul fatto che può es-sere divertente avere nell’armadio una camicia dadodici euro ma non tutto il guardaroba».

Torniamo alle super top, hanno dato l’idea diessere anche molto disciplinate...

«In verità tutte le modelle sono piuttosto serie.In quel periodo, però, forse ancor di più si è stabi-lito un confine tra capriccio e professionalità. Apartire dall’alimentazione che era molto sana».

Ma non punitiva.«Esattamente: le super top non erano scheletri-

che. Anzi. Diciamo che dopo gli anni Ottanta le ta-glie sono scese di un numero».

(i. m. s.)

AVVOLGENTEIl paltò di MaxMara assicuracontro i colpidi ventoIdealenelle serateinvernalida indossaresu abiti elegantima troppoleggeri

BOZZETTOUn disegnooriginaledi Max Maraper la collezioneautunno/inverno2010

CASUALLa mise idealeda indossaretutto il giornoda Gucci:jeans scoloriti,giaccae pulloverIl tocco in più:i sandalicon fascialarga

METROPOLITANAHa un’animamolto darkla principessaundergroundpropostada D Squared 2Giaccaa trapezioin pellicciae giochidi pelle nera

BON TONÈ un abitoper chi ha buongusto: rasorosa cipriagriffato Dolcee GabbanaAbbinatoa gioielliminimalie borsain pelo

CINDY CRAWFORDScoperta per caso,

ex moglie di Richard Gere,è nota in tutto il mondo

per il celebre neo al latodella bocca. Ora ha due figli,

si occupa di produzione,fa molta beneficenza

LINDA EVANGELISTAÈ rimasta famosaper aver dichiarato:«Noi non ci alziamoneppure dal letto,per meno di diecimila dollarial giorno». Un figlio,riservatissima,talvolta fa ancora pubblicitàdelle griffe più famose

TATIANA PATIZTedesca, apparsain oltre 130 copertine,ha anche recitato in un paiodi film. Dopo svariati stilistirecentemente è diventatatestimonial per il brandMarina Rinaldi

CHRISTY TURLINGTONSuper top, ancora

sulle copertine di moltigiornali, sposata

con due figliCon Claudia Schiffer

e altre collegheha fondato

il Fashion Café

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l’incontroGrandi vecchi

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Sergio Leonemi ha tenutoa battesimonei suoi westernperché costavo menodi James Coburn:lui venticinquemila,io quindicimila dollari,oggi bazzecole

che, secondo un promo spagnolo, il pi-stolero solitario avrebbe comprato di ta-sca sua, indossandolo nei tre anni della“trilogia del dollaro”, dal ’64 al ’66, senzamai farlo lavare: scaramanzie d’attore.Vero, Clint Eastwood? Ride: «Sergio Leo-ne mi ha fatto trascorrere una delle piùbelle stagioni della mia vita, non solo ci-nematografica. Non mi attendevo da luiwestern epocali, alla John Ford. Il suotemperamento era portato alla parodia,in perfetta sintonia con lo spirito deglianni Sessanta: per questo mi piaceva. Ilsense of humour di Ford era di marca ir-landese, quello di Leone, acutissimo, ve-niva dritto dall’opera lirica. Dovessi in-dicarne una specialità, direi la simpatia,la capacità di divertire, di raccontare inmodo straordinario le barzellette».

Barzellette sono spesso le sequenzedegli spaghetti-western: il “triello” de Ilbuono, il brutto, il cattivoo, in Per un pu-gno di dollari, lo scherzaccio («Mira alcuore, Ramòn: al cuore!») al personag-gio di Volonté, in risposta alla battuta-boomerang «Se un uomo con il fucile in-contra un uomo con la pistola, quellocon la pistola è un uomo morto». Anchea lei, suo attore-feticcio, Leone aveva de-stinato una barzelletta, ormai di culto:«Clint ha due espressioni: col cappello esenza cappello». Eastwood sorride:«Era, da bravo comico, anche molto ci-nico». Leone era sbalordito anche dallasua apparente apatia: sullo schermo(come nella serie tv Usa Rawhide, da cuil’aveva ripescato e dove, secondo lui,«non parlava nemmeno, camminava ebasta») e nella vita quotidiana, quando,con tutti i suoi centimetri, lei riusciva ainfilarsi in una Cinquecento, dormendorannicchiato come un gatto, e ne usciva,stirandosi e alzandosi lentamente, perraggiungere il set. «Erano anni di rispar-mi e di guadagni scarsi. Leone, dicono,mi ha tenuto a battesimo nello spaghet-ti-western perché costavo meno di Ja-mes Coburn, lui venticinquemila, ioquindicimila dollari, oggi bazzecole.Ma, una volta arrivato in Italia, nel 1963,non ho tardato a mimetizzarmi nella co-lonia romana, allora fiorente, che a Ro-ma popolava Via Veneto. Nottate scate-nate, in tutta tranquillità: nessuno chemi riconoscesse, perché non ero nessu-no. Godevo del privilegio dell’anonima-to, assaporando il meglio, senza l’in-conveniente paparazzi, della vostraDolce Vita».

Anche da star, non ha mai esagerato:«Mi è sempre bastato il minimo neces-sario, negli spostamenti come nei film.Nel ’69, per Dove osano le aquile, sonosbarcato sul set, in Svizzera, in jeans econ quattro sacche. Richard Burton edElisabeth Taylor sono arrivati su un jet

privato, con la loro muta di cani e gatti,tonnellate di valigie e un corteo demen-ziale. Un vero show. Hanno immediata-mente allestito un bar nel nostro hotel.Dopo qualche bicchiere in loro compa-gnia, mi sono reso conto che, ai loro rit-mi, non avrei potuto resistere a lungo. Ri-chard mi piaceva molto: grande cari-sma, conversatore brillante, affabulato-re eccezionale. Ma si sentiva che, dentro,lo rodeva la disillusione».

Con Eastwood si comincia presto acavalcare la storia del cinema. A ot-tant’anni, festeggiati nel maggio scorso(«per me è stato come compiere di nuo-vo vent’anni»), nessuna intenzione dimollare. A Parigi, dov’è stato nominatocomandante della Legione d’onore, hagirato una parte di Hereafter, thriller te-lepatico con Matt Damon e la deliziosaCécile de France, che il 4 dicembre chiu-derà in anteprima europea il Torino FilmFestival. Tra un’onorificenza e un omag-gio (a Lione, al primo Festival Lumière),è ora al lavoro su Hoover, con LeonardoDiCaprio nel ruolo del controverso di-

rettore dell’Fbi. «Ho la febbre del nuovo,mi divorerà fino alla fine la voglia di con-tinuare a imparare, com’è stato per JohnHuston, che ha girato il suo ultimo, me-raviglioso film, The Dead, su una sedia arotelle e con la bombola d’ossigeno» (...e l’infermiera con cui di tanto in tanto fa-ceva l’amore, come precisa Bertrand Ta-vernier nei suoi Amis américains).

«La passione per il grande schermo misi è accesa per caso, ma adesso non mi la-scia più. Poco dopo i vent’anni lavoravoin una piscina, dove tanti attori veniva-no a nuotare nella pausa pranzo. Ne ave-vo già conosciuti molti durante il reclu-tamento per la guerra di Corea nei dueanni, ’50 e ’51, in cui ero stato assegnatoa Fort Ord, in California. È così che mi so-no avvicinato al mondo del cinema. Al-lora, ero più attratto dalla musica, l’altromio pallino, insieme al golf. Volevo se-guirne i corsi a Seattle, infatuato com’e-ro di Charlie Parker — che nell’88 avreicelebrato in Bird — di Dizzy Gillespie,Bill Evans, Thelonious Monk e, natural-mente, John Coltrane, le cui ballate neldisco con Johnny Hartman sono state lavera sceneggiatura dei Ponti di MadisonCounty, realizzato nel ’95 con MerylStreep: quella musica è sempre stata sot-tesa ai nostri dialoghi, parlava per noi».

Inevitabile tornare a Leone, ma anchea Don Siegel, il suo regista-padrino nellasaga Callaghan: «Sergio è stato tra i primiad assegnare alla musica un ruolo cen-trale e a sfruttarla appieno, specie per farsalire allo spasimo la tensione prima de-gli scontri. Don Siegel aveva trasferitoquel sistema direttamente alle immagi-ni: stringeva il campo visivo e subito do-po lo dilatava, come per un relax delloschermo». Nei Ponti di Madison County,dove gli slanci del cuore sono frenati evinti dalle responsabilità familiari, dal ri-chiamo della sicurezza domestica,trionfa una costante del suo cinema: lasospensione drammatica tra l’insegui-mento di un ideale e il bisogno di stabi-lità, quasi d’immobilità.

Dilemma che le deriva da un’infanziasballottata, da un passato precario?«Credo di sì. Da piccolo, non ho godutod’un vero focolare. A fine anni Trenta, inpiena crisi economica, mio padre, consolo un paio d’anni di liceo alle spalle,s’arrabattava come rappresentante,vendendo azioni. Vendere azioni du-rante la Depressione era come smercia-re tartine di caviale nel deserto! Per talededizione suicida mio padre era conti-nuamente costretto a spostarsi: per die-ci anni buoni, siamo stati le trottole del-la California. Quando finalmente, con laripresa economica, anche la mia fami-glia si è stabilizzata, ero io che avevo co-minciato a fare la mia vita, senza fissa di-

mora». Di qui l’altra costante, il tema del-l’erranza? Nei suoi primi film da regista,il protagonista è sempre in viaggio, ma-gari metaforico: nel ’73, Lo straniero sen-za nome, Il texano dagli occhi di ghiaccionel ’76, Bronco Billy o Honkytonk Mannell’80 e ’82: «Honkytonk Man, ambien-tato negli anni Trenta, rimanda al perio-do in cui mio padre suonava la chitarrain un complessino, mai in un’orchestra,nei paraggi di Los Angeles. È un film, co-me Bronco Billy, su gente che vive esi-stenze immaginarie, assorbita da quelche vorrebbe essere, timorosa di nonmostrarsi all’altezza del proprio sogno,una volta avverato. C’è molto della miainfanzia in quei film, e forse in tutti gli al-tri: quel che abbiamo subìto e vissuto cicondizionerà sempre, ci siederà sempreaccanto». Siamo quel che abbiamo fattodi noi, diceva Truffaut ripetendo Sartre,a partire da quel che gli altri hanno fattodi noi: «Ecco perché, se uno non s’è mos-so d’un dito da un posto, potrebbe esse-re sconvolto da un cambiamento. Se hatrascorso i suoi primi vent’anni con lestesse persone, avrà difficoltà ad am-pliarsi l’orizzonte. Ma è questo che ioavrei preferito: il mio sogno sarebbed’essere vissuto in una borgata sperdutasenza mai spostarmi d’un millimetro, fi-nendo per conoscere tutti alla perfezio-ne. Sarei probabilmente diventato unodel tutto diverso, sarei stato... chissà?».Uno venuto da chissà dove? «Ancora?Ma è da mezzo secolo che sono l’uomovenuto da chissà dove! Alla mia morte,scriveranno: Era arrivato da chissà dovee ora vi ha fatto ritorno. È partito com’e-ra venuto». E qui ci vuole una dissolven-za incrociata o un bel flashback. Con unpizzico di jazz.

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MARIO SERENELLINI

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PARIGI

Se fosse cinema e non una halld’hotel, ora ci starebbe beneun flashback o una dissol-venza incrociata per far sci-

volare la sua figura nell’icona di ieri. Hafatto la sua apparizione d’improvviso,come nei primi film di mezzo secolo fa,dove non si vedeva arrivare, ma di colposi trovava lì, nel punto più inaspettato,silhouette in controluce, alta: 1,88? 1,97?Alta. Il reticolo di rughe che gli seghetta-no il volto e il collo, matura cortecciadentro il cotone giovanile d’una polo pa-stello, ha ormai omologato a panoramaindistinto la caratteristica raggiera disolchi precoci intorno agli occhi, che ne-gli anni Sessanta, nel bagliore del Westmediterraneo, era il sigillo dello scono-sciuto antico, arrivato da chissà dove,nella neonata frontiera-spaghetti. ClintEastwood è una somma di Clint Ea-stwood: lo spilungone di western e poli-zieschi a raffica («dopo un’opaca gavet-ta negli anni Cinquanta: era l’era JamesDean, mi dicevano che a causa della miastatura avrei potuto fare qualcosa solodopo i trent’anni») e poi, dal ’71, la seria-lità di regista e interprete, sempre piùpersonale, inatteso, in un progredire dititoli da Gli spietatia Million Dollar Baby,piogge di nomination e gruzzoli d’Oscare, nel frattempo, due mogli e sette figli, dacinque donne diverse.

Adesso l’attore pare il sequel patriar-cale della sua prima maschera (barbastropicciata, mezzo sigaro, cappelloaffondato sulla fronte), pedina reginad’un gioco stilizzato, con personaggi,ambienti, costumi fissi, come il poncho © RIPRODUZIONE RISERVATA

48 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 7NOVEMBRE 2010

Rughe leggendarie, ottant’annicompiuti, cavalca leggero la storiadel cinema: “Mi innamorai del grandeschermo per caso quando lavoravo

in una piscina dove gli attorivenivano a nuotare in pausapranzo”. Poi dentroi suoi film ci ha messo pezzidi infanzia: “Perchéquel che abbiamo vissutoci siederà sempre

accanto”.E ora? “Ho addossola febbre del nuovo. La vogliadi imparare mi divorerà fino all’ultimo”

Clint Eastwood

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