Raccontata da Stefano Elio D’anna Estratto Capitolo 1 … · e a poco a poco un silenzio freddo...

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Raccontata da Stefano Elio D’anna Estratto Capitolo 1 – L’INCONTRO CON IL DREAMER

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Raccontata da Stefano Elio D’anna

EstrattoCapitolo 1 – L’INCONTRO CON IL DREAMER

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Questo Libro

Questo libro è una mappa, un piano di fuga.Il suo scopo è mostrarvi il percorso che un uomo comune ha seguito per sfuggire al

racconto ipnotico del mondo, alla descrizione lamentosa ed accusatoria dell’esistenza,per deragliare dai solchi di un destino già tracciato.

Questo libro non sarebbe mai esistito, né avrei potuto scriverne un solo rigo, senon avessi incontrato il Dreamer e il Suo insegnamento.

Al Dreamer va la mia infinita gratitudine per avermi accompagnato per manonel mondo del ‘sogno’, nel mondo del coraggio e dell’impeccabilità, dove il tempo e lamorte non esistono e dove la ricchezza non conosce ‘ladri né ruggine’.

In questo viaggio di ritorno all’essenza ho dovuto abbandonare tanta zavorra:pensieri mediocri, emozioni negative, convinzioni ed idee di seconda mano. Ho dovuto‘vincere me stesso’, riconoscere ed affrontare la parte più oscura di me.

Tutto ciò che vediamo, tocchiamo e sentiamo, la realtà in tutta la sua varietà,non è altro che la proiezione di un universo invisibile che esiste al di sopra del nostromondo e ne è la vera causa.

Difficilmente siamo consapevoli di essere circondati dall’invisibilità, di vivere inun mondo prodotto dal ‘sogno’, che tutto ciò che conta ed è reale in un uomo èinvisibile.

Tutti i nostri pensieri, sentimenti, fantasie, immaginazioni, sono invisibili. Lenostre speranze, ambizioni, segreti, paure, dubbi, perplessità, incertezze, e tutte lenostre sensazioni, attrazioni, desideri, avversioni, amori ed odi, appartengono alsottile, impalpabile, ma reale mondo dell’essere.

L’invisibile non é qualcosa di metafisico, di poetico o mitico, e neanche dimisterioso, segreto o soprannaturale; non é una porzione stabile del mondo deifenomeni e degli eventi, delle categorie del reale. In ogni epoca il cambiamento delmomento storico, del clima intellettuale, l’uso di strumenti più sofisticati, nemodificano continuamente i confini facendo rientrare porzioni sempre più vastedell’invisibile di ieri tra i legittimi soggetti della ricerca scientifica di oggi.

Questo libro è la storia della ‘rinascita’ di un uomo comune, epitome di unaumanità decaduta, sconfitta. Il suo viaggio di ritorno all’essenza è un nuovo esodoalla ricerca dell’integrità perduta.

La prima condizione per intraprendere questo viaggio è la consapevolezza delproprio stato di schiavitù.

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La radice, la causa prima di tutti i problemi del mondo, dalla povertà endemicadi intere regioni del pianeta alla criminalità ed alle guerre, è che l'umanità pensa esente negativamente.

Le emozioni negative governano il mondo che conosciamo. Esse sono irreali eppureoccupano ogni angolo della nostra vita. Per cambiare il destino dell'uomo bisognacambiarne la psicologia, il suo sistema di convinzioni e di credenze. Bisogna estirparedal profondo la tirannia di una mentalità conflittuale, fragile, mortale. La malattia piùtemibile del pianeta non è il cancro né l'Aids, ma il pensiero conflittuale dell’uomo. E’questo l’architrave su cui poggia la visione ordinaria del mondo, il vero killerplanetario.

La direzione indicata dal Dreamer è terribile e meravigliosa, sofferta e gioiosa,assurda e necessaria come il corso di un salmone che risale il fiume controcorrente.

La Sua filosofia mi apparve inizialmente come una trasgressione alle legginaturali cui è soggetta l'intera umanità; essa è invece prevista e voluta dall'ordineuniversale delle cose e ne è la visione più alta.

Il libro è il racconto degli anni di studio e di preparazione vissuti accanto a un‘essere straordinario’, da Lui ho ricevuto in dono il più incredibile dei compiti: lacreazione di una ‘Scuola’ planetaria, un’Università senza frontiere.

Ho sognato una Rivoluzione Individualecapace di capovolgere i paradigmi mentali della vecchia umanità

e liberarla per sempre dalla sua conflittualità,dal dubbio, dalla paura, dal dolore.

Ho sognato una Scuola che educhiuna nuova generazione di leader

ad armonizzare gli apparenti antagonismi di sempre:economia ed etica, azione e contemplazione,

potere finanziario e amore.

Crescendo e mutando sotto i miei occhi, come un essere in gestazione, giornodopo giorno, ‘La Scuola degli Dei’ si costruiva, ed io mi costruivo. Apparentemente eroio a scriverlo, in realtà il libro era già scritto da sempre.

Le leggi del Dreamer, le Sue idee, stanno ancora scavandomi dentro e tuttora,per la maggior parte, esse restano incomprese.

Come Prometeo, ho carpito una scintilla dal mondo del Dreamer e l’ho tenutastretta per poterla un giorno donare a uomini e donne che, come me, vorrannoabbandonare i gironi infernali dell’ordinarietà.

Una volta credevo che scrivere, e soprattutto insegnare, fosse il vero dare. Oraso che insegnare è solo uno stratagemma per conoscersi, per scoprire la propriaincompletezza e guarirla.

“Si può insegnare solo se non si sa - dice il Dreamer – Chi realmente sa noninsegna!

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Quello che abbiamo ‘compreso’, ciò che ‘realmente’ possediamo, non si puòtrasferire.

La felicità, la ricchezza, la conoscenza, la volontà, l’amore non possono essereacquisiti dall’esterno, non possono essere ‘dati’ ma soltanto... ‘ricor-dati’. Sonobeni inalienabili dell’essere, e per questo, patrimonio naturale di ogni uomo.

Nessuna politica, religione o sistema filosofico può trasformare la societàdall’esterno. Solo una rivoluzione individuale, una rinascita psicologica, unaguarigione dell’essere, uomo per uomo, cellula per cellula, potrà condurci verso unbenessere planetario, verso una civiltà più intelligente, più vera, più felice”.

Nel raccontare quanto ho appreso accanto al Dreamer ho evitato intenzionalmentedi includere episodi, avvenimenti e rivelazioni che potevano eccedere la capacità diaccettazione del lettore, riferendo solo quelli che, benché ‘rivoluzionari’, mi sonosembrati puntuali con lo stato attuale dell’umanità.

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CAPITOLO I

L’incontrocon il Dreamer

1 L’incontro con il Dreamer

A quel tempo vivevo a New York in un appartamento di Roosevelt Island, lapiccola isola nel mezzo dell’East River, tra Manahattan e Queens. L’isolotto, come unanave all’ancora, sembrava sul punto di sciogliere gli ormeggi per scivolare con lacorrente verso la libertà dell’oceano; ma giorno dopo giorno restava immobilenell’oscurità ondosa del fiume. Entrai in camera per dare la buonanotte ai bambini,ma già dormivano. In punta di piedi ritornai nel soggiorno. Il silenzio della notte mifasciava e mi nascondeva. Un senso di estraneità vicino alla repulsione mi facevasentire un ladro penetrato nella vita di uno sconosciuto. Restai ad osservare il profilopunteggiato di luci del Queensborough Bridge. Il ponte sembrava sospeso sul vuotoimmenso dei suoi atomi di metallo. Era freddo, incombente come una minaccia.

Jennifer si era da poco ritirata in camera, nello stile americano che conclude unlitigio. Ero tornato tardi quella sera.

Ero stato al J.F. Kennedy a prendere un amico che non vedevo da tempo.Dall’incontro ricavai l’impressione che la sua vita fosse più agiata, più felice della mia.Sentimenti di invidia, di gelosia e una rivalità cieca, rigurgiti di un passato nonrisolto, scattarono insieme ad una loquacità meccanica, ad un impulso a parlare senzafreno. In macchina, una bugia dietro l’altra, venne fuori una storia romanzata deimiei anni a New York. Gli raccontai dell’impossibilità di partecipare a tutti i party cuiero invitato, dei vernissage, delle prime teatrali, dei miei successi professionali, deimiei hobbies, e soprattutto di quanto ero felice con Jennifer. Le parole mi arrivavanoin gola morte, un pianto mi montava dentro. La nausea per quel fiume di insinceritàche scorreva denso, inarrestabile, il senso di impotenza a governare quella sequela dimenzogne, divennero insopportabili. Avrei ‘voluto’ interrompere quell’assurdaesibizione; ma più tentavo di arrestare quel disastro e più sentivo l’impossibilità disepararmi da quell’essere meccanico, dall’uomo che ero; più sentivo ripugnanza per leparole che pronunciavo e più realizzavo l’impossibilità di porvi rimedio.

Eravamo in due nello stesso corpo. Il pensiero di essere intrappolato in una entitàbifronte, siamese, centauro, androgino, prigioniero per sempre di una simbiosigrottesca e feroce, mi atterrì.

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L’aria si oscurò. Mi accorsi di aver sbagliato strada. Ci stavamo addentrando in unlabirinto desolato di vie male illuminate e sempre più sporche. Le parole si smorzaronoe a poco a poco un silenzio freddo si impossessò dell’auto. Procedevo ormai a passod’uomo sotto scrosci di pioggia torrenziale, quando notai i fari di una macchinatallonarci ed intravidi alcune ombre fare capolino dai pilastri di una soprelevata. Mivoltai a guardare il mio amico e raggelai. Tremava senza controllo, la sua faccia erauna maschera di paura. Accelerai. I battiti del cuore si erano fatti così forti dasquassarmi il petto. Svoltai d’istinto nella prima strada che trovai. Con una bruscasterzata evitai un gruppo di vagabondi stretti intorno ad un bidone in fiamme. Leombre dei palazzi erano fauci mostruose, la gorgia di un inferno che ci stavafagocitando.

Un suono di sirene spiegate lacerò l’aria e urtò quell’atmosfera angosciosaspezzandola. Nel retrovisore, da cui lanciavo di continuo occhiate disperate sullamacchina che ci inseguiva, vidi i fari allontanarsi fino a sparire, ingoiati dal buio.Riconobbi i segni di un quartiere più umano ed alcuni cartelli indicatori che finalmenteci riportarono a casa.

Non rividi mai più quel vecchio amico.Feci il breve tratto in ascensore in compagnia di un gigante nero, un idiota che con

il suo farfugliare mi accompagnò fino al sedicesimo piano. Roosevelt Island era a queltempo un esperimento di integrazione e non era raro l’incontro con portatori dihandicap che risiedevano sull’isola con i loro accompagnatori.

L’accoglienza che mi riservò Jennifer, i suoi capelli arricciati nei bigodiniondeggianti come serpi di medusa, la sigaretta tra le dita mentre sbraitava e misuravaa passi nervosi il soggiorno, furono gli ultimi suoi riflessi nello specchio della mia vita.Sentii la vacuità della nostra relazione e tutta la dolorosità della mia esistenza, comese il lento anestetico che mi aveva intorpidito per anni stesse d’improvviso cessando ilsuo effetto. Quell’appartamento, il rapporto con quella donna e qualunque oggetto sucui ora poggiavo lo sguardo mostravano una mediocrità insanabile. Quelle scelte checredevo espressioni della mia personalità si stavano rivelando trappole senza vied’uscita.

Non era così che avevo sognato la mia vita! Avvertii la mia impotenza conripugnanza. Una disperazione muta mi travolse. Un fiume gelido e denso abbatté ogniargine, ogni bugia, ogni compromesso e mi gettò come un naufrago su una spondadesolata dell’essere. Reclinai la fronte sulle braccia. Poi la tristezza si fece sonno.

L’interno della villa era immerso in un buio profondo appena stemperato da unpresagio d’alba. Un’antica tela occupava la parete di fondo della grande sala. Allafioca luce disponibile vi indovinai uno scenario silvestre con al centro una figurasognante. Come il dipinto, ogni dettaglio di quell’ambiente, dall’architettura agliarredi, trasmetteva un intenso messaggio di bellezza. Trovarmi in quella villa, aquell’ora incerta tra la notte e l’alba, era molto strano, eppure non sembravo sorpreso.Tutto mi appariva familiare, anche se ero certo di non esserci mai stato prima.

La villa restava silenziosa, come assorta in un pensiero. Salii le antiche scale dipietra fino alla massiccia porta di una camera. Osservai che ero accuratamentevestito, come se dovessi incontrare un’autorità sconosciuta. Non ricordo cosa agitasseil mio animo, ma ero ansioso e di cattivo umore. Una ridda di sentimenti alimentava

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il mio monologo interno come sterpi in una fornace. Mi slacciai le scarpe e le deposisulla soglia. Anche questa operazione mi sembrò naturale. Per certo, quei movimenti,noti e necessari, erano parte di un rituale eseguito già altre volte. Mi sembrava perfinodi sapere che cosa mi attendesse oltre quella porta, senza però averne la minima idea.Nel bussare avvertii un’improvvisa inquietudine che sostituì d’un colpo il flusso deimiei pensieri; una specie di timore riverente. Qualcosa dentro di me sapeva. Senzaattendere risposta ai miei leggeri colpi, poggiai il mio peso sulla maniglia di ferrobattuto e spinsi abbastanza da creare un varco.

Diedi un’occhiata al camino. Il bagliore della fiamma mi fece male agli occhi, tantoche dovetti distogliere lo sguardo e chiudere le palpebre per non lacrimare. ‘Lui’ eraaccanto al fuoco. Mi volgeva le spalle. Vidi proiettata sulla parete l’ombra della Suasagoma. La stanza, che il fuoco remoto lasciava in penombra, era per due latipercorsa da archi imponenti che incorniciavano finestre antiche, occhiaie di pietraaperte sul buio. Attraverso quelle a est vedevo una porzione di cielo intenerirsi deicolori dell’alba.

Stavo avanzando cautamente di qualche passo sul bianco lago del pavimento,quando la Sua voce risuonò alta e terribile raggelando ogni mio movimento epensiero.

”Sei in condizioni disastrose! - disse, senza voltarsi – Lo sento da come entri, daituoi passi e soprattutto dal tanfo delle tue emozioni.

Sei una moltitudine, una folla di pensieri. Dove vai in questo stato? Ridotto inmille pezzi come sei, a stento riesci a vivere la tua esistenza da impiegato“.

“Io non sono un impiegato” rintuzzai con forza, come a difendermi da un attaccofisico, improvviso. Chiunque egli fosse, era opportuno stabilire subito le giuste distanzetra noi. Ma l’impeto delle mie parole si spense contro pareti di ovatta. Assalito da untimore sconosciuto, trovai a stento la voce per ribattere: “Io sono un manager!”.

Il silenzio che seguì si allargò nell’essere a dismisura; una risata beffarda miecheggiò dentro per un tempo infinito. Rimasi dolorosamente sospeso, incerto su qualeparte di me fosse beffata e quale la beffasse. Poi da quell’eternità la voce emerse dinuovo.

“Come ti permetti di dire ‘io’? - disse con un tono sprezzante che mi colpì comeuno schiaffo in piena faccia - Nel mio mondo pronunciare ‘io’ è una bestemmia.

‘Io’ è la divisione che ti porti dentro... ‘io’ è la tua folla di bugie... Ogni volta cheaffermi uno dei tuoi ‘piccoli io’ stai mentendo.

‘Io’ può dirlo solo chi conosce se stesso, chi è padrone della propria vita... chipossiede una volontà”.

Ci fu una pausa. Quando riprese a parlare le Sue parole suonarono ancora piùminacciose. “Non pronunciare mai più ‘io’ o qui non potrai più tornare!

Osservati… Scopri chi sei!To be a multitude means to be trapped in an unreal, inescapable, self-created

system of false beliefs and lies.Lack of unity leaves man in the prison of ignorance, fear and self-destruction, and

causes illness, degradation, violence, cruelty and wars in the outer world.Il mondo è come tu lo sogni… é uno specchio. Fuori trovi il tuo mondo, il mondo

che hai costruito, che hai sognato.Fuori trovi te! Vai a vedere chi sei.

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Scoprirai che gli altri sono l’immagine riflessa della bugia che ti porti dentro, delcompromesso, della tua ignoranza… Cambia!… e il mondo cambierà.

Crei un mondo malato e poi hai paura della tua stessa creatura, della violenza chetu stesso hai generato. Credi che il mondo sia oggettivo… ma il mondo è come tu losogni. Vai nel mondo e accettali… Incontra i poveri, i violenti, i lebbrosi che ti portidentro. Accettali... Non evitarli, non accusarli… Arrenditi al tuo mondo. Vai e accettaconsapevolmente quello che hai creato: un mondo rigido, ignorante… senza vita.

Il potere di un uomo è nel possedere se stesso e nello stesso tempo, arrendersi a sestesso”.

Bruscamente, la voce assunse il tono ruvido di un ordine:“In Mia presenza… carta e penna! – comandò – Non lo dimenticare mai!”.Il tono perentorio, quell’improvviso cambiamento di soggetto, mi sconcertarono.

Poi lo sconcerto si trasformò rapidamente in paura e questa in panico.Mi sentii sovrastato da una minaccia mortale. Ogni senso era teso allo spasimo

quando sentii la Sua voce diventare un sibilo potente: “Questa volta dovrai scrivere.Carta e penna saranno la tua sola salvezza – disse - Scrivere le Mie parole è il solomodo che hai per non dimenticare… Scrivi! Solo così potrai racimolare i brandellisparsi della tua esistenza”.

Poi, come se non si fosse mai interrotto, si riallacciò alla mia ultima affermazionee rimbeccò: “Un manager è un impiegato che si sforza di credere in quello che fa; siimpone una fede… è il sacerdote di un culto che, per quanto mediocre, gli dàun’appartenenza, l’illusione di avere una direzione.

Ma tu non hai neppure questo! Pensieri, sensazioni e desideri in assenza dellavolontà sono schegge impazzite nell’essere e tu, un frammento in balia nell’universo...”.

Quelle parole mi si rovesciarono addosso come una doccia fredda ed improvvisa chemi lasciò boccheggiante. La temperatura sembrò abbassarsi di parecchi gradi e misentii gelare. Uno sconfinato imbarazzo, come non lo avevo ancora provato in tuttala vita, mi pervase con crudele lentezza. Sussultai sentendo la Sua voce parlarmiall’orecchio, così incredibilmente vicina da poterne sentire il respiro. Il tono era unsussurro rauco, senza dolcezza.

“Nelle tribù indiane d’America c’era una casta degli ultimi: uomini che non eranoné sciamani né guerrieri; non cacciavano, non competevano né per il rango né per ledonne… Erano adibiti ai lavori più umili e gravosi. Erano quelli che indietreggiavanodavanti alle prove di coraggio, di incorruttibilità”.

Qui si fermò. Poi, rapido, lanciò la sua stoccata. Ero paralizzato e non potei farenulla per pararla o fermarla. “In qualunque tribù, primitiva o moderna – sussurrò conferocia – tu saresti messo lì, a quel punto della scala...”.

Il colpo mi raggiunse in pieno petto. Esplosi di vergogna. Adesso non volevoneppure più che smettesse. Volevo soltanto fuggire; trovare la forza di girare le spalle,semplicemente, e sparire. Se solo uno squillo di telefono o il suono di una sveglia miavesse tirato fuori di lì. Ma non potevo muovere un muscolo né fare un movimento.Una legge implacabile, lì, nel mondo del Dreamer, non consentiva un solo gesto néun sospiro che non avesse dignità.

“Lo so, vorresti uscire dal ‘sogno’ – incalzò – Ma Io sono la realtà. La tua vita, ilmondo in cui credi di poter scegliere e decidere, sono irreali... sono un orribile incubo.Sposarti, avere figli, far carriera, avere una casa, essere stimato e riconosciuto dagli

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altri... e tutto quello in cui hai creduto, sono feticci senza senso che hai idolatrato emesso avanti a tutto.

Solo il ‘sogno’ è reale – affermò – Il ‘sogno’ è la cosa più reale che ci sia. Impara amuoverti nel mondo del reale. Qui le tue abitudini e convinzioni, i tuoi vecchi codicinon hanno più valore... Quella che tu chiami realtà è solo apparenza, va totalmentecapovolta e non c’è nulla del vecchio che puoi portarti dietro... Dovrai imparare unnuovo modo di pensare, di respirare, di agire e di amare...

Hai vissuto un’esistenza senza scopo... dolorosa. Nascosto dietro un impiego, dietrola protezione illusoria di uno stipendio, stai perpetuando la povertà, la sofferenza delmondo – diagnosticò con voce dolce e severa, come alla constatazione di un dannograve – La vita è troppo preziosa per dipendere ed è troppo ricca per perdere! È ora dicambiare!”.

Una pausa moltiplicò la forza delle parole che seguirono. “E’ tempo di abbandonarela tua visione conflittuale del mondo. E’ tempo di morire a tutto ciò che non ha vita.E’ tempo di una rinascita. E’ tempo di un nuovo esodo, di una nuova libertà. E’ la piùgrande avventura che un uomo possa immaginare: la riconquista della propriaintegrità”.

Gli occhi si erano quasi abituati a quella penombra quando l’aurora cominciò adissipare il buio della notte. Un raggio di sole colpì la grande trave di mogano su cuipoggiava la cappa di pietra. Incise e dipinte in oro, a grandi lettere gotiche, apparverole parole: Visibilia ex Invisibilibus.

2 Il lavoro è schiavitù

“Chi sei?” ebbi appena la forza di chiedere.“Io sono il Dreamer - disse – Io sono il sognatore e tu il sognato. Sei arrivato a

Me per un attimo di sincerità”.Il silenzio che seguì allargò i suoi cerchi all’infinito. La Sua voce divenne un fruscìo.“Io sono la libertà! – annunciò – Dopo avermi incontrato non potrai più vivere

un’esistenza così insignificante”. Le parole che seguirono sarebbero rimaste per sempreincise nella memoria. “Dipendere è sempre una scelta personale, anche se involontaria.Niente e nessuno può costringerti a dipendere, solo tu puoi farlo”.

Fissandomi di proposito, affermò che l’attitudine ad accusare il mondo e alamentarsi erano la prova più certa della incomprensione di questi principi. Un uomonon dipende da un’impresa, non è limitato da una gerarchia o da un boss, ma dallasua paura. La dipendenza è paura.

“Dipendere non è l’effetto di un contratto, non è legato a un ruolo né nascedall’appartenenza ad una classe sociale… Dipendere è la conseguenza di unabbassamento della propria dignità. E’ il risultato di uno spappolamento dell’essere.

Questa condizione interna, questa degradazione, nel mondo prende la forma di unimpiego, assume l’aspetto di un ruolo subordinato. Dipendere é l’effetto di una menteresa schiava da timori immaginari, dalla propria paura… La dipendenza è l’effettovisibile della capitolazione del ‘sogno’ ”.

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Questa conclusione, il modo in cui aveva pronunciato ogni volta la parola‘dipendere’, la lenta scansione delle sillabe, stavano rivelandone il vero significatonascosto dalla banalità dell’uso comune.

“La dipendenza è una malattia dell’essere!… Nasce dalla propria incompletezza –denunciò il Dreamer – Dipendere significa smettere di credere in se stesso. Dipenderesignifica smettere di sognare”.

Più rimuginavo quelle Sue parole e più le sentivo scavarmi dentro. Il miorisentimento si acuì fino a diventare collera. Quel Suo modo di tranciare giudizi suuna categoria così vasta di persone era intollerabile. Cos’aveva a che fare la vita, illavoro di un uomo, con i suoi sentimenti o con le sue paure? Per me questi duemondi, interno ed esterno, erano sempre stati separati e tali dovevano restare.Credevo fermamente che si potesse dipendere fuori ed essere liberi dentro. Questacertezza alimentava la mia indignazione.

“Come milioni di uomini, hai vissuto tutta la tua vita nascosto tra le pieghe diorganizzazioni senza vita - mi accusò - Hai barattato la tua libertà per un pugno dicertezze illusorie.

È tempo di uscire dal tuo sonno ipnotico… dalla tua visione infernaledell’esistenza!”.

Nessuno mai mi aveva trattato così.“Chi ti dà l’autorità di parlarmi in questo modo?” – sbottai in tono di sfida.“Tu”.Quella risposta, inaspettata, mi recluse in uno stato di impotenza. Provavo uno

schiacciante senso di colpa. Avrei voluto nascondermi. Un’inspiegabile sensazione divergogna mi faceva sentire nudo di fronte a quell’essere che ancora non aveva unvolto. Sentii l’impulso di fuggire. Con le ultime forze tentai di recuperare quellasituazione che mi stava catapultando fuori dai confini del mondo.

“Ma come potrebbero le organizzazioni funzionare senza dipendenti?” dissi conpacatezza nel tentativo di ricondurre quel dialogo nei termini della coerenza e dellaragione. Il Dreamer taceva. Incoraggiato dal Suo silenzio che scambiai per perplessità,o incapacità a rispondermi, incalzai: “Se non ci fossero loro... si fermerebbe ilmondo…”.

“Al contrario! – ribatté seccamente – Il mondo è fermo perché esistono uomini chedipendono, uomini spaventati a morte. L’umanità così com’è non può concepire unasocietà libera dalla dipendenza”. Accorgendosi che ero al limite delle mie capacità dicomprensione era stato raggiunto e superato, alleggerì il tono che diventò quasiincoraggiante.

“Non temere! – disse con sarcastica sollecitudine – Finché ci saranno uomini comete il mondo della dipendenza ci sarà sempre e continuerà ad essere densamenteabitato”.

La pausa che seguì raggelò l’aria tra noi. Il Suo tono da leggero ed ironico diventòduro come l’acciaio.

“Tu!… non potrai più farne parte… perché hai incontrato Me!”.Sentii un bisturi di luce perforare dolorosamente strati calcificati di pensieri e

ciarpame emozionale.“La dipendenza è la negazione del sogno – continuò – La dipendenza è la maschera

che gli uomini indossano per nascondere l’assenza di libertà, la rinuncia alla vita”.

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Quella parola, ‘dipendente’, l’avevo ascoltata e pronunciata tante volte, ma solo daquel primo incontro con il Dreamer ne realizzai tutta la dolorosità. La condizioneimpiegatizia si rivelava una moderna trasposizione dell’antica schiavitù. Uno stato diimmaturità interiore, di soggezione. Attraverso uno squarcio nella coscienza, vidimasse umane condannate al destino di Sisifo, incatenate alla ripetitività senza fine diun lavoro-fatica, di un lavoro non scelto, di un lavoro senza creatività.

In un flashback, rividi la facciata dell’edificio della Rusconi a Milano, in VialeSarca, con l’insegna ‘Ingresso Dipendenti’ torreggiante sulla lunga teoria di varchiriservati agli impiegati. Attraverso quelle strettoie immaginai uno sterminato esercitodi esseri curvi, sconfitti, passare come i romani nel Sannio sotto le Forche caudine,una processione planetaria di uomini e donne che avevano smesso di credere nellapropria unicità. Un presagio di morte dell’individuo oscurò l’aria e tutta la tristezza diquella sorte mi strinse l’anima in una morsa d’acciaio. Il Dreamer penetrò inquesta visione con la delicatezza di chi sta avvicinando i lembi di una ferita mortale.Le Sue parole avevano un’intonazione ieratica quando annunciò: “Un giorno unasocietà sognante non lavorerà più. Un’umanità che ama sarà abbastanza ricca persognare e sarà infinitamente ricca perché sogna.

L’universo è totalmente abbondante, è una cornucopia traboccante di tutto quelloche il cuore di un uomo può desiderare... In un tale universo è impossibile temere lascarsità. Solo uomini come te, intrappolati nella paura e nel dubbio, possono esserepoveri e perpetuare la dipendenza e la miseria nel mondo”.

“Ma io non sono povero!” - gridai con voce strozzata dall’indignazione “Perché diciquesto?”. Dentro di me giustificavo, ed affastellavo tutte le possibili ragioni perdimostrare l’assurdità di quell’accusa. Il Dreamer restava silenzioso. “Io non sonopovero!! – gridai di nuovo – “Ho una bella casa, ho un lavoro da dirigente, ho amiciche mi stimano… ho due figli ai quali faccio da padre e madre…”. Qui mi fermai,sopraffatto da quell’intollerabile ingiustizia e da quell’offesa senza fondamento.

“Povertà significa non vedere i propri limiti… - precisò il Dreamer – Essere poverosignifica aver ceduto il proprio diritto di artefice in cambio di un lavoro che non ami,che non hai scelto.

Tu! – aggiunse quando già speravo che avesse finito – sei il più povero tra ipoveri. Perché ancora non sai chi sei… Hai ‘dimenticato’! A nessun altro ho datotante opportunità per farcela.

Questa è l’ultima volta”.D’un tratto, quel sentimento di offesa, di ingiustizia, che aveva invaso ogni angolo

del mio essere svanì, ed ogni mia difesa cedette sotto quel decisivo colpo d’ariete.Sentii gemere i vecchi cardini su cui poggiava la mia esistenza. Le convinzioni piùradicate, come templi scossi dalle fondamenta, stavano crollando.

“Apri gli occhi sulla tua condizione e saprai quanto l’uomo si sia allontanato dallasua regalità.

Siamo qui apparentemente nella stessa stanza, eppure ci separano eoni infiniti ditempo”.

A quelle parole, come al bagliore di un lampo che lacera il buio della notte, ebbi lapercezione della distanza da quell’essere. Realizzai la falsità della mia dignità offesa el’insignificanza di quell’‘io’ che, come uno squittio all’universo, avevo pronunciatodavanti al Dreamer.

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Come il sipario su un’opera buffa, cadde la mia illusione di appartenere ad unaclasse decisionale, a una élite di uomini responsabili, dotati di volontà, indipendenti,padroni della propria vita. Avevo gli occhi lucidi. Senza accorgermene stavo scivolandonelle sabbie mobili dell’autocommiserazione.

Provvidenzialmente, il Dreamer intervenne con un ruvido massaggio all’essere:“Ora svegliati! Fai la tua rivoluzione… Insorgi contro te stesso!” mi ordinòscuotendomi ed offrendomi una via d’uscita dall’angolo di contrizione in cui mi stavorinserrando.

“Sogna la libertà… la libertà da ogni limite… Tu sei il solo ostacolo a tutto quelloche puoi desiderare. Sogna… Sogna… Sogna senza posa!

Il ‘sogno’ è la cosa più reale che ci sia”.

3 “Sono una donna…”

Poi la Sua intonazione cambiò e la voce, da profonda e risoluta, si trasformò inquella di una donna. Quel cambiamento mi gelò il sangue nelle vene. Non erapossibile! Quella voce... era... era... Il pensiero cadde in una voragine... Le parole chepronunciò, anche se non più violente, divennero insostenibili.

“Sono una donna in fin di vita” - disse quella voce. La pausa che seguì mi diedetutto il tempo di assaporare la nausea dolciastra di un terrore sconosciuto. Eroparalizzato, impotente a sollevare lo sguardo. Un occhio impietoso, grande comel’intero orizzonte, si stava aprendo sul mio passato. Temevo che non avrei potutoreggerne la visione.

“Sono una donna ammalata di cancro che ti maledice per il tuo abbandono, perl’incapacità di sostenere la sua morte annunciata”. Proteso nell’ascolto, il corpopercorso da brividi, sentivo che ogni parola stava sospingendomi verso la bocca di unbaratro. Era Luisella che mi stava parlando, raggiungendomi oltre il tempo, oltre iconfini della vita, con la sua dolcezza indifesa. Le terribili circostanze della sua morte,a 27 anni, stavano ora ripresentandosi alla coscienza. La grettezza di tanti episodidella nostra vita insieme, l’egoismo che mi aveva fatto barattare tutto e tutti controun briciolo di sicurezza, le preoccupazioni legate al denaro, alla carriera e l’incapacitàdi amarla, mi esplosero dentro in un’unica percezione di dolore. Una vergognainfinita, quasi un ribrezzo, mi inondò l’anima. Cercai di staccarmi dall’uomo che erostato.

“Questa è la ‘tua’ morte - mi disse - è la morte di tutto quello che sei stato, lamorte del vecchiume che ti porti dentro... Non sfuggirla… Affrontala una volta persempre! Un uomo per ‘rinascere’ deve prima ‘morire’ ”. Ingoiai queste parole comeboccate di ossigeno dopo una lunga apnea ma il tentativo di razionalizzare quello chestava accadendo mi fece perdere quell’attimo di lucidità. Un’angoscia mortale prese ilsuo posto.

“Che cosa significa ‘morire’?” chiesi. Il tono sommesso che usai nel formularequella breve domanda mi sorprese rivelandomi quanto diversa fosse ora la miaattitudine.

“’Morire’ significa capovolgere la propria visione. ‘Morire’ significa sparire da unmondo grossolano, governato dalla sofferenza, per riapparire ad un livello di ordine

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superiore” enunciò sibillinamente. Continuavo a non capire. Una parte di me avrebbevoluto in qualche modo opporsi. Quelle idee, quelle parole mai ascoltate prima, mistavano dilaniando. Poi un fiume in piena travolse ogni argine e m’inondò l’esseretrascinando con sé i ricordi, gli amici, le mie convinzioni più radicate. Per anni avevodisperatamente studiato per essere il primo. Avevo lavorato instancabilmente peraffermarmi, spinto dall’ambizione di diventare qualcuno. Vincere, vincere… superarequalsiasi ostacolo si frapponesse tra me ed il mio obiettivo. Competere e vincere nelmondo, vincere sugli altri, era questo il principio che aveva guidato la mia vita, l’unicoin cui avevo veramente creduto... Ed ora, avrei dovuto rinnegare, annullare tuttoquesto? Mi sembrava ingiusto che il Dreamer condannasse i miei sforzi. Travolto daiflutti, ancora mi aggrappavo a quella voglia di emergere, a quel relitto della volontàche credevo la parte più sana, più vitale di me.

4 Una specie in estinzione

“Nessuno mai può prevalere sugli altri! - disse il Dreamer penetrando tra i mieipensieri sparsi come rottami - L’idea di prevalere sugli altri è un’illusione... unpregiudizio della vecchia umanità, conflittuale, predatoria… perdente”. La pausa cheseguì mi diede per qualche istante l’illusione di una tregua. Ma era solo il sollevarsi diun maglio pronto ad abbattersi con ancora più peso. “Tu sei l’emblema di questaspecie in estinzione - sentenziò sferrando il colpo - una specie che sta lasciando ilposto ad un essere più evoluto”.

Le Sue parole stavano scavando un tunnel attraverso strati e strati di vecchiume.Sentii gli spasimi di una creatura nello sforzo supremo di nascere e disperai di farcela.Poi l’universo si fece malleabile, fluido, fino a diventare liquido. Stavo ora nuotandoin acque profonde.

“Quello che senti come un senso di morte è l’asfissia di un’umanità che stacambiando pelle, di una specie sul ciglio dell’abisso costretta ad abbandonare la suesuperstizioni, i vecchi trucchi che ormai non funzionano più“. Quelle parole siscolpirono nell’aria come un’epigrafe universale della condizione umana. Mi vidiannaspare tra una distesa sterminata di teste altalenanti, naufraghi già rassegnati adannegare, a lasciarsi morire.

“Gli uomini, fin dai primi anni, sono educati a vivere nelle zone più desolatedell’essere... Messi di fronte ad un’idea troppo grande, o a qualunque cosa che esorbitidai limiti della loro visione, l’avversano e tentano di rimpicciolirla pur di farlarientrare nel minuscolo contenitore della loro coscienza”. Associai a queste parole leimmagini dei selvaggi del Borneo che rinsecchiscono le teste dei loro nemici peresorcizzarne la forza. La Sua voce mi sottrasse bruscamente a questi pensieri.

“Per te è tempo di affrontare il ‘viaggio’” annunciò con paterna gravità. C’eranonelle Sue parole la tenerezza, l’accoramento, ed insieme, l’autorità di chi sa. Notai cheil Suo tono si adeguava perfettamente alla mia attitudine nell’ascoltarlo, come se miriflettessi in uno specchio sonoro. Aspra e terribile contro le mie resistenze, violentaquanto la mia disposizione, riposante e dolce come la mia resa, la Sua voce aveva orapreso a parlarmi in tono diverso. Con un gesto teatrale, accostò la mano all’angolodella bocca, come per farmi una comunicazione confidenziale, e sussurrò: “Di fronte

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ai test della vita finora non hai trovato di meglio che stordirti di lavoro o cercarerifugio nel sesso, nel sonno o in qualche letto d’ospedale”. Poi con intenzionalerudezza, per scuotermi dall’autocommiserazione in cui stavo scivolando, disse:“Curvarsi sotto il peso di situazioni spiacevoli, di sciagure, prenderle terribilmente sulserio, significa rafforzare la descrizione luttuosa del mondo, e perpetuarne gli eventi”.

“E allora, cosa avrei dovuto fare?” - chiesi con la voce rotta dalla disperazione.“Se un uomo cambia la sua attitudine verso ciò che gli accade, questo nel corso del

tempo modificherà la natura stessa degli eventi che incontra.Our being creates our life” completò avvicinandosi impercettibilmente. Si trattò in

tutto di pochi centimetri, ma quel movimento mi inquietò. Entrai in uno stato diallerta, di angosciosa vigilanza. Non sapevo cosa aspettarmi. Non ero mai stato cosìattento; come se le cellule, bruscamente destate da un sonno ancestrale, fossero oraad orecchi ed occhi sbarrati, protese nell’ascolto. Il Dreamer attese che la miaattenzione fosse allo spasimo, poi pronunciò le parole più insostenibili.

“La morte di tua moglie è la materializzazione, la rappresentazione drammatica delcanto di dolore che da sempre ti porti dentro. Stati ed eventi sono le due facce diun’unica realtà”.

Stavo venendo meno. Provai la nausea di un insostenibile senso di colpa. Unavoragine senza fondo mi si allargò davanti pronta ad ingoiarmi. Stavo resistendo contutte le mie forze alla più semplice ed insieme alla più insostenibile delle verità: ero iol’unico responsabile di ogni evento della mia vita, ero io la sola causa di ognisofferenza, di ogni sventura.

Le luci del mondo impallidirono; stavano per spegnersi. Ero sul limite di un limbo.Lentamente vi scivolai arrendendomi ad un torpore irresistibile.

5 Il risveglio

Appena sveglio non potei pensare ad altro. Fuori era ancora notte. Il traffico diManhattan scorreva in fiumi sottili, bave luminose alimentate dalla bocca di unvulcano invisibile. Restai per qualche tempo immobile ad osservare il ‘mondo’galleggiare sulla mia coscienza col pallore di un fantasma. Una lucidità nuova,spietata, stava setacciando ogni angolo della mia vita e di quell’appartamento. Aquella velocità, mobili, libri, arredi, riflettevano la sofferenza di una vita insignificantee senza gioia. Mi strinse il cuore quella mestizia speciale che emana dagli oggettisenza più padrone. Sentii lo sforzo immane di esistere, l’impossibità di cambiare. Unospasmo si associò al pensiero di incontrare i bambini, di vedere nei loro occhi lastessa morte che impregnava ogni cosa intorno. Temevo che potessero sbiadire esvanire con tutto il resto.

Lavorai per ore a trascrivere quanto era accaduto nell’incontro col Dreamer e tuttoquello che avevo ascoltato da Lui in quella villa misteriosa, nell’appartamento dalpavimento bianco.

Quell’essere era ormai parte della mia vita. Riportai fedelmente le Sue parole e ognidettaglio di quell’incontro. Non fu difficile. Mi bastava socchiudere gli occhi per vedereaffiorare alla memoria ogni particolare con assoluta nitidezza. Non ero mai stato cosìlucido come nel tempo senza tempo trascorso accanto a Lui. Ora sapevo di

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appartenere al mare buio di un’umanità divisa, inconsapevole; a una folla planetariadi sonnambuli incapaci di amare. Non avrei più potuto fingere o ignorarlo.

Nelle settimane che seguirono lessi e rilessi scrupolosamente gli appunti alla ricercadi qualche traccia che potesse ricondurmi da Lui, nel Suo mondo.

Dalla terrazza del Café de la France osservavo i turisti occidentali addentrarsi nelSouk. Li vedevo circolare nel dedalo delle sue strade, globuli bianchi nelle vene di ElFna. Avanzavano con difficoltà, assediati da indigeni vocianti, da una selva di manimendìche cotte dal sole, da venditori d’acqua bardati di otri lanuti. Giovani venditricidi monili blandivano gli stranieri di passaggio, li strofinavano come talismani cuichiedere la magia di pochi dirham. Conoscevo i loro sguardi - lame di fuoco nero - edi sorrisi imploranti, come in un gioco d’amanti.

Da tre giorni ritornavo in quel caffè circondato dalla vita pulsante di Marrakech.Attendevo leggendo e sorseggiando tè. Mi teneva compagnia una coppia dicamaleonti comprata al mio arrivo. Ogni tanto abbandonavo la lettura ed osservavo ilcaleidoscopico spettacolo della vita di strada, il brulicame dei commerci, il lavorìointenso degli indigeni. Poi tornavo al mio tavolo. Cominciavo a scoraggiarmi! Ilpensiero di tornarmene a New York, di prendere il primo volo e non pensarci più,ricorreva frequentemente man mano che passavano le ore ed i giorni. Stavo ancoratentando di raccapezzarmi, di trovare il bandolo di quanto mi stava accadendo. Eropartito per incontrarLo senza altra indicazione che il nome di quella città, unamanciata di palme e di case rannicchiate tra le labbra infuocate del Sahara.

Dopo aver ricevuto il Suo messaggio, avevo esitato a lungo prima di partire. Misembrava una pazzia attraversare l’oceano per andare ad incontrare un esserefantastico di cui neppure sapevo il nome. Mille difficoltà erano insorte ed avevanocongiurato ad avversare quel viaggio. Soprattutto mi era apparso impossibile trovare ilmodo di giustificarlo a Jennifer. Giorno dopo giorno avevo rimandato la decisione. Poiil bisogno di riprovare quel senso di guarigione che avevo sentito solo accanto a Lui,il timore di perdere quell’unica possibilità di ritrovarLo, ebbero il sopravvento e decisidi partire. Mi aiutò a prendere questa decisione la mia confidente, l’unico essereumano al quale avevo parlato del Dreamer e del mio incontro con Lui: Giuseppona.

“Vai, figlio” mi incoraggiò nel suo linguaggio essenziale, dal forte accentonapoletano, quando andai a parlargliene nella sua cameretta “Trovalo! QuestoDreamer mi sembra una brava persona”.

Giuseppona mi aveva visto nascere. Era da sempre parte della famiglia, ed avevaaiutato Carmela a partorirmi. Con lei avevo mosso i primi passi, con lei accantoavevo affrontato i primi giorni di scuola. Ogni mattina, accompagnandomi, ascoltavoda lei la storia sempre nuova dei vicoli e della gente di Napoli. Da lei suggevo edassimilavo gli umori, le leggende e gli eroi di quella città dal cuore antico, propaggineimmemore di civiltà indossate l’una sull’altra, come il costume a sbuffi di pulcinella,diventate poi strati della sua pelle. Con Giuseppona, le sentivo ancora vive e pulsanti;sotto toppe e sbrindelli vedevo trapelare bagliori di ori e sete preziose. Ancora ricordo ilmio imbarazzo quando, nei giorni di pioggia, irrompeva in aula a metà mattinata,dopo aver travolto custodi e bidelli, per cambiarmi le calze e le scarpe bagnate.Crescendo non volli più che mi tenesse per mano e, per qualche tempo, ancora mi

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accompagnò, seguendomi a distanza. Da adolescente, fu la mia confidente in tutte lequestioni di cuore. Il suo laconico giudizio: “Tanto chella non faceva per te!”, per anniconcluse consolatoriamente le mie delusione d’amore. Adorò Luisella dal primo giorno,e quando ci sposammo ed avemmo la prima bambina venne a stare con noi. Fu lamigliore governante che avremmo potuto desiderare per Giorgia e Luca cui fu semprelegata da un affetto e una devozione senza limiti.

Autodidatta, decisa e combattiva, dal carattere ruvido e un po’ dispotico,Giuseppona era bassa e tarchiata. La struttura fisica ed i tratti decisi le davano unaspetto da amerinda, a metà tra una vecchia squaw ed un capo indiano. E di un capoaveva la dignità e il coraggio. Era lenta, pesante, ma dovunque arrivasse mettevaordine. Con lei non mancava mai nulla. Il suo giudizio, cui in tanti momenti dellamia vita avevo attinto, era una miscela irripetibile di buon senso e di saggezzapopolare. La sua presenza ha portato gioia e buonumore dovunque mi abbia seguito,in ogni parte del mondo, ed è stata un riferimento costante per tutta la mia vita.Quando Luisa si ammalò e poi mancò, fece da mamma ai miei figli, senza venirmeno un giorno. Non potrò mai ripagare il debito di gratitudine, né esprimere checosa quest’essere ha rappresentato per quattro generazioni della mia famiglia.

Cara Giuseppona, ti porterò nel cuore, per sempre.

Giunto a Marrakech, ogni mia ricerca del Dreamer era risultata vana. Arrivato alterzo giorno, non ero neanche più certo che il sibillino biglietto che mi aveva portatofin lì fosse Suo.

Avevo occupato le lunghe ore di attesa girovagando per la città alla ricerca diqualche indizio. Per due notti, di ritorno all’Hotel dopo un’intensa giornata di ricercherisultate infruttuose, avevo ripassato mentalmente ogni dettaglio del nostro incontroalla ricerca della più piccola traccia che potesse portarmi da Lui.

Quella mattina stavo attraversando ancora una volta il cuore del Souk, quel dedaloombroso di stradine odorose di spezie, i sorrisi levantini di cento mercanti miinvitavano ad entrare nei loro empori, in botteghe e negozi sovraccarichi di mercanziaimprobabile. Si trattava per lo più di cianfrusaglie arrivate lì e disposte in ordinesparso, come relitti dopo un naufragio. La teoria interminabile di questi antricommerciali, spesso inospitali, bui come celle di arnie, faceva da ripa ad un fiumeumano che scorreva trascinando con sé nazionalità, etnie, colori e lingue del mondo.

Un uomo dall’abbigliamento pittoresco, un mustafà corpacciuto uscito dalla matitadi Disney, seppe attirarmi nella sua bottega, tra la delusione e l’invidia dei vicini.Aveva un viso bonario ed intelligente, gli occhi furbi e maliziosi. L’interno del negoziosi rivelò insospettabilmente spazioso. Assistito da due aiutanti, lo mise letteralmenteall’aria per trovare qualcosa che potesse interessarmi, un oggetto da vendermi. Srotolòcento tappeti e lucidò sulla manica, prima di darmeli da esaminare, un bazar dioggetti di ottone e d’argento. Dopo lunghi tentativi e un numero incalcolabile di tè,che gli usi locali non permettono di rifiutare, avevo ormai deciso di uscire. Da unultimo scaffale, estratto da una montagna di cianfrusaglie, venne fuori uno scrigno dilegno e di avorio. Era così finemente intarsiato, le sue proporzioni così perfette, chenon riuscivo a staccarne gli occhi mentre il mercante, capito il mio interesse, neaccresceva le lodi e, mentalmente, il prezzo.

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Sul coperchio dello scrigno, incisa a caratteri gotici, lessi la scritta: Visibilia exInvisibilibus. Tutto ciò che vediamo e tocchiamo nasce dall’invisibile.

6 Cambiare il passato

Dal Souk ero tornato al Café de la France a ricuperare i miei piccoli compagni verdie squamosi e ora, affacciato alla ringhiera, stavo riflettendo su quanto era accaduto.

“La prima regola per affrontare il deserto è viaggiare leggeri” qualcuno disse allemie spalle. Sobbalzai al suono di quella voce. Per quanto avessi atteso quel momentoe per quanto avessi desiderato rivederLo non potei trattenere un moto di spavento.Sentii con raccapriccio l’ignoto, il miracoloso alitarmi sul collo. Solo a fatica,voltandomi molto lentamente, trovai il coraggio di guardarLo.

Il Dreamer mi sorrideva. Il Suo look era quello di un ricco aristocratico viaggiatored’altri tempi. Aveva l’aria annoiata ed i modi pigri di uno snob, ma la Sua vocetradiva una inesauribile energia. Quando cominciò a parlare riconobbi il Suo tonodeciso, apparentemente ruvido.

“Alleggerire l’essere richiede un enorme lavoro - mi premunì entrando inargomento senza preamboli - Richiede l’abbandono di tutto quello che genitori,educatori, maestri di sventura, profeti del disastro, ti hanno imposto.

From them we have learned how to get into victim consciousness; how to get intomisery, poverty and sickness… “. Poi, avvicinando lentamente il Suo viso al mio,aggiunse: “Da loro abbiamo imparato i mille modi per morire.

Dagli albori della civiltà, attraverso un ‘contagio generazionale’, milioni diuomini, sigillati in un sonno ipnotico, hanno imparato a credere ciecamente nellascarsità e nel limite”.

“Perché? - chiesi - Perché non dovremmo scegliere la vastità, l’assenza di ognilimite… Perché non dovremmo scegliere la vita?”.

“Perché l’uomo è irrimediabilmente ipnotizzato. Dietro ogni sua sventura, c’è ilmale dei mali: la fede incrollabile nella ineluttabilità della morte…

Il primo passo verso la libertà, il più difficile, è realizzare che questa pauragoverna tirannicamente tutta la sua vita”.

Queste parole, la gravità del tono accentuata da quel Suo movimento diavvicinamento, mi misero in uno stato di agitazione. Come nei culti e negli spettacolisacri delle antiche civiltà, la Sua teatralità trasformava il più semplice atto in un gestomagico, in un evento cosmico costruttore del mondo.

Da una stretta allo stomaco seppi che quell’annuncio stava per sfociare in ungiudizio decisivo.

“Il tuo passato è un castigo di Dio!” denunciò il Dreamer con voce roca. E sifermò. Quella pausa fu particolarmente lunga, come se, per poter andare oltre,attendesse un segnale che tardava ad arrivare. Poi disse: “Occorre riscattarlo…redimerlo… Occorre cambiarlo!”.

“Cambiare… il passato?” chiesi.“Nel tuo passato ci sono ancora troppi buchi… conti in sospeso, debiti interiori

mai pagati, sensi di colpa, vittimismo, e soprattutto angoli oscuri dove regnanoruggine e polvere” elencò, rovistandomi come un cassetto ingombro di cianfrusaglie.

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“Il tuo essere è un negozio mal gestito, con i prezzi messi a casaccio - commentò -ciò che ha valore si svende e la chincaglieria ha prezzi elevati. Andare avanti inqueste condizioni significa fallire…”.

Avrei voluto porre un argine alla forza dirompente di quelle parole che miincalzavano senza darmi un attimo di tregua.

“Ma com’è possibile modificare il passato, situazioni ed eventi già accaduti?” chiesiper difendermi, per deviare quel fiume che mi investiva di una responsabilitàinsostenibile.

“Esiste un luogo dove pensieri, sensazioni, emozioni, azioni ed eventi, sonoregistrati per sempre e anche dopo anni possiamo ritrovarli come oggetti accantonatiin soffitta, apparentemente inattivi, inermi. In realtà essi continuano ad agire e acondizionare tutta la nostra esistenza. È lì che devi ritornare!” Aggiunse che questoavrebbe richiesto una lunga preparazione.

“Quanto lunga?” chiesi con l’eccitazione ed il timore di chi ha davanti un viaggioavventuroso.

“Ci vorranno almeno tanti anni quanti sono stati quelli di cattiva gestione” fu lalapidaria risposta che bacchettò allo stesso tempo la mia condotta di vita el’improntitudine della mia domanda. Un bruciante sentimento di offesa scattò comeun riflesso psicologico condizionato e pervase ogni angolo dell’essere. Poi,rapidamente com’era insorto, si ridusse ad un brontolio e sparì.

Il Dreamer si era seduto ad uno dei tavolini. Con un cenno mi indicò un postoaccanto a Lui. Il silenzio che seguì durò a lungo e divenne più profondo a mano amano che la sera smorzava i mille suoni che animano El Fna.

7 Perdonarsi dentro

Il tramonto lanciava i suoi ultimi bagliori. Nel cobalto digradante del cielo Orioneera già visibile. La temperatura si era abbassata improvvisamente ma il Dreamer nondiede segno di risentirne né di voler rientrare. Tutto indicava che stava per aprirsi unnuovo, importante capitolo del mio apprendistato. Tirai fuori penna e taccuino, decisoa prendere nota di ogni Sua parola nonostante il buio incipiente in cui il terrazzostava rapidamente sprofondando. Quel gesto mi fece sentire immediatamente a mioagio. Capii l’importanza di avere sempre con me carta e penna. Carta e pennasignificava ri-cordare, recuperare, raccogliere parti di me disperse nel mondo, lontanoda Lui. Scrivere mentre Gli ero davanti, annotare le Sue parole, significava entrare inpunta di piedi in zone inaccessibili dell’essere. La Sua voce mi colse in flagrante.

“Per conquistare quella speciale condizione dell’essere fatta di libertà, diconoscenza, di potere… occorrono anni di Lavoro su se stessi… occorre ‘perdonarsidentro’ – disse, sottolineando con una particolare inflessione della voce questaespressione che subito mi sembrò estranea al carattere guerriero ed al linguaggioinesorabile del Dreamer. Con uno sguardo si accertò che stessi annotando fedelmentele Sue parole. Attese che completassi, poi continuò: “‘Perdonarsi dentro’ non è l’esamedi coscienza di un santo stupido, ma il vero fare di un uomo d’azione, il risultato diun lungo processo di attenzione… di autosservazione. Significa entrare nelle pieghedella propria esistenza là dove è ancora lacerata… Significa lavare e curare le ferite

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ancora aperte... saldare tutti i conti in sospeso...”. Poi, assumendo un atteggiamentoteatralmente guardingo e abbassando la voce, come per cautelare un segreto, miconfidò: “Perdonarsi dentro ha il potere di trasformare il passato con tutta la suazavorra”.

Infinite volte rimestai tra me queste parole dal significato incomprensibile.“Tutto è qui, adesso! Passato e futuro stanno agendo insieme in questo istante

nella vita di ogni uomo”.Queste parole mi riempirono di un’inspiegabile, irragionevole felicità. Ero di fronte

ad una visione senza limiti. Passato e futuro non erano mondi divisi ma connessi edinseparabili. Una sola realtà. ‘Perdonarsi dentro’ era una macchina del tempo... perpoter accedere a un tempo passato che nella visione ordinaria non c’era più, e a untempo futuro che era ancora da venire….

“Capisco che il passato possa agire sulla nostra vita, ma il futuro…?” chiesi.“Il futuro, come il passato, è sotto i tuoi occhi, ma tu ancora non puoi vederlo”.Mi parlò di un ‘tempo verticale’, di un ‘corpo-tempo’ che comprimeva passato e

futuro in un solo istante. Un tempo senza tempo la cui porta di accesso èquest’attimo. Il segreto è non distrarsi, non allontanarsene mai.

Accedere a questo ‘corpo-tempo’ significava poter cambiare il passato e disegnareun nuovo destino.

Provai un irrefrenabile entusiasmo. Avrei voluto che quell’avventura cominciassesubito... Lo volevo con tutte le mie forze... Ma il mio slancio non ebbe il tempo diabbozzarsi che già lo sentii spegnersi sotto le severe parole del Dreamer. “Per uominicome te è impossibile perdonarsi dentro!”.

Il tono era quello di un giudizio senza appello. “Per entrare nel proprio passato eguarirlo, occorre una lunga preparazione.

Solo un lavoro di Scuola può renderlo possibile.’Perdonarsi dentro’ è un ritorno a se stessi, è la vera ragione per cui siamo nati -

affermò in tono conclusivo il Dreamer - Gli uomini non dovrebbero mai interromperequesto processo di guarigione”.

Il Dreamer mi premunì avvertendomi che questo mi avrebbe richiesto grandi sforzie, prima di ogni altra cosa, un lungo lavoro di autosservazione.

8 “Self-observation is self-correction”

“Self-observation is self-correction…. Un uomo può guarire qualunque cosa del suopassato se ha la capacità di ‘osservare se stesso’” affermò il Dreamer e proseguìrimarcando come la condizione dell’uomo non fosse che un effetto della suaincapacità di conoscersi, e prima ancora, di osservarsi.

”L’autosservazione è uno sguardo dall’alto sulla propria vita!” la definì il Dreamer eprecisò: “È come far passare eventi, circostanze, relazioni del passato, sotto un raggiodi luce”.

Per quello che potei capire, conditio sine qua non dell’autosservazione è la capacitàdi condurla in modo imparziale e senza moralismi. Auto-osservarsi per il Dreamersignificava far scorrere la propria vita non davanti ad un tribunale giudicante, masotto i raggi X di un’intelligenza distaccata, di un testimone neutrale che doveva

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limitarsi ad osservare, astenendosi rigorosamente dall’emettere qualsiasi giudizio o dalformulare critiche. Lontanamente, questo mi fece pensare ad alcuni esperimenti dipsicologia dell’organizzazione di cui avevo appreso quando ancora studiavo allaLondon Business School. Alcune grandi imprese avevano ottenuto miglioramentieccezionali della produttività attraverso il wondering management (come era statobattezzato dai ricercatori). Questo si fondava sull’attenzione e propugnava la funzionedi un management errante. Il compito di un wondering manager consisteva appuntonel ‘vagare’, nel far sentire la sua presenza in tutti gli angoli dell’impresa, anche i piùremoti.

La Sua voce mi distolse bruscamente da quei ricordi e dalle mie riflessioni,prelevandomi di peso dalle aule londinesi della LBS.

“Self-observation is self-corection - ripeté il Dreamer - L’autosservazione èguarigione… una conseguenza naturale del distacco che si crea tra osservatore eosservato.

L’autosservazione permette ad un uomo di vedere tutto quello che lo tiene incollatoal tapis roulant del mondo: pensieri obsoleti, sensi di colpa, pregiudizi, emozioninegative, profezie del disastro... È una operazione di distacco, di deipnotizzazione, dirisveglio...

La più piccola sospensione dell’azione ipnotica del mondo, sgretolerebbe tuttoquello in cui ha creduto, farebbe cadere gli apparenti equilibri e le certezze illusorieaffastellate nel corso di una vita.

Per questo la maggior parte degli uomini non potrà mai accedereall’autosservazione - sentenziò - Distaccarsi dalla descrizione del mondo, sia pure perun attimo... è un’impresa al di là dei limiti ordinari”.

Mi fissò intensamente, a lungo. Stava spostando il mirino del discorso nella miadirezione. Un nodo allo stomaco anticipò la dolorosità di quello che stava peraccadere.

“Metti in funzione l’osservatore che è in te! L’autosservazione è la morte di quellamoltitudine di pensieri ed emozioni negative che governano da sempre la tua vita.

Se ti osservi dentro, ciò che è giusto comincia ad accadere e ciò che non lo ècomincia a dissolversi”.

In uno sguardo colse la mia espressione di sgomento e aggiunse: “Nessunopotrebbe farcela da solo. Incontrarti con te stesso, con la tua menzogna, avventurartinei labirinti dell’essere senza una preparazione impeccabile, ti ucciderebbe all’istante”.

Quelle Sue parole risuonarono come una condanna. Temetti che mi abbandonasse,che giudicasse il mio caso disperato e ogni ulteriore impegno a mio favore inutile.Insorse in me una determinazione disperata, eroica. La mia prontezza lo lasciòriflessivo. Lentamente assunse una delle Sue posture originali. Distese l’indice ed ilmedio della mano destra e li tenne uniti, premuti contro la guancia. Poi appoggiò ilmento sul cavo del pollice, mantenendo la testa leggermente inclinata. Restò così,assorto, per un tempo interminabile. Non sembrava guardarmi, ma ero certo cheneppure uno dei miei pensieri Gli stava sfuggendo. Stavo giocando il finale di unapartita decisiva, forse l’ultima. Tutto dipendeva da me. Attesi.

Finalmente il Dreamer uscì dalla Sua immobilità.

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“Guarda... è luna piena” disse, puntando l’astro con un lieve cenno del mento “Unuomo potrà vederne al massimo mille in tutti i suoi anni, ma con ogni probabilità allafine della sua vita non avrà trovato il tempo di osservarne nemmeno una...

Eppure è esterna. Immagina quanto è più difficile per un uomo osservarsi, invertirela direzione della propria attenzione. L’autosservazione è solo l’inizio dell’arte delsognare”.

Restammo silenziosi a lungo. Il terrazzo del Café de la France, proteso nel buio, erala prua di una starship pronta a fendere il cielo stellato. A bordo non c’eravamo chenoi... solitari argonauti dell’essere.

“Preparati - mi avvisò nel tono deciso di un uomo d’azione - non sarà unapasseggiata”.

Ascoltai attentamente le Sue ultime raccomandazioni. Il Dreamer sarebbe statoancora al mio fianco. Freddamente mi espose il rischio di restare intrappolato in unaspecie di limbo mentale dove il passato non è ancora compreso, abbandonato, ed ilnuovo non si è ancora formato. Da quella fascia spazio-tempo non avrei avutoalcuna possibilità di ritornare nel mondo del Dreamer. Evidenziò che quello potevaquindi essere il nostro ultimo incontro.

“Il passato di un uomo comune ... di un uomo che non ha ancora avviato neppure iprimi passi verso l’unità dell’essere, è disseminato di uncini - disse - Essi loartigliano al minimo tentativo di entrarvi e di portare cambiamento...”.

Furono queste le ultime parole che potei ascoltare. Come un’imbarcazione chescioglie gli ormeggi, ebbi la sensazione che la terrazza beccheggiasse e che gli oggettiintorno cominciassero ad allontanarsi.

“Ci siamo” pensai, facendomi coraggio.Sentivo con difficoltà quello che il Dreamer mi stava dicendo, come se la Sua voce

fosse coperta per lunghi tratti dal rumore di invisibili motori. Il terrazzo si trasformòin una macchina del tempo. L’universo si sospese, il nastro del tempo si riavvolse, enull’altro al mondo sembrò essere più importante di quel nostro viaggio a ritroso nellacoscienza e nel mio passato.

Ebbi l’impressione di scivolare nel buio impenetrabile di un tunnel, come se lanostra ‘macchina’ stesse attraversando una geologia interiore: strati e strati calcificatidi esistenza.

Dall’oscurità, un primo frammento della mia vita affiorò, come un’isola. Seguii ilsuo avvicinarsi ed ingrandirsi con la sensazione di entrare in un mondo famigliare eal tempo stesso arcano, misterioso, ai limiti dell’ignoto.

Nel tempo lineare erano trascorsi solo pochi anni dagli eventi che con il Dreamerstavo rivisitando, eppure quella parte del mio passato mi apparve incredibilmenteremota.

9 “La morte non è mai una soluzione”

Luisella era morta a ventisette anni. Un melanoma le aveva lentamente scavatoun buco in una gamba come un bambino che gioca a bucacieca sulla spiaggia. Icontorni del mondo si fecero ancora più confusi, come se vedessi attraverso gli occhi

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pesti di un pugile. Per mesi provai solo rancore: un risentimento sordo a metà trarabbia e paura.

Stordimento,dolore...Buio!...Criminale complicità di pensieri ed emozioni...Schegge impazzite dell’essere...Una lama di luce trafiggeil buio della mia esistenza.Dolore,stordimento...Buio!...Uno squarcio...Dietro: buio... e dolore... ancora!...Gli volo incontro, si avvicina, grandeggia,il pianeta opaco dei miei anni passati...Atterrare... ma dove?Non c’è uno spazio, non un varco,non un solo millimetro quadrato di sincerità...nel deserto roccioso dei miei pensieri.Un budello mi ingoia...Buio...Dolore...Stordimento!...La cameretta di un ospedale di provincia... odore di creolina...puzza di malattia e di impotenza.Una figura affranta, è inginocchiata davanti ad un esseredisteso, immobile...

Mi avvicino...quell’uomo...spaventato...sono io!!!

Questa è la scena che stavo osservando col Dreamer. L’austerità di quella presenzamarmorea, già estranea, gettava una luce spietata su quel piccolo uomo avvilito, nedenunciava l’anacronismo. Ascoltai la moltitudine confusa che affannava il suoessere; la folla tumultuante dei pensieri, dei desideri piccoli, delle emozioni che gli siagitavano dentro con una parvenza d’anima. Attraverso gli occhi del Dreamer, comesotto l’effetto di un allucinogeno, ‘vedevo’ oltre le sembianze, il grumo di egoismo e dipaura cui quell’uomo si era ridotto.

“È un fantasma che piange la propria morte” commentò con spietatezza il Dreamerindicandolo con un cenno del mento. “La paura, la sofferenza, l’angoscia, non sonol’effetto ma la causa vera di tutti i suoi guai”.

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Il Dreamer mi stava rivelando il male dei mali, la fonte di ogni sventura,individuale e sociale, locale o planetaria!

“Il caos che ogni uomo si porta dentro, il suo inferno, si proietta nel mondomaterializzandosi in faide, discriminazioni e guerre tra razze, ideologie, credenze,religioni”.

L’emozione di quella scoperta si intrecciò all’orrore, alla pietà, alla vergogna,quando notai in quell’uomo i segni marcati di un precoce invecchiamento.

“Quell’uomo soffre non perché é davanti ad un evento luttuoso, doloroso, ma èdavanti a quell’evento perché ha scelto la sofferenza come sua condizione naturale”denunciò lapidariamente il Dreamer.

Realizzai che tutto quello che era stato e tutto quello che sarebbe avvenuto nellamia vita era già lì, compresso in quell’istante, come la secolarità di una quercia èracchiusa nel suo seme. Ogni dettaglio denunciava l’incuria, l’abbandono, il vecchiumedella sua vita. Avrei voluto fare qualcosa, avvertire l’uomo che ero stato della nostrapresenza. Avrei voluto entrargli dentro per mettere le cose a posto; infondergli un po’di dignità, fargli raddrizzare la schiena curva, cancellare quella smorfia di dolore dalviso…

“È impossibile intervenire! Non puoi farci nulla!” mi prevenne il Dreamer. La Suaintonazione era diventata impercettibilmente più dolce: “Quell’uomo ama soffrire!..Potrebbe giurare il contrario, ma in realtà non uscirebbe dal suo inferno per nulla almondo”.

Ero attonito, incapace di credere a una tale mostruosità. Il Dreamer colse quellasmorfia d’incredulità nel mio viso e aggiunse: “Indulgere in quello stato gli permettedi restare aggrappato al mondo, lo fa sentire sicuro. Pur nella dolorosità della suacondizione, è cullato dall’illusione che un aiuto possa arrivargli dall’esterno…

Se potesse osservarsi... se potesse modificare di un solo atomo la sua attitudine, lesue reazioni... se avesse la capacità di innalzare di un solo millimetro un pensiero,un’emozione, tutta la sua vita sarebbe trasformata...”.

Qui, teatralmente, modificò la Sua voce in un sussurro potente. Quel repentinocambiamento di tono acuì allo spasimo la mia capacità di ascolto: “A man cannotchange the events of his life but only his way to take them”.

“Mi avevi detto che il passato si può cambiare...” obiettai in tono d’accusa. Unostruggente senso di delusione, un’onda di disperazione mi stava montando agli occhi,come un pianto.

“Questo che vedi, questo frammento della tua esistenza su cui vorresti intervenire,non è il tuo passato - ribatté seccamente il Dreamer - È il tuo futuro!”

“Tutto si ripete nella tua vita… Gli eventi ricorrono, sempre gli stessi, perché tunon vuoi cambiare… Ancora ti lamenti, ancora accusi il mondo, convinto che qualcunodall’esterno possa nuocerti o essere la causa delle tue sventure…

L’uomo ordinario imprigionato nella circolarità del tempo non ha un vero futuro masolo un passato che ricorre e ricorre…

Ora stai ‘vedendo’ attraverso i Miei occhi! Un giorno, quando ne avrai laresponsabilità, saprai che il tuo vittimismo non è una conseguenza ma l’origine ditutte le tue sventure... che tu, solo tu, sei la causa di tutto questo… Solo allora potraiportare luce nel tuo passato e potrai guarirlo”.

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Eravamo nella camera ardente. Accanto a quello di mia moglie, altri corpigiacevano immobili. Nessuno era giovane come Luisa. In quel silenzio echeggiaronoparole che non avrei più dimenticato.

“La morte di questa donna è l’immagine speculare dei tuoi stati d’essere, delle tuemorti interne”.

Per quanto il Dreamer mi avesse predetto le difficoltà che avrei incontratoripercorrendo i solchi della mia storia, rivivendola con Lui accanto, mi sentiischiacciare dal peso della Sua visione. La responsabiltà che ne germinava erainsostenibile. Come potevo accettare di essere l’ideatore, il regista di quel filmdell’orrore che chiamavo la mia vita?

“La morte è immorale - annunciò con voce ferma - è innaturale…La morte fisica è solo la materializzazione di milioni di morti che ogni giorno

avvengono dentro di noi; è la cristallizzazione di una fede presa in prestito daun’umanità che indugia nel dolore e che ama soffrire.

Gli uomini hanno fatto della morte la loro via di fuga - incalzò implacabile,noncurante del mio annaspare - Sanno perfettamente cosa fare per sopprimersi...conoscono tutte le tecniche….

Il corpo è indistruttibile!… Eppure hanno reso inevitabile l’impossibile... Un uomonon può morire, può solo uccidersi! - affermò - Per riuscirci deve mettercela tutta efare, del compiangersi e dell’autosabotaggio, un lavoro full time”.

Qui si fermò per cercare le parole che potessero superare le mie resistenze, larudimentalità del mio ascolto, e aggirare il muro ipnotico che opponevo a quelle ideerivoluzionarie dal potere sconosciuto.

“La morte è sempre un suicidio - affermò imprimendo a quell’aforisma la forza diun grido di battaglia - Quando questo modo di pensare diventerà carne della tua carne,capovolgerà la tua visione e con essa la tua realtà”.

Il Dreamer stava attaccando convinzioni millenarie, la fede incrollabile condivisadalla totalità degli esseri umani affratellati dalla comune condizione di morituri, dallauniversale convinzione che la morte è naturale e inevitabile. Quelle parole mi reseroviolento, cattivissimo, come se qualcuno mi stesse strappando d’un colpo quantoavevo di più prezioso. Qualcosa mi squarciò l’essere. Un guaito muto, incontrollabile,mi echeggiò dentro e permase nel sottofondo come un brontolio di rancore.

“In questo attimo miliardi di uomini pensano e sentono negativamente,intrappolati come te, nel tuo stesso risentimento” disse. Sentendolo penetrare neirecessi dell’essere che credevo più segreti ed inaccessibili, provai una vergogna infinita,come se mi avesse sorpreso a rubare. “È questo lo stato d’essere che impedisceall’umanità ogni possibilità di fuga dai gironi più dolorosi dell’esistenza” annunciòcon una vena di amarezza. Poi, in tono conclusivo, tirando le fila di quellamemorabile lezione, disse: “Gli uomini venerano la morte e non la abrogherebbero mai,neppure se potessero, perché la considerano la soluzione di ogni loro problema, la finedelle sofferenze e delle mille morti psicologiche che essi stessi si infliggono… ma lamorte non è mai una soluzione!”.

La nebbia ipnotica si diradò, la visione si fece chiara. E mentre le parole delDreamer divenivano reali, la morte di Luisella, in quella stanza parata di nero, con lealtre salme allineate nei lettucci circondate da ceri, mi appariva irreale, come unamacabra messa in scena.

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10 La guarigione procede dall’interno

Proseguendo quel viaggio a ritroso nel passato, approdammo al periodo degli ultimimesi di vita di Luisa. Mi rividi nell’ottusa, inconsapevole recita del marito addolorato,del capo famiglia non ancora trentenne, già curvo sotto il peso di una disgraziatroppo grande. Osservai quel piccolo uomo autocommiserarsi, accusare, recriminare,rimpiangere. Lo vidi astioso, in preda a livori, a rancori; perso in immaginazionimalate; palpitante d’ansia, il cuore stretto tra gli artigli implacabili dei suoi sensi dicolpa. Ascoltai il suo canto di dolore, quell’incessante atto d’accusa verso il mondo egli altri. Finché non potei reggere oltre.

“Perché tutto questo? Che cosa ci faccio qui?” urlai scompostamente al Dreamer,sentendomi schiacciare dalla vergogna di quella visione. Avrei voluto girare le spalle efuggire, ma non potei muovere un muscolo.

Con inaspettata gentilezza il Dreamer mi rinnovò lo scopo di quel viaggio: portareluce nel passato, ritornarci con una nuova comprensione. Era un’opportunitàirripetibile.

“Come in ogni vera guarigione, il processo deve avvenire dall’interno” dissedistogliendomi provvidenzialmente da quello stato di vittimismo che rischiava disopraffarmi ad ogni istante. “È il nostro essere che crea il mondo e non viceversa!.

Come tutti gli uomini hai sempre creduto che fossero gli eventi a creare i tuoistati, che fossero le circostanze esterne a renderti infelice, insicuro. Ora sai che questaè una descrizione capovolta della realtà”. Stavo riprendendomi. Attesi ancora qualchesecondo, poi feci segno al Dreamer che ero pronto a proseguire.

La tappa successiva fu via Bolognese a Firenze, dove a quel tempo mi occupavo diformazione manageriale. In quei mesi, con i colleghi, si era stabilita una sorta disimbiosi emozionale che combinava la mia attitudine ad autocommiserarmi con laloro solidarietà a buon mercato. Senza esserne consapevoli, la mia ‘disgrazia’ lifaceva sentire meglio. Attraverso un salutare spavento, messi di fronte alla precarietàdella vita, per un po’ riuscivano ad apprezzare la loro mediocre razione di esistenza.Mi trattavano con la gentilezza e la premura che si ostenta per un malato, per unferito, per chi è sconfitto. ‘Vidi’ tutto l’orrore di quel baratto e provai un profondosconforto. Da qualunque parte lo osservassi, il mio passato era intessuto di ombre.Non c’era il più piccolo brandello da salvare.

Mi aggiravo come un disperato sul luogo di un disastro, alla ricerca di qualcosa darecuperare: una persona cara, un rapporto, qualsiasi cosa che avesse utilità o valore.Inutilmente. Avevo il fiato mozzo per l’orrore. Senza la presenza del Dreamer nonavrei trovato la forza di andare oltre.

“Non dare colpa agli eventi - disse, vedendomi vacillare sotto il peso di quelleemozioni - Restare vedovo a ventinove anni con due bambini non è una maledizione.Un evento non è né bello né brutto. È soltanto un’opportunità. Se avessi avuto unadisciplina avresti potuto trasformare quella circostanza in un evento luminoso,trasferirla ad un ordine superiore... Se avessi avuto il coraggio di conoscerti nonsarebbe stato necessario che Luisa morisse... non sarebbe stato necessario andareattraverso tante sventure.

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Our level of Being attracts our life... Tutto quello che vedi e tocchi è l’immagineriflessa del tuo essere, di quella incompletezza, di quel gap che ti porti dentro.Nell’esistenza non ci sono spazi vuoti. Se non li colmi intenzionalmente, imponendotiun nuovo modo di pensare, di agire, dovrà intervenire il mondo con la sua spietatezza.

Se non vedi, o non vuoi vedere, la malattia si acutizza e la commedia della tuavita si farà sempre più dolorosa. Tutto avviene per rivelarti la causa di quellatragedia, per riportarti alla fonte di tutto questo… e permetterti un giorno ditrasformare la visione mortale dell’esistenza”.

11 I Padroni di casa

Altri frammenti del film della mia vita, immagini del passato, come fotogrammi inspeed motion, si avvicendarono a velocità prodigiosa. Riconobbi nei visi della gente enelle strade, le cento città in cui avevo vissuto, le cento case che avevo abitato. Finchéla intravidi... l’ombra!... Quella oscura presenza che mi aveva sempre seguito nellascelta di ogni nuova casa, ad ogni trasloco. Sentii l’apprensione strozzarmi lo stomacoin una morsa d’acciaio.

In ognuna di quelle case avevo trovato un cerbero: proprietari intrattabili, esserilitigiosi con i quali una sorte ironica, un destino ricorrente, una mirabile pedagogiaaveva voluto che fossero miei vicini e mi abitassero accanto.

“Guarda attentamente... osservali bene! - mi ordinò il Dreamer con ferma dolcezza,anticipando la dolorosità di quello che stava per mostrarmi - Quei padroni di casasono in realtà una sola persona. Sempre la stessa. Non cambia mai... Tu non hai maivoluto ‘vedere’ che dietro la maschera, camuffato da padrone di casa, c’eri sempre tu. Tu che incontravi te stesso!”.

Qualcosa si spezzò dentro. Una porta si chiuse pesantemente alle spalle e sentii loscatto metallico delle mandate. Ebbi la certezza che una volta ascoltate queste parolenulla sarebbe stato più come prima. Ruppi in un pianto disperato, interno, senzalacrime: la mia vita era stata quella di un fantasma, un riflesso che ora vedevoimpallidire nello specchio del mondo e sparire senza lasciare tracce.

Le parole del Dreamer vennero a soccorrermi sul ciglio di quell’abisso. “Essi sono iguardiani, i carcerieri che tu stesso hai assoldato per perpetuare la tua dipendenza.Finché non avrai eliminato dal tuo essere quel canto di dolore che da sempre governala tua vita, quei fantasmi ritorneranno”.

Il silenzio che seguì durò così a lungo che temetti che il filo d’oro che mi legava aLui si spezzasse. Un’angoscia mortale mi assalì al pensiero che mi avesse tagliatofuori dal Suo ‘sogno’. Fu una sensazione terribile. Per il tempo infinito in cuisperimentai quel vuoto, quell’assenza, smisi di esistere. Capii allora quanto il Dreamerfosse ormai parte integrante della mia esistenza. Un prezioso funicolo mi connettevaa Lui come ad un organo da cui succhiavo vita, un terzo polmone da cui aspiravo‘aria pura’.

Poi nuove immagini del mio passato cominciarono a scorrere come su unamoviola. In qualche modo imparai a gestirle. Ora potevo fermarle, ingrandirle,avvicinarle o guadagnare prospettiva, inserirmi o escludermi dalla scena. Rividi la villadi via Fortini, troppo grande e silenziosa ora che Luisa era nell’Istituto di via Venezian

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a Milano, e Luca e Giorgia vivevano con i nonni in Piemonte. Rividi quei giorni che siinseguivano rapidi, accendendosi e spegnendosi come battiti di ciglia. Al tramonto leombre dei pini prendevano possesso della vecchia casa insinuandosi come dita sottilinelle parti più interne del mio essere.

Non sapevo il motivo per cui il Dreamer mi aveva condotto proprio lì, ma untremore incontrollabile si impadronì del corpo.

“Stiamo per entrare nella soffitta della tua vita - disse il Dreamer rincuorandomi –Negli angoli bui della tua esistenza… C’è tanto da eliminare.

Presi coraggio e ripercorsi la strada in salita, fino al grande cancello di ingresso.Riconobbi il vento che rotolava giù per la collina trovando impeto proprio in quelpunto. Come un torrente, scorreva nell’alveo di quella stradina tortuosa, ne lambiva iruvidi muri a secco, screziati del verde e bianco dei capperi selvatici. Entrai dallapiccola porta di metallo. In fondo vidi parcheggiata la Citroën di allora.

La villa mi comparve davanti inaspettatamente, tanto era breve il vialetto interno.Altrettanto improvviso fu l’incontro con la sua scalinata di pietra e cotto.Accingendomi a salire, volsi lo sguardo verso il fondo del giardino, oltre la casa.Indugiai ad osservare le finestre illuminate della piccola dépendance. Lì abitava lanostra unica vicina.

I ricordi affluirono alla mente accalcandosi. Sentii il respiro accelerare mentrecominciavano a scorrere i primi fotogrammi della mia storia con Judith.

12 Judith, ‘la signorina’

Giorgia e Luca la chiamavano ‘la signorina’. Appena di qualche anno più vecchia dime, alta, attraente, Judith era una persona riservata. Viveva da sola nella casetta infondo al nostro giardino. Nulla la stupiva veramente e niente sembrava interessarlaoltre i suoi libri e la musica. La sua espressione di imperturbabile distacco era animatada un battito intenso delle ciglia, agitate come per uno stupore continuo. Mi accertaiche il Dreamer fosse ancora al mio fianco e mi avvicinai ad una delle finestre delpiccolo soggiorno. Sentivo l’essere in tumulto, come allora, quando di notte venivo acercarla per sfogare sul suo corpo la mia paura, l’incapacità di sostenere quello che mistava accadendo.

Rividi quel piccolo ambiente, le pareti ricoperte di libri, il divano centrale tappezzatodi un tessuto a fiori, e Judith che faceva scorrere le lunghe dita sulla tastiera mentre leraccontavo della malattia di Luisa e dell’aggravarsi delle sue condizioni. La sua musicainvase la stanza facendone vibrare ogni atomo e crebbe fino a coprire quelle paroleintrise di menzogna. Ora potevo sentire tutto l’orrore dei pensieri di quell’uomo,l’odore nauseante delle sue intenzioni. Per la prima volta vedevo con chiarezza qualelotta mi straziasse le viscere: combattuto tra il dolore per quella morte annunciata e lagioia segreta e selvaggia di liberarmi di mia moglie, del peso di quel matrimonioimmaturo, squilibrato.

La cortina della finzione si sollevò. Non potevo più nascondermi. Non sarebbe piùstato possibile. Dietro i pianti e la disperazione di quel piccolo uomo, tra la pelle e lamaschera, vidi il ghigno della mia criminalità. Il fiato si sospese per l’orrore. Una

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forza inoppugnabile mi impedì di fuggire e mi tenne immobile davanti alla finestra diJudith.

Rividi la scena del nostro incontro. Luisa moriva ed io mi aggrappavo a quelladonna, chiedendo un p0’ di compagnia, la sua compassione, il suo corpo.

Quando Judith capì le mie intenzioni, non cambiò attitudine, non si turbò. Miprese per mano e mi accompagnò in camera dandomi quello che stavo elemosinando:del sesso… per dimenticare, per fuggire, per trovare sollievo dalla paura che miattanagliava l’anima. Da allora ci incontrammo spesso. Tra noi non c’erano discorsi,e non erano necessari i convenevoli. Di notte la cercavo per placare la mia angoscia,ma i nostri amplessi si esaurivano in orgasmi insignificanti come starnuti.

Il Dreamer non me ne risparmiò una di quelle scene e restai lì, a consumare quellospettacolo, ad assaporare fino in fondo il fiele del loro squallore.

Luisa era in casa, a pochi metri da noi, oltre il giardino. Non potevo essere ioquell’uomo... Il ribrezzo divenne insostenibile. Mi sentii venir meno nel riconoscermicapace di qualunque bassezza pur di salvare me stesso. Così, crudelmente, si stavanocauterizzando le ferite ancora aperte del mio passato.

Judith affrontava il rapporto sessuale come un compito da eseguirescrupolosamente, con impegno e serietà, ma non permetteva che un solo atomo dellamia esistenza si aggrappasse alla sua vita. La nostra relazione le scivolava addossosenza lasciare traccia e senza che la sua vita ne fosse minimamente influenzata. Erafrustrante non riuscire veramente a possederla, mi faceva sentire insicuro quella suaindipendenza. Giunsi alla conclusione che Judith non viveva per nessun altro che persé. Mi convinsi che il suo amore per i libri e per la musica fosse solo un paravento delsuo egoismo. E così, sigillata sottovetro ed etichettata con questo giudizio, la relegaitra i ricordi del passato. Solo ora, attraverso gli occhi del Dreamer, vedevo veramentecosa aveva rappresentato per me Judith. Solo adesso riconoscevo nella sua indole,riservata e schiva di ogni ipocrisia, l’attitudine distaccata di un saggio e l’amore purodi una donna sincera.

Judith era migliore di me. Mi aveva raccolto come un disperato nel mezzo delnaufragio della mia vita. Non so immaginare cosa avrei fatto senza di Lei. Avevavisto chiaramente chi ero! Aveva visto la mia vita insensata curvare orribilmente suse stessa. Mi aveva riconosciuto come un portatore di morte! Tenermi fuori dalla suavita era stata la sua salvezza. Come avevo potuto giudicarla così duramente?

Ora Judith non occupava più un angolo buio nella soffitta della mia memoria, masplendeva. La sua musica era la vita...

Qualcosa però non quadrava. Come avevo fatto ad incontrarla? Come aveva fattoun essere come Judith ad entrare nel mio inferno proprio quando ne avevo cosìdisperatamente bisogno?

Mi voltai verso il Dreamer. Le gambe stavano cedendo. Un pensiero assurdo, uncuneo di pazzia si stava piantando in una piccola crepa della mia razionalità. Da lì losentivo spingere. Stava penetrando, lentamente, inesorabilmente in un punto reclusodella coscienza. Non era possibile!!!... Judith... era un dono del Dreamer!... Judith... erail Dreamer!... Quante volte era già intervenuto nella mia vita a salvarmi? Come avevopotuto essere così cieco? Come avevo potuto essere così disattento ad una taleperfezione?

Il pensiero vorticò sull’orlo di quella voragine e vi sprofondò.

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“Ognuno di noi è dotato di un immenso margine di salvezza” - furono le parolecon cui venne a recuperarmi il Dreamer. Il tono era sorprendentemente dolce - “Manoi lo consumiamo, lo assottigliamo velocemente, attraverso una continuadisattenzione, la irresponsabile disobbedienza ai segnali, alle avvertenze, ai semaforidell’esistenza… e ci crediamo fragili, esposti ad ogni pericolo, in baliadell’accidentalità...”.

La voce del Dreamer riprese il tono risoluto e severo, la sua intensità mi fecefremere. “La vita è potentissima e il corpo é indistruttibile.. Per poter morire bisognarendere possibile l’impossibile”.

Riferendosi all’uomo che ero, come se parlasse di qualcun altro, disse: “Perdonalo!...Perdonando lui guarirai il tuo passato e lo sostituirai con la luce di oggi”.

Una sponda dura del mio essere si intenerì e crollò. Piangevo come un bambino.Un magma di dolori, di pensieri ed emozioni spiacevoli: sensi di colpa, rimpianti,accuse, risentimenti, venne alla superficie.

“Gli uomini sono tutti come te, frammenti sperduti nell’universo, governati dalleemozioni negative... Accusare, lamentarsi, dipendere è la storia della loro vita… èl’unico senso che sanno dare alle cose!… Strozzati dall’angoscia, cercano didimenticare la morte con la morte”.

13 Grazie Luisa!

Il viaggio nel passato riprese. Lo scenario lentamente cambiò ed il Dreamer miriportò al periodo dei miei continui viaggi tra Firenze e Milano, in visita a Luisa,ricoverata all’Istituto di Via Venezian. Subito fui imprigionato nelle stesse gabbiementali ed entrai negli stati d’essere di allora. Provai quella sofferenza che si facevapiù acuta all’avvicinarsi di ogni partenza. Mi straziava il conflitto tra l’obbligo moraledi esserle vicino e la ripugnanza ad entrare in quei gironi affollati di esseri sofferenti. Attraversando le corsie, incontrandoli per i corridoi, leggevo i loro visi, lisfogliavo come pallide pagine di un libro. Penetravo penosamente nelle righe della lorostoria, nelle parole delle loro espressioni, nell’inchiostro della loro sofferenza. La pauraterribile di potere un giorno subire il loro stesso destino mi invadeva. Allora provavouna voglia irresistibile di fuggire, di lasciarmeli indietro e dimenticarli per sempre.Fuori c’era quella che chiamavo vita: la gente persa nelle stupidaggini di ogni giorno,il frastuono del traffico, il suono ed il biancore rassicurante di risate futili. E lì, tra lafolla, correvo a rifugiarmi. Frettolosamente assolto il rituale del coniuge addolorato,una volta assopiti i miei sensi di colpa incontrando qualcuno dello staff medico,chiedendo notizie e mostrandomi preoccupato, trovavo un pretesto qualsiasi e fuggivo.Come un disperato, mi aggiravo per le strade del centro rifugiandomi tra la folla,immergendomi nella confusione del traffico. Mi fasciavo dei colori e delle luci dellacittà, mi stordivo dei sorrisi delle donne agghindate e dei decori delle vetrine,alimentando in me l’illusione di un mondo senza problemi, abitato da gentemiracolosamente invulnerabile e felice. In quella fantasia cercavo rifugio. In quellabolla psicologica trovavo respiro, come un’anguilla nella sua bava. Solo il pensiero diLuisa, ogni tanto, faceva irruzione senza preavviso e disturbava la mia ubriachezza.Apprensioni, paure, sensi di colpa, come Erinni e deità vendicatrici, venivano a

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scovarmi, in un cinema, in una mostra o in un caffè. Allora il pensiero della fragilitàdella vita, l’impotenza e lo sconforto per la sua precarietà, mi inondavano l’essere conun freddo terrore.

Col Dreamer arrivai al capezzale di Luisa. Aveva gli occhi chiusi. Era sola. IlDreamer aveva scelto un giorno in cui ero a lavoro o stavo aggirandomi per la cittàfuggendo da me stesso. Il respiro affannoso di Luisa sollevava la coltre leggera ad unritmo impressionante, inumano. Riconobbi quel sintomo con una stretta al cuore. Isuoi giorni si stavano spegnendo.

Un cenno del Dreamer mi incoraggiò ad avvicinarmi.Spostai con cautela una sedia accanto al comodino di metallo e restai a lungo ad

osservarla. Ciocche di capelli madide di sudore ingombravano la fronte e la porzione diviso che sporgeva dal lenzuolo. I mesi ed i giorni del nostro breve matrimonio mipassarono davanti, vividamente, con tutto il loro carico di eventi, di ricordi. Il nostroprimo appartamento. I racconti che le facevo al ritorno dal lavoro e l’orgoglio cheleggevo nei suoi occhi per i miei primi successi. La nascita di Giorgia. I suoi piantinotturni, interminabili, che non riuscivamo a calmare. La nascita di Luca. E poi lamalattia.

La nostra immaturità si era trasformata presto in incomprensione, gelosie, litigi,rimpianti, accuse. Eravamo due deboli, aggrappati l’uno all’altra; due incompleti che sierano illusi di poter fare un’unità. Il risultato della nostra unione era stataun’incompletezza al quadrato. Questi pensieri ed altri, affiorarono alle labbra facendosiparole che mormoravo al suo orecchio. Le parlai della vita, della bellezza, della felicità. Non aveva importanza che mi sentisse. Un dolore acerbo mi batteva in petto, unpianto senza lacrime mi stringeva la gola. Eppure gioivo. Mi sentivo innamorato,appassionatamente, come mai prima. Fino a quel giorno, ipnotizzato dall’azione e damille illusorie occupazioni, avevo subìto come pura sofferenza il tempo trascorsoaccanto a Luisa. Quell’attesa senza passato né futuro, quel tempo senza avvenimenti,l’immobilità, il silenzio e la calma che governavano quel mondo, mi riempivano dispavento. Quella visione era insostenibile come la luce per un bruco. Sentivo un unico,incontrollabile desiderio: fuggire e mettermi al riparo dalla strisciante invadenza diuna realtà che mi gelava il sangue nelle vene.

“Questa donna è il tuo passato che sta morendo” disse il Dreamer alle mie spalle.La forza di queste parole e la delicatezza con cui le pronunciò crearono una frizionenell’essere che mi commosse e mi liberò.

Quel senso di morte che per mesi avevo sentito accanto a lei non era esterno a me.Era la mia morte. La morte che portavo dentro da sempre. Luisa mi aveva permesso divederla, di sentirla e toccarla. In quel momento supremo, mi stava dandol’opportunità di sconfiggerla. In ritorno l’avevo macchiata di ogni malevolenza, diogni accusa.

“Chiedile perdono! - ordinò paternamente il Dreamer - La sua vita è stata qualcosadi speciale, è servita a farti riconoscere la morte in te: il vittimismo, i sensi di colpa,la distruttività che hanno guidato la tua esistenza”.

“Grazie Luisa” - sussurrai ravviandole i capelli bagnati ed asciugandole la fronte -“Quanta disattenzione... Io non sapevo... Questa è la nostra resurrezione... Iocambierò per sempre, ed i nostri figli, cambieranno con me!”.

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Le ore trascorrevano ma non sentivo stanchezza. Non avrei voluto essere in nessunaltro posto al mondo che lì, accanto a lei. Per quanto tempo, riflettevo, ero venuto atrovarla in quell’ospedale, e negli altri, sentendomi separato, convinto di essere il sanotra i malati. Settimana dopo settimana, avevo vissuto con quegli esseri aggrappaticome lei ad una scheggia di vita, senza capire il loro dono.

Allora sarebbe stato per me impossibile capire che quegli uomini e quelle donnenon erano fuori di me, ma la proiezione di una visione malata dell’esistenza…immagini riflesse della mia malattia, della mia separazione, della mia irresponsabilità.Quel mondo mi stava rivelando la morte che mi portavo dentro. Contenerlo,assumersene la responsabilità, faceva parte di quel processo, neppure ancora avviato,che il Dreamer chiamava “perdonarsi dentro”.

Self-observation is self-healing.Osservare tutto questo, realizzare quanto ogni più piccolo dettaglio di quel mondo

mi appartenesse, e provare gratitudine, mi fece avvertire i primi sintomi della miaguarigione.

Era notte. Le corsie dell’ospedale silenziose. Non sapevo più da quanto tempo fossial suo fianco. Avevo consumato tutto quello che avevo da consumare: parole, ricordi,lacrime. C’era una cosa ancora da fare! Ripiegai il lenzuolo e la scoprii. Sotto lacamicia il corpo mostrava gonfiori enormi. Il ventre in particolare era grande e turgidocome se fosse pronta a partorire. La rinfrescai passandole sul petto e sulle gambe unpanno umido leggermente profumato. Esaminai la ferita. cupa e profonda quanto unnido. Lucidità, perizia ed una freddezza che non avrei potuto immaginare guidarono lemie mani mentre la medicavo. Anni di incomprensione, le incrostazioni di tantecattiverie e tradimenti, li grattai via, insieme alle cellule ed ai tessuti morti. Disinfettai,coprii con un tampone di garza ed incerottai. Le rimboccai la coperta e la baciai.

“Il passato va benedetto, guarito... Entra in ogni piega! Porta luce in ogni angolo!Trasformalo attraverso una nuova comprensione...

Il tuo passato sarà guarito quando la smetterai di indulgere in apprensioni, dubbi epaure. Questo é il vero significato di ‘perdonarsi dentro’”.

Queste parole del Dreamer ancora echeggiavano nell’aria quando sentii mancarmi ilpavimento sotto i piedi come per l’aprirsi di una botola. Caddi sulla schiena e slittailungo uno scivolo invisibile a una velocità vertiginosa finché una voragine di colori miingoiò.

Quando riaprii gli occhi ero nella mia stanza d’albergo a Marrakech. Quello stessogiorno organizzai il mio viaggio di ritorno a New York. Un senso del miracolosoavvolgeva ancora il ricordo di ogni istante vissuto con Lui, dall’incontro al Café de laFrance al viaggio nel mio tormentato passato, fino alla notte trascorsa con Luisa.

Il mio bagaglio era già stato portato via, la macchina mi attendeva per raggiungerel’aeroporto, ed io indugiavo. Non mi decidevo a lasciare quei luoghi dove ancorapotevo respirare la Sua presenza. Rivolsi al Dreamer un pensiero di gratitudine peravermi accompagnato nel mio passato ed avermi aiutato a liberarlo di tanta zavorra.Solo qualche brandello della mia vita era rimasto attaccato all’essere. Un frammento,in particolare, uno solo, l’avevo trattenuto e ancora lo stringevo in pugno. Per quantodoloroso, lo tenevo stretto stretto, restio a lasciarlo andare: quell’ultimo sguardo aLuisa, quel bacio d’amore scambiato tra passato e futuro, ai confini dell’esistenza.

INDICE -------------

Capitolo IL’incontro con il Dreamer

1 L’incontro con il Dreamer2 Il lavoro è schiavitù3 Sono una donna…4 Una specie in estinzione5 Il risveglio6 Cambiare il passato7 Perdonarsi dentro8 Self-observation is self-correction9 La morte non è mai unasoluzione10 La guarigione procededall’interno11 I Padroni di casa12 Judith, ‘la signorina’13 Grazie Luisa!

Capitolo IILupelius

1 Incontrare la Scuola2 Il mondo ci è stato raccontato3 La Scuola del capovolgimento4 Lupelius5 L’incontro con Padre S.6 La dottrina di Lupelius7 Offri un gallo ad Asclepio8 Vietato uccidersi dentro9 The School for Gods10 Mea Culpa11 Stati ed eventi 112 Stati ed eventi 213 Metti Dio al lavoro!14 L’arte di vegliare15 Le cattive abitudini16 Non ce la farai!17 Capovolgi le tue convinzioni!18 La sindrome di Narciso19 Un uomo non può nascondersi

Capitolo IIIIl Corpo

1 Il mondo sei tu2 I nani psicologici3 Il canto di dolore4 Il corpo non può mentire5 Sii frugale!6 Un mondo senza fame7 Il mondo è come tu lo sogni8 Il pensiero crea9 Thinking is Destiny

Capitolo IVLa Legge dell’antagonista

1 La Corsa2 I custodi di Main Street3 I muri

4 La Legge dell’Antagonista5 Ama il tuo nemico6 L’Antagonista7 Impara a sorriderti dentro8 La suite al St James9 Prima che il gallo canti10 A cena con il Dreamer11 L’amministratore disonesto12 La vittima è sempre colpevole13 I biglietti14 A teatro con il Dreamer15 Le Miserables

Capitolo VAddio a New York

1 Per le strade di Manhattan2 Gli strumenti del sogno3 La menzogna4 Addio New York5 Chi ama non può dipendere6 Non si può sognare e dipendere7 Un futuro di seconda mano8 A cena con lo Sceicco9 Fuga nella malattia10 Il ragno e la preda11 Il cucù dell’esistenza12 La bottiglia13 I veri poveri14 La paura è amore degradato15 Solution comes from above

Capitolo VIA Kuwait City

1 Questa è economia!”2 Dimenticare il ‘sogno’3 Preoccuparsi è animalesco4 La fuga è per pochi5 Programmare senza crederci6 L’Agenda7 Pronto, chi sono?8 Sgambetto alla meccanicità9 Vincere se stessi10 Il ‘sogno’ è la cosa più reale checi sia11 Heleonore12 L’adozione

Capitolo VIIRitorno in Italia

1 La clausola2 Un brusco risveglio3 L’ignoranza è sempre a un palmodi distanza4 Ritorno al passato5 L’inquinamento psicologico6 Nella pancia della balena7 L’incidente8 La lettera. Un Re Mida alrovescio9 Danza, perdio, danzaaa!”10 Sei vivo e sincero solo sottominaccia!

11 La guarigione può avvenire solodall’interno12 Elogio dell’ingiustizia13 Il mondo è creato dai nostripensieri14 Il passato è polvere.15 Volontà e Accidentalità

Capitolo VIIIA Shanghai con il Dreamer

1 La perfezione non si ripete mai2 La ragione dell'uomo è armata3 L’animale che mente4 Diventa un uomo libero!5 Il papà del Budda6 Dipendere è una servitùintollerabile7 Vision and reality are one8 La razza da impiego9 Fai solo ciò che ami!10 La direzione terribile emeravigliosa…11 To fall in love12 Io sono tu!13 Uni-verso. Verso l’uno14 Il re è la terra e la terra è il re15 La Realtà è il Sogno più iltempo16 Essere toccati dal ‘sogno’

Capitolo IX - Il Gioco1 Credere per vedere2 Cambia la tua vitaaa!3 Il Pagamento4 Noi siamo l’arco, la freccia e ilbersaglio5 Sono venuto a liberarti!6 Recitare i ruoli7 Il cammino a ritroso8 Non sei pronto!9 La scorciatoia10 Comprimere il tempo11 Gli altri ti rivelano12 Recitare intenzionalmente. TheArt of Acting13 Il ‘Gioco degli Incontri’14 Il nuovo paradigma15 Il Replay16 Aspettarsi dal mondo17 Questo libro è per sempre!

Capitolo XLa Scuola

1 La Visione verticale2 Una Scuola per sognatoripragmatici3 Il sogno del sogno4 Il paradiso portatile5 La verità economica più grande6 Avere è Essere7 Università significa ‘verso l’uno’8 La nascita della Scuola9 State is place!10 La Banca

“La Scuola degli Dei”Proprietà letteraria riservataCopyright © 2002 by ESE ItaliaIIa edizione italiana - giugno 2005ISBN 88-8494-000-1

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