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DOMENICA 11 NOVEMBRE 2007 D omenica La di Repubblica il reportage Romania, la generazione fuggita ETTORE LIVINI e NORMAN MANEA le tendenze NATALIA ASPESI i luoghi cultura La scomparsa di Norman Mailer NADIA FUSINI, NORMAN MAILER e ANTONIO MONDA le storie Abbi cura di te: così finisce un amore VITTORIO ZUCCONI WASHINGTON A ll’inizio non fu il verbo, ma la luce, a creare il van- gelo dei Kennedy. Le parole che il mondo avrebbe poi ammirato, quelle frasi sonore che avevano scosso dal sonno una nazione intorpidita, «…non chiedete che cosa l’America possa fare per voi…», «…una nuova generazione ha impugnato la fiaccola…», «…sogno il giorno in cui la nostra forza militare sarà eguagliata dalla nostra saggez- za…», erano belle e ancora echeggiano nel vuoto che Jfk ha la- sciato. Ma quando apriamo il libro dei miti del Ventesimo seco- lo e risentiamo la tenace, immortale seduzione che questo no- me evoca, non sono parole quelle che emozionano la memoria. Sono fotografie, sequenze, provini, come questi che Richard Avedon scattò pochi giorni prima dell’ingresso della famiglia al- la Casa Bianca e raccontano nel linguaggio della luce, regina del bianco e nero, senza la distrazioni del colore, la nitidezza di una speranza che forse non è mai esistita, ma che esisterà per sem- pre. L’immagine dei Kennedy è l’immagine. John Fitzgerald Kennedy fu il primo presidente americano, il primo uomo politico nella storia a sedurre una nazione e a con- quistare il potere cavalcando un raggio di luce. Furono i rifletto- ri a baciare lui negli studi televisivi di Chicago, mentre scarnifi- cavano il volto di Nixon, e a far credere ai telespettatori che aves- se vinto il duello, mentre gli ascoltatori, nell’oscurità delle radio, avevano concluso il contrario. Era stata la luce del mattino ri- flessa dall’Oceano Atlantico in casa Kennedy a Hyannisport, do- ve quarant’anni più tardi il figlio John sarebbe precipitato con il suo Piper tentando di raggiungerla, a giocare con i capelli, il ven- to, i dentoni, il sorriso, e a dipingere il ritratto di una famiglia sen- za ombre, mentre ora sappiamo quanto scura fosse l’ombra, dentro e fuori quella casa tragica. Ed è ancora la poesia della lu- ce sui volti dei bambini, nelle mani degli adulti, negli sguardi di Caroline, negli occhi di Jacqueline, quella che le foto di Avedon catturano, perché l’artista aveva intuito che lì stava, e avrebbe abitato per sempre, l’essenza luminosa del mito. Nella luce. (segue nelle pagine successive) con un articolo di AMBRA SOMASCHINI Kennedy Ecco, cinquant’anni dopo, gli scatti mai pubblicati fatti da Richard Avedon in un celebre fotoservizio la fabbrica del mito CONCITA DE GREGORIO Ara Güler, Istanbul in bianco e nero MARCO ANSALDO, SIEGMUND GINZBERG e ORHAN PAMUK I passi audaci delle scarpe-feticcio FOTO RICHARD AVEDON-THE KENNEDYS PORTRAIT OF A FAMILY/PUBLISHED 2007 BY THAMES & HUDSON LTD/HARPER COLLINS Repubblica Nazionale

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DOMENICA 11NOVEMBRE 2007

DomenicaLa

di Repubblica

il reportage

Romania, la generazione fuggitaETTORE LIVINI e NORMAN MANEA

le tendenze

NATALIA ASPESI

i luoghi

cultura

La scomparsa di Norman MailerNADIA FUSINI, NORMAN MAILER e ANTONIO MONDA

le storie

Abbi cura di te: così finisce un amore

VITTORIO ZUCCONI

WASHINGTON

All’inizio non fu il verbo, ma la luce, a creare il van-gelo dei Kennedy. Le parole che il mondo avrebbepoi ammirato, quelle frasi sonore che avevanoscosso dal sonno una nazione intorpidita, «…non

chiedete che cosa l’America possa fare per voi…», «…una nuovagenerazione ha impugnato la fiaccola…», «…sogno il giorno incui la nostra forza militare sarà eguagliata dalla nostra saggez-za…», erano belle e ancora echeggiano nel vuoto che Jfk ha la-sciato. Ma quando apriamo il libro dei miti del Ventesimo seco-lo e risentiamo la tenace, immortale seduzione che questo no-me evoca, non sono parole quelle che emozionano la memoria.Sono fotografie, sequenze, provini, come questi che RichardAvedon scattò pochi giorni prima dell’ingresso della famiglia al-la Casa Bianca e raccontano nel linguaggio della luce, regina delbianco e nero, senza la distrazioni del colore, la nitidezza di unasperanza che forse non è mai esistita, ma che esisterà per sem-

pre. L’immagine dei Kennedy è l’immagine.John Fitzgerald Kennedy fu il primo presidente americano, il

primo uomo politico nella storia a sedurre una nazione e a con-quistare il potere cavalcando un raggio di luce. Furono i rifletto-ri a baciare lui negli studi televisivi di Chicago, mentre scarnifi-cavano il volto di Nixon, e a far credere ai telespettatori che aves-se vinto il duello, mentre gli ascoltatori, nell’oscurità delle radio,avevano concluso il contrario. Era stata la luce del mattino ri-flessa dall’Oceano Atlantico in casa Kennedy a Hyannisport, do-ve quarant’anni più tardi il figlio John sarebbe precipitato con ilsuo Piper tentando di raggiungerla, a giocare con i capelli, il ven-to, i dentoni, il sorriso, e a dipingere il ritratto di una famiglia sen-za ombre, mentre ora sappiamo quanto scura fosse l’ombra,dentro e fuori quella casa tragica. Ed è ancora la poesia della lu-ce sui volti dei bambini, nelle mani degli adulti, negli sguardi diCaroline, negli occhi di Jacqueline, quella che le foto di Avedoncatturano, perché l’artista aveva intuito che lì stava, e avrebbeabitato per sempre, l’essenza luminosa del mito. Nella luce.

(segue nelle pagine successive)

con un articolo di AMBRA SOMASCHINI

KennedyEcco, cinquant’anni dopo,gli scatti mai pubblicatifatti da Richard Avedonin un celebre fotoservizio

la fabbrica del mito

CONCITA DE GREGORIO

Ara Güler, Istanbul in bianco e neroMARCO ANSALDO, SIEGMUND GINZBERG e ORHAN PAMUK

I passi audaci delle scarpe-feticcio

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(seguedalla copertina)

Eppure nemmeno il presidente eletto,come vuole il suo titolo prima che pre-sti giuramento il giorno 20 gennaio,aveva capito quanto sarebbe statoprofondo il debito che avrebbe con-tratto con quelle immagini. Alla fine

della lunga, noiosa sessione di pose e di scatti inun’altra delle case di famiglia — quella di Palm Bea-ch in Florida dove anni dopo un suo nipote, WillySmith Kennedy, sarebbe stato accusato e proces-sato per violenza carnale sulla spiaggia di notte, aproposito di buio — uscì sbuffando che quella erastata «una mattina sprecata». Sapeva bene quantoimportanti fossero i media, i settimanali patinaticon le loro magnifiche illustrazioni, il pubblicofemminile, la moda, che era la specialità di RichardAvedon, ma mancavano appena due settimane al-la inauguration, all’insediamento, e la sua agendaribolliva di impegni. C’erano i segretari di gabinet-to, cioè i ministri, da scegliere, i finanziatori eletto-rali da ricompensare con ambasciate o nomine al-tisonanti, lo staff della Casa Bianca da formare, leinterviste importanti, quelle politiche, con i grandiquotidiani e i network da organizzare, il discorsoinaugurale, «…una nuova generazione ha impu-gnato la fiaccola…», da mettere a punto con TedSoerensen, il cantore del kennedysmo, il mago del-la parola. E proprio quel giorno, Fidel Castro avevarotto le relazioni diplomatiche con Washington inrisposta all’embargo, disegnando i contorni di fu-turi errori, rischi e tragedie nucleari planetarie evi-tate per un soffio.

Aveva acconsentito a quella stucchevole photosession con il maestro della moda, i suoi invadenticollaboratori, i riflettori, i flash, gli ombrelli per l’il-luminazione morbida e indiretta, l’immancabilerullo di carta bianca che Avedon sempre usava co-me sfondo per i suoi ritratti, per fare contenta Jackie.Lei era una insaziabile consumatrice di riviste dimoda («tu mi stai mandando in rovina con le tuespese per abiti», l’avrebbe poi rimproverata in unalite nello studio ovale), ammiratrice del fotografo fi-glio di un ebreo russo emigrato a New York, che ave-va cominciato la carriera facendo le macabre foto-tessere dei marinai, per l’identificazione nel casofossero annegati. Lui neppure sapeva chi fosse. Eranervoso, irritabile, distratto. Entrava e usciva dallestanze trasformate in studi, sempre seguito da unassistente al quale dettava note, memo, messaggi,nomi di persone da chiamare, frasi da proporre aSoerensen per il discorso inaugurale, mentre JohnJohn, il bebè di neppure due mesi, alternava il son-no agli strepiti del neonato che vorrebbe dormire.«Interrompeva una dettatura per un attimo di posae poi riprendeva senza mai perdere il filo», sbalor-diva il fotografo. Non avrebbe neppure dovuto es-serci, Jfk: «Io non avevo chiesto niente, ero andatoper fare la futura first lady, gli abiti che lei stava pre-parando con Oleg Cassini per il ballo ufficiale, ibambini, la famiglia, ma lo speravo, lo sapevo che ilpresidente non avrebbe resistito». Nel mezzo di unaserie di scatti, Jfk faceva irruzione, posava e scappa-va tra le raffiche dei flomp flomp flomp dei flash, co-me lontani colpi di carabina.

La luce era quello che lo attirava, come un aman-te che sapeva che sarebbe stato appassionatamen-te ricambiato. Già un altro grande fotografo dell’e-poca, Orlando Suero, che aveva fatto un servizioper un “femminile”, McCall’s, ricordava infastiditoche John F. «proprio non riusciva a star fuori dal-l’inquadratura» e continuava a «infilarsi dentro loscatto». Irritava anche Jackie, che si sentiva un po’

del mestiere, che aveva sognato di fare la fotogior-nalista, aveva lavorato per Voguee per un anno co-me “paparazza” di gossip e di mondanità per il Wa-shington Times-Herald (il progenitore del Wa-shington Post). Aveva lasciato il giornalismo — chesua madre, Janet Auchincloss, considerava un me-stiere «poco dignitoso» per una signora — soltan-to per sposarsi. Dunque sapeva quanto seccantefosse per un fotografo di moda, per il quale ognidettaglio deve essere perfetto, trovarsi un estraneoche ruzzola dentro l’obbiettivo, anche se l’estra-neo è un presidente degli Stati Uniti.

Altri cavalieri del mito, designer e architetti diquella storia che i proiettili di Lee Harvey Oswaldavrebbero trasformato in una storia infinita, eranogià all’opera o ci si sarebbero presto dedicati. Soe-rensen forgiava i discorsi. Theodore White racco-glieva gli appunti per la sua definitiva cronaca di“come si fa un presidente”, The Making of a Presi-dent, coccolato e ospitato dal clan Kennedy che loaccolse, unico giornalista, nella casa di famiglia aHyannisport per la veglia dei risultati. Arthur Sch-lesinger jr costruiva la definitiva agiografia di Jfk,quella storia dei “mille giorni” della presidenza in-compiuta che sarebbero divenuti l’equivalentedelle vite dei santi e dei cavalieri nella cultura po-polare dell’alto Medioevo. E Pierre Salinger, gior-

nalista giovanissimo e di non particolare lustro, erastato scelto come “voce e volto” della nuova presi-denza, ad appena trentasei anni, perché l’Americae il mondo potessero vedere la rappresentazionedella gioventù finalmente al potere.

Erano tutti giovani davvero, John Kennedy con isuoi quarantaquattro anni, Jackie da poco tren-tenne, Caroline che non ne aveva ancora compiu-ti quattro, John John neonato, il fratello Bobby chesarebbe diventato ministro della Giustizia a tren-tasei anni. Lo stesso fotografo, Avedon, pur nellasua fama e nel suo successo, aveva appena tren-totto anni e l’equazione fra luminosità e giovinez-za era facile da imprimere sulla pellicola. Più divent’anni dopo un altro presidente, il solo che neldopoguerra avrebbe avvicinato le proporzioni delmito kennedyano, Ronald Reagan, avrebbe an-nunciato che con lui «era di nuovo mattina in Ame-rica», ma il suo era un intelligente, efficace slogan.In queste foto, nella loro luce, si vede invece cheuna notte è davvero passata, che è tornato il sere-no, anche se è il sole artificiale dei riflettori e dei fla-sh. Perché ci sono i bambini, che sono il messaggioimmediato di un nuovo mattino.

Gli attori professionisti temono bambini (e ani-mali) perché sanno che nella loro spontaneità in-controllabile essi rubano la scena, che calamitano

l’attenzione, gli «oooh» e «aaaah» degli spettatori, eproprio in questo si vede la genialità del fotografo.Nei provini, mai pubblicati prima di questa raccol-ta fatta dal Museo nazionale Smithsonian con i con-tatti ad esso donati, il grand’uomo, il presidente, èuna quinta di scena, una presenza allusa più che in-grandita, il padre insieme assente e presente, comenella famiglie da sillabario che ancora, in quell’albadella decade Sessanta che le avrebbe scompagina-te, erano la norma e l’ideale della società post-Ei-senhower. Nello scatto più bello, quello che a qua-rantasei anni di distanza ancora riesce a commuo-vere persino chi lo ha visto migliaia di volte, il padreè soltanto una falce di uomo, uno spicchio, l’ombradi una mano scura, un po’ pelosa, ma sicura e in-confondibilmente virile, contro la quale Caroline, lafiglia, poggia la guancia, pallida come il suo vestiti-no di pizzo, i capelli illuminati dai colpi di sole, damèches naturali contro il fumo di Londra dell’abitopaterno. Caroline è l’America, è la bambina che of-fre amore incondizionato al padre nella certezza diriceverne altrettanto da lui. È la daddy’s little girl, lacocca del papà, ingenua, ignara, innocente come lanazione che ancora non aveva conosciuto il male, ilmondo, la corruzione, il Vietnam, il Watergate, i sol-di delle lobby voraci che si comprano i candidati, lostupro di Manhattan.

La nazione-bambina, nella sua luminosità asso-luta, ruba giustamente lo show al padre, che Avedonricorda come troppo rigido, poco spontaneo, quelgiorno di gennaio nella villa della Florida, e per que-sto lo riduce spesso a presenza intuita, implicita.Neppure Jacqueline, nella sua coproduzione del-l’abito da sera con Oleg Cassini, sul quale lei avevavoluto cucire in vita una coccarda di raso tinta su tin-ta per un omaggio sottile alle origini francesi del pa-dre, Bouvier, riesce a imporsi, pur nella sua lumino-sità esaltata dai filtri, dalle luci e dai ritocchi conl’airbrush, la pistola a spruzzo che fotografi e fotoeditor dei settimanali usavano, prima che fosse in-ventata la fotografia digitale. Fin troppo ovvio, nelmessaggio politico e sociale che vuole inviare, è il ri-tratto ufficiale dei sovrani, di Jack (come era chia-mato in famiglia) e Jackie, lei leggermente alle spal-le del marito, rispettosa dei ruoli politici e familiari,la mano nell’incavo del suo gomito, protettiva e pro-tetta insieme, verso il suo uomo. Ritratto di corte.

Tutto è ancora luce, per Jackie, per il neonato, il fu-turo John John che tenta di aprire gli occhietti cispo-si del bebè e subito li richiude infastidito, per Caroli-ne, per i consumatori di quelle foto, per noi che an-cora non sapevamo nulla e credevamo a tutto, lon-tani ancora da quell’età dei sospetti che proprio que-st’uomo, con la sua morte appena mille giorni dopoqueste immagini, avrebbe scatenato. La bambina-nazione avrebbe accompagnato presto quello spic-chio d’uomo al cimitero di Arlington. Il bambino congli occhietti appiccicosi si sarebbe inabissato nelleacque davanti alla casa di famiglia. Jackie avrebbesporcato l’abito bianco di una vedovanza di Stato,sposando uno degli uomini più brutti e ricchi delmondo. E la pubblicistica, la memorialistica, gli sto-rici avrebbero demolito il castello di cartone di Ca-melot, della corte del nuovo re Artù, raccontandocicose che forse avremmo preferito non sapere, le gra-vi malattie del sovrano imbottito di pillole per tirareavanti, i suoi contatti con Cosa nostra, le “bambole”,Marilyn, le segretarie inseguite. Le storie dell’om-bra, dopo le rappresentazioni della luce. Avedonnon poteva saperle, né potevano interessargli, per-ché il compito dei pittori di corte non è la verità. Mauna verità in queste foto c’è, involontaria. Di quellafamiglia, una sola persona è sopravvissuta, nono-stante tutto. La bambina. Dunque la nazione.

26 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 11NOVEMBRE 2007

la copertinaLa fabbrica del mito

VITTORIO ZUCCONI

Era il 3 gennaio 1961, due settimane dopo Jfk si sarebbeinsediato alla Casa Bianca. Il fotografo di moda RichardAvedon scattò decine di foto al presidente e alla famigliaritraendo le speranze e l’innocenza di un’America tornatagiovane. Oggi vengono pubblicate anche quelle scartate

TUTTI FELICIIn alto, Jackie e Jfk; Jackie con John John bebè; sopra, la piccola Caroline; nell’altra pagina

i provini per arrivare alla storica foto di Caroline col padre che è quella in copertina. Tutte le fotosono tratte dal libro Richard Avedon: The Kennedys. Portrait of a Family.Testi di Shannon Thomas

Perich, prefazione di Robert Dallek (Thames & Hudson Ltd/ Harper Collins)

Dietro l’icona Kennedy

Repubblica Nazionale

Una Camelot ancora senza ombre

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 27DOMENICA 11NOVEMBRE 2007

Unamano piccola chiusa in una mano grande, gli occhi parlano, di-cono: «Sono contenta di stare con te, papà». Richard Avedon e iKennedy. La storia delle foto più belle della famiglia più celebrata

d’America comincia qui, con Caroline che cammina accanto al padreJohn, si snoda in un mondo fatto di emozioni e sentimenti. Poche pose,pochi provini, bianco, luce, immediatezza, sobrietà, un prodotto finale,bello, perfetto, magico come quello di Camelot. Richard Avedon: TheKennedys. Portrait of a Family (testo di Shannon Thomas Perich, prefa-zione di Robert Dallek, Thames & Hudson Ltd/ Harper Collins, nelle li-brerie inglesi e americane dalla prossima settimana) mette in mostra ilprivato, torna a far scintillare il mito kennedyano, ma attraverso una di-mensione interiore.

Fu un servizio fotografico lungo un giorno. Richard Avedon scatta il 3gennaio del 1961, a Palm Beach, in Florida. Jfk si fa fotografare mentre faun sacco di cose: gioca con Caroline, legge messaggi che arrivano dal-l’ufficio di Eisenhower, detta virgolettati. Foto fatte poco prima del suoinsediamento ufficiale, il 20 gennaio. Sei finiscono subito su Harper’s Ba-

zaar, altre vengono donate da Avedon al National Museum of AmericanHistory nel ’66. Inedite, splendide, attuali. Agganciate a due anniversari:il 22 novembre ricorre l’assassinio di Jfk; il 27 novembre Caroline festeg-gia i cinquant’anni.

Racconta Shannon Perich dalla sua casa negli Usa: «Soltanto guar-dando attentamente e a lungo questa photo session possiamo avere unavisione d’insieme, possiamo osservare gli scatti da una prospettiva di-versa, più profonda. Una prospettiva finora sconosciuta, fondata sull’in-timità. Avedon, che allora lavorava per molti clienti ma prima di tutto perHarper’s Bazaar, aveva già ritratto Jackie due volte, nel ’46 mentre debut-tava in società e nel ’58, quando Jfk era senatore».

Aggiunge Perich: «I Kennedy fanno parte della nostra cultura visiva equesti scatti suscitano affetto, tenerezza. Caroline cammina accanto alpadre, Jackie resta immobile, tutto le danza intorno a un ritmo serrato,speciale, racconta che Jfk si è sempre sentito a suo agio più di fronte allafolla che a una fotocamera. È lei alla fine che cerca di rassicurarlo. Sonoscatti molto diversi da quelli ufficiali a cui siamo stati abituati».

AMBRA SOMASCHINI

IL LIBROLa copertina

di Richard Avedon:The Kennedys.

Portraitof a Family

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BUCAREST

Florea Muresanu ha baratta-to due figli, centoventi pe-core e tre maiali per un mu-tuo e uno scheletro di casa

fatta di un piano di mattoni con tondiniche spuntano dal tetto, arrugginiti dal-la pioggia sottile che annuncia l’arrivodell’inverno dai Carpazi. Le pecore e itre suini se ne sono andati per sempre.«Me li ha comprati un commerciante diGiurgiu per un pugno di ron», spiegacon un po’ di nostalgia Florea nel gelidopomeriggio grigio delle campagne diGustinu, quarantacinque chilometrida Bucarest. Il mutuo è qua per restare,puntuale come un incubo con le sue ra-te — duecento ron, settanta euro —ogni tre mesi. I figli invece se ne sono an-dati due anni fa. Grazie ai soldi messi as-sieme dando l’addio alle bestie di fami-glia e al prestito della banca. «Mircea in

Italia fa il muratore vicino a Lanciano,mi manda quasi trecento euro al mese— spiega girando con il mestolo la zup-pa di verdure che cuoce sulla stufa a le-gna —; Saviana in Spagna, cameriera. Eme ne spedisce più o meno altrettanti».Seicento euro. Una fortuna, il doppiodello stipendio medio romeno. Un po’se li mangia il mutuo. Un po’ il cibo (po-ca roba) e il mangime per le otto gallineche razzolano ancora nel fango attornoalla baracca di Florea. Il resto, mese do-po mese, va nei lavori per la casa. «È ilnostro sogno — dice —. Avrà quattrostanze, la luce, tre stufe e l’acqua cor-rente. E quando sarà finita, finalmente,potremo stare tutti assieme. Io, Mirceae Saviana. Qui adesso, oltre a me, ci so-no solo i polli e gli operai. Per il resto ètutto così vuoto».

Casa Muresanu non è un’eccezione.La Romania è un paese rimasto senzabraccia, orfano quasi di una generazio-ne. Non se ne sono andati solo Romu-lus Mailat — il presunto assassino di

Giovanna Reggiani partito dalla bellavalle di Avrig per finire in un carcere diRoma — e i due giovani figli poco piùche ventenni di Florea. Da Bucarest aTimisoara, dal delta del Danubio finoalle montagne già innevate della Tran-silvania sono emigrati all’estero in po-chi anni più di due milioni di persone. Il10% dei romeni — snocciola l’Istitutonazionale di statistica — il 25% della po-polazione attiva. Direzione soprattuttoItalia (il 48%) e Spagna (18%), i paesi piùvicini per lingua e cultura.

Un esodo biblico, figlio a modo suo diun paradosso. «Spieghiamola così —sintetizza nella sua casa di Sibiu FlorinCioaba, il “Re degli Zingari” di Romania—. C’è gente, noi rom compresi, che perinseguire il sogno dell’Occidente si èvenduta la casa e ha mollato un lavorotutto sommato discreto per andare a vi-vere una vita indecente in una baracco-poli sulle rive del Tevere». A Roma — di-ce — si combatte per mettere assiemetrecento euro al mese mentre «qui da

noi ormai lo stipendio medio è arrivatoa mille ron, trecentodue euro». La glo-balizzazione ha corso più veloce di que-sta grande migrazione di massa. La Ro-mania ha regalato quattro milioni dibraccia a un Occidente affamato di ca-pitale umano a basso costo. E oggi è co-stretta a cercare in Asia gli uomini concui far correre la sua economia.

Antonello Gamba, quarantasei anni,bergamasco doc e presidente della So-noma a Bucarest, ne sa qualcosa. «A fineanni Ottanta sono scappato dall’Italiaperché se mettevo un annuncio per cer-care mille operai se ne presentavanododici». Così ha preso le sue macchineda cucire (confeziona abiti per marchicome Prada, Armani e Paul Gaultier) è siè trasferito a Bacau. «Fino a fine anniNovanta è stata una pacchia. Davo la-voro a cinquemila persone, tutte don-ne, la fabbrica andava a gonfie vele». Poi,d’improvviso, le sirene dell’Occidentesono arrivate fino a questa città a un pas-so dalla Moldavia. «In cinque anni sono

il reportage

FugadallaRomania

Un esodo biblico: un giovane su quattro se ne èandato e il paese danubiano si è ritrovato orfanodi una generazione. Ecco il mix di ignoranzae disperazione che spinge a lasciare una casae un lavoro per sopravvivere in una baracca

L’emigrazioneha anche vittimecollaterali:i sessantamilabambini rimastiin patria senzagenitori. E spessonon ce la fanno

ETTORE LIVINI

MISERIA E SVILUPPOLe due Romaniein una foto emblematica scattata a Bucarest

Repubblica Nazionale

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 29DOMENICA 11NOVEMBRE 2007

sceso da cinquemila a milletrecento di-pendenti senza licenziare nessuno».Molti imprenditori italiani, ossessiona-ti dal dogma dei tagli ai costi, si sarebbe-ro fregati le mani. Gamba no. «Per meera un incubo. Mi sembrava di esseretornato indietro di quindici anni. Face-vo annunci sui giornali e non si presen-tava nessuno. Dovevo fare qualcosa».L’ha fatto. Con la fantasia e quella venadi follia che caratterizza tanti piccoli in-dustriali di casa nostra. È andato in Ci-na, ha contattato un’agenzia di lavorogovernativa e ha importato (avete lettobene importato) quattrocento lavora-tori cinesi a Bacau, con il permesso disoggiorno legato a un contratto trienna-le con Sonoma. «Non gli manca niente— assicura — Ho fatto venire i cuochi ci-nesi, ho costruito le case per tutti, homesso in piedi persino un magazzinoper la fermentazione della soia». Tuttoha funzionato. La Sonoma è ripartita el’eclettico Gamba sta per far atterrare aBacau un charter con altre ottocento-cinquanta operaie dal Bangladesh.

«Questa storia per la Romania è statauno shock — racconta Marco Rondina,direttore generale di Unimpresa, l’“am-basciata” di Confindustria a Bucarest —. Nessuno fino a quel momento si era re-so conto del vuoto di manodopera nelpaese». La disoccupazione oggi è fermaal 5,5%, a Bucarest a un impressionante2,1%. L’unica consolazione è che gliemigrati sono una miniera d’oro per losviluppo interno. Spediscono almenotre miliardi di euro l’anno (1,7 dall’Italianei primi otto mesi 2007), valuta forteper le casse rumene. E questi soldi sonoil volano di uno sviluppo tumultuoso, aritmi da tigre asiatica: il Pil è cresciutodel 7,7% nel 2006, le vendite di auto so-no balzate del 25% da gennaio a oggi, laFerrari sta per lanciare il suo primo pun-to vendita a Bucarest, i prezzi delle casee dei terreni si sono quadruplicati in treanni. Eppure le prime ondate di benes-sere non hanno tamponato l’emergen-za-emigrazione. «La Romania è divisain due. Le grandi città da una parte, lacampagna dall’altra. E spesso nel mon-do rurale, ancora chiuso, è più facileavere notizie del presunto Bengodi ita-liano da un parente emigrato là che sa-pere che a Bucarest un muratore, perl’effetto-rarità, prende settecento euroal mese», spiega Cristina Vasileaska, at-tenta giornalista di Realitate Tv, la Cnndi Bucarest.

Così la fuga all’estero continua. Unpo’ per disinformazione, come capitanella fascia più povera della popolazio-ne. Un po’ per soldi. In questo caso aemigrare sono i cervelli. Gli ingegneri ci-vili delle Università di Bucarest e Craio-va sono corteggiati dalle imprese tede-sche a suon di euro già un anno primadella laurea. A Stefan Popescu, al primo

anno di informatica nella capitale, è an-data ancora meglio. «Me la cavo benecon il computer e non so bene come,forse per qualche programma di provache avevo spedito, la Google l’ha sco-perto». Ad agosto così è stato in Americaper un mese di stage nel quartier gene-rale della società americana. Viaggio,vitto e alloggio pagati, più un assegno daquattromila dollari. Sarà così per ogniestate fino alla laurea. Poi, va da sé, l’as-sunzione è assicurata. E lui non è nem-meno una mosca bianca visto che an-che l’ultimo anti-virus della Microsoft èfrutto del lavoro di informatici rumeni.

Il Governo prova a fare qualcosa pertrattenere almeno i laureati. Ha aiutatola Nokia a costruire una fabbrica da ses-santa milioni a Cluj Napoca espro-priando i terreni e negoziando con iventimila stagionali che raccoglievanofragole nell’area. Le ha prestato il palaz-zetto dello sport di Horea Demian per leselezioni del personale. Ma fermare ilvento con le mani è difficile. Le offerte ele tentazioni sono tante. E molti non re-sistono al sogno di varcare la frontiera— che ormai non c’è più — e imbocca-re la scorciatoia verso il benessere. Ba-sta digitare il sito www. buongiorno-ro-mania. ro per capire il ventaglio di pro-poste più o meno serie che offre il mer-cato di casa nostra. Mery della HelloAgency cerca una ballerina di lap dance(età diciotto-trent’anni, assicurato ilcontratto di lavoro), ci sono offerte percamionisti, autisti per i pulmini deipendolari tra i Carpazi e la Pianura pa-dana (si viaggia, spiega l’annuncio, sulussuosi Mercedes Vivo con dvd, tv edmp3), agenti pubblicitari.

Il fiume dell’emigrazione, insomma,scorre impietoso. E qui in Romania nonlascia dietro di sé, purtroppo, solo famedi manodopera. La faccia più triste del-l’esodo sono le sue vittime collaterali: isessantamila bambini (dati dell’asso-ciazione romena per i diritti dei bimbi)rimasti in patria senza genitori, affidatiai nonni nella maggior parte dei casi,qualche volta a estranei (il 10%), o altri-menti (è toccato a tremila di loro) con-finati in orfanotrofio. Razvan Suculi-cuc, undici anni, non ce l’ha fatta a reg-gere. Nel febbraio 2006 sua madre è par-tita per l’Italia. Voleva trovar lavoro perregalare un computer al figlio. Un mesedopo lui ha preso un martello, piantatoun chiodo nel muro della sua baracca aCariesti, ci ha appeso una corda e si èimpiccato sotto gli occhi del suo picco-lo cane. Sul tavolo un biglietto permamma: «Mi dispiace che ci separiamocosì. Per il funerale non c’è problema,ho già lasciato i soldi all’uomo della le-gna. Cara sorella, resta a scuola. Caramamma, abbi cura di te perché il mon-do è brutto. Tutti, per piacere, abbiatecura del cucciolo».

L’orribilecrimine perpetrato nei pressi di un campo di ri-fugiati di Tor di Quinto, alla periferia di Roma, ha pro-vocato un forte shock in Italia e in Romania. Il caso ha

assunto ben presto un significato sociale e politico nel dibatti-to pubblico sullo status dei rifugiati e dei residenti stranieri. Sisono avute violente reazioni di risentimento da parte di frangedella popolazione, ma anche scandalose prese di posizione daparte di alcuni uomini politici italiani e romeni, pronti ad offri-re soluzioni sbrigative, con deplorevoli accenti xenofobi e to-talitari di triste memoria.

Punizioni collettive per un delitto individuale, sul cui autorenon ci sono dubbi? Ritroviamo, non senza ironia, un rovesciogrottesco dell’“orgoglio nazionale”, che si appropria di presti-giose performance culturali o sportive individuali presentan-dole come patrimonio collettivo… Accrescere la tragedia di uncrimine commesso da un individuo contro un altro individuocon nuove tragedie individuali e collettive, prodotte da misurecontro una minoranza che non è mai stata omogenea, non sa-rebbe altro che un atto irresponsabile. La prova della beneficadisomogeneità di qualsiasi comunità deriva, questa volta, dal-lo stesso terribile episodio del crimine e dell’arresto del colpe-vole: la persona che ha messo la polizia italiana sulle sue trac-ce è stata una compatriota del criminale e apparteneva allostesso campo di rifugiati.

Misure punitive collettive signifi-cherebbero anche una inaccettabileamnesia, sia per l’Italia che per la Ro-mania, non solo rispetto a quanto ac-cadde nel mondo sotto il fascismo e ilnazismo e sotto il comunismo e acca-de tuttora nelle dittature di tutti i tipi,comprese quelle religiose, ma ancherispetto alla stessa storia dei due popo-li, italiano e romeno. Gli italiani sonostati spesso degli emigranti, alla ricer-ca di una vita migliore, non soltanto dalSud al Nord, ma anche fuori d’Italia:sono perciò iniziati alla condizione dirifugiato, di esule, di straniero. La Ro-mania ha, a sua volta, una storia nonpropriamente ammirevole nel rapporto con la minoranzarom, di cui biasima le manchevolezze senza aver fatto abba-stanza nel corso dei secoli e senza fare abbastanza neppure og-gi per porvi rimedio. La presenza di questa minoranza è se-gnalata sul territorio romeno dal Quattordicesimo secolo, masolo nel 1856 inizia, di fatto, la liberazione ufficiale dalla servitù,suo status sociale per cinque secoli.

La Romania di oggi conduce una dura lotta contro i postumidi decenni di terrore e menzogna, di demagogia e povertà, chehanno segnato alcune generazioni. Le conseguenze non pos-sono essere sradicate di colpo. Il postcomunismo ha esorditocon una grande liberazione di energie produttive ma anchecon un cinico trasferimento di funzioni, privilegi e beni ad al-tre fasce della medesima “nomenclatura”, con un nuovodarwinismo della sopravvivenza e dell’arrivismo che si sonoinventati il loro gioco bizantino di maschere. Benché siano vi-sibili oggi un progresso economico e un graduale ritrovamen-to della coscienza collettiva nel processo di democratizzazio-ne, la vita politica spesso burlesca del nuovo membro della Uerisente ancora del tradizionale malcostume della doppiezza edella superficialità, dello scetticismo e del fatalismo dell’iner-zia, della corruzione che agisce spesso come motore sociale delmomento. Esistono nella Romania di oggi fasce di popolazio-ne svantaggiate, relegate ai margini sordidi della società. Se-condo il quotidiano Evenimentul Zilei, il 41% dei rom è costi-tuito da braccianti, il 33,5% non ha qualifica, il 38,7% è analfa-beta. Oggi, però, questo antico e sempre nuovo problema del-la Romania è divenuto un problema dell’Europa centrale eorientale e, di recente, anche dell’Europa occidentale. I noma-di provenienti dall’India, che peregrinarono nel Medio Orien-

te e nell’Impero bizantino, oggi, all’80%, sono europei.Nicolae Romulus Mailat, giovane di venticinque anni, a

quattordici era finito in riformatorio ed era stato condannato egraziato per furto aggravato solo un anno prima del suo arrivoin Italia. È la povertà la causa della sua delinquenza giovanile edel delitto commesso ora in Italia? Nel grande romanzo di Do-stoevskij, lo studente Raskòl’nikov è spinto al delitto non solodal suo nichilismo ribelle, ma anche dalla povertà. La sua iden-tità sociale è del tutto differente da quella di Mailat, la sua «en-tità» spirituale è drasticamente diversa, ma il suo doppio delit-to non è affatto meno esecrabile. Non possiamo trovare affinitàdell’“io” tra il criminale della realtà 2007 e quello del romanzo1866. Potremmo, tuttavia, soffermarci un attimo sulle parole diuno degli interlocutori dell’eroe dostoevskijano, il quale rife-rendosi alla «Sodoma che respinge» in cui vaga crede che la po-vertà non sia un vizio, ma che lo sia la miseria. Nella povertàconserviamo ancora, dice lui, «la nobiltà dei sentimenti inna-ti». Nella miseria, invece, le cadute sono inevitabili e catastro-fiche… Mailat è fuggito dalla miseria della Romania e dal suopassato romeno, senza immaginare che avrebbe trovato nel-l’Italia del campo di rifugiati una miseria altrettanto oppressi-va e che nello specchio del presente si sarebbe aggiudicatoun’immagine ancora più feroce, di criminale sanguinario e be-

stiale. Coloro che conoscono il campodi Tor di Quinto e la zona buia circo-stante, dove è stata avvicinata e uccisaGiovanna Reggiani, hanno parole pe-santi per la negligenza e l’indifferenzadell’amministrazione della città di Ro-ma. Non è, in ogni caso, una scusanteo una circostanza attenuante per uncrimine siffatto e per nessun genere dicrimine, ma è una premessa che nonpuò essere ignorata quando si cer-cherà di porre rimedio, per il futuro, al-la situazione. Se non possiamo aspet-taci, per il momento, una miracolosareincarnazione angelica del criminaleMailat, possiamo e dobbiamo peròsollecitare una radicale riconsidera-

zione sociale della situazione di questi emarginati. Pensiamoallo Stato romeno e a quello italiano, alla comunità dei rom edei romeni d’Italia e della Romania e, inevitabilmente… allacomunità europea. Per quanto possa sembrare strano, il mal-fattore è membro di tutte queste comunità.

Si sentono da qualche tempo voci sempre più esasperatedall’allargamento della comunità europea e dalle tensioni che,inevitabilmente, genera. L’aumento dell’emigrazione nellanostra modernità centrifuga e globale è un fatto quotidiano,ma non è solo un fenomeno negativo. La libera circolazionenon significa soltanto incremento della criminalità e dei con-flitti sociali in Occidente, come credono alcuni, ma anche unasituazione di graduale convivenza reciprocamente benefica,che avrà lo stesso effetto che ebbe, dopo la guerra, l’inserimen-to dei Paesi sconfitti nello sforzo europeo comune, di demo-cratizzazione e di prosperità.

Durante la visita che feci la scorsa primavera a Madrid e aBarcellona, fui contento nel sentire notizie entusiastiche ri-guardo ai successi della comunità romena di Spagna. Alcunidei rifugiati romeni, apprezzati per la loro laboriosità e onestà,erano già candidati alle elezioni locali. La stessa cosa succe-derà, voglio sperare, anche altrove, e non solo per i romeni, maper tutti coloro che sono pronti a far proprie le provocazioni delpresente. Sarà una vittoria comunitaria, non solo individuale.L’Europa può dimostrare di essere — e merita di essere tale —una vera comunità, degna della sua civiltà antica e nuova. Di-versa, democratica, spirituale, libera, prospera. Esemplare.

Traduzione di Marco Cugno. L’autore è uno dei maggioriscrittori romeni. Tra le sue opere Il ritorno dell'huligano

e Clown. Il dittatore e l'artista, pubblicate da il Saggiatore

“La mia terratra progresso

e malcostume”NORMAN MANEA

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30 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 11NOVEMBRE 2007

La lettera è una qualunque let-tera d’addio, se si può direqualunque di un congedo.Breve, una paginetta. Accen-di il computer un giorno e leiè lì. Sta tutta intera davanti a te

nel primo foglio dello schermo. Premi ilcursore per scendere, ne cerchi ancorama non serve: è finita. Lui è garbato, for-malmente ineccepibile, apparentementeaddolorato. È colto, inoltre. Un uomo chesa usare le pause e gli a capo. Sa toccare lecorde dell’altrui colpa sfiorandole appe-na, sa attribuirne un poco a sé come un di-fetto congenito, piccolo male non impu-tabile. Uno scrittore, forse. Di certo unoche lavora con le parole. Il repertorio èclassico, si direbbe un’antologia. «Avreipreferito parlarti a voce, infine ti scrivo».«Ho creduto che avrei potuto darti il bene»«che il tuo amore fosse benefico per me».«Non ti ho mai mentito e non cominceròa farlo oggi». «Mi dicesti che quandoavremmo cessato di amarci non avrem-mo più potuto vederci: una regola che mipare dolorosa e ingiusta. Tuttavia: nonpotrò diventare per te un amico». Alcunespecifiche di questa storia, poi l’inevitabi-le «ti ho amata nel mio modo e continueròa farlo, non cesserò di portarti con me». Lachiusura, infine. «Avrei preferito che le co-se andassero diversamente». Le ultimequattro parole. «Abbi cura di te».

Take care of yourself, prenez soin de

vous, cuidate mucho. È qui, è sull’incon-gruenza emotiva di una frase che ha lesembianze di una premura — non si puòrespingere un invito così, eppure non sipuò accettare se allegato al dolore dell’ad-dio — che Sophie Calle costruisce la suaopera d’arte. Il suo libro ha la copertina ro-sa, lucida come una carta di caramella. Sefosse tradotto in italiano (non lo è, perqualche misteriosa ragione non è tradottonella nostra lingua nessuno dei suoi libri,nel resto del mondo oggetti di culto) s’in-titolerebbe Abbi cura di te. Seduce fuori etormenta dentro. Fa ridere e fa piangere,ammala e guarisce. Non si può lasciaresenza averlo attraversato fino in fondo. Cisono tutte le domande, tutte le risposte:c’è soprattutto un’ironia formidabile, unamalinconica saggia ironia venata di ama-rezza, la medicina di ogni male.

Calle è un’artista tra le più amate del no-stro tempo. Un’icona della modernità,

una Louise Bourgeois del nuovo secolo. IlCentre Pompidou le ha dedicato per i suoicinquant’anni una retrospettiva. La Fran-cia le ha affidato il padiglione di quest’ul-tima Biennale di Venezia: lei lo ha dedica-to a raccontare come finisce un amore. Haproiettato i video di molte delle 107 don-ne che leggono la mail di addio del suoamante: celebri e sconosciute, JeanneMoreau e una studentessa di scuola me-dia, Luciana Littizzetto e una cartomante,Victoria Abril e una stella dell’Opera. Unavvocato, una psicanalista, Laurie Ander-son, una scrittrice di parole crociate, unacampionessa di tiro con la carabina, unaesegeta di talmud, Maria de Medeiros, lafiglia «segreta» di Mitterand, una giocatri-ce di scacchi. A ciascuna ha chiesto cosa

significa abbi cura di te, come si fa ad aver-ne, come si affronta e come si supera ilvuoto spaventoso dell’assenza? Ciascunaha risposto nel suo modo: con un referto,con una canzone, con un gioco. La mo-stra, a Venezia — Take care of yourself — èstata visitata da migliaia di persone, è an-cora lì fino a fine novembre. Il tam tam sot-terraneo (dei visitatori, delle visitatrici) neha fatto una meta di pellegrinaggio. Di se-guito è venuto il libro, ormai introvabile.Più di quello del 1981, L’Hotel: Calle si fe-ce assumere a Venezia come cameriera inun albergo, fotografò le stanze appena la-sciate dai clienti, i letti sfatti i loro oggettiabbandonati. Più di The adress book,1983: trovò un’agenda per strada, chiamòtutti i numeri chiedendo a chi rispondevadi parlarle del proprietario, pubblicò tuttii giorni su Liberatiòn i resoconti delle in-terviste infine un volume col ritratto col-lettivo di un uomo mai visto. Più ancora diDouble game scritto a quattro mani conPaul Auster: lui si ispira a lei per il perso-naggio di Maria nel romanzo Leviathan,lei si immedesima in Maria e ne veste ipanni.

Torniamo all’amore, però. Alla lettera.Al libro e al cammino che si attraversa perprendersi cura di sé. In principio la ragio-ne: che il testo passi all’esame dell’intel-letto, i freddi strumenti del raziocinio. Lae-mail è tradotta in codice morse, in lin-guaggio esadecimale, in braille, in steno-grafico e in codice a barre. In trascrizionefonetica, in sms. Poi l’analisi del testo co-me fosse un canto della Divina Comme-dia. Aspetto tipografico, paratesto, gene-re, enunciato, vocabolario, analisi logica egrammaticale. Lunghezza (con istogram-mi in blu) delle ventidue frasi. Evidenzadelle forme verbali: quanti gerundi, quan-ti imperativi, quanti condizionali. Fre-quenza del soggetto: io il triplo di tu. Rife-rimenti letterari. I Fratelli Karamazov, Re-surrezione, La Repubblica di Platone. Per«abbi cura di te» senz’altro Emma di JaneAusten.

Ora che è stata sezionata come un cor-po sul tavolo dell’anatomo patologo rive-diamola da viva, questa lettera. Passi purel’esame degli altri: le altre donne. Nellemani di una cartoonist diventa una stri-scia comica, la giornalista di agenzia ne faun lancio, il giudice una sentenza. La ses-suologa risponde con una ricetta su cartaintestata dell’ospedale: «No, non possoprescriverle antidepressivi. Lei è solo tri-

Opera collettivale storie

CONCITA DE GREGORIO

Così finisceun amore

Ciascuna analizzala lettera in basealla sua professione:la campionessadi tiro a segno ne faun bersaglio da colpire

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“La sua eloquenza è insopportabile”

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ID“Lo preoccupava il confronto”

VICTORIA ABRIL“Sophie, in amore non si dettano regole”

Quando l’artista francese Sophie Calle riceveuna e-mail d’addio che termina con la frase“abbi cura di te”, sceglie di elaborare il suo luttosentimentale coinvolgendo altre 107 donneNe sono nati un libro e una mostra

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“Un uom

o pericoloso”

Ho ricevuto una e-mailche diceva: è finita

Non ho saputo rispondereÈ stato come

se non fosse destinata a meFiniva con le parole:

«Abbi cura di te»L’ho fatto

Ho chiesto a 107 donne scelteper il loro mestiere

di interpretare la letterasotto un profilo professionale

Di analizzarla, commentarla,metterla in scena, danzarla, cantarla

Di asciugarla, di consumarlaDi capirla per me

Di rispondere al posto mioÈ stato un modo per attraversare

il tempo della rotturaUn modo per prendermi cura di me

Sophie Calle

Repubblica Nazionale

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 31DOMENICA 11NOVEMBRE 2007

ste. Un evento doloroso famale ma la soluzionenon può essere chi-mica». La psicanalistasi sofferma sulla «bru-talità della vacuità del-la frase omicida finale»:un «banale take care alposto di un addio. Comedire abbi cura di te stessaperché non sarò io a far-lo». L’avvocato suggeriscedue anni di carcere e tren-tasettemila euro di am-menda per il soggetto, col-pevole di truffa e contraffa-zione. Florence Aubenas(giornalista lungamente se-questrata in Iraq) le scrive chela sua lettera non sarà pubbli-cata: troppo personale. La cri-minologa analizza il soggettomittente: «Un uomo intelligen-te, colto, di buon livello socio-culturale, elegante, seducente,orgoglioso narcisista ed egoista».«Psicologicamente pericolosoo/e grande scrittore». L’esegeta ditalmud affronta sul testo una di-sputa rabbinica. Ne ragionano unafilosofa, un’antropologa, un’esper-ta di diritti delle donne all’Onu, unadocente di fisica. Marie Dasplechi-ne, scrittrice, ne fa una novella perbambini. La maestra elementare inbella calligrafia la propone come com-pito agli alunni con cinque consegne:«Dai un titolo a questo racconto, chi è ilprotagonista? qual è il problema? In chemodo il protagonista lo risolve? Trova unaltro finale alla storia». Ambra, nove an-ni e mezzo, lo svolge: «Sembra che lui l’a-mi. Se l’ama non capisco perché la lascia.È una storia triste». La paroliera la trasfor-ma nel testo di una canzone, la composi-trice classica in un brano per pianoforte.L’esperta di bon ton la boccia categorica-mente e propone un nuovo testo: sette ri-ghe scritte con penna stilografica su cartavelina, impeccabili per assenza di vanità.La cartomante fa i tarocchi: l’eremita, ilmatto, l’imperatrice, la luna, l’impiccato.Un’agente dei servizi segreti la crittausando la parola chiave «rottura». La re-dattrice di parole crociate ne fa un feno-menale cruciverba: memorabili le defini-zioni di «benefico», «irrimediabile»,«amante». Per centinaia di pagine si avvi-cendano l’esperta di letteratura compa-

rata e la sociologa (ne fa un saggio: «L’esa-cerbarsi dell’amore eterosessuale in Oc-cidente»), la storica e la giocatrice di scac-chi («Il re nero perde: analisi della parti-ta»). La latinista traduce: «Ego quidem vo-luissem res alio vertere. Cura ut valeas».Dunque in latino la frase omicida si dicecosì: cura ut valeas. L’architetto di internine fa mille copie da distribuire agli ospitiin visita, le impila in un contenitore, lacontabile la trasforma in un bilancio eco-nomico del dare e dell’avere in amore. Lamaestra di ikebana due composizioni flo-reali, la madre una lettera alla figlia:«Amore mio, si lascia e si è lasciati, è que-sto il nome del gioco. Sono sicura che an-che questo sarà per te fonte d’ispirazioneartistica. Mi sbaglio?».

Già arrivati fin qui, a due terzi del libro,va meglio. Si è molto riso, si è molto ascol-tato il rumore del mondo. Ecco dunque ilmomento di sedersi a godere lo spettaco-lo. Dei quattro cd rom allegati (la sedutadal consulente familiare, la conversazio-ne con la speaker della radio, il film realiz-zato dalla regista Letitia Masson) l’ultimocontiene le immagini di chi ha rispostocon la voce e coi gesti. Una clown. Unastella della danza all’Opera di Parigi. Jean-ne Moreau che legge nella penombra diuna stanza, commenta con voce roca, siferma, riprende, si emoziona. La tiratricedi carabina che del foglio con la mail fa unbersaglio, prende la mira e spara. LucianaLittizzetto che la legge nella cucina di ca-sa sua, a Torino, mentre affetta una cipol-la: sarcasmo e lacrime. Victoria Abril an-cora nel letto di Legami che dalle lenzuo-la sfatte rimprovera Sophie: «Gli hai datotroppe condizioni, gli hai detto che dopola fine dell’amore non avresti voluto ve-derlo più, gli hai chiesto di non essere l’al-tra, la quarta delle sue donne. Ma, Sophie,in amore non si dettano regole. Hai sba-gliato». Un’attrice giapponese con la ma-schera di gesso, una ballerina indiana chedanza, una cantante di tango. Un pupo dicartapesta (femmina), una rapper. Un’in-terprete di fado portoghese, una sopranolirica, una cantautrice berlinese. Alla fineresta Brenda, maestoso pappagallo bian-co con cresta dorata (femmina): col beccofa a pezzi la lettera, la assaggia, ne mangiaun po’, non gli piace, la butta. Chiude l’au-trice: una frase in caratteri minuscoli, ul-tima pagina. «Questo è tutto riguardo allalettera. Non riguardo all’uomo che l’hascritta...». Il libro, naturalmente, è dedica-to a lui.

SU REPUBBLICA.ITDa oggi su Repubblica.itsarà disponibileuno speciale video a curadi Marco Sarno e ChiaraUgolini con interventidi Luciana Littizzetto,Jeanne Moreau, VictoriaAbril e il pappagalloBrenda che interpretanol'e-mail di Sophie Calle

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IL LIBRO, LA MOSTRA

S’intitola Take Careof Yourself il libro di SophieCalle pubblicato in Franciaper i tipi di Actes SudProprio la Franciaha affidato all’artista il suo padiglionealla cinquantaduesimaBiennale di Veneziadove, attraversofoto, video e scrittidi 107 donne, Sophie illustra come finisceun amore. La mostra,in programma finoal 21 novembre,nasce dal materialeraccolto dall’artistasulla letteradi separazioneinviatale da un uomoTutte le illustrazionidelle pagine (tranne la fotocentrale di Sophie Calle) sonotratte dal libroTake Care of Yourself

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“La lettera può essere l’inizio di un libro” FLORENCE AUBENAS

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Come la Istanbul di Ara Gü-ler e di Orhan Pamuk, co-me la Istanbul del filmAmerica! America! di EliaKazan, anche la miaIstanbul è in bianco e ne-

ro. Sono in bianco e nero, sgranati e av-volti di foschia, i ricordi d’infanzia. So-no tutte in bianco e nero le foto di fa-miglia. Le tengo in una robusta scatoladi cartone che un tempo contenevachissà cosa. Sono sopravvissute aimolti traslochi, delle masserizie e del-la memoria. Ma qualcuna l’ho persa, emi dispiace molto, perché senza faccioancora più fatica a ricordare.

Anche la mia Istanbul è grigia, pocorischiarata, umida, bagnata dalla piog-gia, infangata, innevata. Non so se ne-vicasse più che a Milano. Non credoproprio ci fosse più nebbia che in ValPadana. Ma i miei primi ricordi sonoun giardino con la neve. Avrò avutodue, tre anni. C’era una bambina diqualche anno più grande, con un cap-pottino chiaro. Volevo correre, giocarecon lei, era la cosa che desideravo dipiù, forse fu il mio primo amore. Ma leinon volle, probabilmente mi conside-rava troppo piccolo. Era solo le primadi innumerevoli volte. In una delle fo-to sono un po’ più grande, un’enormepalla di neve in mano. Sullo sfondo,una gazzella nera, in bronzo. C’era an-che un toro, questo lo ricordo bene. Lascena la ricordo in bianco e nero, manitida. Io che dico, in turco: «Mamma.Mamma, guarda le mammelle!». E unuomo che mi fa ridendo: «Ma no, fi-gliolo, non sono le mammelle, si chia-mano coglioni, questo è un toro!». Mivenne un groppo in gola, non saprei seperché mi sentivo oggetto di derisione,o perché non capivo bene di che par-lasse, o perché mia madre era arrossi-ta. Era il giardino tra Taksim, la piazzacon al centro il monumento ad Atatürkdi Pietro Canonica, e Dolmabahçe,l’ultimo palazzo dei sultani, che si af-faccia sul Bosforo.

In un’altra foto ho i calzoncini corti,l’aria pallida e malaticcia. Doveva es-sere quella volta che ebbi la pertosse, enon mi passava. L’aria inquinata, ilfreddo? Istanbul è sul parallelo di Na-poli, ma più esposta ai venti che arriva-no dalle steppe russe. Le stufe a queitempi funzionavano a legna o a carbo-ne. Ma ricordo anche che fu il carbonea guarirmi. No, non gli esorcismi di mianonna con i carboni ardenti del bracie-re, che tanto mandavano su tutte le fu-rie mio padre. Fu il carbone coke dellacentrale municipale. Avevano detto a

mia madre che era l’unico rimedio, vi-sto che le medicine non funzionavano.Mi portò alla centrale, si fece dare unsacchetto di carta col coke, mi disse direspirarne i fumi. La tosse passò.

Quel mare lo ricordo di un blu inten-sissimo. Ma non c’è niente come ilbianco e nero a rendere il luccichio del-le onde del Bosforo, l’affollamento dibarche e caicchi (le barche a remi sonoscomparse), il contrasto tra il fumo ne-ro eruttato dai fumaioli delle navi e ilchiaro del cielo, il contrasto tra il marescuro e la sua schiuma. È in bianco enero la fatica di Istanbul, quella deglihamal, facchini con la schiena curvacarica all’inverosimile. Come lo sonoperò tutte le fatiche del Novecento opiù antiche, le facce dei contadini pa-dani e dei minatori inglesi, quelle deiWorkers di Sebastião Salgado. Ho fattoin tempo a vedere fatiche millenarienella Cina degli anni Ottanta, cavalli euomini-cavallo allo stremo, a traspor-tare carbone nero sulle strade gialledello Shaansi o otri di coccio su quelledello Shandong. Come li avrei potutifotografare, su una pellicola o nellememoria, se non in bianco e nero?

Grigio è l’unico colore che ricordodella casa in cui abitavamo a Istanbul,in discesa da Taksim verso le catapec-chie di latta di Kasimpasa. Dalle fine-stre si vedeva il mercato sulla collina difronte, con i carretti trainati dai caval-li, gli asini dai basti traboccanti, gli zin-gari. C’erano anche fiori e farfalle suldeclivio tra la spianata del mercato e lanostra strada. Ricordo mio padre checattura una farfalla con le dita, per mo-strarmela, ma non riesco a ricordarealcun colore. Restai male che non fos-se più in grado di volare. Ma la cosa nonmi impedì di torturare crudelmenteper interi pomeriggi mosche e formi-che, strappandogli una per una zam-pe, ali e teste. In bianco e nero, ovvia-mente.

Su quei tram che si vedono nelle fo-to di Güler ci sono salito. Non so se an-che i giorni di pioggia e di neve. Ricor-do la gente aggrappata al predellino. Ilcontrollore che chiede l’età del bambi-no per il biglietto. Mia mamma che di-ce: cinque, ridotto. Io che la correggo:«Ma no, mamma, ne ho sei!». E la risa-ta del bigliettaio. Chissà se è per questoche quando, da adulto, chiamavo miamamma per ricordarle il giorno delmio compleanno, talvolta mi rispon-deva: «Auguri, corazon de la madre,quanti ne compi?».

I binari del tram passavano per unastrada selciata. Credo che non ce nesiano più, le hanno ormai tutte rico-perte di liscio asfalto. Non ricordo più

34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 11NOVEMBRE 2007

Volti di città

I suoi scattisono un monumentoalla grandemetropolisul Bosforo

Roma celebracon una mostraall’Ara Pacisil più grandefotografo turco

SIEGMUND GINZBERG

ISTANBUL

Ara Güler riceve all’Ara café, un angolo in stile artdecò, giusto sulla rampa che scende da piazza Galatasa-ray. Lo hanno chiamato così in suo onore, visto che abi-ta in quel palazzo ormai da una vita. Il fotografo che hascattato le immagini di Istanbul, il libro di Orhan Pamukvincitore del Nobel 2006, siede acquattato dietro la vetri-na, un po’ nascosto per poter guardare chi entra e chi no.«Ma quale studio fotografico», aveva risposto ruvida-mente alla richiesta di un appuntamento, «vediamoci al-l’Ara café. Lo conoscono tutti».

L’ultimo degli epigoni he-mingwayani, camicia a quadri,sguardo acquoso, capelli arruffatisulle tempie, nega di essere un arti-sta. «Sono un giornalista, io. L’arteè importante. Ma la storia dell’u-manità lo è di più. Ed è questa che ifotogiornalisti raccontano. Siamogli occhi del mondo, noi».

È nato nel 1928, e ha conosciutotutti. «Robert Capa non era micaquel mostro di bravura che dicono.Era un donnaiolo, uno scommetti-tore. Poi la morte sul campo di guer-ra lo ha glorificato. L’unico grandissimo che mi sento diricordare è Henri Cartier-Bresson. Al suo livello oggi c’èsoltanto Sebastião Salgado, uno che usa la testa, studia esi prende tutto il tempo necessario per i suoi progetti».Come Salgado, anche Güler è laureato in economia.«Una scienza fondamentale, se si vuole capire il mondo.Anche nella fotografia. Ti insegna a capire i rapporti fra lecose e le persone, i soggetti da scegliere, i paesi dove viag-giare». Güler ha viaggiato ovunque e lavorato per tutte legrandi riviste del Novecento, Paris Match e Stern, Life eTime. Fu Cartier-Bresson a chiamarlo all’agenzia Ma-gnum. Giovedì Roma gli renderà omaggio con una gran-de mostra intitolata L’altra Istanbul, ideata da Intesa &C.P., promossa dall’Associazione di amicizia Italia-Tur-chia e aperta al pubblico per un mese nella cornice sug-gestiva dell’Ara (naturalmente) Pacis, dove trenta sue fo-to in bianco e nero a cavallo degli anni Cinquanta e Ses-

santa saranno esposte con quelle di altri quattro fotore-porter della sua scuola.

«Assieme a Orhan Pamuk andavamo fino a qualcheanno fa a fare i servizi giornalistici in giro per Istanbul. Luicon il suo taccuino, io con la mia Leica. Roba locale, arti-coli per il quotidiano Milliyeto il settimanale Tempo. Poiun altro giorno Orhan è venuto qui dove siamo sedutinoi. Stava scrivendo i suoi ricordi, abbiamo iniziato a par-lare, siamo saliti di sopra e abbiamo cominciato a guar-dare le foto, a sceglierle. Istanbul è nato così».

Tra le foto più famose di Ara Güler ci sono quelle scat-tate a Picasso. «Eppure», ricorda og-gi, «alla fine fu lui a ritrarre me. Conla matita, è ovvio. Andò così. AlbertSkira, editore di libri bellissimi, vo-leva fare un volume per celebrare inovant’anni di Picasso, e mi assoldòper riprenderlo a casa sua. A un cer-to punto quel genio mi disse che leimmagini erano troppe, e che oratoccava a lui fare il mio ritratto.“Trovami un foglio”, mi intimò. Manella stanza non c’era nessun pezzodi carta libero, tutto era già stato di-pinto. Così ho afferrato un libro, l’hoaperto su una pagina vuota e

gliel’ho dato. Mi ha disegnato e io ho strappato la pagina». Güler non rinuncia a parlare anche dei suoi insucces-

si. «Fanno parte della vita. Ho mancato Charlie Chaplin.Quando mi chiesero di fotografarlo era già molto mala-to. Andai a Vevey, in Svizzera, dove si era rifugiato per cu-rarsi. Aspettai tre o quattro giorni davanti alla porta. Par-lai con Oona, la moglie, lui stava al piano superiore, sul-la sedia a rotelle. Scrissi una lettera, lo implorai. Nulla dafare. Non voleva farsi ritrarre paralizzato dopo aver crea-to la persona più mobile che il mondo ricordi. Poi persianche Jean-Paul Sartre. Viveva a Montparnasse, propriosopra il laboratorio della Magnum. Lo vedevo passaretutte le mattine, quando andava al caffè La Rotonde. Manon mi è mai andato di rubare le foto per strada. Perchéio voglio conoscere i miei soggetti, passarci del tempo as-sieme, entrare nelle loro case. E poi ritrarli. Se è per que-sto ho perso anche Einstein. È morto troppo giovane».

Ara Güler,l’Hemingwaycon la Leica

MARCO ANSALDO

Istanbul, ricordoin bianco e nero

i luoghi

CAFFÈ A BEYOGLU, 1958Tutte le foto di Ara Güler nellepagine sono in mostra a Roma

PESCATORI A KUMKAPI, 1950La luce in questo scattoè quella della prima alba

INVERNO, 1956. Tram e carretto in piazza Galatasaray sotto la neve a Sirkeci

Repubblica Nazionale

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Da ISTANBUL

Einaudi 2006

Orhan PamukLa città della mia infanzia

era una fotografia

in bianco e nero,

un mondo semibuio e grigio,

almeno io me lo ricordo così,

anche perché da sempre

mi hanno attratto gli interni

delle abitazioni,

nonostante sia cresciuto

nell’oscurità di una

deprimente casa-museo

Le strade, i viali e i quartieri

lontani mi sembravano luoghi

pericolosi, usciti da film

di gangster in bianco nero...

Le immagini di Ara Güler

mostrano Istanbul come

una città dove i panorami

sono eccessivamente tristi,

simili ai volti della sua gente,

e il vecchio e il nuovo

si uniscono in una trama

di degrado, miseria e umiltà

all’interno di una tradizione

che continua

nonostante gli sforzi

di occidentalizzazione

se la strada dove mio padre aveva il suonegozio di vernici fosse selciata o asfal-tata. Ma di certo era in bianco e nero,come i vicoli delle foto di Güler. Era unbuco scuro, piccolissimo, con tantemacchie di colore. L’ultima volta che lovidi era ridotto a macerie annerite e ac-cartocciate. L’avevano bruciato la not-te che Istanbul fu messa a ferro e fuoco.Ci sono foto di Güler sull’aspetto diBeyoglu e altre strade di Istanbul ilgiorno dopo, ricoperte di detriti, comefosse passata l’alluvione. La sommos-sa era scoppiata alla notizia di un at-tentato contro la casa natale di Atatürka Salonicco, in Grecia (non erano statiterroristi ciprioti, ma agenti dei servizisegreti turchi). La folla inferocita, aiz-zata dai nazionalisti ultrà, dalle edizio-ni straordinarie, dal governo che cosìpensava di superare le proprie diffi-coltà, quella volta non ce l’aveva con gliebrei — come sarebbe successo l’annodopo, nel 1956, in tutte le capitali ara-be — ma coi greci. Ma, nel dubbio, ilsaccheggio si estese a tutti i negozi lacui insegna non suonava turca, i lin-ciaggi a chi avesse nomi non turchi. Cipremunimmo. Mio padre comprò edespose una bandiera turca.

Aveva però già deciso. Coi pochi ri-sparmi, vendendo tutto quello che ave-va, comprò tre passaggi in cuccetta e ciimbarcammo su una nave nera, in unagiornata livida, spazzata dal maltem-po, come quella di molte foto di Güler.Non avevo ancora otto anni, la primanotte feci pipì nella cuccetta, e ancorame ne vergogno, poi vomitai per tregiorni per il mal di mare. All’arrivo a Na-poli, c’era da riempire un modulo. Sco-po della visita? Mio padre scrisse: turi-smo. C’era anche una domanda sullepossibilità economiche. Mio padrescrisse: benestante. Appena sbarcato,aveva cambiato tutti i soldi che gli re-stavano, ne aveva ottenuto una banco-nota lenzuolo, da cinquemila lire. Ba-starono per pochi giorni. Non aveva unlavoro, non avevamo una residenza,non eravamo in grado di dimostraremezzi di sussistenza. Avevamo passa-porto turco, ma, in quanto ebrei, noneravamo nemmeno tanto turchi. Co-me non sono tanto rumeni i rom in Ro-mania. Il primo acquisto, arrivati in tre-no a Milano, fu una piccola bandieraitaliana, per ogni evenienza.

Ripensandoci, in bianco e nero è sta-ta buona parte del Novecento. In que-gli anni era in bianco e nero anche Mi-lano, forse più di Istanbul. La nebbia, ilgrigio, lo smog, le scritte sui muri: «Co-me si fa a vivere con seimila lire la set-timana?». Ma almeno allora non c’erapaura e odio dello straniero.

Abbiamo chiestoun ritratto in prosaa un saggistacresciutoin quelle stesse vie

Tra celebri moschee,statue equestri,passati splendorie uomini piegatidalla fatica

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35DOMENICA 11NOVEMBRE 2007

FINE GIORNATA, 1958. In alto, aspettando un dolmus sul ponte di Galata; in basso, un cantiere navale a Salacak,1955

PESCATORE, 1957Il luogo della foto è la banchinaper la stagnatura delle navi

IL PONTE DI GALATA, 1954L’immagine del vecchio ponteè stata scattata a mezzogiorno

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Repubblica Nazionale

NEW YORK

Norman Mailer è morto ieri al-l’ospedale Mount Sinai diNew York per insufficienza re-nale. Aveva ottantaquattro

anni. Era stato ricoverato più volte durantel’anno, l’ultima volta il mese scorso per unproblema ai polmoni. Con un asciutto co-municato diffuso dalla sua famiglia e dal suoagente e biografo Michael Lennon, se ne vauna delle voci più critiche, sovversive e sco-mode della letteratura americana. Tanto di-screta la sua morte quanto rumorosa fu la suavita.

I genitori lo avevano chiamato NormanKingsley Mailer, e da piccolo il futuro scritto-re era particolarmente attaccato al secondonome, che la madre aveva tradotto dall’e-braico “malech”: re. Nel corso di tutta l’ado-lescenza se ne vantò e vergognò a secondadelle circostanze, e solo negli ultimi anni ri-cominciò ad utilizzarlo con una punta di or-goglio. Era nato a Long Branch, nel New Jer-sey, da una coppia di ebrei sudafricani, maera cresciuto a Brooklyn nel quartiere poveroe violento di Crown Heights, dal quale si al-lontanava soltanto durante l’estate per anda-re a trovare i nonni che possedevano un pic-colo albergo a Long Beach. Il padre, un ragio-niere che era costretto a fare ogni tipo di sa-crificio per arrivare a fine mese, aveva river-sato su di lui un desiderio di riscatto e affer-mazione nella terra delle opportunità, e lamadre, che stravedeva per il figlio con un de-stino da re, aveva promesso a tutti parenti cheil piccolo li avrebbe resi l’orgoglio del quar-tiere.

Norman Kingsley non deluse le loro aspet-tative: promise ai genitori di diventare un«grande scrittore» e scrisse a nove anni un ro-manzo di duecentocinquanta pagine intito-lato Invasion from Mars. In un primo mo-mento i due rimasero perplessi: avrebberopreferito che il piccolo si dedicasse a qualco-sa di più concretamente redditizio, ma perfi-no in quelle pagine infantili risultavano evi-denti una passione e un talento fuori dal co-mune. Reagirono con commozione e entu-siasmo quando Norman Kingsley riuscì adiscriversi ad Harvard, e non seppero maiquanto avesse sofferto provando sulla suapelle cosa significasse non far parte dell’élitewasp: perfino recentemente lo scrittore harievocato la sensazione bruciante di non ave-re «i vestiti, l’accento e la religione giusta». Nelperiodo universitario scrisse sulle riviste delcampus e sfogò il proprio senso di inadegua-tezza tirando di boxe. Non fu mai il grande pu-gile che volle far credere in seguito, ma è cer-to che sul ring era in grado di terrorizzare i col-leghi di studio che lo snobbavano in pubbli-co. La laurea coincise con il momento più

Il pacifista sempre in guerraMailer

Norman

ANTONIO MONDAcruento della Seconda guerra mondiale e,uscito da Harvard, non esitò ad arruolarsi, manonostante avesse sperato di essere tra i libe-ratori dell’Europa fu inviato a combattere nelPacifico, dove un commilitone lo descrissecome un soldato che passava più tempo acombattere i superiori che il nemico. Il carat-tere provocatorio e aggressivo era già forma-to, così come l’insofferenza per ogni tipo diimposizione irrazionale.

La sua esperienza al fronte divenne il sog-getto di partenza per il capolavoro giovanileIl nudo e il morto, il romanzo che lo rese unastar della letteratura a soli venticinque anni.Il libro, tradotto in tutto il mondo, venne ac-colto come uno dei casi letterari più impor-tanti dell’epoca e ebbe ovunque recensioniosannanti con l’eccezione di Mary Mc-Carthy, che parlò di «ambizione più che di ta-lento» e di Gore Vidal, che arrivò a metternein dubbio l’autenticità. Due anni dopo con-segnò alle stampe La costa dei Barbari, che fuaccolto tiepidamente, e quindi decise di ri-volgersi ad Hollywood, dove cercò di ottimiz-zare commercialmente il proprio successoeditoriale, ma l’avventura si rivelò una gran-de delusione.

Il nudo e il mortodivenne un film solo mol-ti anni dopo per la regia di Raoul Walsh, e Mai-ler si dedicò insieme a Jean Malaquais allascrittura di una sceneggiatura che non vennemai realizzata. Entrò rapidamente in contra-sto con i principali produttori hollywoodiani(in particolare con Sam Goldwyn che aveval’abitudine di riceverlo in accappatoio) e do-po esser tornato a New York cominciò a scri-vere un nuovo romanzo intitolato The deerpark, basato sulle esperienze nella fabbricadei sogni. Nonostante fosse ancora viva l’ecodello straordinario successo del Nudo e ilMorto, il nuovo libro faticò a trovare un edito-re, e venne accolto da critiche negative. Sulmomento sembrò che Mailer abbandonasseper sempre il cinema, ma il tempo dimostròche si trattava di un rapporto intimo ed in-tenso: in seguito si cimentò nella regia (adat-tando con scarsi risultati il suo romanzo I du-ri non ballano), nella recitazione (tra i tantifilm ha partecipato a Ragtime di Milos For-man e Re Lear di Jean Luc Godard) e, ovvia-mente, nella sceneggiatura: è sua la primastesura di C’era una volta in America, scrittasu richiesta di Sergio Leone, che poi la bocciòdopo aver detto all’amico «sei un grandescrittore ma non sei fatto per il cinema».

Innumerevoli le partecipazioni in cui in-terpreta se stesso, tra le quali la più memora-bile rimane quella in Quando eravamo re, do-ve rievoca l’incontro di boxe Ali-Foreman cheraccontò anche in uno dei suoi libri più ap-passionanti: Il Match. La delusione cinema-tografica e il disincanto verso il mondo dell’e-ditoria lo convinsero a tentare altre strade: so-no gli anni in cui si dimostrò un saggista diprim’ordine con analisi sociali come The

36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 11NOVEMBRE 2007

Potete chiamarmi D.T. È l’abbreviazione di Dieter, un nome tede-sco, e D.T. andrà benissimo ora che mi trovo in questo strano Pae-se che è l’America. Se attingo alle mie riserve di pazienza è perché

qui per me il tempo scorre senza senso, uno stato che predispone allaribellione. Sarà per questo che scrivo un libro?

Io e i miei ex colleghi eravamo tenuti a giurare di non imbarcarci maiin una simile impresa. Non per niente appartengo a un settore dei ser-vizi segreti unico nel suo genere. Era classificato come SS, Sezione Spe-ciale IV-2a, e noi eravamo sotto la supervisione diretta di HeinrichHimmler. Oggi quell’uomo è considerato un mostro e io mi guardereibene dal difenderlo: si è rivelato davvero un mostro infernale. Ciò nontoglie che Himmler avesse una mente non comune e proprio una dellesue tesi mi introduce ai miei propositi letterari che, ve l’assicuro, esu-lano dall’ordinario. [...]

Sono pronto a parlare dell’ossessione che ruotava attorno a Adolf Hi-tler. Ma che cosa, più di una domanda che non troverà risposta, è ca-pace d’incupire l’umore? A tutt’oggi, Hitler rimane l’ossessione princi-pale. Esiste forse un tedesco che non si sforzi di capirlo? Ma dove tro-vare uno che si consideri soddisfatto della risposta? Devo sorprender-vi. Io sono esente da questo cruccio. Sono fermamente convinto di ave-re i numeri per capire Adolf. Il fatto è che lo conosco. Lo ribadisco. Co-nosco Adolf come le mie tasche. Imitando gli americani e la loro rozzapresa sulla volgarità, sono pronto a dire: sì, lo conosco come il mio bu-co del culo. Ciò non toglie che io sia ossessionato. Anche se da tutt’al-tro problema. L’idea di riferire come mai so tante cose m’impensieri-sce come se dovessi tuffarmi di notte da una scogliera a picco sulle ac-que nere. Sia chiaro perciò che all’inizio procederò con cautela, facen-do riferimento unicamente al materiale allora a disposizione delle SS.

Per il momento dovrebbe bastare. Ho da fornire alcuni particolarisulle origini della sua famiglia. Nella Sezione Speciale IV-2a, come hogià spiegato, ammantavamo le nostre scoperte di una segretezza im-macolata. Per forza. Eravamo gli unici disposti a sviscerare le doman-de più sgradevoli. Vivevamo nel timore di portare alla luce risposte co-sì venefiche da mettere a repentaglio il Terzo Reich. D’altro canto go-devamo di una sicurezza tutta speciale. Se i fatti a cui risalivamo si fos-sero rivelati dirompenti, potevamo sempre fornire verità contraffatteche fomentassero nella popolazione il sentimento patriottico. Certo,non avevamo a priori la garanzia che tutte le scoperte fossero manipo-labili. C’era il rischio di svelare un fatto esplosivo. Per dirne una: il non-no paterno di Adolf Hitler era ebreo?

Traduzione di Giovanna Granato(Pubblicato col permesso di The Andrew Wylie Agency)

L’ultimo romanzo di Norman Mailer — “Il castellonella foresta”, pubblicato negli Stati Uniti nel 2006 in cui

lo scrittore immagina la giovinezza di Hitler, descrivendolocome vittima delle violenze dei suoi genitori ed erotomane —

sarà pubblicato nei primi mesi del 2008 da Einaudi Stile libero.Per gentile concessione dell’editore ne pubblichiamo l’inizio .

L’ossessione Hitlernell’ultimo romanzo

NORMAN MAILER

ECLETTICONelle foto da sinistra,Norman Mailer nel 1959;con l’attrice BeverlyBentley e il loro figlioMichael nel 1968;mentre dirige il filmI duri non ballano mainel 1986Il disegnoè di Tullio Pericoli

Se ne è andata ieri a ottantaquattro anni una delle vocipiù potenti d’America. Famoso già a vent’anni, polemista,attivista politico, libertario, pugile e sindaco mancato, attore

Ma anche violento nella vita privata, sregolato, odiato. Uno scrittore che insiemea Truman Capote cambiò per sempre il modo di raccontare il mondo, la guerra,gli abissi della mente umana. Tutti posti in cui vedeva la vittoria del male sul bene

CULTURA*

Repubblica Nazionale

Indimenticabile: rauca, non parlo della sua voce naturale, madella voce che ogni vero, autentico, scrittore si costruisce scri-vendo. E di quella altrettanto artificiale che sfoggiò nel bellis-

simo documentario su e con Mohammed Ali, Quando eravamore, di Leon Gast. All’epoca, nel 1996, Mailer aveva più di set-tant’anni, ed era bellissimo per la straordinaria ironia con cui esi-biva la faccia stanca, l’età avanzata, la senilità sessuale. E il suoamore per la boxe, e insieme per i neri, per lo sfidante Ali, per Mi-riam Makeba. E il suo disprezzo per il rinnegato George Foreman,per il tiranno Mobutu.

Era un tipo esibizionista, Norman Mailer. Voleva essere osce-no.

Aveva ben presto deciso che la sua vicenda di scrittore fossepubblica, in questo erede del protagonismo di Hemingway, maanche di certi giganti della letteratura americana come Emersone Whitman, che come ben si sa hanno un’idea profetica della pa-rola. Per i quali parlare, e tanto più scrivere sono atti rivolti alla cor-rezione; bisogna correggere le storture del mondo. Che altro do-vrebbe fare lo scrittore? La sua è una vocazione pastorale, l’eser-cizio di un carisma.

D.H. Lawrence, figura certamente carismatica, riconosce nel-la letteratura americana quel vizio, che altri potrebbe chiamarevirtù; ovvero, la smania (lui dice «la solita smania») di salvare lagente, l’idealismo.

Il modo dell’accusa è sempre violento, provocatorio in Mailer.Norman non avrebbe mai e poi mai potuto scegliere il silenzio

allucinato di Salinger. Né nascondersi nella paranoia come Pyn-chon. Né costruirsi un castello murato dal disprezzo come Roth.Non era nel suo carattere stare con le mani in mano.

Mailer era un interventista, doveva dire la sua. Non poteva sta-re zitto. È stato a tutti gli effetti un polemista brillante e un com-mentatore sociale, politico, e letterario sulle colonne del VillageVoicee di Dissentdi straordinaria intelligenza.

Quando ho saputo che è morto, d’istinto sono tornata a pren-dere in mano Pubblicità per me stesso, del 1959: nella traduzionedi Materassi e Serpieri per Bompiani, dove uscì nel 1978. Era giàuscito per Lerici nel 1962, ma io l’ho in edizione Bompiani, dovesi fatica a leggere, tanto minuscoli sono i caratteri, e sbiadito l’in-chiostro. Come «un bellimbusto vanitoso, vuoto e prepotente» sipresenta l’autore, in una confessione che lui stesso definisce «ag-gressiva». Rivela anche di avere aspirazioni «eroiche», e proprioquesto lo fa soffrire: è difficile essere eroi in tempi tanto gretti e stu-pidi. In una società cripto-fascista, farisaica. Si rischia di diventa-re il tipo del vanaglorioso, una specie di comico, anzi patetico mi-les gloriosus, se l’unica arma è la rivolta, la protesta.

Mailer accetta il rischio: protesta sempre. E negli anni si pro-duce in una virtuosistica performance della provocazione sui te-mi più disparati: dal sesso alla guerra alla politica ai neri agli ebreialla droga al delitto al jazz alla psicoanalisi. E se le sue idee vengo-no considerate sconce, beh, lui cerca la rissa.

Gli piace davvero la boxe.Quanto alla forma espressiva, non ha neppure il tempo di chie-

dersi quale e come... In Francia scrittori come Robbe-Grillet oNathalie Sarraute, si prendevano il lusso di porsi il problema delnouveau roman, di un romanzo cioè che non dimenticasse legrandi rotture del modernismo, forse perché la realtà da rappre-sentare non era altrettanto urgente.

In America Truman Capote e Norman Mailer inventavano sen-za saperlo un nuovo genere. Non più “fiction”, la forma che scel-sero si potrebbe piuttosto definire “faction”, un ibrido di fatti e diinvenzione, una nuova creazione dall’identità borderline, unaspecie di “reality” ante litteram, qualcosa che la televisione di lì apoco avrebbe fatto anche meglio, in un certo senso. Si trattava diriprendere in presa diretta la vita mentale dell’assassino condan-nato a morte, la cui vita e morte diventavano parte dell’esistenzadello scrittore, e non perché lo scrittore si identificasse col propriopersonaggio, ma perché l’esperienza della scrittura realmenteavvicinava scrittore e personaggio. Si trattava di ricostruire lamarcia di protesta dei pacifisti contro il Pentagono, di dare contodelle Armate della notte, in un romanzo in cui chi scrive dichiaraad apertura di libro: «Io, Norman Mailer, presi parte alla marcianell’ottobre 1967 contro la guerra in Vietnam, fui arrestato. E do-po che uscii di prigione, arrivato a casa, cominciai a scrivere — car-burante la rabbia — di quel che era successo e succedeva. È persfogare la rabbia che mi feci cronista della gente anonima e ar-rabbiata come me — gli hippies, i giovani pacifisti che bruciava-no le cartoline che ordinavano la leva».

Sì, Norman Mailer è stato per molti versi il bardo dell’Americacontemporanea, quell’America che abbiamo amato e amiamo;così come amiamo il suo sogno americano, e il suo eroe hipster, ilribelle che emana energie psichiche, sessuali non represse, o ilsuo eroe esistenziale alla John Kennedy. O alla Marilyn Monroe.

Per onorare la sua memoria vi invito a rileggere Il nudo e il mor-to, del 1948: dove il tema è la guerra, così come s’imprime e defor-ma il cuore e la mente di un gruppo di uomini esposti alla sua espe-rienza; i quali, se ne patiscono, è soprattutto per l’inutilità. L’azio-ne di ricognizione del manipolo americano tra le montagne inac-cessibili dell’isola alle spalle dei giapponesi risulterà infatti su-perflua; chi è morto, è morto inutilmente.

E il saggio Il negro bianco, che apparve su Dissentnell’estate del1957. E perché no, vi invito a rivederlo nel film Quando eravamore, lui che era davvero Re, e cioè Norman Kingsley Mailer.

Il nudo, il mortoe il new journalism

NADIA FUSINI

White Negro, e un pamphlettista appassiona-to con i celebri interventi sulla guerra in Viet-nam. Ma furono soprattutto gli anni in cui sirivelò un motore della cultura americana conprogetti quali The Village Voice, settimanalealternativo che acquistò immediatamenteuna dimensione di culto e che lo vide tra i fon-datori. È il periodo in cui si trasferisce nelGreenwich Village e si appassiona alla cultu-ra “hipster”, ma anche il momento dei mag-giori eccessi e violenze: nel 1960 dopo unanotte di droghe e alcool accoltellò la primamoglie Adele, che lo salvò dal carcere nonsporgendo alcuna denuncia, ma poi rac-contò tutto nel libro autobiografico The lastparty. Da un punto di vista della saggistica, sitratta probabilmente del periodo più felice:nei suoi scritti, raccolti principalmente in Ad-vertisment for myself, Mailer esamina la vio-lenza, l’isteria, il disordine della società ame-ricana dell’epoca con un’energia prettamen-te statunitense ma anche sotto l’influenza dialcuni autori europei studiati ed amatiprofondamente, a cominciare da Jean Genet.

Tra i libri più importanti di quel periodo cisono The presidential papers, Cannibali e Cri-stiani, nel quale accusò gli scrittori america-ni di non dare una visione chiara della propriarealtà sociale e culturale, e, soprattutto, Thearmies of the night, nel quale raccontò la mar-cia pacifista del 1967 a Washington e grazie al

quale vinse il premio Pulitzer. Mai come inquel periodo si aggiunse all’energia e all’in-telligenza dell’argomentazione un approc-cio aggressivo sino alla provocazione, e lapubblicazione di The prisoner of sex lo fece di-ventare uno dei bersagli preferiti delle fem-ministe: in Sexual PoliticsKate Millet lo definìsenza mezzi termini un «porco maschilista».Mailer accettò di buon grado lo scontro in nu-merosi interventi pubblici che alimentaronola tensione delle polemiche, poi scrisse un li-bro su Marilyn Monroe che fu massacratodalla critica (John Simon lo definì «politica-mente demente») ma divenne un successointernazionale, e quindi Executioner’s Song,forse il miglior libro di “new journalism” daitempi di A sangue freddo. Truman Capote,che soffrì la rivalità di Mailer non meno di Go-re Vidal, reagì con fastidio a quella che vissecome un’invasione di campo, e paragonan-do il suo libro a quello di Mailer sugli ultimigiorni del condannato a morte Gary Gilmoredefinì Executioner’s Song il testo di «un cor-rettore di bozze».

Dopo il tentativo di candidarsi a sindaco diNew York (ebbe solo il sei per cento dei voti),Mailer cominciò ad appassionarsi anche allapolitica internazionale e decise di visitarel’Unione Sovietica che definì «non tanto l’im-pero del male, quanto un paese del terzomondo». È il momento in cui codifica nei sag-

gi e nei romanzi con maggior precisione il pa-rallelo tra gli Stati Uniti e l’impero romano, ri-tagliando per sé il ruolo di Petronio. Il libropiù significativo di questo periodo è Antichesere, che sorprese la critica per l’ambienta-zione nell’antico Egitto. Dopo l’incerto risul-tato di I duri non ballano, un violento noirambientato nel mondo della boxe, Mailerraggiunse una delle punte più alte della suaproduzione con Harlot’s Ghosts, una cronacaspietata ed inquietante delle attività della Cia.Meno riusciti i successivi Oswald’s Talededi-cato al presunto assassino del presidenteKennedy, e Vangelo secondo il Figlio, una ri-visitazione del Vangelo sulla falsariga dei te-sti di Saramago e Kazantzakis, che fu accoltamolto tiepidamente.

Gli ultimi anni sono stati caratterizzati dal-la pubblicazione di numerose antologie edalla preparazione del grande romanzo ame-ricano che invocava dai tempi di Cannibali eCristiani. Esemplare la scelta tematica deidue ultimi libri: nel Castello nella Foresta haindividuato in Hitler una vera e propria in-carnazione del demonio, quindi ha dato allestampe On God, un testo nel quale si defini-sce un esistenzialista che crede nell’esisten-za di Dio, si interroga sul perché l’Onnipo-tente abbia bisogno di essere amato, e quin-di si dichiara convinto che il diavolo stia vin-cendo l’eterna battaglia tra il bene e il male.

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37DOMENICA 11NOVEMBRE 2007

Repubblica Nazionale

Strana vita, quella dei pesci!... Stranorata! Vai-rone... Non sono mai riuscito a capire come sipotesse vivere in quel modo. L’acquesistenzadella vita sotto quella forma mi inquieta benoltre ogni possibile motivo di pianto che ilmondo possa procurarmi. Un acquario fa di-

vampare nella mia testa tutta una sfilza di chele arroven-tate dal fuoco. Oggi pomeriggio sono andato a vedere l’ac-quario di cui mena vanto il Giardino Zoologico della CittàStraniera. Vi rimasi, in preda allo sconvolgimento, finchégli impiegati non mi cacciarono fuori.

La condizione di prigionia fa risaltare ancora di più lastranezza di quella vita. Osservai uno di quegli animali,striato di nero, che nuotava in lungo e in largo con perfet-ta regolarità. Dato che quelle bestie non dormono mai,tale almeno è la mia opinione, suppongo quindi che inquest’ora tarda in cui sto adesso scrivendo, il mio pescezebrato se ne stia ancora correndo in lungo e in largo, co-me prima ancora del tutto inoperoso. Non ha bisogno difermarsi nemmeno per mangiare, non più di quanto neabbia per riprodursi. Quest’ultima attività si svolge, si di-ce, in un modo così impersonale che per dedicarvisi nonha evidentemente bisogno di smettere di muovere la pin-na.

Allora, a cosa pensa il mio pesce? Non pretendo da lui,beninteso, che rifletta, che si dedichi a un’attività razio-nale, che costruisca sillogismi e confuti sofismi, no, be-ninteso, ma il mio pesce non guarda dunque mai quel chesuccede dall’altra parte del grosso vetro che lo separa dalmondo umano? La risposta unanime è: no, il mio pescenon pensa, la sua attività intellettuale è pari a zero. È que-sto ciò che trovo atroce. È impossibile avere rapportiumani con un pesce. I pescatori, mi pare, raccontano cer-ti aneddoti. Ma si tratta di persone che si incontrano di ra-do nella mia Città Natale; per me questi aneddoti sono:leggende e voci che corrono. Fuori del suo acquario, l’a-nimale riprende vita. Si può attribuire un senso alla suaacquesistenza: va e viene lungo il fiume (ne ho visti, di fiu-mi, presso gli Stranieri), fila via tra l’erba acquatica cur-vata dalla corrente, fa la posta alla sua preda, si lascia ten-tare dall’esca. Sì, il pesce d’acqua dolce, ancora ancora losi capisce. Ma il pesce di mare? La sardina? L’aringa? Ilmerluzzo? È avvilente, una sardina. In un cinematografodella Città Straniera in cui andai a depravarmi poco tem-po fa, sfinito, vidi delle sardine, appiattite, innumerevolie tutte di mare, una massa compatta che si grattava lesquame senza tante cerimonie. Una sardina, tuttavia, èun essere vivente. E il merluzzo! L’aringa! Mi vengono lelacrime agli occhi. Papà! Mamma! È davvero troppo atro-ce la vita del pesce in banco! Se ci si pensa tanto, si rischiadi farsi scoppiare la testa.

Si nasce in massa a milioni, poi tutte insieme, noi so-relle aringhe, attraversiamo lo smisurato Oceano, tenen-do le pinne ben strette e cadendo in tutte le reti. È questala nostra vita, di noi aringhe. E quella che si trova in mez-zo al banco? È circondata da milioni di suoi simili, ed ec-co che un giorno, ma lei non conosce né giorno né notte,ed ecco che un giorno all’aringa che sta in mezzo le pren-de la vertigine. Sì, la vertigine. Quale sarà allora il suo de-stino? Oh, è davvero troppo desolante! Papà! Mamma! Èdavvero troppo atroce la vita del pesce in banco. La cosasta diventando insopportabile. Ho le squame tutte scor-ticate. Il sale mi screpola le gengive. Lo spumeggiare del-l’Oceano viene a fare scoppiare le sue ultime bolle sottola mia finestra. Sono così solo in questa città in cui contanta fatica studio la Lingua Straniera. Ma questo è pro-prio l’ultimo dei miei pensieri. Non m’interessa. [...]

Oggi, sono tornato all’acquario. Ho visto le murene.Ognuna è sola nella sua gabbia. Sono feroci. Mangianocarne. Al tempo in cui i popoli avevano un imperatore, lemurene mangiavano schiavi, dicono i giornalisti. Sonomolto diverse dagli altri pesci, e ciò che ne fa un caso a par-te è la loro ferocia. Orbene, la ferocia è una delle categoriefondamentali della vita dell’uomo in società. Qui si celaun grande mistero. Che la ferocia salvi determinati pescidall’atrocità che accomuna le loro vite è un altro motivodi inquietudine. La murena sembra essere un individuoautonomo solamente in virtù della sua ferocia!

C’è per me un altro motivo d’angoscia: la razza. Laconformazione anatomica di questo pesce mi stringe ilcuore: avere a quel modo la testa sulla schiena o sul ven-tre, non si capisce, è una cosa che mi addolora. Le sueorecchie, le scambio per gli occhi. E gli occhi, li ha sotto! Eha un naso! E una bocca piccola e crudele. Per poco nonmi sono messo a piangere di dolore nel decifrare questafigura spaventosa, e questa apparizione è volata via ver-so la superficie, muovendo le pinne come se fossero ali,divenuta d’un tratto un qualche uccello marino, imma-gine riflessa dell’albatro dalle lunghe penne. No. L’esi-

stenza della razza non è una cosa possibile. Avere gli oc-chi sistemati in quel modo, e volare nell’acqua, e non farniente. No. Ecco cosa succede. Sono partito da troppo inbasso nella scala degli esseri viventi. L’abisso è cosìprofondo. La vita di una scimmia è una cosa che si può ac-cettare; di una mucca, ancora ancora; di un uccello, e vabene. Ma quel che non riesco a capire in tutte queste be-stie è che non abbiano nessuna occupazione e ancor me-no preoccupazioni. [...]

La vita, la prendo in esame nell’omaro. Allora è spa-ventosa. Lui, l’omaro, ci si trova bene. Almeno è quel che

sembra. [...] A prima vista mi sembra che non ci sianomolte differenze tra la vita dei pesci e quella dei crostacei.L’altro ieri guardavo un omaro che se ne andava a zonzofra rombi e sogliole. Sembravano appartenere tutti allostesso mondo. Ma, pensandoci bene, mi rendo conto chetra loro ci sono delle belle differenze. Un omaro è una co-sa diversa da un pesce! La sogliola non si discosta moltodall’uomo, in fin dei conti: questo è quel che credo in que-sto momento. Ma l’omaro! Vivere in un carapace, in altritermini, avere attorno a sé ossi, che cambiamento radi-cale dev’essere nel modo di concepire la vita! Avere con-

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la letturaEsercizi di stile

Ci ha lavorato per anni, limandolo, cambiandolo e portandola lingua fino ai suoi confini e oltre. Ora esce anche in Italia“Tempi duri, Saint Glinglin!”, di Raymond Queneau. Anticipiamoil primo capitolo in cui un uomo si immerge in un’altra formafino a identificarsi totalmente con gli abitanti dei mari

RAYMOND QUENEAU

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Repubblica Nazionale

tinuamente attorno a sé il mare intero; muovere le chele;guardare gli altri passare; fare la posta alla preda: questisono indubbiamente i prolegomeni a ogni riflessionedell’omaro.

Quanto ai pesci, insisto nel ritenere che abbiano unavita da cani, una porca acquesistenza priva di personalità.L’orchesistenza dell’omaro non è perciò meno ango-sciante. È vita, quella? Quel silenzio, quell’ombra, quellealghe, quella sorta di ferocia sulla punta delle chele, quel-la ingorda armatura? Provate a farvi un’idea della vita,pensando all’omaro nell’osscurità. E come muoiono,

quelli che non finiscono sbollentati nelle pentole dellemassaie? Si consumano di vecchiaia, gli omari? «Se nevanno» dolcemente, oppure lottano contro la morte conle loro chele irrigidite dall’artrite e incrostate da piccolianellidi? Presagisce il suo decesso, l’omaro? Non preferi-rebbe essere una razza, per esempio, con due occhi sullapanza e le ali bianche? Non preferirebbe poter arrampi-carsi sugli alberi per divorarne i frutti, come il suo collega,il granchio del cocco, animale veloce e dentato? E quan-do dico che un animale è così o colà, non voglio certo for-mulare un giudizio soggettivo. Nemmeno umano. Ma de-

finire il senso stesso della sua eksistenza. [...]Facciamo adesso l’ipotesi che gli unici sopravvissuti a

una catastrofe siano un uomo e un omaro. Le fiamme av-viluppano l’orizzonte. L’uomo, stremato, si toglie le scar-pe lacere e i calzini sfilacciati. Mette i piedi sanguinanti abagno nel mare alla ricerca di un po’ di sollievo. Allora ar-riva l’omaro e gli spezza l’alluce. L’uomo, che ha perdutol’abitudine di urlare, si china sulla superficie e dice all’o-maro: «Noi siamo gli unici due esseri viventi di questa ter-ra devastata, omaro! Siamo gli unici vivi in tutto l’univer-so; siamo gli unici a lottare contro il disastro universale;sei d’accordo se facciamo un patto, omaro?». Ma l’ani-male, sprezzante, gli volta il guscio e si dirige verso altrioceani. Perché: chi sa che cosa passa per la testa a un oma-ro? E che cosa si può pensare della sua incomprensibileodiosistenza? L’immagine dell’inflessibile e imperturba-bile omaro trafigge il cielo degli umani con le sue cheleinintelligibili. Dalla mia finestra aperta, mi par di vedereallungarsi d’un tratto, al di sopra dei tetti caliginosi, le suedue zampe minacciose, che aprono e chiudono le gigan-tesche tenaglie per dividere in sezioni le costellazioni. [...]

E di nuovo vado all’acquario a guardare le sogliole e leorate. Le osservo con imparzialità e oggettività. Ebbene!I pesci non sembrano particolarmente felici: non dannoquesta impressione. Si tratta di una categoria che non sipuò ancora applicare a questa vita animale e marina, chenon partecipa della felicità. Ma dell’infelicità? Gronghi,rombi e sogliole non potevano rispondermi. Così non lidegnai oltre della mia attenzione, e mi diressi verso unsettore che ancora non conoscevo e che ospita i pesci tro-picali. Ce n’erano di cancerosi e di capricornuti e altri cheprovenivano dal Mar dei Sargassi. Ce n’erano di desqua-mati e di baffuti e altri che avevano musi da cane o corpimutilati. Individui millimetrici, completamente traspa-renti, si spostavano a una velocità pazzesca. Altri più lun-ghi si concedevano ornamentazioni variegate: zebratu-re, linee punteggiate, colori.

Quei pesciolini cominciarono a instradare il mio spiri-to su un nuovo sentiero, non meno sconcertante del pri-mo; mi sembrava tuttavia che quelle bestie minuscole,probabilmente prive di ogni visione del mondo minima-mente coerente, stando a quanto immaginavo all’epoca,manifestassero, almeno in un certo senso, tutti i segnidell’allegria. I loro bruschi e assurdi giravoltamenti, gliscarti fulminanti che descrivevano nell’acqua, sebbenepotessero essere ingiustificabili dal punto di vista di unqualsiasi sistema, per quanto incoerente esso fosse, e lacasualità di quelle traiettorie spezzate mi parvero mani-festare una certa gioia che, a mio avviso, poteva essere so-lamente tropicale.

La scoperta di un po’ di umanità nel comportamentodi quelle bestiole, o, per imprimermi in altri termini main modo praticamente identico, la scoperta di un’auten-tica vitalità corrispondente all’immagine umana della vi-ta, mi aveva un po’ sollevato dall’angoscia che mi procu-ra ogni visita all’acquario, quando notai non lontano dal-l’uscita un angolo debolmente illuminato in cui sembra-va dormire una cassa di vetro. Non sapevo cosa ci fossedentro. Mi avvicinai. [...] Il recipiente isolato conteneva(conteneva!) alcuni vermi bianchi: erano pesci: più pre-cisamente pesci cavernicoli. Lontani dal sole, hanno per-duto gli occhi. Hanno dimenticato ogni colore, e le loropinne sono ora soltanto minuscole appendici vermifor-mi. Il silenzio e l’osscurità del mare sono soltanto una fo-sforescenza e un’eco. Nelle caverne sotterranee in cui ri-stagnano le sacche d’acqua pura, c’è un silenzio, un’os-scurità minerale. Anche lì si può vivere.

Ci sono esseri viventi, ma in quali condizioni viventi:quelle larve biancastre che ambiscono al nome di pesci.I loro avi, dice la nota esplicativa, erano pesci valorosi,dall’occhio vispo e dalla pinna agile, ed erano colorati, co-me tutto ciò che viene accarezzato dalla luce. Ma l’abitu-dine alle tenebre li ha trasformati, e ora eccoli qua. Vivo-no! Vivono! Alcuni vi ravvisano una testimonianza dellapotenza, della capacità di adattamento, dell’eternità del-la vita. Io, ho pianto davanti agli acquatici esseri caverni-coli, davanti alla vita atroce che conducevano. È difficileimmaginare una cosa simile: nascere, durare, forse cre-pare: osscuri, ciechi. E intanto riprodursi. Che mistero te-rebrante, questa perseveranza nel sopravvivere in con-dizioni così miserabili. Sì, miserabili; sono miserabili! E setuttavia avessero una maniera... non dico di pensare, mase tuttavia avessero... non dico una coscienza... ma seavessero una maniera di trascendersi? Sì, proprio così:una maniera di trascendersi. Non c’è nulla in loro che so-migli alla vita umana. Sarebbe una cosa del tutto inuma-na e senza un’interpretazione possibile; eppure, alloraavrebbe un senso vivere così: ciechi, osscuri.

Ciechi... Osscuri... Ho pianto molto.Traduzione di Francesco Bergamasco(© 2007 Newton Compton editori srl)

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39DOMENICA 11NOVEMBRE 2007

Lavita da canidei pesci

Edizi

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Una sana iniezionedi senso critico.Piero Bianucci, «La Stampa»

Silvano FusoPinocchioe la scienzaCome difendersi da false credenzee bufale scientificheprefazione di Tullio Regge

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25 NOVEMBRE 2007, ore 15.30

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ARTE MODERNA E CONTEMPORANEAFOTOGRAFIADIPINTI DEL XIX SECOLOESPOSIZIONE DA MARTEDÌ 20 A SABATO 24 NOVEMBREORARIO 10.00 - 19.00

IL LIBROSi intitola Tempi duri, Saint Glinglin! (Newton Compton,252 pagine, 6 euro). È la storia di una famiglia che vivein una città dove piove sempre: Pierre, giovane sfaticatocon un’insana passione per i pesci (le pagine che anticipiamosono un suo monologo); il fratello Jean, che fa cambiare il tempoa piacimento; Hélène, la sorella folle; Paul, innamorato delle stellee il padre sindaco. Raymond Queneau iniziò a lavorare al libronel 1933, rielaborandolo fino alla versione definitiva del 1948In libreria il 15 novembre

Repubblica Nazionale

Canta il coraggio,il furore e la setedi giustizia di chi

rimane escluso dal Grande sogno. Ora un libroraccoglie, ritraduce e riordina oltre un centinaiodi testi del Boss e li mette a confronto con le operedella letteratura Usa da Withman a Steinbecka Edgar Lee Masters. Ci sono gli stessi temi,le stesse atmosfere, la stessa energia vitaleUn riconoscimento per chi da oltre trent’anninon è soltanto un grande rocker

NEW YORK

Sono canzoni o poesie? È questo l’interroga-tivo che si pone Leonardo Colombati nellungo saggio che introduce Bruce Spring-steen. Come un killer sotto il sole, testo di

straordinario interesse sia per gli appassionati del mu-sicista americano che per i cultori della narrativa statu-nitense degli ultimi quarant’anni, al quale lo scrittoreitaliano ha voluto porre come sottotitolo, per indicareuna nuova suggestione, e implicitamente una risposta,Il grande romanzo americano (1972-2007). Il libro, inuscita in questi giorni in Italia presso Sironi, raccoglieper la prima volta l’intera produzione lirica di Spring-steen, tradotta per l’occasione dallo stesso Colombati,con una prefazione di Ennio Morricone, il quale appa-re in perfetta sintonia con la tesi del curatore, e ricordache «negli Stati Uniti la musica popolare è considerataparte integrante di una sola tradizione nella quale coa-bitano in perfetta armonia Herman Melville e WaltWhitman, Robert Johnson e Louis Armstrong, JohnFord e Bruce Springsteen».

Sin dai tempi in cui conquistò la cri-tica e il pubblico con Greetings fromAshbury Park, NJ, l’album di debuttocon cui rivendicò orgogliosamente leproprie origini di giovane blue collar diperiferia, Springsteen ha celebrato l’e-pica del quotidiano di giovani che han-no la piena consapevolezza della mo-destia della propria situazione socialee dei limiti malinconici della propriacondizione esistenziale, ma che tutta-via non rinnegano mai le radici. I per-sonaggi immortalati dal Boss sono uo-mini e donne nati per correre, consa-pevoli del fatto che non c’è peggiorebestemmia di quella di rinunciare aipropri sogni, a dispetto dell’amarezza,della solitudine e della paura. Morrico-ne scrive a questo proposito che«Springsteen dà forza al senso di pietas,al dolore e all’umanità dei personaggiche racconta», e parla di un «corpus dicanzoni composte nell’arco di trenta-cinque anni che realizzano un GrandeRomanzo Americano».

Il libro, che propone un ritratto au-tobiografico dello stesso Springsteen,un accuratissimo apparato bibliogra-fico, e una serie di schede sugli ele-menti tecnici dei singoli dischi e sui lo-ro risultati (premi, riconoscimenti,vendite, classifiche), non raccoglie i te-sti in maniera cronologica ma secondol’itinerario narrativo di un’opera rea-lizzata in versi, che in uno sguardo d’in-sieme rivela chiaramente la proprianatura romanzesca. È un affresco ap-passionante sull’America che vive nel buio dei «margi-ni della città», consapevole che «la terra promessa» èsempre «dura», ma che un giorno arriveranno «giornimigliori» e ricompenseranno chi ha saputo «inseguireil sogno».

Sin dall’inizio del suo saggio Colombati analizza iversi di Springsteen in rapporto con i grandi poeti e nar-ratori americani. Il primo raffronto strutturale è conEdgar Lee Masters, al quale il cantautore del New Jer-sey è paragonato per la tecnica narrativa: raccontare lastessa vicenda da due punti di vista differenti. Se siprende in considerazione il duplice racconto dei Mc-Gee nell’Antologia di Spoon River in rapporto con can-zoni come The River, Spare Parts e Sinaloa Cowboys sipuò notare come i desideri, i fallimenti e le speranze deipersonaggi dei due autori siano molto simili. La tesi dellibro, che propone anche un affascinante paragonecon la poetica di Whitman, è che le canzoni popolari ri-vestono per la cultura americana lo stesso ruolo chehanno per l’Italia la Divina Commedia e il Cantico del-le Creature. Il paragone può sembrare provocatorio maColombati invita a soffermarsi sull’energia vitale diuna cultura giovane considerata tuttora con snobismoe miopia, e ne celebra la grandezza e la varietà dei ri-sultati, dove l’approccio sinceramente popolare espesso anti-intellettuale risulta imprescindibile. È co-

sì per il jazz come per il cinema, per il musical come perla letteratura on the road. Se la musica di colui che Co-lombati definisce «il più grande performer di tutti itempi» attinge la propria straordinaria forza emotivanel rock ‘n roll (con innegabili influenze del folk e delgospel), i testi rimandano continuamente alla lettera-tura e, soprattutto, alla settima arte.

Nei concerti come nei versi Springsteen sembra lanegazione vivente di ogni separazione tra highbrow elowbrow: chi è nato negli Usa è nato anche per correree sa che nel suo patrimonio genetico c’è sia la culturamillenaria del paese d’origine che l’energia di chi ri-parte da zero. È lunghissimo l’elenco di canzoni checontengono riferimenti espliciti a film di culto (daThunder Road, titolo del suo capolavoro, ma anche diun film con Robert Mitchum, sino a Point Blank, balla-ta struggente intitolata come una pellicola di JohnBoorman), ma quello che il libro riesce a rendere illu-minante è come Springsteen sia riuscito a riproporre,in maniera artisticamente compiuta, le atmosfere e i te-mi centrali di autori diversissimi che hanno racconta-to prima di lui il rapporto tra individui perennementein movimento (se non in fuga) e un paese giovane,

sconfinato e solenne. Si pensa imme-diatamente a Badlands, titolo di unasua canzone ma anche dello straordi-nario film di Terrence Malick che in Ita-lia venne chiamato La rabbia giovane.Versi come «non me ne frega niente direcitare il solito vecchio copione, nonme ne frega niente della solita medio-crità: tesoro voglio il cuore, voglio l’a-nima, voglio il controllo, adesso» inter-pretano perfettamente il senso ultimodella vicenda raccontata da Malick, el’odissea dei due giovani criminali chedecidono di perdersi nelle praterie tro-va una compiutezza in versi che dico-no: «Lasciamo che i cuori infranti sianoil giusto prezzo da pagare. Queste terreselvagge inizieranno a trattarci un po’meglio». Ancora più esplicito il rappor-to con Furore(il riferimento è sia a JohnSteinbeck che a John Ford), del qualeSpringsteen cita sin dal titolo il prota-gonista Tom Joad. Ancora una voltaun’epica di viaggio e dolore, speranzae sofferenza all’interno di un paese invia di formazione come i suoi protago-nisti.

Il libro analizza l’opera di Spring-steen alla luce delle influenze dei suoigenitori artistici (in particolare BobDylan ed Elvis Presley), ma approfon-disce in egual misura il rapporto con iveri genitori: il padre Douglas, autistadi autobus, e la madre Adele Zirilli. Unodei passaggi più affascinanti del volu-me sono i testi che parlano del rappor-to con la figura paterna, a partire da MyFather’s House, nel quale si coglie la

malinconia di un’assenza e più di un’eco trascenden-te. Il grande romanzo americano di Bruce Springsteenaffronta molte tappe illusorie ed è segnato da idoli e mi-ti romantici, come quello della corsa in macchina dinotte, ma sarebbe impossibile comprenderne la poeti-ca senza considerarne la formazione cattolica, il suo ri-chiamo costante alla fede (una sua canzone è intitola-ta Jesus Was an Only Soned il verso più celebre di Thun-der Road auspica «un salvatore che nasca da questestrade») e la profonda influenza di un’autrice comeFlannery O’Connor.

Springsteen intitola una sua canzone «È difficile es-sere un santo in città» ma appare convinto che ogni fu-ga nasconda in realtà una spinta alla redenzione, el’approdo non è altro che una luce che acceca, comeproclama un altro suo titolo. A proposito della ’O Con-nor, lo stesso Springsteen dice: «Conosceva il peccatooriginale e sapeva qual era il modo di rendere carne unracconto». È un talento che ha dimostrato di avere an-che il musicista del New Jersey con versi che hanno im-mortalato personaggi indimenticabili come Mary,Wendy, Rosalita e Sandy, e non è un caso che NickHornby abbia scritto, per spiegare perché consideraThunder Roadun capolavoro: «Dice esattamente comemi sento e chi sono, e questa, in fin dei conti, è una del-le consolazione dell’arte».

SPETTACOLI

IL LIBROSi intitola Come un killersotto il sole. Il Granderomanzo americano

1972-2007 (Sironi Editore,604 pagine, 24 euro)

Lo ha curato LeonardoColombati e la prefazione

è di Ennio Morricone È un tributo a BruceSpringsteen, oltre

che come musicista, anchecome scrittore e poeta

Vi è una sezionein cui il curatore ha tradotto

e commentatocentotredici canzoni(con testo a fronte)

Il romanzo americanoscritto con la musicaANTONIO MONDA

Giungla d’asfaltoAbbi un po’ di fiducia, c ‘è qualcosa

di magico in questa notte; non sei propriouna bellezza, ma sei a posto e a me

vai bene così. Puoi nasconderti sottole coperte a rimuginare sui tuoi dolori,

mettere una croce sui tuoi vecchi amori,gettare rose nella pioggia, sprecare la tua estatepregando inutilmente che da queste vie si leviun salvatore. Be’, io non sono un eroe, questo

è chiaro, e l’unica redenzione che posso offrirti sta dentro questo sudicio cofano d’auto

e nella possibilità di farlo funzionare in qualche modo. Cos’altro ci rimane da fare se non abbassare il finestrino

e lasciare che il vento butti all’indietro i tuoi capelli?

(Thunder Road, 1975)

SPRIN

GSTEEN

BR

UCE

POETA

40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 11NOVEMBRE 2007

Repubblica Nazionale

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41DOMENICA 11NOVEMBRE 2007

EDGAR LEEMASTERSIl suo capolavorosono gli epitaffiin forma di poesiadell’Antologiadi Spoon River

FLANNERYO’CONNORGrande scrittricedi racconti e famosaper due romanzi, Il cielo è dei violentie La saggezzanel sangue

Il prezzo da pagareTrovai un posto come muratore alla JohnstownCompany, ma poi il lavoro iniziò a scarseggiare a causa della crisi economica. Ora, tutto ciò

che mi sembrava così importante, signore,è svanito nel nulla; mi comporto come se nonricordassi, Mary come se non le importasse

più niente. Ma mi ricordo di quandoprendevamo l’auto di mio fratello, del suo corpoabbronzato e bagnato, giù al lago artificiale

Di notte, sulla riva, rimanevo sveglioe mi avvicinavo a lei per ascoltare ognisuo respiro. Ora questi ricordi tornano

a perseguitarmi come una maledizione:un sogno irrealizzato è una bugia, o qualcosa

di peggio che mi porta giù al fiume, anchese so che è asciutto, che mi porta fino al fiume,stanotte. Giù fino al fiume, io e la mia piccola

(The River, 1980)

JOHNSTEINBECKL’Americadelladepressionein grandiromanzicome Furore,Uomini e topie La lunaè tramontata

Il fantasma di Tom JoadTom disse: «Dovunque c’è un poliziotto

che picchia un ragazzo, dovunque c’è un neonato che piange

di fame, dovunque si combatte contro il proprio sangue e si respira odio,

cercami, mamma, io sarò lìDovunque c’è qualcuno che deve lottare

per un posto dove stare o un lavoro decenteo una mano amica, dovunque c ‘è qualcuno

che combatte per essere libero, guarda nei suoi occhi, mamma: mi vedrai».L’autostrada è viva, stanotte, ma nessuno

si fa delle illusioni su dove conducaSiedo qui, davanti al fuoco del bivacco,

in cerca del fantasma del vecchio Tom Joad(The Ghost of Tom Joad, 1995)

Almeno una volta bisognerebbe andare a un concertodi Springsteen e guardare le facce del pubblico. Dif-ficilmente troverete altrove una simile luce negli oc-

chi della gente. Sono occhi ammantati di amore e gratitudi-ne, occhi eccitati dalla fiamma che brucia sul palco, occhidisposti a credere che una qualche specie di redenzione siainfine possibile. Non è poco. E infatti per capire il potere de-vastante di questo geniale working class herobisogna anda-re oltre i parametri che di solito applichiamo alla musica.

C’è in ballo una fede, quasi messianica, c’è la fiducia as-soluta in un musicista la cui sincerità non è mai stata messain dubbio. L’impagabile sensazione che un mucchio di poe-sie, cantate sull’epica scansione del rock, possano ancorarestituirci il senso di un difficoltoso ma ancora salvifico viag-gio lungo le strade della vita. Springsteen è gioia e furore,rabbia contro l’ingiustizia, amore per i diseredati, passionecivile e trionfo dell’energia vitale. E, dato per nulla seconda-rio, parliamo del più grande performer rock dei nostri tem-pi, uno che a ogni concerto dà l’impressione di giocarsi tut-to, fino all’ultima goccia di sudore disponibile. Si dice sem-pre che l’età d’oro del rock sia tramontata. Ed è vero. Eppu-re uno scampolo di quel sogno è ancora tra noi, vivo e vege-to. Basta andare a un concerto. E lasciarsi andare.

L’eroe che brucia sul palcoe gli occhi della sua gente

GINO CASTALDO

TERRENCEMALICKRegistae sceneggiatoredel filmBadlands,(La rabbiagiovane),una storiadi sanguein Nebraska

La periferiaParli di un sogno, cerchi di tradurlo in realtà

e ti svegli di notte con il terrore vero di passarela tua vita ad aspettare un momento

che semplicemente non arriva. Be’, è meglionon sprecare tempo nell’attesa. Terre selvagge:bisogna viverci ogni giorno... Lasciamo che i cuoriinfranti siano il giusto prezzo da pagare

Bisogna insistere fino a quando tutto sarà chiaro equeste terre selvagge inizieranno a trattarciun po’ meglio... Lavorare nei campi finché

non ti brucia la schiena o lavorare alla macchina fino a quando non impari la lezione

Piccola, la mia lezione l’ho imparata bene,adesso, tienila bene a mente, tesoro: il poverovuole diventare ricco, il ricco vuole diventare re

e un re non è soddisfatto fino a quandonon regna su ogni cosa

(Badlands, 1978)

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Repubblica Nazionale

LICIA GRANELLO

i saporiDolci delle feste

Con mandorle, nocciole, sesamo o pistacchi. Bianco, friabilissimo,croccante, morbido, ricoperto di cioccolato o al caffè. I sicilianine rivendicano l’invenzione per la sua provenienza araba,ma a Cremona (dove si festeggia e si degusta il 17 e 18 novembre),la barretta viene prodotta fin dal 1441. Al di là dei recordciò che conta è il gusto, risultato delle materie prime più pregiate

42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 11NOVEMBRE 2007

Torrone

Ognuno ha il torrone che si merita. Di man-dorle o nocciole, in piccoli pezzi o tocchigrandi, morbido, croccante, ricoperto,glassato, con le scorzette, il cioccolato, i pi-stacchi. I siciliani rivendicano il primatodel trittico mandorle-miele-albume, con

una sola eccezione per i pistacchio-dipendenti; in Pie-monte la nocciola tonda e gentile delle Langheè regina incontrastata; in Campania la glas-satura al cacao è di tradizione secolare; iveneti prediligono la ricetta friabilissi-ma del mandorlato.

A Cremona, dove i pasticcieri co-minciarono a lavorarlo quasi sei-cento anni fa — galeotte le nozzeBianca Maria Visconti, figlia delduca di Milano, con FrancescoSforza nel 1441 — la tolleranzagolosa è regola di vita. Così, nel-la città del Torrazzo (la torrecampanaria a cui si ispira la for-ma del torrone) ogni dicembre ilsapiente impasto modellato inbarre e barrette diventa protago-nista. Davanti al Torrazzo di Tor-rone appassionati e curiosi arriva-no a frotte, assaggiano, paragonano,comprano e portano a casa un pezzo dicultura dolciaria. Perché l’associazionedella frutta secca con miele (e zucchero, pre-ferito nelle versioni morbide) ha radici millena-rie e rappresenta in maniera appetitosa, facile, conserva-bilissima una miscellanea di alimenti sani e salutari.

Certo, i prodotti dietetici sono altri. Ma a differenza dimolti dolci, cui va pagato dazio in termini di colesterolo,calorie povere, glicemia impazzita, il torrone vanta unamesse di sostanze utili annidate nei suoi ingredienti. Nel-la frutta secca abbondano acidi grassi polinsaturi, vita-mine, sali minerali, a cui aggiungere la ridotta presenza dipesticidi (perché le colture non sono quasi mai intensi-

ve). In quanto al miele, è un piccolo scrigno probiotico:antibatterico (grazie alla quota zuccherina e al ph acido),ricco di polifenoli e di fruttosio, lo zucchero naturale abasso impatto insulinico.

La patente di dessert virtuoso, ovviamente, passa dalvalore delle materie prime. Così, in assenza di protezioninormative, valgono le firme dei produttori e il palato alle-

nato: è sicuramente più svelto utilizzare le gela-tine al posto della chiara d’uovo, le nocciole

piemontesi o quelle di Giffoni (entrambeIgp) sono costose così come il miele

italiano, il cioccolato di qualità ha ilsuo prezzo, quello dei pistacchi di

Bronte poi è inavvicinabile. Eppu-re, c’è chi ha scelto la strada del«poco, caro, buonissimo»: è il ca-so di Giovanni Verdese, in pro-vincia di Alessandria, dell’asti-giano Luigi Serra, apicultorecon la passione del torrone, deifratelli Assenza a Noto. Ad Alba,i fratelli Ceretto — storici pro-

duttori di Barolo — stanchi dicomprare «torroni senz’anima»,

hanno concorso a far nascere la“Relanghe”, micro-fabbrica di tor-

roni da acquolina in bocca, dove nul-la è lasciato al caso, dalla scelta delle

nocciole, al controllo esasperato di mielie uova, fino alla cottura nelle caldaie a vapo-

re per preservare al massimo profumi e sostan-ze benefiche.

Se non vi basta e avete braccia robuste, dedicatevi allaproduzione casalinga. Dopo l’aggiornamento gastro-culturale in una delle città del torrone, armatevi di buoniingredienti e formidabile pazienza. Fondamentale, in-sieme alla corretta esecuzione della ricetta, anche tenereparenti e amici lontani dalla cucina. Eviterete che nel ba-rattolodi vetro arrivino solo poche briciole di tanta faticapasticciera.

MandorleLa ricetta madre è nata

con i frutti interi

non sbucciati, cotti nel forno

a pietra e poi amalgamati

insieme al miele, rimestando

a lungo (indispensabili

braccia muscolose)

La coincidenza con il Natale

deriva dalla maturazione

delle mandorle

PistacchiLa tradizione siciliana

della frutta secca regala

al torrone una variante

golosissima. La ricetta più

prestigiosa prevede l’uso

di pistacchi interi di Bronte,

miele di fiori d’arancio

dei monti Iblei montato

a fuoco dolce e pressatura

negli stampi di legno

NoccioleIl torrone piemontese

deve la sua notorietà

alla variante introdotta

a metà dell’Ottocento

da un pasticcere di Gallo

d’Alba, frazione di Grinzane

Cavour. Le nocciole gentili

delle Langhe allora erano

facili da reperire e meno

costose delle mandorle

CioccolatoDue varianti per chi ama

il fondente. Nella prima,

il cioccolato viene sciolto

a bagnomaria

e mescolato all’impasto

di mandorle e miele

La seconda prevede

la glassatura della barra

classica. Esistono anche

le versioni bianco e gianduia

Salutare dolcezzacarattere granitico

L’appuntamentoWeekend “croccantino”

a Cremona per la Festa del Torrone

in programma il 17 e 18 novembre

Nel centro della città

si alterneranno rievocazioni storiche

e degustazioni guidate, menù a tema

e mercato artigianale. Nella rassegna

internazionale l’anno scorso

sono state vendute oltre

diciotto tonnellate

di torrone

Repubblica Nazionale

Aricostruire la storia del torrone non serve partire da Cremona, dove se ne producono oggi gli esem-plari più noti, ma piuttosto da Benevento. E nemmeno dal cuore di questa città, ma dal suo conta-do, da quei paesini musei della lingua e del gusto che si chiamano Dentecane o San Marco dei Ca-

voti. Qui il torrone ha ancora il suo nome latino, cupedia: da cupio, desiderare. Racconta Mommsen, ilgrande storico di Roma, che dietro al Pantheon vi era un piccolo quartiere specializzato nella esibizionedelle bontà alimentari. Era il foro delle cupedini, sito — guarda il caso — più o meno attorno a quella viache ancora oggi si intitola alle Coppelle. Certo, le coppelle erano un’altra cosa, erano (sembra) i crogiolidove fondevano gli ori. Piace però supporre che a dare quel nome abbiano contribuito, per semplice as-suefazione auricolare, anche quelle delikatessen: che non tardarono a farsi copate, con qualche arrangia-mento sia lessicale che organolettico, in quel di Siena.

Queste cupedie, come ha insegnato un grande gastronomo beneventano, Roberto Costanzo, eranodunque i torroni dei Romani. E quale emozione quando in un remoto paese della Sicilia, a Misilmeri o aRacalmuto, udiamo il venditore di torroni reclamizzare la sua merce al grido di «qubbayta, qubbayta». Cer-to si tratta di un nome arabo, e gli esemplari che vengono venduti sono del tipo più semplice, zucchero fu-so e poi rappreso attorno a qualche mandorla o arachide. Grazie agli arabi la Sicilia conosceva infatti lozucchero, estratto da canne che ricevevano l’appellativo di cannamela. Federico II, il grande svevo, necompromise l’esistenza per ragioni geopolitiche, deportando a Lucera quei fieri musulmani che la colti-vavano. Più intelligente di Luigi XIV, che espulse in pura perdita gli ugonotti, detentori di una indiscussavocazione industriale, Federico si limitò a trasformare i saraceni in sue guardie del corpo personali, ma lacannamela subì un fiero colpo, da cui più non si riprese. Quel poco che ne restò, unitamente a qualchezucchero importato, bastò comunque a tenere in vita un lumicino di tradizione, grazie alla quale Calta-nissetta è ancora oggi — assieme a Cremona, Alba e Benevento — il quarto polo italiano del torrone. E laqubbayta, che fa gli onori delle sagre paesane sicule, è — anticipo le obiezioni dei puristi — null’altro chela cupedia latina scritta in maomettano. È successo così a tante altre parole: alla cassata, per esempio, chealtro non è se non la ciotola (qua-st) dove si aggrumava il formaggio, o caseus che dir si voglia: anzi, la ri-cotta.

Gran madre, il Mediterraneo. Dove i cavalli di ritorno linguistici sono all’ordine del giorno, grazie agliarabi che hanno ricalcato la tradizione latina. Nella Spagna si alternano due superbi torroni: quello di Ali-cante, più duro, e quello di Jijona, di consistenza molle, degno contraltare di ciò che a Benevento, cittàcampana sotto il dominio pontificio fino al Risorgimento, si chiamava torrone del Papa perché spedito inomaggio ad ecclesiastici anziani, verosimilmente sdentati, per accelerare il disbrigo di pratiche.

In Francia le origini del nougat, da noci o nocciola, vengono fatte risalire alla città provenzale di Monté-limar e al 1650 circa. Ma qualcosa doveva preesistere, allo stato endemico, tanto è vero che il miele con cuiveniva fabbricato era di Narbona, città non immune da influenze saracene. E Montélimar era sottopostaalla corona angioina che, da un altro suo territorio, Gap, fece venire quei coloni che a Benevento diventa-rono cavoti, da cui il torrone di San Marco. Tutto si tiene in questo Mediterraneo.

L’autore è presidente dell’Istituto nazionale di sociologia rurale

Una ghiottoneria del Mediterraneotra influenze romane, arabe e spagnole

CORRADO BARBERISMorbido

Errore, caso o intuizione

felice per l’impasto

di mandorle, miele e bianchi

montati a neve

dalla consistenza tenera

Per differenziarlo dal torrone

classico, croccante

e friabile, la cottura è ridotta

a un terzo del tempo (da sei,

sette ore a due) o assente

itinerariIl langaroloAlessandroMarengodirige “Relanghe”fabbrica di torronialle porte di AlbaPer il suo “Friabile”

utilizza solo nocciole IgpIl cioccolato arrivadal laboratorio del torineseGuido Gobino,miele e pistacchidal Caffè Sicilia di Noto

Nata comemunicipium,la romanaHasta Pompeiaè conosciuta in tuttoil mondo per i vini,dall’Asti Spumantealla Barbera(con il concorso

Douja d’Or). Nella tradizione gastronomica, postod’onore per il torrone, di miele, nocciole e albume

DOVE DORMIREHOTEL REALEPiazza Alfieri 6Tel. 0141-530240Camera doppia da 100 eurocolazione inclusa

DOVE MANGIAREBANDINILocalità Cornapò 135Chiuso lunedì, menù da 30 euro

DOVE COMPRARETORRONE BARBEROVia Brofferio 34Tel. 0141-594004

AstiCostruita su unodei contraffortidell’Appenninomeridionale,è la patriadel croccantinoLa ricetta, datata1891, prevedela glassatura

al cacao dell’impasto di mandorle. Vienefesteggiato nei tre weekend centrali di dicembre

DOVE DORMIREVICIDOMINI DIMORA STORICAVia Vicidomini 26Tel. 0824-984637Camera doppia da 50 euro, colazione inclusa

DOVE MANGIARENUNZIAVia Annunziata 152Tel. 0824-29431Chiuso domenica, menù da 25 euro

DOVE COMPRAREPREMIATA FABBRICA CAV. BORRILLOVia Roma 64Tel. 0824-984060

S. Marco dei Cavoti (Bn)Adagiata nellapianura veronese,al confinecon la provinciadi Vicenza,fu a lungo aggregataal “Sestierdel Dorsoduro”,storico quartiere

veneziano. Da qui, la tradizione del mandorlato,festeggiato nel secondo weekend di dicembre

DOVE DORMIRELA TORRE (con cucina)Via Torcolo 33Tel. 0442-410111Camera doppia da 75 euro, colazione inclusa

DOVE MANGIAREANTICA OSTERIA AL CASTELLOVia Castello 23, GambellaraTel. 0444-444085Chiuso domenica, menù da 35 euro

DOVE COMPRAREGARZOTTO ROCCO & FIGLIOVia Pietro Mabil 1Tel. 0442-85162

Cologna Veneta (Vr)

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43DOMENICA 11NOVEMBRE 2007

TorroncinoIl diminutivo identifica

preparazioni diverse:

dal formato mini, che ha

fatto la fortuna del siciliano

Condorelli, a gelati, mousse

e semifreddi. Il torrone

sbriciolato si aggiunge

a uova, panna e zucchero

e al rosso da intiepidire

Va rifinito con salse a scelta

MandorlatoLa ricetta veneta, importata

dall’Oriente dai mercanti

al tempo delle Repubbliche

Marinare, prevede

l’essiccazione

delle mandorle al posto

della tostatura e una cottura

particolarmente lunga

Confezionato in scatole

di latta o in vasi di vetro

GiuggiolenaAdottata dalla gastronomia

siciliana, l’antica qubbajtaaraba – semi di sesamo,

mandorle e miele – è stata

arricchita con scorze

d’arancia essiccata

A citarla, nel Cinquecento,

il poeta Antonio Veneziano

(“Chilla cubata spiciali

la chiamanu Arangiata”)

Repubblica Nazionale

44 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 11NOVEMBRE 2007

le tendenzeCapricci femminili

Nelle vetrine d’autunno sono in bella mostra una grandevarietà di calzature: dai tacchi a stiletto alle ultrapiatte,dalle stringate agli stivali, dal sandalo alle sneakerLa tentazione di possederne tante paia accompagnada sempre le donne. Ora un libro ci spiega comeè cambiato il costume e quando è nata la nostra attrazione

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Gli esperti si leccano i baffi, sociologi,filosofi, sondaggisti, storici, econo-misti, ma anche sessuologi, persinopsichiatri: ecco un campo di studisenza fine, su cui tutti possono di-scettare, le scarpe, cui attribuire

massime simbologie, deviazioni psichiche, riman-di sessuali, significati freudiani o marxisti. La modanon ne sa niente, e neppure i produttori calzaturie-ri, ancor meno gli acquirenti compulsivi che accu-mulano scarpe come testimonianza di sé, rovinan-do spensieratamente piedi, colonna vertebrale e ri-sparmi.

È il momento giusto, questo: arrivano in casa ca-taloghi lucenti di meraviglie già primaverili; si pre-parano mostre (il 23 febbraio nelle Scuderie del Ca-stello di Vigevano si inaugura Il tacco a spillo, fasci-no e seduzione); si aprono come scrigni preziosi glishowroom degli stilisti che si afferrano alle scarpecome àncora di salvezza aziendale, ormai le città so-no solo un interminabile labirinto di vetrine dovesplendono, superbe, scarpe e borse, gli eterni gran-di feticci del vivere affannati, con tutte le loro visto-se griffe e la loro vezzosa inutilità e inquietante opu-lenza. Si è arrivati all’estremo commerciale, moda eazzardo si sono lasciati cancellare dal mercato:quindi c’è di tutto, scarpe piatte o con la zeppa o conil tacco, semi alto o altissimo, grosso o a lama, tra-sparente o di marmo, ricurvo o addirittura inesi-

stente con la suola sospesa nel vuoto, ci sono scar-poni e sandaletti, stivali e ciabatte, c’è lo stile baroc-co e quello pescatore, di pelli di animali esotici inestinzione, di tela, di gomma, di raso, con ricami,frange, pietre, stringhe, borchie, fiori, cucite da pa-zienti sellai o inventate da pericolosi (per il piede)bodyartisti, a prezzi cinesi o a prezzi degenerati.Quindi anche le scarpe sono una testimonianza del-l’oggi, astuta confusione, global e no global, sprecoe penuria, accumulazione, lusso e disordine, volga-rità ed eleganza, chiasso e luminarie natalizie.

Ma può esistere qualcosa, soprattutto se di altovalore mercantile, che non venga subito trasforma-ta in altra fonte di denaro, cioè in Cultura o, come sidiceva negli anni Settanta, in Kultura? Chi non pre-tende la massima bizzarria, per esempio una copiad’epoca (1667) del Calceo Antiquo, di Benôit e Ne-grone, prima opera interamente dedicata alle cal-zature, può trovare adesso in libreria Scarpe, diGiorgio Riello e Peter McNeil, docenti universitariuno a Londra l’altro a Sydney, editore Angelo Col-la, 359 pagine di magnifiche illustrazioni e saggiilluminanti e talvolta esagerati per accanimen-to culturale.

Anche se poi basterebbe rileggere ScarpetteRosse di Andersen, non per niente figlio di unciabattino di Odessa, per scoprire ogni signi-ficato recondito di quel che portiamo ai piedisenza pensarci. Nel caso della fiaba, tra le piùinquietanti dello scrittore danese a sua voltainquietantissimo, le scarpette significanopeccato di orgoglio e di disobbedienza, maanche propensione alla lussuria. Tanto che ilcasto scrittore (pare fosse interessato ai giova-notti, ma non se ne fece nulla), nella fiaba pub-blicata nel 1845 fa anche intervenire un benefi-co boia che mozza i piedi alla piccola Karen, perliberarla dalle scarpette rosse che non riesce più atogliere e che la costringono a ballare in continua-zione: secondo studiosi erotizzabili con un nonnul-la, simbolo di esperienza orgasmica che, continua-ta, deve essere un disastro.

E se prima gli alti tacchi rossi li aveva portati Lui-gi XIV, concedendone l’uso solo ai cortigiani più po-tenti, poi le scarpette rosse con la loro aria di pecca-to attraversarono i secoli sino ai mocassini fiam-meggianti, innocenti, purificati e benedetti che sivedono talvolta ai piedi dell’attuale Papa. Ma intan-to c’erano stati film e commedie e balletti e canzoniderivati dalle scarpette rosse di Andersen, ed eranodiventate celebri quelle di Judy Garland nel Mago diOzdel 1939, quelle di Moira Shearer in Scarpette ros-se del 1948, e naturalmente quelle di Marilyn Mon-roe (che ne portava un paio anche nella vita fatte ap-posta per lei da Ferragamo) e Jane Russell in Gli uo-mini preferiscono le bionde del 1953. Anche Proustsi era ricordato dell’indispensabilità delle scarpe

A passiaudacinella storia

NATALIA ASPESI

Scarpe

‘‘George Bernard ShawPer potervi ribellareai tacchi altidovrete almeno indossareun cappello di gran classe

SPECIALEÈ una scarpa specialequella di Gallianoper Dior. Piume, cristallie candide trasparenze

Repubblica Nazionale

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 45DOMENICA 11NOVEMBRE 2007

1400. LO ZOCCOLO A PONTEUno zoccolo “a ponte” simile a quellocalzato da Bernardino da SienaL’esemplare risale al 1400 circa

1580. LA PIANELLA A PUNTAÈ in velluto giallo la “pianella” a puntaaperta alta nove centimetri. Consentivaalle dame di non bagnarsi la veste

1725. BROCCATO E ROSEIn seta broccata con motivi a rose,la scarpa da dama ha il taccoa rocchetto interamente rivestito

TRAMPOLI TURCHIDetti kub-kabs, i trampoli turchi eranoin uso negli hammam ma ispiraronofin dal Medioevo le pianelle delle dame

1920. GLI ANNI RUGGENTISeducente in pelle gialla con finiturein nero e doppio bottone alla cavigliaÈ la scarpa degli anni ruggenti

1973. ZEPPAPOPStivali con zeppaesagerata MasterJohn creatinel 1973 in pienaepoca pop

2000. IL TACCOSOSPESOSandalo contacco sospesoe stiletto creatoda Karl Lagerfeldper Fendi

FANTASIAPUCCIEmilio Pucci(1914-1992)inventò negli anniSessanta fantasieche hanno vestitoanche gli stivali

1951. CADUTENELLA RETEBattezzato Kimoil sandalo disegnatoda Ferragamofu presentato a Firenzealla mostra della moda

1896. ORO DA CAMERAIn capretto dorato foderata in seta rossae taffettà, la scarpa da camera di fineOttocento era alta ben dodici centimetri

1910. LOOK DA CROCEROSSINAStringate e severe, le scarpe canadesiin comoda pelle nera Derby venivanoutilizzate dalle crocerossine

1880. LUSSOFRANCESEStivaletti nericon lacci e decorazioniricamate a manodi François PinetIl tacco ricurvoera detto “tacco Luigi”

1959. TRIONFODI MERLETTOGambale in merlettoe chiusura lampoper lo stivale rossocon tacco a spilloprodottoda Herbert Levine

1820. L’UOMOELEGANTEGli stivali inglesia punta da uomofurono adottatianche perquestioni igieniche

rosse, e nel suo saggio Mai il mondo saprà, QuirinoConti cita da I Guermantes: «Stava per entrare in vet-tura, quando vedendo quel piede, il duca esclamòcon voce terribile: “Oriane, cosa stavate per fare,sciagurata? Avete tenuto le scarpe nere! Con un ve-stito rosso! Correte su svelta a mettervi le scarpetterosse!».

Addentrandosi nella storia delle scarpe, scaval-cando i secoli in cui le cortigiane portavano zeppecosì alte, anche cinquanta centimetri, da dover es-sere sostenute da due valletti, e ricordando L’alberodegli zoccoli di Olmi con i suoi contadini bergama-schi scalzi per insuperabile povertà, si arriva agli im-pervi tacchi a spillo che dalla metà degli anni Cin-quanta infuriano sotto i piedi femminili dando poionesto lavoro a ortopedici, podologi e chirurghispecialisti sia del pollice valgo che del femore a pez-zi (per rovinosa caduta dagli agognati dodici centi-metri). Sono soprattutto queste calzature pericolo-se e irresistibili a far perdere la testa alle donne conla certezza che abbiano il potere di far perdere la te-sta agli uomini. Si autocompiange la ragazza più in-vidiata dalle altre ragazze, cioè Carrie Bradshow(l’attrice Sarah Jessica Parker) nel testo base dellavera telefashionista, Sex and the City: «Ho spesoquarantamila dollari di scarpe e non ho una casa do-ve stare. Finirò per essere la vecchia signora che abi-tava nella sue scarpe».

Non appena i tacchi alti passarono dagli uomini,che li portavano comunemente soprattutto comecalzatura equestre sino al Diciottesimo secolo, allesole signore, non solo si fecero sempre più alti e sot-tili, di metalli leggeri, ma divennero subito una del-le tante prove dell’irrazionalità femminile, della in-clinazione naturale delle donne ai fronzoli più sce-mi, per non dire della loro propensione al vizio. E sicominciò anche a chiedersi: il tacco è politico? Inquesto senso si fece molta confusione: già alla finedell’Ottocento il tacco poteva essere di destra per-ché rendendo difficile muoversi velocemente co-stringeva le donne a una adorabile vita domestica.Ma poteva anche essere di sinistra perché simbo-leggiava la libera sessualità femminile. Il suo tic-chettio negli uffici era sicuramente di sinistra per-ché confermava l’ingresso delle donne nel mondodel lavoro, ma era anche di destra perché costrin-gendole a ancheggiamenti sproporzionati le ridu-ceva ancora a mero oggetto sessuale. Le modelleche alle sfilate, sopra i loro tacchi impossibili, on-deggiano sofferenti sulla passerella come sciancatesenza rimedio, non sanno forse di far sognare so-prattutto i feticisti della scarpa, che pare siano tan-tissimi. Lo sanno invece certi stilisti come Jean PaulGaultier o Vivienne Westwood, che per le loro cal-zature spesso mostruose si sono ispirati proprio al-le numerose riviste per pornofeticisti, quali FootTorture o Foot Worship.

Per chi non appartiene alla appassionata catego-ria di adoratori dello stivale, o del tacco, o della to-maia, della scarpina scollata ma anche di quella toz-za da ginnastica che a stringhe slacciate è, per chi losa, un segnale gay, potrebbe apparire bizzarro cheun signore dimostri folle passione per la sua aman-te non succhiandole l’alluce (vedi vecchia foto di Sa-rah Ferguson con corteggiatore), ma baciando ap-passionatamente le sue vecchie e non più lindepantofole. Però poi si scopre che il mondo dei feti-cisti della scarpa è piuttosto affollato. Monica Mag-gi su Linus segnala una ricerca, condotta in teamdalle università di Bologna, L’Aquila e Stoccolmamonitorando su Internet circa centocinquantami-la utenti feticisti, da cui risulta che è meglio spende-re in scarpe che in costosissima biancheria, in quan-to solo il dodici per cento di eventuali predatori si la-scia intrappolare da tanga e reggiseni, mentre iltrentadue per cento lo si conquista con sapienti cal-zature. Anche gli artisti meditano sull’immaginariopodo-erotico; si è, per esempio, appena chiusa allaparigina Galerie du Passage una memorabile mo-stra intitolata Fetish in cui il celebre regista DavidLynch, noto podo-feticista come Quentin Taranti-no, esponeva sue fotografie di diaboliche scarpe daltacco vertiginoso create dallo stilista di calzaturepiù estremo, Christian Louboutin. Si ricorda anche,senza peccato, la bella serie di anni fa di GraziellaMarchi che raffigura allarmanti sandali giganti.Mentre ancor prima, ai tempi della pop art, nei sa-lotti italiani troneggiavano quadri e sculture cherappresentavano le classiche decolletè nere col tac-co alto calzate da signore nude, di Allen Jones.

Ma del curioso erotismo delle scarpe erano giàinformati e ne facevano ponderosi studi sessuolo-gi come Krafft-Ebing, che ne ha lasciato una riccacasistica come quella del signor P.: «La prima nottedi nozze fu terribile: si sentiva come un criminale enon toccò neppure la moglie… Poi comprò un paiodi eleganti stivali da donna e li nascose sotto il letto:toccandoli durante i rapporti con la consorte potécompiere il suo dovere coniugale…». Si potrebbefarci su un pensierino, in caso di necessità, tenendoconto anche, quando si compra un nuovo paio discarpe, che per gli esperti di immagine, come hascritto il Wall Street Journal, le scarpe aperte in pun-ta «invitano gli uomini a vedere una donna comepartner sessuale piuttosto che come potenziale

amministratore delegato…». Riflettere se sia ilcaso, a questo punto, di comprare anziché

le graziose scarpine un paio di solidiscarponi Dr. Martens.

SFUMATUREGioca sulle sfumaturee sul lucido effettodella vernice beigela scarpa firmata Prada

VELLUTOTacco alto, vellutorosso e piccolestringhe per la scarpaRodolphe Menudier

COCCOScarpa in coccocon zeppa a insertoproposta da Ferragamoin varie nuance di colore

PIUMESplendido il sandaloin piume di struzzoe fibbia in cristallicreato da Roger Vivier

Repubblica Nazionale

46 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 11NOVEMBRE 2007

l’incontroMetamorfosi

ROMA

Chissà se Edwige Fenech sadi avvicinarsi a Célinequando dice: «Vuole sape-re quale parte del mio cor-

po preferisco?». Come no. La prima cosache Céline guardava nelle donne eranole caviglie, sintomo per lui della qualitàdella bellezza femminile. «I piedi. I mieipiedi sono perfetti. Credo che al cinemanessun uomo li abbia mai guardati». Dif-ficile smentirla, farle credere di essereun’eccezione. Sono trascorsi quasitrent’anni, ma il ricordo è limpido comequella giornata di fine inverno a Cour-mayeur, lungo il pianoro della Val Ferret.E nella fotografia della memoria non c’e-rano i suoi piedi. Proprio no. Tutto erabianco di neve. I sentieri delle piste difondo, la schiena dilavata della monta-gna, gli alberi, i tetti delle baite con le lo-ro cassette colorate per la posta appesesulla porta. Era bianchissima la pelle diEdwige Fenech coperta soltanto da slip ereggiseno neri di pizzo e da una pellicciadi volpe della Groenlandia che le arriva-va fin sopra il ginocchio. Un capolavoro,la perfezione delle curve. Girava un filmcon ogni probabilità dimenticabile as-sieme a Barbara Bouchet, altra icona del-la commedia erotica italiana. Nelle pau-se della lavorazione paparazzi e curiosiinseguivano le sue forme statuarie, quel-le sì indimenticabili, con immaginazio-ne lubrìca. Lei qualche raggio di sole chela scaldasse e forse già allora un altro fu-turo. Rispondeva alle domande con vo-ce quasi infantile e annoiata, la erre fran-cese rotolava elegante e divertita, losguardo era furbo. Di una che non si sa-rebbe fermata lì. Come adesso nel suo uf-ficio a qualche centinaio di metri dal Qui-rinale. I manifesti dei film prodotti dallasua società appesi ai muri, donne e uo-mini giovani che sfilano nello stretto cor-ridoio, Edwige in scarpe da ginnastica,jeans neri, un maglioncino carta da zuc-

chero e il cellulare griffato Ferrari che aogni chiamata romba come una mac-china di formula uno sullo schieramen-to di partenza. Questa volta dall’altraparte c’è il figlio Edwin, un ragazzo ormaiadulto, che le racconta un suo piccolosuccesso quotidiano: «Félicitationsmon bébé». Poi chiude il telefono e fa: «Sacom’è. È sempre il mio bambino».

Edwige Fenech è stata il corpo, la sen-sualità, il desiderio. Il suo corpo — la co-scia esibita, le dita sul reggicalza, la gon-na sempre con uno spacco mozzafiato— campeggiava sotto i titoli dei film dipromesse mantenute: Quel gran pezzodell’Ubalda tutta nuda e tutta calda, Gio-vannona coscialunga, La Soldatessa allavisita militare. Gli spettatori maschi allafine si alzavano dalle poltrone e si illude-vano di portarselo alla casa, il bel corpodell’Edwige. Era così procace, così gene-roso che sembrava ce ne fosse per tutti.Non poteva finire, consumarsi. Da quel-la volta sulle nevi della Valle d’Aosta nul-la pare cambiato. «Il mio corpo è ancoramolto bello, glielo assicuro. Si modificacon gli anni, certo, ma conserva la sua di-gnità. Con lui ho un ottimo rapporto. Èmolto buono nei miei confronti. Sono inpace, mi sento bene con la mia pelle enon ho nostalgie. Ogni tanto vado in pa-lestra, ma posso dire che vivo di rendita.Non ho fatto ritocchi estetici e credo chenon ricorrerò mai al chirurgo plastico, ameno di cedimenti psicologici che ogginon vedo possibili. Ma nella vita non si samai... Ho sempre ammesso la mia età.Mai indossato maschere, ipocrisie. Hocinquantotto anni. Preferisco dirlo e ri-cevere in cambio della mia onestà qual-che complimento. Sono nata il 24 di-cembre e il Natale è sempre stato più im-portante del mio compleanno, una festapiù grande. Regali da fare, pranzi e ceneda imbandire, bambini pieni di inno-cenza a caccia di felicità. Una circostan-za che mi ha aiutato a mantenermi gio-vane».

Nella seconda vita di Edwige Fenechc’è sempre il cinema. Produce film per ilgrande schermo e la televisione. Racco-glie però altri fili, più intimi. «Sto recupe-rando i ricordi. I primi risalgono all’in-fanzia in Algeria, a Bone, dove sono ri-masta fino ai dodici anni. Mia madre eradi genitori siciliani, mio padre originariodi Malta. Dopo la Seconda guerra mon-diale papà cominciò a lavorare nei giar-dini delle fragole, poi si mise a costruirepezzi per macchine e trattori, dai cater-pillar ai boeing. Se chiudo gli occhi mi ri-vedo piccolina su una spiaggia. Avrò nonpiù di tre anni. Sono con la mamma e unazia. Ci sono ragazzi che giocano a calcio,una pallonata violentissima mi colpisceal petto, divento cianotica, non riescopiù a respirare. Temo di morire. Da allo-ra, quando sono nervosa mi manca il re-spiro. Facevo lunghe camminate perraggiungere la scuola. La danza classicaa cinque anni, a nove il teatro dell’operacome petit rat. Mi piaceva il mare d’in-verno, il mare d’Algeria più bello di quel-lo di Malibu, un mare che spesso strap-

e nelle fabbriche dal terrorismo. «Avreivoluto un’altra carriera. Altri film. Faciledirlo adesso. Eppure quelle pellicole mihanno dato da mangiare, mi hanno fattavivere, mi hanno fatta ricordare. Non lirinnego, l’ho detto altre volte e non hopiù voglia di ripeterlo. Credo di esserestata una buona attrice, sono finita an-che nei Cahiers de cinémafrancesi. Sonostata amica di Federico Fellini, l’unicapersona che mi ha fatto sudare per l’e-mozione con la sua grandezza di mae-stro, ho mangiato un’infinità di volte conlui, mi chiamava Bambi, mi voleva offri-re il personaggio di Gradisca in Amar-cord. Ho lavorato con Steno, con DinoRisi, con Alberto Sordi. Mi sono spoglia-ta. Molto. Era faticoso, imbarazzante.Era il mio mestiere. Ma ho sempre tenu-to separate la vita e la finzione. Voglio di-re che non sono mai stata una donna fa-cile o, peggio, di facili costumi. Negli an-ni Settanta e Ottanta il nudo nel cinemaera un passaggio obbligato, sia in quelloamericano sia in quello europeo. Eranogli anni degli uomini nudi. Ferreri co-strinse Dépardieu e la Muti a restare sve-stiti per quasi tre ore, ma posso citare an-che Bertolucci. Abbiamo rotto gli arginidel puritanesimo, senza fare scandalo,con molta spontaneità nel raccontare».

Le piace parlare di lei donna, del rap-porto con gli uomini. «Ho amato pochevolte, con grande intensità. Sono ancoraamata e ancora amo. Il sesso è semprestato importante, ma se decido di farlo èperché sento di essere all’inizio di unastoria d’amore. Ho avuto occasioni a pa-late, ne ho ancora adesso, ma se mancal’amore non mi accendo. Lascio perde-re. Sono stata legata a Luca di Monteze-molo per sedici anni, non ci siamo maisposati, ma Luca per me è stato un mari-to. È stato un bellissimo viaggio. A un cer-to punto ci siamo accorti che non aveva-mo più nulla da dirci. Quando le personesono oneste e si vogliono bene non si ne-gano la verità. Una sera si mettono su unapoltrona e si dicono: è finita. Separano leproprie strade. Evitano la condanna almalumore. Senza cattiverie, rancori, di-spetti, bugie. Le scelte di comodo si rive-lano spesso le più crudeli, anche per i fi-gli. Il mio rapporto con Luca si è trasfor-mato. Non ci siamo cancellati, conti-nuiamo a volerci bene. Capita ancorache qualcuno cerchi me passando attra-verso la sua segreteria. Sono stata unafemminista senza saperlo, una rivolu-zionaria sessuale inconscia. Ho scelto dimettere al mondo un figlio da sola. Sen-za marito per me, senza padre per lui.Edwin non mi ha mai rimproverata, nonme ne ha mai fatto una colpa. Credo diessere una buona madre. A lui è bastato».

Ha spento il telefono, ha incrociato lebraccia sulla scrivania. L’ufficio è minu-scolo, spoglio. «Non sono un’ottimista,piuttosto un’equilibrista. Non mi guar-do mai alle spalle, voglio sempre qualco-sa di più, voglio acchiappare la luna.Adesso desidero più di tutto un nipote dacoccolare, diventare nonna. Mi sento lasintesi di un bastardaggio, figlia di due

pava le porte alle case costruite vicine al-la battigia. Ero timida, solitaria. Volevofare l’archeologa, la veterinaria, la balle-rina. Una gran confusione».

Dall’Algeria alla Francia. Nizza. «Annimolto brutti, eravamo pieds noir, i fran-cesi ci odiavano. Sulla nave che ci portòin Francia non avevamo diritto alla cabi-na. Ce la fecero solo vedere, per regalar-ci un rimpianto. Dormimmo sul pontecon una coperta a testa, quando sbar-cammo a Marsiglia fummo accolti conun lancio di verdure e uova marce. Lagente ci gridava: “tornate nel vostro pae-se”. La mia adolescenza ne è rimasta se-gnata. Quando mi sono trasferita in Ita-lia sono stata felice. Roma mi ha salvata».Poi sono arrivati i concorsi di bellezza. Iprimi piccoli ruoli, infine le commediesexy. Seni e culi in gran spolvero, battuteda caserma, ma anche un sottofondodolceamaro, che più tardi ha riabilitatoquel filone, in cui si specchiava il furoreboccaccesco di un paese dalla rivoluzio-ne incompiuta e angosciato nelle strade

metà della mela. Scrivo e parlo un po’ initaliano e un po’ in francese, ma conser-vo il legame con la cultura araba, cono-sco sufficientemente l’Islam da ricavar-ne un grande fascino e un forte interesse.Tutte le sere prima di addormentarmi mifaccio il segno della croce. Ringrazio Dioper le fortune che ho ricevuto, gli ricordoche sono una persona per bene e gli chie-do di concedermi una vecchiaia serena euna morte non violenta. Spero in una fi-ne tranquilla. So che non esiste una vitasenza dolore. Sei anni fa ho perso mio pa-dre, una persona che è stata il punto di ri-ferimento della mia esistenza. Quel gior-no ho capito che ho perduto l’amore as-soluto e mi sono detta: la vita ci inganna».

Riprendiamo i contorni del cinema. Isogni e il futuro. Edwige ritrova l’allegria.Le domando se è tentata di tornare a re-citare. «Non so. L’ho fatto per Tarantino,un amico. È stata una vacanza. Tre gior-ni a Praga per Hostel. Il mestiere di pro-duttore è difficile, ma entusiasmante co-me quello dell’attore. Il cinema italianoera morto. Ora si sta risvegliando. Gliamericani ci criticano, ma dimenticanoche loro hanno la forza del denaro, men-tre noi siamo poveri. Eppure esistono inItalia una generazione di buoni attori ealcuni bravi registi. Certo, non abbiamodelle star di livello internazionale, maPlacido per esempio è un artista immen-so. Tra i giovani mi piacciono ClaudiaGerini, Laura Chiatti, Santamaria, Ger-mano, Favino. L’Italia ha bisogno di rial-zare la testa, non soltanto in campo ci-nematografico. Dobbiamo imparare adiventare un paese multirazziale e mul-ticulturale, coltivare l’accoglienza deglistranieri e nello stesso tempo frenare lacriminalità diffusa. Io sento l’insicurez-za, soprattutto la paura delle donne. Eavverto grande sfiducia nella politica.Non c’è un altro posto, però, in cui vorreivivere. Amo Roma. Non riesco a starlelontana più di una settimana. Nella miaclassifica subito dopo di lei vengonoLondra, Parigi e New York. Città, soltan-to città. Adoro essere circondata».

Sono stata femministasenza saperlo:ho sceltodi fare un figliosenza avereun uomo accantoOgni sera mi faccioil segno della crocee ringrazio Diodella fortuna avuta

La bomba sexy della commediaall’italiana anni Ottanta si è inventatauna seconda vita da produttorecinematografico ma non rinnegail suo passato. “Allora spogliarsi

era un passaggioobbligato. Devo moltoal mio fisico, con il corpocontinuo a avereun rapporto bellissimoVivo di rendita, non honostalgie, mi sento benedentro la mia pelle”

E non bara sull’età: “Dico a tuttiche ho cinquantotto anni e mi aspettoche mi facciano i complimenti”

DARIO CRESTO-DINA

Edwige Fenech

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Repubblica Nazionale