La copertina Il romanzo Scoperta Dolomiti - La...

14
LADOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 16 FEBBRAIO 2014 NUMERO 467 CULT La copertina ELENA STANCANELLI Rieducazione sentimentale La letteratura insegna l’amore Il romanzo IRENE BIGNARDI Un grande affresco americano Salter ricomincia da novantenne All’interno Straparlando ANTONIO GNOLI Valentino Zeichen “Scrivo versi grazie alla mia matrigna una crudele musa” Il teatro RODOLFO DI GIAMMARCO L’invenzione di Umberto Orsini ecco un “sequel” per Pirandello La serie WALTER SITI La Poesia del mondo La brezza leggera di Pessoa Hanif Kureishi “Vorreste leggere il mio diario?” L’inedito ENRICO FRANCESCHINI e HANIF KUREISHI Umanità in fuga quanta strada in quei sandali L’attualità ADRIANO SOFRI M illeottocentosessantaquattro. Tra gli Stati ame- ricani infuria la guerra civile. La milizia del Co- lorado si macchia del massacro di Sand Creek, che sarà poi cantato da Fabrizio De André. In Eu- ropa Karl Marx fonda la prima Internazionale. I disordini a Torino contro lo spostamento della capitale a Firenze costano oltre cinquanta morti. Quello di centocinquant'anni fa era, insomma, un altro mondo. In larga parte incognito, ancora pieno di mistero. Come quella par- te di Alpi che si presentò agli occhi dei due viaggiatori inglesi, Gilbert e Churchill, che per primi decisero di battezzare tanta bellezza an- cora ignota: Dolomiti. A quel tempo, l’Antartide era stato avvistato appena da quarant’anni. Gli esploratori continuavano ad accapi- gliarsi su quali fossero le vere sorgenti del Nilo. Il monte Everest, la cui altezza era stata da poco misurata, avrebbe ricevuto il suo nome soltanto l’anno dopo: restava indicato sulle mappe come “Peak XV”. (segue nelle pagine successive) PIETRO VERONESE L e montagne sono il salto in alto della terra. Immen- se collisioni le hanno spinte dal sottosuolo in su, fis- sandole a muraglia. Di solito dividono due Stati, a ognuno il suo versante. Le Dolomiti no, non servo- no a dividere. Le frequento da più di mezza vita, ho messo le mie mani addosso a loro. Mi hanno accarezzato e anche assestato qualche scappellotto rompendomi il naso e poi anche la mano con cui scrivo di loro. Ci ho trovato i resti della più assurda guer- ra, che cent’anni fa scavava trincee sulle pareti a picco e trapa- nava gallerie per farle esplodere sotto le scarpe nemiche. La guerra del ’15-’18 si contese cocuzzoli inservibili, mentre le sor- ti militari si decidevano in pianura. La più potente camera di scoppio fu scavata dagli Italiani trapanando in salita il Castel- letto della Tofana di Rozes. Servì a occupare quella cima per po- chi giorni. (segue nelle pagine successive) ERRI DE LUCA DISEGNO DI MASSIMO JATOSTI Centocinquant’anni fa due strani inglesi si avventurarono sulle Alpi inesplorate E per primi diedero un nome alle montagne più belle del pianeta Scoperta Dolomiti La delle R. FARDEL/LE TRE CIME DI LAVAREDO/UNIVERSAL IMAGES GROUP

Transcript of La copertina Il romanzo Scoperta Dolomiti - La...

LA DOMENICADIREPUBBLICA DOMENICA 16 FEBBRAIO 2014

NUMERO 467

CULT

La copertina

ELENA STANCANELLI

RieducazionesentimentaleLa letteraturainsegna l’amore

Il romanzo

IRENE BIGNARDI

Un grande affrescoamericano Salter ricominciada novantenne

All’interno

Straparlando

ANTONIO GNOLI

Valentino Zeichen“Scrivo versi graziealla mia matrignauna crudele musa”

Il teatro

RODOLFO DI GIAMMARCO

L’invenzionedi Umberto Orsiniecco un “sequel”per Pirandello

La serie

WALTER SITI

La Poesiadel mondoLa brezza leggeradi Pessoa

Hanif Kureishi“Vorreste leggereil mio diario?”

L’inedito

ENRICO FRANCESCHINIe HANIF KUREISHI

Umanità in fugaquanta stradain quei sandali

L’attualità

ADRIANO SOFRI Milleottocentosessantaquattro. Tra gli Stati ame-ricani infuria la guerra civile. La milizia del Co-lorado si macchia del massacro di Sand Creek,che sarà poi cantato da Fabrizio De André. In Eu-ropa Karl Marx fonda la prima Internazionale. Idisordini a Torino contro lo spostamento della

capitale a Firenze costano oltre cinquanta morti.Quello di centocinquant'anni fa era, insomma, un altro mondo.

In larga parte incognito, ancora pieno di mistero. Come quella par-te di Alpi che si presentò agli occhi dei due viaggiatori inglesi, Gilberte Churchill, che per primi decisero di battezzare tanta bellezza an-cora ignota: Dolomiti. A quel tempo, l’Antartide era stato avvistatoappena da quarant’anni. Gli esploratori continuavano ad accapi-gliarsi su quali fossero le vere sorgenti del Nilo. Il monte Everest, lacui altezza era stata da poco misurata, avrebbe ricevuto il suo nomesoltanto l’anno dopo: restava indicato sulle mappe come “Peak XV”.

(segue nelle pagine successive)

PIETRO VERONESE

Le montagne sono il salto in alto della terra. Immen-se collisioni le hanno spinte dal sottosuolo in su, fis-sandole a muraglia. Di solito dividono due Stati, aognuno il suo versante. Le Dolomiti no, non servo-no a dividere. Le frequento da più di mezza vita, ho messo le mie

mani addosso a loro. Mi hanno accarezzato e anche assestatoqualche scappellotto rompendomi il naso e poi anche la manocon cui scrivo di loro. Ci ho trovato i resti della più assurda guer-ra, che cent’anni fa scavava trincee sulle pareti a picco e trapa-nava gallerie per farle esplodere sotto le scarpe nemiche. Laguerra del ’15-’18 si contese cocuzzoli inservibili, mentre le sor-ti militari si decidevano in pianura. La più potente camera discoppio fu scavata dagli Italiani trapanando in salita il Castel-letto della Tofana di Rozes. Servì a occupare quella cima per po-chi giorni.

(segue nelle pagine successive)

ERRI DE LUCA

DIS

EG

NO

DI M

AS

SIM

O J

ATO

STI

Centocinquant’anni fadue strani inglesisi avventuraronosulle Alpi inesplorateE per primi diederoun nome alle montagnepiù belle del pianeta

ScopertaDolomiti

La

delle

R. F

AR

DE

L/LE

TR

E C

IME

DI L

AV

AR

ED

O/U

NIV

ER

SA

LIM

AG

ES

GR

OU

P

LA DOMENICA■ 30DOMENICA 16 FEBBRAIO 2014

la Repubblica

“In due mesi non abbiamo incontrato un turista e siamo i primi inglesi mai visti qui”.Gilbert e Churchill,un artista e uno scienziato, un secolo e mezzo fa esplorarono armati di bloc notes e colori, insieme alle mogli, quella parte ancora ignota e selvaggia delle Alpi. Per svelarla in un libro,anche con questi loro acquerelli. E battezzandola per sempre

Nessun paesaggioè più repentinonelle sue sorpresedelle DolomitiIn un attimo l’abisso si spalancò davantiUna rocca in rovinasu un dirupo tra le nubi brillavadi riflessi arancionie viola, appagando la nostra fame di meraviglia

La copertina1864-2014

(segue dalla copertina)

Centocinquant’anni fa leterre inesplorate non sinascondevano soltantoai Poli o nel cuore dell’A-frica. E anche la vecchiaEuropa conservava se-

greti. Bastava salire un po’ in quota pertrovarvi ancora Untrodden Peaks andUnfrequented Valleys, cime inviolate evalli sconosciute, come reciterà, nel1873, il bel titolo del libro della viaggia-trice inglese Amelia Edwards. Il mondoalpestre rimaneva in larga parte chiuso,di ostico accesso, privo di vie di collega-mento, poco comunicante, poverissi-mo. Geograficamente, etnologica-mente introverso. Pieno di monti cela-ti nel silenzio e nel sole. Chi si ostinava,per curiosità o per diletto, a spingersilassù, aveva le sue fatiche da affrontare.Lunghi spostamenti a piedi, talora adorso di cavallo o di mulo, raramente incarretto. Sentieri anziché strade, fienilianziché letti, ciotole di legno come piat-ti, cibo improbabile, stanchezza e fred-do. E la scoperta di meraviglie naturaliche già da un paio di generazioni, con ilgusto per il Pittoresco ed il Sublime, glianimi colti avevano imparato ad am-mirare. Vette, dirupi, ghiacciai, gole, ca-scate.

Le Alpi andavano diventando terre-no di esplorazione, di avventura e godi-mento estetico. Dapprima quelle occi-dentali: la Savoia, sulla scia della primaascensione del Monte Bianco da partedi Balmat e Piccard l’8 agosto 1786; poil’Oberland bernese, il Delfinato. Quasiper nulla frequentate invece le isolateAlpi orientali, all’epoca note sotto il no-me generico di Deutschen Alpen, Alpigermaniche, incorporate nei vasti con-fini dell’Impero austriaco.

Da quelle parti si facevano vederesoltanto topografi militari e geologi, iquali avevano base all’albergo Naved’Oro di Predazzo, uno dei pochissimiin grado di ospitare degnamente ungentiluomo. Era stato proprio uno diquesti, il figlio di un marchese francesedalle simpatie rivoluzionarie, Déodatde Dolomieu, ad accorgersi, passandodecenni prima nella zona — più o me-no negli stessi giorni in cui i parigini ave-vano dato l’assalto alla Bastiglia — chequelle guglie rocciose erano fatte di unminerale particolarissimo. Un calcareche, a differenza degli altri, non davaluogo a effervescenza quando venivatrattato con acido cloridrico. La dottacerchia degli studiosi prese debita-mente nota e chiamò quella pietra, inonore del suo scopritore, «dolomia».

Queste le scarne conoscenze suquelle plaghe remote, abitate da mon-tanari dei quali il viaggiatore franceseJules Leclercq scriverà nel 1880 che «iselvaggi dell’Africa centrale provanomeno stupore di loro alla vista di unostraniero». Ma tutte queste notizie, cheraccogliamo dalla ineguagliata Enci-clopedia delle Dolomiti di Franco deBattaglia e Luciano Marisaldi (Zani-chelli), stavano per essere travolte dallanovità. Sembrava un mondo immobi-le, e invece si apprestava a cambiare persempre.

A trasformarlo sarebbe stata una pa-rola. I suoi inventori furono dunquedue viaggiatori britannici, Josiah Gil-bert e George Cheetham Churchill.

Churchill era lo scienziato, naturalista ebotanico; Gilbert l’artista, abile col di-segno e l’acquerello. Amavano avven-turarsi alla scoperta di regioni scono-sciute insieme alle loro mogli, il che ce lirende immediatamente simpatici. Idue sottolineano che la presenza dellesignore condiziona il loro modo di viag-giare attraverso le Alpi: «Non eravamoattrezzati con ascia né corda, né possia-mo vantare perigliose ascensioni o not-ti trascorse nei sacchi a pelo». Ma alle lo-ro «S. e A.», aggiungono con affetto,debbono «l’aver avuto accesso a moltecase e cuori contadini che altrimenti cisarebbero rimasti interdetti».

Gilbert, Churchill e consorti eranocolti, curiosi, spiritosi, sensibili e ricchi.Se ne andavano in quattro, «Churchillcon il raccoglitore sempre sotto il brac-cio, il suo amico col blocco da disegno,A. armata di matite e pennelli e S. nelruolo di lettrice della compagnia, siaquando il tempo costringeva a stare alchiuso, sia, all’aperto, mentre i dise-gnatori erano affaccendati». S’innamo-rarono di quel territorio, tornandoviper tre anni successivi — 1861, 1862,1863 — ed esplorandolo valle a valle. I

due appassionati descrivono rupi «co-me absidi di enormi cattedrali» e crina-li simili a «muri di abbazie in rovina».

Venuto il momento di pubblicare inun volume il resoconto dei loro viaggi,meravigliosamente illustrato da Gil-bert, ebbero il colpo di genio: dare unnome nuovo a quelle montagne. Fu co-sì che esattamente un secolo e mezzo fa,nel 1864 a Londra, venne dato alle stam-pe, per i tipi di Longman, Roberts &Green, The Dolomite Mountains, scri-vendo per la prima volta il nome che og-gi è sulla bocca di tutti. Volendo «col-mare un vuoto nella letteratura alpina»,come dichiarano nella prefazione, i dueamici avevano inventato le Dolomiti econ esse un brand destinato a straordi-naria fortuna e fatturato miliardario.

La parola ebbe successo immediato.I viaggiatori successivi l’adottarono su-bito, nuovi libri di altri autori la riprese-ro. Le Dolomiti divennero una modaelegante, certamente molto elitaria:Gilbert e Churchill scrivono che «per ot-to settimane e in oltre duecento miglianon incontrammo neanche un mem-bro della confraternita turistica e inmolti luoghi fummo i primi inglesi che

PIETRO VERONESE

IL LIBROIl frontespizio originale del libroThe Dolomite Mountainsdegli inglesi Josiah Gilberte George Cheetham Churchill,pubblicato nel 1864

GLI ACQUERELLIDa sopra in sensoorario, il Sassodi Pelmo da Zoppé,Primiero, il Fornodi Zoldo versoil Bosconeroe un ritrattodi Josiah Gilbert,uno dei due autoridi The DolomiteMountainsnonché autoredi questi disegniconservatinella collezionedella FondazioneGiovanni Angelinidi Belluno

“Belle, le chiameremo Dolomiti”

‘‘

■ 31DOMENICA 16 FEBBRAIO 2014

la Repubblica

si fossero mai visti». Ancora nell’estatedel 1869 furono registrati a Cortina ap-pena 236 visitatori. L’èra dei rocciatoridoveva ancora venire. Sempre secondoi nostri due eroi, «le Dolomiti non sonoparticolarmente adatte agli scalatori».Ma inesorabilmente la fama di quellemontagne crebbe con l’apertura di ar-dite strade carrozzabili, di nuovi alber-ghi e con il soggiorno dell’imperatriceSissi al Grand Hotel Karezza nell’agostodel 1897.

Qualcuno tentò di bocciare il nuovonome, come l’arcigno paleontologoviennese Rudolph Hoernes, con l’ar-gomento che non si potevano desi-gnare interi gruppi montuosi col no-me del minerale che ne componevasolo alcuni strati. Perse, naturalmen-te. Pur avendo, a rigor di logica, ragio-ne. Ma queste sono storie d’altritempi. Oggi le magnifiche Dolo-miti sono un sito Unesco, uncopyright e un carosello dicamper e turisti dal qualegli incauti Gilbert e Chur-chill cercherebbero in-vano rifugio.

(segue dalla copertina)

Appena dopo l’esplosione l’incompetenza dei nostri comandi ordinò l’at-tacco attraverso il cunicolo della camera di scoppio. Tutto il primo repar-to morì asfissiato dai gas dell’esplosione. La seconda ondata dovette ar-

rampicarsi sui corpi dei compagni. Oggi quella galleria è attrezzata per uso degliescursionisti. Per chi se la sente, è un’esauriente introduzione all’imbecillità cri-minale della guerra.

Tra le Dolomiti ho trovato i resti del mare, dal quale provengono. Un antico filo-sofo greco, Anassimandro di Mileto, pensò che fossili marini sui monti fossero il re-sto di una battaglia della terra che scacciò di lì il mare. Non poteva immaginare chefu vero il contrario: il fondo del mare aveva espulso le montagne verso l’esilio deicieli, più di tremila metri al di sopra delle onde.

Oggi dall’alto di una cima vedo le Dolomiti intorno come un arcipelago di terreemerse. All’ora di un tramonto d’estate che le rosola, confessano di essere fatte dicoralli e frantumi di conchiglie, opera del più raffinato dei carbonati di calcio e dimagnesio. La loro bellezza è fragile, alla base si stendono i ghiaioni formati dai fran-tumi bianchi dei loro cedimenti. Sgretolate dai fulmini, dal vento, dal ghiaccio e an-che dal sole, le Dolomiti mostrano uno strascico nuziale di pendii, scomodi da ri-salire e sfiziosi da scendere a salti e a rotta di collo. Non stanno ferme: perdono pez-

zi e intanto aumentano di altezza, continuamente spinte da una legge oppo-sta all’attrazione terrestre.

Il loro clima è instabile, pure con le accurate previsioni attuali può capi-tare un temporale che si accanisce imprevisto su una cima, mentre su quel-la accanto il cielo è sgombro. L’alpinista impegnato sotto i pizzichi dei ful-

mini impara che in Dolomiti si gioca a testa o croce, e bisogna attrezzar-si per ogni evenienza, prima di tutto la dose di fortuna indispensabile.

Alla base di una delle magnifiche pareti, staccando da terra i piedicon il primo passaggio verso l’alto, sento nelle ossa un solletico af-fettuoso. La parte minerale del mio corpo riceve un benvenuto da-gli elementi chimici in comune. Con la faccia a pochi centimetri dal-la roccia, tutto l’ambiente intorno sparisce dietro le spalle. Anche se

c’è passaggio di persone e di mezzi sulle strade, bastano poche de-cine di metri in alto per essere isolato. Non dalle accelerazioni

delle motociclette smarmittate che sfregiano l’aria e la strac-ciano con il loro chiasso di alveare meccanico: quello resta a ri-cordare che siamo degli occupanti dell’ambiente e non dei mi-gratori di passaggio.

Ho accompagnato qualche amico a scalare per la primavolta nelle Dolomiti. Su una parete spalancata a foglio, sopraqualche spigolo ventoso come una prua, ho diffuso il conta-

gio febbrile con la roccia dolomia. È attrito a volte freddo,elettrico, tra polpastrelli e appigli, è avanzata di dita chefrugano alla cieca verso l’alto la presa successiva, è sprecodi energie felici di sprecarsi. Qualcuno ha sigillato l’espe-rienza in un ricordo unico, da non sovrapporre con unaseconda volta. Altri hanno subìto l’effetto collaterale del-l’entusiasmo, che istiga a riandare a quattro zampe sui

centimetri esatti e necessari.Oggi a chi scala per la prima volta in Dolomiti mi

sento di avvisare che può nuocere al suo sistema ner-voso inducendo dipendenza dalla bellezza e un falsosentimento di confidenza. Quella materia regale nonè lì per accogliere, è indifferente a noi, alle goffe in-tenzioni di conquista come a quelle più umili di star-sene in disparte. Non siamo ospiti di nessuna mon-tagna, perché non invitati. Siamo intrusi, sbarcati su

uno scoglio affiorato dagli impetuosi milioni di an-ni. Non facciamoci ingannare dall’apparenza diesserci arrivati a piedi anziché a nuoto. Lassù qua-lunque scalatore è un naufrago che cerca di rag-giungere la terraferma in cima.

Un destino da intrusiin quel mare esiliato

ERRI DE LUCA

© RIPRODUZIONE RISERVATA

© RIPRODUZIONE RISERVATA

LO SCILIARLa punta Santnerdello Sciliar sull’Alpedi Siusi in un’illustrazionedel 1873 da Cime inviolatee valli solitariedi Amelia B. Edwards

LA DOMENICA■ 32DOMENICA 16 FEBBRAIO 2014

la Repubblica

L’attualità

Scarpe rotte, eppur bisogna andar. Si puòguardare un deposito di scarpe, e provare aindovinare da dove vengono, dove sonoandate, quanto hanno camminato e indos-so a chi. Le scarpe di Auschwitz, quelle del-l’Armir, quelle scolpite sulla riva del Danu-

bio… Col titolo Un lungo cammino, la fotoreporterShannon Jensen ha raccontato le storie di personescampate alle carneficine dell’esercito sudanese fug-gendo a piedi verso la frontiera del Sudan del Sud, di-ventato stato indipendentenel luglio del 2011 (nel di-cembre scorso, un nuovosanguinoso conflitto etnicoè scoppiato dentro il nuovoStato). Queste fotografie fu-rono prese nella primaveradel 2012, quando sotto gliattacchi militari trentamilapersone cercarono scampofuggendo a piedi verso ilconfine col Sudan del Sud,oltrepassato il quale i super-stiti poterono ricongiun-gersi con altre decine di mi-gliaia di rifugiati. La fotogra-fa notò un giorno la delica-tezza e la premura con laquale quei diseredati tratta-vano le loro calzature esau-ste, e decise di farne il pro-prio soggetto. Che gli umani siano le scarpe dentro cuicamminano, detto qui da noi, suonerebbe come lo slo-gan pubblicitario di una marca di grido. Le scarpe deirifugiati nel Sudan del Sud, e degli ininterrotti esodi chetrascinano di qua e di là moltitudini di scacciati senza

tregua, raccontano davvero la loro storia. Guardare lepersone dritto nelle scarpe: ecco un metodo parziale,ma rivelatore. Una volta, nel famoso 1968, a Venezia,Sebastian Matta, che era un famoso pittore e un uomogeniale, mi disse che aveva in mente di progettare scar-pe per gli africani, ai quali si adattavano male, comemolte altre cose di nostra invenzione, le nostre scarpecittadine: per i luoghi in cui dovevano camminare e la-vorare, e anche fuggire. Ci sono milioni di persone nelnostro mondo che hanno bisogno della scorta di un

paio di scarpe fatte per fug-gire, lontano da dove, chis-sà per dove.

Ci sono due sandali digomma, di quelli che sichiamano infradito, credo,sono spaiati, uno ha la suo-la bianca (aveva la suolabianca) e le cinturine verdi,l’altro è rosa (era rosa) conun fiorellino sul cinturino.La didascalia dice che ap-partengono a Mam OdonBar, un’anziana donna diGabanit, da cui è fuggitasotto i bombardamenti ae-rei. Suo figlio è riuscito a tra-sportarla per buona partedel tragitto sul dorso di unasino. La sorella maggioredi Odon Bar è morta brucia-

ta viva nella sua capanna, come altri cinquanta del suovillaggio. Da allora, prima di intraprendere il viaggio al-la volta del confine, la sua famiglia ha vagato per mesitra i villaggi di montagna.

Ecco altri due sandali di plastica, consunti fino alla

Che cosa raccontanoqueste scarpe rotte

ADRIANO SOFRI

GASIM ISSA, 50 ANNI 20 giorni di cammino RIHAB ABDULLAH, 40 ANNI 40 giorni di cammino ARADIA SHEIKH, 6 ANNI 16 giorni di cammino

SADDAM OMAR, 25 ANNI 8 giorni di cammino MUHAMMED NUSA, 40 ANNI 40 giorni di cammino OMAR HAFEL, 4 ANNI 20 giorni di cammino

SIAMA IDRISS, 10 ANNI

MAKKA KALFAR, 7 ANNI

HAMAM GASIM, 40 ANNI 30 giorni di cammino

BATUNA AMAT, 20 ANNI 30 giorni di cammino

HAMJIMA ABSANA, 13 ANNI

MAM ODON BAR, 70 ANNI 20 giorni di cammino

MUHAMMED HAJANA, 30 ANNI

■ 33DOMENICA 16 FEBBRAIO 2014

la Repubblica

30 giorni di cammino MUSSAH ABDULLAI, 6 ANNI 30 giorni di cammino AHMED ABBAS, 14 ANNI 17 giorni di cammino

“molti” giorni di cammino

ADAM ABDU, 5 ANNI 30 giorni di cammino

SELA CHANGIL, 40 ANNI 60 giorni di cammino

MUSA SHEP, 2 ANNI 20 giorni di cammino

JAMUN MAM, 70 ANNI “molti” giorni di cammino AJUK IDO, 70 ANNI 20 giorni di cammino MAKKA BALA, 30 ANNI 15 giorni di cammino

“molti” giorni di cammino

trasparenza, neri, maschili, si direbbe. Ma apparten-gono ad Amna Jor, madre di sette figli, vicina ai qua-rant’anni, che è fuggita nel settembre 2011 e ha cam-minato per un mese. Era rimasta per sei mesi sullamontagna. Gli uomini dovevano comunque scenderea procurarsi qualcosa da mangiare e da bere. Una not-te, nella folla, la suocera fu separata dalla famiglia, e nonne seppero più niente. Ai bordi della strada ha vistobambini morti di sete e vecchi abbandonati nel panicodei bombardamenti. Il cinturino del sandalo sinistro ètenuto insieme da una stri-scetta di cotone arrotolata.

Quelle piccole sono lescarpe di Musa Shep, unbambino di due anni, che haviaggiato per più di ventigiorni, sulle spalle di suamadre, Atoma Tifil, e primai mesi da sfollati sui monti.Ora è al sicuro — spera — nelcampo di rifugiati di Batil.Sono scarpe vezzose, da fa-vola, così colorate e piene dinastri. Di buchi, anche.

Ci sono anche le scarpe diGasim Issa, un uomo sullasessantina. A Igor, il suo vil-laggio, era agricoltore e alle-vatore. Dal settembre 2011lui e i suoi vicini cercaronorifugio sui monti. I soldati glibruciarono la casa e il po’ di sorgo che non era stato an-cora rapinato dal suo magazzino. Si incamminò versosud con la famiglia, con la nipotina sulle spalle. Sua ma-dre e gli altri anziani che non potevano affrontare ilviaggio li incitarono ad andare avanti. Queste sembra-

no scarpe fabbricate da un naufrago in un’isola deser-ta — o da un profugo. Due pezze di pelle ritagliate allabuona, delle strisce per allacciarle.

Ecco i sandali rattoppati di Bashir Rumudan, qua-rant’anni, sheikh del suo villaggio. Dopo i bombarda-menti dell’aviazione, i soldati sudanesi bruciarono lecase e rubarono il bestiame. Loro scapparono, nelleprime ore del mattino e le ultime della sera, per scam-pare al solleone. Lui portava un nipote sulle spalle.

Già viola quelli di Sela Changil, una donna sulla qua-rantina che ci ha cammina-to dentro per mesi. Sotto c’èil suolo sul quale le reliquiedei sandali sono deposte,crepato dall’arsura. Trova-re l’acqua, durante l’esodo,era la cosa più ardua e peri-colosa.

Atoma Suliman, venten-ne madre di due bambini,vide i suoi vicini morire sot-to le bombe e il villaggiospianato dai carri armati.Dev’essere stata una granfortuna trovare quel nastroadesivo giallo.

Babu Elbai, sui qua-rant’anni, del villaggio diIferi. Padre di otto figli. Neportava in spalla due, cam-minavano fino a crollare

stremati. Hanno vagato sui monti per mesi. Lungo lastrada hanno cercato di soccorrere i vecchi restati in-dietro. Le sue scarpe hanno perso i loro lacci, sono sfor-mate e bucate, e spalancano due voragini nere.

Appartengono a donne, uomini, vecchi e bambini che hanno dovuto camminare

giorni e giorni per fuggire dal Sudanin guerra e trovare rifugio oltre frontiera

Eccole raccolte e fotografateIn ogni paio c’è dentro la loro storia

© RIPRODUZIONE RISERVATA

ATOMA SULIMAN, 20 ANNI 30 giorni di cammino

30 giorni di cammino

La British Library ha acquisito lettere, racconti e appunti dell’autore del “Budda delle periferie”Che in questa intervista spiega la sua vecchia passione“Sono anni che tengo un quadernodelle mie giornate. Un’abitudine per nulla antiquata: le persone ogginon fanno lo stesso sul web?”

L’ineditoMy Beautiful Life

LA DOMENICA■ 34DOMENICA 16 FEBBRAIO 2014

la Repubblica

LONDRA

«Ho tenuto undiario, tutti igiorni, perquarant’an-

ni. Da quando ero un ragazzino fino aoggi. E non penso affatto che sia un’a-bitudine antiquata, obsoleta. Al con-trario, credo che oggi sempre più gen-te affidi i propri pensieri quotidiani aun quaderno, anche se non è necessa-riamente di carta e non è necessaria-mente un giornalino segreto, privato,ma pubblico come lo sono Facebook,Twitter, i social network insomma».

Ma adesso anche i pensieri privati diHanif Kureishi sono diventati un “dia-rio pubblico”: li ha acquistati per cen-tomila sterline, centoventimila euro,la British Library, l’eminente bibliote-ca nazionale britannica, uno dei cu-stodi di libri, documenti e manoscrittipiù prestigiosi del mondo. Da qualche

parte nel ventre di questa futuristicabalena di pietre rosse, come caduta dalcielo fra le vecchie casette vittorianedel centro di Londra, tra Bloomsbury,il quartiere di Virginia Woolf, e la sta-zione ferroviaria di King’s Cross, inqualche sala o seminterrato, fra la suacollezione sterminata di centocin-quanta milioni di volumi, riviste e ar-tefatti risalenti fino al Trecento avantiCristo, ora ci sono solerti bibliotecariche stanno leggendo, ordinando e si-stemando l’archivio personale del-l’autore de Il Budda delle periferie, diMy Beautiful Laundrette e del recenteL’ultima parola (ispirato da V.S. Nai-paul, il suo padre letterario). È comeuna consacrazione per lo scrittore,sceneggiatore e commediografo an-glo-pachistano che vent’anni or sonoentrò come una furia nella casta waspdella narrativa inglese, aprendo lastrada a una narrativa più etnica, glo-bale, ricca, che dopo di lui non è piùstata la stessa. «Lì dentro ci sono i ma-noscritti di tutte le mie opere, bozze di

altre che non ho mai completato, let-tere, appunti, fotografie, agende di ap-puntamenti e naturalmente c’è il miodiario, un journal che ho tenuto fino apochi mesi fa», racconta lo scrittoredavanti alla British Library. «Mi fa pia-cere che restino a Londra, perché que-sta, a dispetto delle origini asiatichedella mia famiglia, è la mia casa, il luo-go che più amo».

È un ritorno a casa anche per un’al-tra ragione: in questo tempio della let-tura lei ebbe il suo primo impiego,non è vero?

«Avevo vent’anni, studiavo all’uni-versità e per guadagnare qualche soldolavoravo alla British Library, che nonera ancora questa in cui ora riposano imiei scritti ma una serie di edifici piùpiccoli, sparsi per la città, comunque inpossesso di un’aura che per me avevaun’attrazione speciale. Era come perun bambino goloso di cioccolata ritro-varsi in una pasticceria».

Perfino qualcosa di più: come perun bambino goloso di cioccolata po-

tersi avvicinare al sogno di diventa-re un pasticcere: a quattordici annigià sognava di fare il romanziere, co-me ora tutti possono scoprire pro-prio leggendo la prima pagina delsuo diario...

«Ho provato imbarazzo, per un at-timo un pizzico di vergogna, rileggen-do quelle pagine. C’è ovviamentequalcosa di infantile in un bambinoche dichiara quello che vuole fare dagrande. Ma per me diventare unoscrittore era come per la maggioranzadei miei coetanei dell’epoca sognaredi diventare una pop star o un calcia-tore. A quattordici anni è normaleavere sogni simili, direi anzi che è ne-cessario. Io ho avuto l’incredibile for-tuna di realizzare il mio. Quel che scri-vo nel diario è vero e lo penso ancora:per realizzare un sogno devi lavorareduramente. Serve pure tanta fortuna,servono le circostanze giuste, ma sen-za impegno e determinazione non cela farai mai. Anche se, ripensando oraa quel mio sogno infantile, quasi non

ci credo che è diventato realtà». Kureishi sembrava destinato ad al-

tro: a diventare un commerciante, ma-gari di un corner shop, quelle botte-gucce che vendono giornali, dolciumi,sigarette, bibite, un po’ di cancelleria,che a Londra sono spesso gestite da pa-chistani; oppure un civil servant, unfunzionario pubblico, altra specificitàdel suo gruppo etnico. Viveva in unastrada del sud di Londra piena di im-migrati asiatici, in un’Inghilterra cheaveva governato sì un impero colonia-le ma non era ancora multietnica, glo-balizzata e tollerante delle diversitàcom’è oggi. Insomma, era lontano dalmondo dei romanzi e degli editori co-me la Terra dalla Luna. Cominciò gio-vanissimo scrivendo raccontini pornosotto pseudonimo, poi drammi teatra-li, quindi sceneggiature e con una diqueste fece centro: «Sì, la mia vita ècambiata con My Beautiful Laundret-te, il film sulla piccola lavanderia chemi ha aiutato a farmi conoscere, e adaffermarmi come scrittore». Quindi è

ENRICO FRANCESCHINI

Da ragazzino lo scrissi sul diario“Diventerò un grande scrittore”

■ 35DOMENICA 16 FEBBRAIO 2014

la Repubblica

venuto il romanzo best-seller, anzilong-seller, perché continua a vende-re, Il Budda delle periferie, sono arriva-ti i premi, il giro degli artisti, l’amiciziacon David Bowie (che ha scritto la co-lonna sonora di Laundrette), DanielCraig, Vanessa Redgrave. E attraversotutto questo, lui ha continuato a scri-vere i suoi pensieri quotidiani.

Una moda ottocentesca entrata indisuso, quella del diario?

«Non direi. In disuso è il modo in cuil’ho scritto io, a mano, su piccoli qua-derni. Ma trovo che oggi la gente nonfaccia altro che scrivere diari, anche senon li chiama così. Tutti confessanoemozioni, sentimenti, pensieri sullepagine digitali di Facebook o di Twit-ter, oppure affidandole a e-mail e mes-saggini. Mi pare che non si sia maiscritto così tanto in nessuna era prece-dente. Charles Dickens era noto perscrivere varie lettere al giorno, oggichiunque invia cinquanta o cento e-mail o sms al giorno senza contare tut-ti gli altri modi per esprimersi digital-

mente. Scriviamo collettivamente ildiario pubblico del nostro tempo. Pri-ma o poi qualcuno dovrà raccoglierloin un libro e pubblicarlo».

E il suo di diario, meriterebbe di es-sere pubblicato?

«Non lo so. Non spetta a me deci-derlo. Anche perché ne ho rilette solopoche righe. Non per pigrizia: è chel’ho scritto con una calligrafia terribile,che io stesso fatico a decifrare».

Forse non l’ha riletto anche per il ti-more di quello che poteva trovarcidentro. La sua famiglia, genitori e pa-renti, si sono sentiti strumentalizzatidai suoi libri. L’hanno accusata di

averli ridicolizzati nel ruolo dei tipiciimmigrati pachistani.

«Non ricordo tutto quello che hoscritto nel diario. Posso dire però che laLondra di oggi è ben diversa da quellain cui sono cresciuto. È una città piùgentile, più aperta, migliore. È ancoradivisa in zone di estrema ricchezza esacche di estrema povertà, ma è un po-sto in cui un figlio di immigrati pachi-stani, com’ero io, può sentirsi molto dipiù a casa propria».

Non per nulla il “Budda delle perife-rie” alla fine è arrivato fin dentro la Bri-tish Library.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

29 gennaio 1970

Una delle ragioni che di solito ci fanno fal-lire nella vita è lo spreco del tempo. È

questo che frega tanti giovani ambiziosi e di ta-lento. Stasera per esempio io ho sprecato il miotempo guardando la televisione. Se invece distare davanti a questo inutile aggeggio inattivoavessi lavorato, credo che potrei realizzaregrandi cose nel campo della letteratura. Ma in-tendo cambiare. Da domani, nuova vita.Aspettate e vedrete. Diventerò uno scrittore.Non ci sarà nessuno più grande di me.

1 dicembre 1987 Calcutta assomiglia un po’ a Venezia: una

grandeur che cade a pezzi, una bellezza male-fica, un caos che avvolge tutto. Vado in una del-le case-orfanotrofio di Madre Teresa. I bambi-ni giacciono sparpagliati dappertutto sul pavi-mento, perché i loro lettini stanno venendo pu-liti e le loro stanze arieggiate. Ci sono due ad-detti per ogni bambino. Nelle loro tutine di la-na, pulite e confortevoli, i bambini sembranofelici. La maggior parte di loro dovrebbero es-sere adottati. Finiranno a vivere in Belgio, inOlanda o negli Stati Uniti. Quando qualcuno liporta a Madre Teresa, di solito dice di essere unlontano parente che non può più accudire il

bambino, già abbandonato dai genitoriper problemi di sussistenza eco-

nomica. Apparentemen-te case come que-

sto orfano-t r o f i ovengo-

no do-nate a

M a d r eT e r e s a .

Per chi è be-nestante e

p o s s i e d equalche pro-

prietà a Cal-cutta, la cosa da

fare quando simuore è lasciare

in eredità una ca-sa a questa santa

donna. Madre Te-resa non ha alcun in-

carico ufficiale, maha molto potere in In-

dia e solitamente rie-sce a ottenere quello

che vuole.

25 febbraio 1993Ho passato la giornata, o

perlomeno il pomeriggio, conDavid Bowie. Prima abbiamopranzato, poi gli ho fatto un’in-tervista, quindi abbiamochiacchierato. A differenzadella maggior parte degli eroiche uno ha quando è giova-ne, il suo status non è dimi-nuito ai miei occhi duranteil nostro incontro, anzi, piùparlavamo, più ero affasci-nato e ammirato da que-st’uomo incredibile. Co-me tutte le persone intel-ligenti, Bowie è interes-sato da qualsiasi cosa. È

molto vivo e vivace, di te-sta e di corpo. Non sembra per nien-

te uno scoppiato, dopo tutto quello che haprovato e vissuto. Al contrario, ha un aspettopiù giovanile di me! Specialmente quando in-dossa la sua strana tunica di foggia orientale.Provo molto rispetto per lui. Penso da dove èpartito e dove è arrivato. Questo eterno ragaz-zo ha dovuto trasportare se stesso da un altropianeta. Non ha l’aria di un lottatore, ma hadovuto combattere per ottenere ciò che haconquistato. Ha l’energia e lo sguardo inqui-sitore di qualcuno che non si è mai arreso, chenon è stato troppo cambiato dal successo. Mipiace il suo atteggiamento. E mi piacciono lesue buone maniere. Non si comporta comecerte viziate pop star, è sempre molto attento,reattivo, gentile. Anche se immagino che nel-la sua posizione si sforzi di essere così, tenutoconto che la gente sarebbe pronta a cercarequalsiasi occasione per screditarlo e sparargliaddosso.

Pranzato con Bowienon è uno scoppiato

HANIF KUREISHI

© RIPRODUZIONE RISERVATA

LE CARTEIn alto, da sinistrain senso orario:le prime paginedattiloscrittedel Buddadelle periferiecon le correzioniriportate a manoe alcuni dei diari di Hanif Kureishidal 1973 al 2011Qui sopraa destra, dall’alto,una pagina del diariodel 29 gennaio1970 in cuiannunciache diventeràscrittore;quella in cuiracconta l’incontrocon David Bowiee (sotto) la visitaa Madre Teresa

L’AUTORESceneggiatore e scrittoreanglo-pachistano, Hanif Kureishi(nella foto) ha sessant’anniIl suo ultimo romanzopubblicato in Italiaè L’ultima parola (Bompiani)

Gli estratti

LA DOMENICA■ 36DOMENICA 16 FEBBRAIO 2014

la Repubblica

SpettacoliMitici

ALAN STEELLottatore, Sergio Ciani(questo il suo vero nome)lavorò poi con Strehler

ANDREA AURELIStudente in legge, ternanoA Cinecittà fu Gengis Khane il Corsaro Nero

KING MC QUEENRenato Baldini, sedicenteplayboy: “Le donne le usocome fossero fazzoletti”

Mentre un ultimo Herculescombatte nelle sale in 3Dun libro sul “peplum”ripercorre l’epopea di un genere che nei ’60 fu palestra per grandi registi e attori Al grido di “Menateve!”

Gli attori

KIRK MORRISVero nome Adriano Bellini,un insolito Maciste con accento veneziano

■ 37DOMENICA 16 FEBBRAIO 2014

la Repubblica

rica, l’Asia, l’Africa», in fondo non serviva allonta-narsi troppo, era una splendida pagliacciata chenon aveva alcun bisogno di autenticità. L’era delneorealismo era finita da un pezzo, nessuno vole-va più soffrire dietro le miserie dei protagonisti, l’I-talia era cambiata, sentiva guizzare l’energia neimuscoli, era carica d’ottimismo e di vitalità. «Lovedi? Sta a ripassà er copione», diceva un macchi-nista a un truccatore indicando Steve Reeves chefaceva piegamenti tra una scena e l’altra.

Nella bella introduzione a Il grande libro di Er-cole, Marco Giusti riporta alcune cifre impressio-nanti: in Italia nel 1959, ad esempio, circolano2752 film e le sale cinematografiche sono più didiecimila, nessun paese europeo arriva a questinumeri. I film italiani incassano in media più degliamericani. La forza del cinema Peplum sta proprionella sua capillare distribuzione: magari non sfon-da nelle prime visioni, ma recupera alla grande neipidocchietti (come a Roma si chiamavano i cine-mini di quartiere) e nei parrocchiali, là dove si rac-colgono a frotte i veri appassionati di Maciste e Ur-sus. D’altronde sono film dichiaratamente popo-lari, in cui ogni complicazione psicologica vieneespulsa preventivamente. Ci sono i buoni e ci so-no i cattivi, punto e basta. I buoni sono sempre atorso nudo, menano le mani per difendere la giu-stizia, non recitano, agiscono. I cattivi invece sonoveramente perfidi carognoni che all’inizio fanno ilbello e il brutto tempo, ma che alla fine la paghe-ranno cara: tra i cattivi troviamo anche buoni at-tori che, per ragioni alimentari, decidono di farsimassacrare da Maciste. Enrico Maria Salerno, Ma-rio Scaccia, Alberto Lupo, Serge Gainsbourg e per-fino Gianmaria Volonté, per esempio, hanno datovita a tiranni crudeli, sacerdoti sadici, subdoli cor-tigiani, potenti ferocissimi. «Fate torturare tutti isospetti, a cominciare da donne e bambini»,«Schiacciate come vermi quegli schiavi», «I buonisentimenti mi fanno schifo», le loro battute sonodi questo tipo, frasi che debbono solo indignare laplatea fumante e ululante e che preparano la sa-crosanta vendetta dell’eroe.

I titoli di questi film sono già uno spettacolo: Ma-ciste, il gladiatore più forte del mondo, Maciste, l’e-roe più grande del mondo, Sette contro tutti, Erco-le, Sansone, Maciste e Ursus gli invincibili, Ercolecontro i tiranni di Babilonia e via così, in una co-stante esaltazione della potenza dell’eroe, davan-ti al quale si presentano nemici sempre più ag-guerriti, gentaccia che sarà tritata. È l’iperbole lacifra stilistica di questo cinema, tutto deve essereesagerato, i bicipiti e i tricipiti, le acconciature del-le rare donne, i colori smaglianti, gli scontri epici:masticando bruscolini e lacci di liquirizia, suc-chiando Nazionali senza filtro, il pubblico in salapartecipa festoso a quelle belle fanfaronate, maspesso ride, perché quando è troppo è troppo, unuomo solo non può sconfiggere un impero: ma dauna sedia cigolante del cinemino più infimo sem-pre arrivava il commento rassicurante: «Tranquil-li, se po’ fa, se po’ fa!».

Bravi mestieranti mandano avanti in fretta que-sto cinema, cercando di ottenere il massimo spen-dendo il minimo, ma nel Peplum muovono i pri-mi passi anche registi che poi diventeranno famo-si con i western all’italiana o con l’horror: Corbuc-

ci, Leone, Bava, che già dimostrano di avere un ta-lento superiore. Ercole al centro della terra di Ma-rio Bava viene considerato dagli esperti il capola-voro del genere Peplum: la storia è quasi solo unpretesto per scatenare la fantasia e, grazie a un’a-bilità artigianale da grande illusionista, darle unaforma compiuta. Ma anche il cinema “sandalone”a un certo punto cominciò a declinare, e fu un tra-monto abbastanza rapido: per acchiappare il pub-blico, ormai provato da tutte quelle furibonde ten-zoni, i produttori provarono a mescolare le carte,escogitando abbinamenti fantasiosi, Zorro controMaciste, Sansone contro il Corsaro Nero, Macistecontro il vampiro, Golia e il cavaliere mascherato,in un tutti contro tutti che superava ogni minimoprincipio di credibilità. Ma ormai non c’era piùniente da fare, i forzuti avevano fatto il loro tempo,lo straccio era stato strizzato fino alle ultime goc-ce. In fondo al viale di Cinecittà, con il poncho, ilcappello e il sigaro in bocca, cominciava a muo-versi un nuovo eroe, sornione eppure rapidissimocon la pistola. Si smontarono i templi e si monta-rono i saloon, era giunto il momento di Clint Ea-stwood e poi dei mille Django e Sartana e Ringo.Maciste fu accoppato con una rivoltellata a bru-ciapelo, l’uomo muscoloso fu abbattuto dall’uo-mo con la colt. Quell’epoca ridicola e gloriosa sem-bra sepolta per sempre, sebbene nei bar di Romaa volte ancora se ne parla, perché in tanti hannoavuto un nonno gladiatore o legionario a Cine-città: «L’hanno ammazzato almeno trenta volte,ma era sempre contento, guadagnava bene e finoalla fine ci raccontava di quando Maciste ha sba-ragliato da solo l’esercito dei mongoli: mongoli fe-roci, capito? Mica Puffi».

ualche critico dice che l’uscita di About de souffledi Godard segna la fi-ne dell’infanzia del cinema: in unattimo gangster pensierosi, uomi-ni e donne in crisi, anime pallide efilosofiche mandano in soffitta i

muscolosi eroi che avevano incantato milioni dispettatori. Maciste e Ursus, Ercole e Sansone ven-gono spazzati via, l’innocenza dello spettacolopuro viene sostituita da una maturità sofferente,crollano definitivamente i templi fatti di polistiro-lo e cartongesso, e sotto quelle macerie leggere ri-mangono per sempre le domeniche spensieratetrascorse in sale dove accadeva di tutto. Quando latrama si dilungava troppo, dai posti in fondo si al-zava inesorabile l’invito: «Menateve!»: quello era ildivertimento, vedere l’eroe dai pettorali scolpitiche sbatacchiava i nemici, che li frullava a destra emanca come fuscelli. Tutto il resto era solo con-torno, una serie di vicissitudini di poco conto, lacultura classica riportata a una dimensione pop, ei romoletti affollavano i cinema soprattutto pergodersi le mazzate e le battagliacce.

Dal 1957, quando apparve sugli schermi Le fati-che di Ercolecon il culturista americano Steve Ree-ves, fino alla metà degli anni Sessanta il cinema Pe-plum o “sandalone” dominò la scena. Circa 214pellicole girate in un decennio sulla scia di BenHur. Sugli stessi set venivano girati anche quattrofilm contemporaneamente, per abbattere i costi eaccelerare la produzione, interi quartieri della ca-pitale, il Quadraro, il Tuscolano, partecipavano inmassa a queste gioiose e redditizie avventure ci-nematografiche, fornivano centinaia di compar-se, elettricisti, fonici, autisti, cascatori: i film “san-daloni” erano una vera mano santa, Ercole dava damangiare a mezza Roma. Spesso gli esterni veni-vano girati in Jugoslavia o in Spagna, ma anchenelle campagne e sulle spiagge laziali, soprattuttoa Manziana e a Tor Caldara. Il regista Fernando DiLeo sosteneva che «a Manziana c’era tutto: l’Ame-

MARCO LODOLI

CHARLIE LAWRENCEIn realtà si chiamavaLivio Lorenzon da Trieste,era uno scaricatore di porto

DANIELE VARGASOvvero Daniele Pitani,compagno di liceodi Pasolini, medico radiato

JOHN GARKOGianni Garcovich,dirigente in commissionecultura ai tempi del Pci

ALBERT FARLEYAll’anagrafe Alberto Quaglini da Palombara Sabina, ex ragioniere alla Titanus

FOTO

EN

RIC

OS

AN

TELL

I

FOTO

EN

RIC

OS

AN

TELL

I

FOTO

PIE

RLU

IGIP

RA

TUR

LON

FOTO

OS

VA

LDO

CIV

IRA

NI

FOTO

LE

OM

AS

SABACKSTAGE

Nella foto grande, Eddie Constantine(a sinistra), scherza con Reg Park sul setdi Ercole al centro della terra(1961): il regista era MarioBava, nel cast anche il grande Christopher LeeIn questa pagina,da destra verso il basso:Alberto Sordi in una pausadi Mio figlio Nerone (1956);un’immagine dal set di Ercolealla conquista di Atlantide(1961); pausa caffèper Magali Noël durantele riprese di Totò e Cleopatra(1963); Scilla Gabel e Mark Forest sul set di Maciste il gladiatore più forte del mondo (1962)

LE LOCANDINEDall’alto verso il basso Maciste contro i cacciatori di teste (1962)Hercule à la conquête de l’Atlantide (1961)Le fatiche di Ercole (1958)

IL LIBROIl grande libro di Ercole - Il cinemamitologico in Italia di Steve Della Casa e Marco Giusti(432 pagine, 30 euro) è pubblicato dal CentroSperimentale di Cinematografia e da EdizioniSabinae

Q

© RIPRODUZIONE RISERVATA

LA DOMENICA■ 38DOMENICA 16 FEBBRAIO 2014

la Repubblica

Piazze che si trasformano in bacini di raccolta dell’acqua, tetti bianchiper ridurre le temperature, dune costiere per proteggersi dall’innalzamentodel mare e quartieri galleggianti. Ecco come da New Yorka Rotterdam l’urbanistica affronta i mutamenti climatici

NextNextChe tempi

DUNE COSTIEREPer contenere l’innalzamento del livello del mare e il rischio di mareggiate, la sistemazione di barriere naturali spesso garantisceuna risposta più efficiente rispettoall’uso delle strutture in cemento

La città a misura di uragani e siccità

New York, estate 2030. È una diquelle giornate torride che si ri-petono ormai sempre più spes-so. Il turista accaldato vuole an-dare in un ristorante di OrchardBeach ma fatica a orientarsi. È

dalla devastazione dell’uragano Sandy, quasivent’anni fa, che non torna in città e attorno a luiè tutto maledettamente diverso. Chiede infor-mazioni. «Semplice. Prenda l’autobus rivestitodi bianco — risponde cortese il passante —quello con la pubblicità del latte, e scenda subi-to dopo la piazza di raccolta dell’acqua, dove c’èil tendone. Poi torni indietro lungo il canale discolo fino al tunnel verde. Il ristorante è dietro laduna di contenimento».

Dialogo immaginario, naturalmente, matremendamente realistico di come l’urbanisti-ca delle metropoli dei prossimi decenni dovràprofondamente trasformarsi per essere a misu-ra di cambiamento climatico. Persino il detta-glio dell’autobus non è frutto di fantasia mascritto nero su bianco a pagina 18 del rapportoAdapting urban transport to climate changere-datto dal governo tedesco. Tra le misure consi-gliate per attrezzare gli autobus alle future on-date di calore e risparmiare sui costi di climatiz-zazione si suggerisce infatti di rivestire i tetti dibianco con le pellicole bucherellate usate per imessaggi pubblicitari.

Il documento della Deutsche Gesellschaft fürTechnische Zusammenarbeit è solo uno deinumerosi dossier che vengono sfornati in que-sti mesi in mezzo mondo per spingere le ammi-nistrazioni a fronteggiare il riscaldamento glo-

bale. L’adattamento al nuovo clima che ciaspetta e che abbiamo già iniziato ad assaggia-re è infatti una sfida che si combatterà innanzi-tutto nella trincea delle metropoli. Le città ospi-tano più della metà della popolazione mondia-le, consumano due terzi dell’energia e produ-cono oltre il 70% delle emissioni di CO2. Allostesso tempo oltre il 90% delle aree urbane sor-ge sulle coste e nel giro di qualche anno sarà ob-bligato a fare i conti con l’innalzamento del li-vello del mare e l’intensificarsi degli eventi at-mosferici estremi: tempeste, alluvioni lampo,ondate di calore e lunghe fasi di siccità.

Una delle prime città a farne la drammaticaesperienza è stata proprio New York che ha va-rato un gigantesco piano da venti miliardi didollari per cercare di mettersi in sicurezza.Quello voluto dall’ex sindaco Bloomberg è il piùavanzato, costoso e dettagliato programma diadattamento urbano lanciato sinora, con la co-

struzione di nuovi sistemi di canalizzazione,dune costiere e argini rinforzati per permetterea trasporto pubblico, viabilità, sistema fogna-rio, assistenza sanitaria, energia e distribuzionealimentare di continuare a funzionare anche inmutate condizioni climatiche. Qualcosa di si-mile stanno facendo però anche molti altri go-verni, locali e nazionali, che si tratti di progetti“spot” o organici: zone rialzate, canali, prote-zioni costiere di vario tipo e grandi vasche e ci-sterne per il drenaggio dell’acqua. A dare unnuovo volto al paesaggio urbano sarà soprat-tutto la necessità di difenderle da alluvioni e in-nalzamento del mare, come in queste ore stan-

no tentando di fare in Inghilterra con i tradizio-nali sacchi di sabbia. «Dovranno essere in gra-do di gestire meglio le grandi quantità di piog-gia che arriveranno in pochissimo tempo. Que-sto pone dei limiti all’approccio tradizionale difar entrare l’acqua al più presto nel sistema di fo-gnatura, che non è in grado di smaltirlo. Devo-no invece crescere le capacità di tenere l’acquanelle città, lasciando più spazio ad aree in gradodi raccoglierla temporaneamente», spiega

CASE GALLEGGIANTIMolte città stanno mettendo in cantiere la realizzazionedi quartieri galleggianti, realizzaticon speciali abitazioniin grado di resistere a mareggiatee all’innalzamento del livello del mare

CANALI DI SCOLOServono a evitare catastrofiche alluvioni: convoglianoe immagazzinano grandi massedi acqua piovana in occasionedi uragani e di altri eventi atmosferici estremi

VASCHESi tratta di speciali piazze a forma di anfiteatro sotto il livellostradale. Possono trasformarsi,all’occasione, in grandi vasche per la raccolta dell’acquaconvogliata dai canali di scolo

VALERIO GUALERZI

■ 39DOMENICA 16 FEBBRAIO 2014

la Repubblica

Margaretha Breil, collaboratrice della Fonda-zione Eni Enrico Mattei e urbanista del CentroEuro Mediterraneo per i Cambiamenti Clima-tici, l’organismo incaricato dal ministero del-l’Ambiente di stilare la “Strategia nazionale diadattamento”: «Esistono soluzioni infrastrut-turali: bacini di laminazione, canali e fossati,dighe lungo corsi d’acqua, soluzioni per il si-stema di fognatura, ma anche soluzioni di co-uso, come per esempio piazze pubbliche e

L’Ipcc (IntergovernmentalPanel on Climate Change)ipotizza che la temperaturamedia globale di fine secoloaumenterà di1,7- 4,8 gradia seconda dei tagli di CO2

TEMPERATURA GLOBALE

Secondo gli scienziati,il livello globale degli oceanientro il 2100 salirà di 52-98o di 28-61 cm a secondadell’impegno nella riduzionedelle emissioni di CO2

INNALZAMENTO DEI MARI

Nelle zone equatorialie alle alte latitudinicresceranno i fenomeniestremi. le zone tropicali aride andranno incontroa precipitazioni sempre minori

FENOMENI ESTREMI VALORI SOGLIA ISOLE DI CALORE

GL

OSSA

RIO

Stando ai dati meteo analizzatidall’Ipcc dal 1950 la frequenzadelle ondate di calore(superamento di valori sogliadi temperatura) è aumentatain Europa, Asia e Australia

Cementificazione, smogcondizionamentoe riscaldamento determinanonelle città un microclimapiù caldo anche di 4 gradirispetto alle vicine zone rurali

parcheggi utilizzati come aree di raccolta». Ilpiù spettacolare progetto di trasformazioneurbana, osserva Piero Pelizzaro, responsabiledella cooperazione internazionale del KyotoClub, affronta proprio quest’ultimo aspetto edè stato lanciato a Rotterdam dove è in costru-zione la Benthemsquarein, una piazza postasotto il livello stradale: «Concepita come unanfiteatro — spiega — in condizioni normalipotrà essere vissuta come luogo pubblico, main caso di alluvione si trasformerà in un gigan-tesco bacino di raccolta per l’acqua in ecces-so». Una struttura avveniristica (potrà racco-gliere fino a 1,7 milioni di litri) e dal forte valo-

re simbolico, ma saranno anche una costella-zione di interventi più piccoli a segnare il futu-ro paesaggio cittadino, le sue forme, i suoi ma-teriali e persino i suoi colori che con ogni pro-babilità saranno sempre più il bianco, l’azzur-ro e il verde. «Insieme all’intensificarsi dei sin-goli eventi di precipitazioni — sottolinea an-cora Breil — le quantità di precipitazioni sonoattese in diminuzione e i periodi di siccità si al-lungheranno. Aumentare l’estensione di spa-zi verdi e la capacità di ritenzione idrica, comepure la capacità di ricaricare le falde acquiferecon l’infiltrazione di acque piovane nel suolo,può aiutare ad affrontare periodi di siccità».Verdi saranno poi anche i cosiddetti “corri-doi”, ovvero coperture arboree lungo le diret-trici principali per consentire in estate a pedo-ni e ciclisti di attraversare la città senza esporsial sole diretto. Quanto al bianco, sarà il coloredei tetti e delle velature. «I tendoni in prossi-mità delle fermate degli autobus o ai semaforiper offrire refrigerio ai passanti, in Cina sonogià una realtà — ricorda ancora Pelizzaro —mentre in molti centri americani sono statilanciati i White roofs project per imbiancare lesuperfici dei palazzi e aumentare l’effetto al-bedo, una misura, insieme alle coperture ve-getali, capace di contrastare l’effetto isola dicalore provocato dall’asfalto».

Sulle nostre città si addensano insommaminacce gravi, ma c’è ancora spazio per esse-re ottimisti. Molte delle misure di adattamen-to, a cominciare dal verde pubblico, in situa-zioni normali le renderanno più vivibili. Senzadimenticare che anche uno dei luoghi più bel-li del mondo, piazza Navona, d’estate venivaallagato per dare ai romani respiro dall’afa.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

TETTI BIANCHIVerniciare di bianco i tetti degli edificiamplifica l’effetto albedo, riducendo il fenomeno “isola di calore”. I tettidi colore nero assorbono la metàdei raggi solari da cui sono colpiti,quelli tinti di bianco solamente l’8%

BOSCHI URBANIPiù vegetazione in città significapiù fresco, più ritenzione idricae più ombra. Per questo,oltre ai parchi, si moltiplicheranno le vie di collegamento protette da una fitta alberatura

TETTI VERDIHanno una funzione simile ai tetti bianchi, riducendo anchedi 4 gradi la temperatura cittadina In caso di piogge violente,possono inoltre assorbirefino al 75% delle precipitazioni

ARGINI RINFORZATILe città attraversate dai fiumi, da Londra a New York, si stannopreparando a rinforzaregli argini e a realizzare speciali paratie per limitare gli straripamentiin occasione delle piogge violente

INFO

GR

AFI

CA

AN

NA

LIS

AVA

RLO

TTA

LA DOMENICA■ 40DOMENICA 16 FEBBRAIO 2014

la Repubblica

LICIA GRANELLO

ABU DHABI

«Bel Aafiya!», dicono in coro i camerieri in-torno al tavolo, apparecchiato, come sidice, con ogni ben di Dio. L’augurio dibuon appetito suona quasi superfluo,

perché poche cucine come quella del Golfo sanno essere altret-tanto buone e golose per tutti i palati. Questione di incroci geo-grafici e di luoghi dell’anima, che Abu Dhabi, capitale degli Emi-rati Arabi, ha imparato a miscelare molto prima dell’esplosioneaffaristica e modaiola della vicina Dubai, a un’ora e mezza dimacchina. Non a caso, questi sono i giorni del Gad (GourmetAbu Dhabi) arrivato alla sesta edizione forte di un parterre dechef di assoluto rispetto, fra interpreti moderni della storia ga-stronomica locale, eredi rigorosi della cultura alimentare no-made e talenti mattocchi pronti a declinare la tradizione secon-do i comandamenti della cucina molecolare. Del resto, la cifraculturale degli Emirati riesce originale e potente, se è vero chenei prossimi tre anni verranno inaugurati qui altrettanti capo-lavori architettonici legati ad altrettanti musei: lo Zayed Natio-nal Museum firmato da Norman Foster, il Louvre di Jean Nou-vel e il Guggenheim di Frank Gehry.

Una progettualità straordinaria, che bilancia adeguatamentela sequenza di grattacieli e centri commerciali, i campi da golf egli showroom, su su fino a quella Disneyland della Formula Unoche è il Ferrari World Abu Dhabi, parco tematico da settemila vi-sitatori al giorno, con le montagne russe (battezzate “FormulaRossa”) più lunghe e veloci del mondo. «Duecentoquaranta chi-lometri orari in dieci secondi e faccia appiattita come se mi aves-sero dato una padellata» raccontava un po’ stralunato MassimoBottura, presentando qualche sera fa la cena d’onore del “Gad”al ristorante Mezzaluna dell’Emirates Palace.

Dicono che la cucina degli Emirati sia metà araba — con tutte

le diversità e le influenze possibili — e metà indiana, per via del-le spezie che da sempre vengono commercializzate lungo la rot-ta del Golfo. Qui, il piacere di miscelare, stuzzicare, perfino spiaz-zare il palato è parte di un gioco antico, pieno di rimandi e cita-zioni, tra cereali rustici e salse finissime, ingredienti domati dauna manualità sapiente, tramandata senza distinzioni di gene-re, come ben testimonia l’abbondanza di uomini che sanno cu-cinare (al di là dei soliti starchef). Così, la versione Made in Emi-rates del curry — chiamata Bzar — è una miscela di cumino e co-riandolo, fieno greco e finocchio, curcuma e cannella (la Bzar Se-mach, specifica per le ricette di mare, annovera anche lo zenze-ro). Con questo pestato, si firmano i piatti principali, a base di car-ne e pesce, mentre i critici dell’Halal, la regola islamica dellamacellazione avversata dagli animalisti, trovano soddisfazionenel prosperoso coté vegetariano, profumato con acqua di rose ezafferano. Su carni e verdure regna sovrano il loumi, piccolo li-mone coltivato nelle oasi e disidratato al sole, perfetto per rega-lare una nota fresca e speziata.

Se l’inverno delle grandi piogge vi mette di malumore, rega-latevi qualche giorno ad Abu Dhabi, spiaggia di giorno e ma-glioncino di sera. Ma prima, leggete il libro della chef KhuloodAtiq, La cucina degli Emirati dal mare al deserto e visitate il sitowww.ask-ali.com. Dopo, nemmeno il latte di cammella avràpiù segreti per voi.

Se provareil gran Bzar

non è un errore

I saporiMediorientali

Sulla storica rotta delle spezie è ad Abu Dhabi che il gusto arabo

incontra quello indianoEcco come, all’ombra di grattacieli,

mall e showroom, l’antico piacere di miscelare si fonde con i nuovi aromi

EmiriCucinaLa

degli

© RIPRODUZIONE RISERVATA

ConnubioAnche alla base della cucinadegli Emirati, pollo e risobasmati da preparare in infinite varianti

Zucchero caramellatopoi acqua, ghee,zafferano e amido di palma sul fuocofinché trasparenteSopra, noccioline e cardamomo

Farina di riso e grano,con zucchero, acqua di rose, uova,lievito, zafferanoSi cuoce negli stampidelle tartellette in olio bollente

JUMEIRAH AT ETIHAD TOWERSWest CornicheTel. (+971) 2-8115888Camera doppia da 160 euro

BEACH ROTANA10th StreetTel. (+971) 2-6979000Camera doppia da 135 euro

EASTERN MANGROVESSheikh Zayed StreetTel. (+971) 2-6561000Camera doppia da 160 euro

Spaghettini di granotenero - noodles - cotti con zucchero,zafferano, cardamomo,poi aggiunti alle uovastrapazzate con ghee(burro chiarificato)

■ 41DOMENICA 16 FEBBRAIO 2014

la Repubblica

AL ARISHAl Mina PortTel. (+971) 2-6732266 Sempre aperto, menù da 38 euro

SHAKESPEARE & CO. CAFEDanet Abu DhabiTel. (+971) 2-4917673Sempre aperto, menù da 30 euro

ABDEL WAHABSouk Qaryat Al BeriTel. (+971) 2-5581616Sempre aperto, menù da 26 euro

HABIBA AL NABULSI SWEETSAl ManhalTel. (0971) 2-6669481

AL RAIQA DATES (datteri)Mina MarketTel. (0971) 02-6732520

THE SOUK - CENTRAL MARKETHamdan Street and Khalifa Street

MINA FISH MARKET (pesce)Al Mina

Gli

ind

iriz

zi

ILLU

STR

AZ

ION

E D

I CA

RLO

STA

NG

A

LA RICETTA

Salatat Maleh Wa Basal

Haleeb Bosh Bil Zaatar Batheetha

Khanfaroush

Lgeimat

Harees Soup Khamer Machbous Diyay Sagaw

Balaleet

Pesce sotto salebollito privato di pelle e lische, sbriciolato,mescolato con fettinedi cipolla bianca,pomodori a listarelle e limone

Bevuto crudo o bollito, con fienogreco e timo, il latte di cammella è tipico dei popolinomadi. Da servire con zucchero o miele

Grano ammollato,sciacquato e bollito Frullatura a piacere e aggiunta del manzolessato e del loumi(limone essiccato)bucherellato

Pane fermentato grazie ai datteri,impastato con tuorli,cardamomo, semi di finocchio e sesamo,servito con miele e formaggio

Tocchetti di pollo doratinel ghee con aglio,cipolla, loumi,coriandolo e cuminoPoi patate, riso,zafferano e acqua di rose. Cottura lenta

Frittelle a formaschiacciata (da logma,bocconcino) o sferiche(fgaa), entrambea base di farina,zucchero e polveredi cardamomo

DOVE DORMIRE DOVE MANGIARE DOVE COMPRARE

Perfetto cibo da viaggio, il crumblecrudo impastatocon datteri denocciolatifarina tostata bollente,ghee, semi di finocchioe cardamomo

Il sultano al mercato del pesceSulla strada

FRANCESCA CARUSO

ABU DHABIIl via vai inizia verso le tre del mattino,quando i vecchi dau di legno attraccanoalle banchine del porticciolo dopo aver pe-scato nel Golfo Persico. Il mercato del pe-sce è solo a qualche metro di distanza. Uncapannone bianco di qualche centinaia dimetri quadri, confinato all’estremo norddella Corniche, lontano dai grattacieli e daicentri commerciali. Si chiama “Mina FishMarket” ed è uno degli ultimi angoli di AbuDhabi dove le tradizioni non sono state so-praffatte dal cemento e dal petrolio. Lìdentro c’è ancora l’anima dei suk, dove ilcommercio e la contrattazione sono di ca-sa. «Madame madame!», se vedono un oc-cidentale è finita: non puoi resistere a queibanchetti e tornerai a casa con un chilo diun pesce mai mangiato in vita tua. Magarimezzo chilo di cubetti di squalo essiccati,con tanto di ventilatore, dietro uno dei

banchi del mercato. Gli altri clienti si bar-camenano molto meglio: la maggior partesono locali e indossano l’abito bianco tra-dizionale che, inspiegabilmente, soprav-vive intonso. Li trovi anche di venerdìmattina, il giorno di riposo dei musulma-ni, poco dopo l’alba, quando l’odore delpesce grigliato ha già invaso il parcheggioche pullula di Suv. In vendita non c’è il sal-mone norvegese dei supermercati, masolo pesce locale a basso costo, che hai vo-glia di fotografare più che mangiare: gam-beretti rossi dell’Oman, calamari da unchilo e mezzo, cernie rosso corallo macu-late, pesci pappagallo fosforescenti,granchi con le chele blu ancora sporchi disabbia, dentici, tonni e kingfisher. Anchei nomi dei pesci, rigorosamente arabi,non tradiscono la cultura del luogo. Co-me quello dato a delle piccole orate aran-cioni: Sultan Ibrahim.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Nato a Singapore ma cittadino del mondo,Benjamin Whatt serveuna squisita e originalecucina di fusione arabo-asiatica ai tavolidel ristorante Quest, al 63° piano dell'hotel Jumeirah at Etihad TowersQuesta la sua ricetta per i lettori di Repubblica

Linguine ai gamberi nel wok

Per la pasta di peperoncino150 g. di peperoncini piccanti100 g. di scalogno10 g. di zenzero fresco1 spicchio d'aglio 150 g. di olio di semi di vinacciolo5 g. di pasta di tamarindo5 foglie di lemongrass essiccate5 foglie lime essiccate25 g. di datterini10 g. di zucchero di canna200 g. di brodo di pollo o gamberi

Per la salsa di pomodoro200 g. di passata50 g.di salsa di prugne thai

30 g. di Verdicchio (Castelli di Jesi)120 g. di brodo di pollo o gamberi8 g. di salsa di soia

Per i fogli di gamberi400 g. di gamberoni sgusciatiun pizzico di sale

Per le linguine250 g. di linguine12 gamberoni1 spicchio d'aglio20 g. di zenzero fresco20 g. di cipolla bianca20 g. di cipollotto10 foglie di coriandolo4 uova

Preparare a parte la pasta di peperoncinofrullando insieme scalogno, peperoncini,zenzero, aglio olio, e cuocere a fuoco basso fino a quando l’olio si separa dalla parte solidaAggiungere la pasta di tamarindo, pomodori e foglie tritati, il brodo di pollo e lo zuccheroPreparare poi il sugo di pomodoro mescolando senza cuocere passata, salsa di prugne,vino, brodo di pollo o gamberi e soiaPreparare quindi i fogli di gamberi frullandoli e stendendo il composto tra due fogli di carta da forno fino allo spessore di 2 mm. Congelare per un’ora, tagliare in quadrati di 6 cm di lato e rimettere in freezer. Infine, spadellare le teste dei gamberi, schiacciarleaggiungendo 80 g. di salsa di pomodoro e 120 g. di pasta di peperoncinoBollire a due terzi di cottura le linguine, raffreddarle in acqua ghiacciata. Impanare i gamberi puliti e friggerli. Scaldare il wok velato d’olio, versare le uova sbattute, aglio,zenzero e cipolla tritati, poi le linguine e il succo delle teste dei gamberi, mescolando a fiamma viva. Aggiungere i gamberi, spegnere il fuoco e spargere cipollotto e coriandolo tritati. Servire su piatto piano le linguine con i gamberi, appoggiando sopra delicatamente su ognuno un foglio di pasta di gamberi appena sbollentato

Ingredienti

LA DOMENICA■ 42DOMENICA 16 FEBBRAIO 2014

la Repubblica

Studiava filosofia a Roma, girava l’Europa con lo zaino e faceva regate in barca a velaPoi il cancro si prese padre e madre e lui decise che avrebbe dedicato

la vita a combatterloOggi è il capo del Cancercenter della miticauniversità di Harvard “Il tumore non è un mostro alienoAbbiamo tutti

gli strumenti per sconfiggerloDobbiamo capire come usarli”

BOSTON

P rima partita di campiona-to. Lo stadio del baseball ègremito. Sul diamante i Bo-ston Red Sox, la squadra

della città. I giocatori, non proprio atle-tici come tipico del baseball, caracolla-no verso le postazioni. Manca il lancia-tore, la pedana a centrocampo rimanevuota. Un uomo in completo nero rag-giunge il monticello di terra, estrae lapalla dalla tasca, lancia, ed esce. Ova-zione dei quarantamila spettatori. Cin-que anni dopo, settembre scorso, il vol-to da romano del lanciatore in nero —occhi distanti, capelli ricci, mascellapronunciata, naso importante — sorri-de a tutta pagina dal Boston Globe, quo-tidiano americano tra i più prestigiosi.Così Harvard, la prima università delmondo, ha celebrato prima il recluta-mento e poi la nomina a direttore di PierPaolo Pandolfi. Nella pagina pagatacinquantamila dollari, poche parolesotto la foto: «Mio padre e mia madre sene sono andati troppo giovani per untumore. Curare il cancro, per me, è unaquestione personale».

Pier Paolo Pandolfi, nato a Roma cin-quant’anni fa, oggi ha una cattedra a vi-ta ad Harvard dove dirige il Cancer cen-ter. Vi lavorano cinquemila persone.Oltre a infermieri, tecnici e medici di va-rie specialità, ci sono cinquanta onco-logi a gestire 650 posti letto e 49mila vi-site ambulatoriali, 30mila terapie far-macologiche, 17.500 radioterapie e1500 asportazioni di tumore ogni anno.Le cause del cancro le insegue coordi-

nando 120 scienziati, leader di altret-tanti gruppi di ricerca, che assorbono icento milioni di dollari di fondi “vinti”ogni anno con dure selezioni. È il triplodell’ultimo stanziamento italiano aiPrin, i Progetti di Ricerca di InteresseNazionale in tutte le aree scientifiche.

Harvard telefonò a Pandolfi nel 2006,in agosto, mentre era a Manhattan a di-rigere la ricerca genetica del MemorialSloan Kettering Cancer center, uno deitempli mondiali della cura dei tumori,dove hanno lavorato e lavorano moltipremi Nobel. E la precedente offerta daNew York era invece arrivata alcuni an-ni prima mentre Pandolfi si trovava aLondra, fresco di studi e scoperte fattein Italia, ancora studente di dottorato. Ilcambiamento è la costante della vita diPP, come lo chiamano gli amici.

A ventidue anni, dopo aver divoratoclassici della letteratura dal Cinque-cento in poi, frequenta Filosofia a Ro-ma. «Lezioni ed esami indimenticabilicon Tullio De Mauro, Lucio Colletti,Gennaro Sasso — racconta Pandolfioggi, nel piccolo ufficio del grattacielocristallo e acciaio, con un intero pianopopolato da centotrentamila topi eun’entrata da luxury hotel — che mihanno fatto incontrare Kant, Wittgen-stein, Hegel, Marx e altri giganti della fi-losofia che hanno formato il mio mododi pensare». Nel frattempo studia pia-noforte, chitarra e composizione, giral’Europa zaino in spalla per sentireMahler e Brahms diretti da Von Ka-rajan, la musica contemporanea, Sting,Pink Floyd e Prince. E va a vela così be-ne che la Federazione italiana gli forni-sce una barca per fare le regate. Ma ilcancro si porta via la madre, poi il padre.E filosofia, musica e vela passano in se-condo piano. La musica riappare sem-pre, anche quando lavora. La barca avela è la protagonista delle vacanze esti-ve in Italia, Grecia e Turchia, di quelleinvernali ai Caraibi, con moglie, due fi-glie adolescenti e pochi amici stretti. Ela formazione filosofica riemergequando parla del cancro.

«Non è un mostro alieno, è vita fuoricontrollo dentro vita normale — spiegaPandolfi mentre scendiamo nei sotter-ranei del grattacielo — Fare la guerra alcancro è impossibile, nella maggiorparte dei casi non si riesce a distrugger-lo senza uccidere anche chi lo ha. Inve-ce si può rimettere in riga quella vitasenza regole. Ma per fare ciò non deveavere più segreti. Dobbiamo svelaretutti i passaggi che portano le cellule a

moltiplicarsi senza sosta. E a romperegli “ormeggi”, invadendo il corpo. Sco-perto tutto questo possiamo “aggiusta-re” il cancro. Gli strumenti ci sono, ciserve solo sapere dove usarli».

Così PP ha reso una forma di leuce-mia (promielocita acuta) la prima eunica neoplasia guaribile al cento percento solo con i farmaci. «Il merito è lo-ro» racconta mostrando i topolini nel-la sala d’aspetto del centro diagnosticodel mouse-hospital che ha inventato.Dall’altra parte del vetro Tac, Risonan-za magnetica, ecografo, tutto è mini,progettato e costruito a misura di topo.I topolini in attesa degli esami hannogeni umani, prelevati nei piani supe-riori ai malati, che sono, o potrebberoessere, la causa del loro tumore. Nei to-pi il male è velocissimo, viaggia in pro-porzione alla sua vita media di due an-ni. In pochi mesi diventa grave e in po-che settimane svela se e quanto un far-maco agisce. Nell’uomo invece passa-no almeno cinque anni prima che ap-paiano i sintomi e dieci, se va bene, per

valutare un nuovo trattamento. Velocissima invece la messa a punto

della cura per la leucemia promielociti-ca acuta. Il primo gene responsabile —allora sembrava l’unico — si scopre nel’99 a Perugia, nel laboratorio di PierGiuseppe Pellicci dove Pandolfi lavorada studente. In base alle funzioni del ge-ne individuate nei topi, si selezionanoalcuni farmaci già in uso per altre pato-logie che potrebbero anche “aggiusta-re” il gene umano malato. Date al topo,ecco quelle che cancellano il cancro ne-gli animali e poi nei pazienti. Ma nelquaranta per cento dei malati, dopo unpo’, ritorna. Analizzando i nuovi tumo-ri, si sospettano alcuni geni. L’impian-to nei topi svela in pochi mesi quello tu-morale e poi il farmaco già in commer-cio che lo “aggiusta”. Ma in qualche ma-lato la leucemia riappare ancora. Dinuovo scendono in campo i topi e si ar-riva a cocktail di farmaci a misura diogni malato. Il tutto a soli sei anni dallascoperta di Perugia. E quella staffettatopo-uomo è diventata questo palazzodi cristallo e acciaio, e una strategia di ri-cerca che si sta diffondendo nel mondo.

«Ma la sfida sta diventando molto piùcomplessa», aggiunge PP mentre ci“scafandriamo” per salire all’ultimopiano, degenza e camere operatorie pertopi. «Sono loro i miei pazienti, mai avu-to in cura esseri umani». Ora si scopreche non basta “aggiustare” i geni colpi-ti da mutazioni, quelli “vecchi” con leistruzioni per fare proteine che sino adieci anni fa si pensava fossero cento-mila e occupassero tutto il genoma. Og-gi si sa che sono circa ventiduemila nel-l’uomo (pochi meno nel topo) e occu-pano appena il tre per cento della lungamolecola di Dna umano. E tutto il restoche ci sta a fare? «Qualcosa di molto im-portante — risponde Pandolfi — per-ché ce lo portiamo di generazione in ge-nerazione, senza buttarlo via come im-pongono le leggi dell’evoluzione conciò che diventa inutile. Anzi, questo no-vantasette per cento di Dna “oscuro” èfrutto proprio dell’evoluzione perchécresce dai batteri all’uomo, dove rag-giunge la lunghezza massima. Dentroci stiamo trovando raffinatissimi siste-mi di regolazione dei “vecchi” geni che,l’abbiamo dimostrato lo scorso anno,possono scombinare proprio quelli checontrollano la moltiplicazione dellacellula. Sono migliaia di sequenze ge-netiche che usano un linguaggio sco-nosciuto. Diverse per ogni malato. Mauna volta individuate le loro sequenze,

la cura è pronta: coi sintetizzatori gene-tici possiamo fare in pochi minuti le se-quenze anti-senso che li inattivano».

Neanche un mese fa su Cell, la “bib-bia” della cellula, la scoperta che chiu-de il cerchio «almeno per ora»: anche ilterzo degli “ingranaggi” su cui poggia lamoltiplicazione delle cellule è coinvol-to nel cancro. Dopo i geni con le infor-mazioni per fare le proteine, e il Dna“oscuro” che li regola, c’è chi, material-mente, le proteine le fa. Un mero ese-cutore, si pensava. «Ma la natura non haparti nobili e umili, non rispetta gerar-chie, che sono solo nella nostra testa,ogni sua parte è indispensabile alla vita.E se non funziona può indurre malat-tia». E così, analizzando i nove tipi dicancro più frequenti (prostata, polmo-ne, ovaio, seno, utero, stomaco, fegatoe testa-collo) Pandolfi ha scoperto che,in genere, l’alterazione dell’esecutore(ribosoma il suo nome scientifico) si ac-compagna alle mutazioni genetiche ti-piche del tumore. Ma in alcuni casi,quelli dei tumori più resistenti alle cure,c’è solo l’alterazione del ribosoma. E lascoperta apre la strada a un terzo fron-te di ricerca farmacologico.

«Come andò quel lancio allo stadiodel baseball? — ripete la domanda Pan-dolfi mentre attraversiamo il giardinointerno verso la mensa — Mi ero prepa-rato, fare una figuraccia davanti a qua-rantamila tifosi non è piacevole, ma ov-viamente il battitore avversario sparò lapalla fuori campo senza pietà». Non im-porta. Quell’anno i Red Sox vinsero co-munque il campionato e, si sa, i tifosi so-no scaramantici: da allora PP è uno cheporta bene.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

L’incontroGuerrieri

FOTO

AN

SA

Wittgenstein,Kant, Hegel e Karl Marxsono i miei veri maestriE che belle le lezioni di De Mauro e Lucio Colletti

Pier PaoloPandolfi

ARNALDO D’AMICO

‘‘

‘‘