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Sotgia, un urbanista e una storica delle città, ci spiegano come mai le città spa- ventino tanto chi sta al potere. Selene Pascarella, infine, s’è occupata di analiz- zare il modo in cui le fiction italiane de- scrivano il contesto urbano. Le foto che illustrano questo «Iper- Carta» raccontano un’originale forma di protesta che dagli Stati uniti, qui siamo a San Francisco, si sta diffondendo in Europa: lo Zombie mob. Una massa di attivisti vestiti da non-morti assediano le città e bloccano gli spazi commercia- li. Proprio come nei film di Romero. Pro- prio come i media raffigurano gli abitan- ti delle periferie e tutti i gruppi sociali che non si adeguano al tran tran consu- mo-lavoro-televisione: sono dei devian- ti assetati di sangue. UALCHE SETTIMANA fa, il sociologo Ilvo Dia- manti ha annunciato su Repubblica che se- condo il recente Rapporto Demos-Osserva- torio di Pavia sulla rappresentazione della sicurezza, gli italiani si sentono meno minacciati dal cri- mine rispetto a un anno fa. Oggi come un anno fa i rea- ti sono in diminuizione. Diamanti ammette: «Le opinio- ni si sono separate dai fatti». Insomma, non c’era moti- vo perché un anno fa il giornale di Scalfari pubblicasse in prima pagina la lettera di un anonimo «elettore di si- nistra» che lamentava la disattenzione dei suoi partiti di riferimento sul tema della sicurezza. Quella lettera sti- molò la risposta dell’allora sindaco di Roma Walter Vel- troni e inaugurò la sua campagna sulla sicurezza. Andò a finire che la destra cavalcò meglio del centrosinistra la tigre paranoica del panico. Addirittura, Gianni Aleman- no annunciò al direttivo di Alleanza nazionale, all’indo- mani delle elezioni che lo hanno spinto fino al Campido- glio: «Abbiamo trovato il modo di costruire radicamen- to sociale da destra: la sicurezza». Dunque vale la pena continuare a interrogarsi sui meccanismi che hanno costruito una gigantesca alluci- nazione collettiva e hanno fatto credere a milioni di per- sone in buonafede, che i loro piccoli figli, i loro anziani genitori o magari le loro automobili luccicanti, fossero in balia di orde di immigrati clandestini, baby-gang senza scrupoli, tifosi di calcio inviperiti. Così, abbiamo chiesto chiarimenti a Steve Macek, so- ciologo dei media che ha studiato come negli Stati uni- ti, tra la fine degli anni ottanta e i primi anni novanta, la destra abbia costruito lo stesso grand guignol. Nel miri- no delle telecamere, ci ha detto Macek, c’è il vivere co- mune delle città. Per questo, Antonello Sotgia e Alice IPERCARTA 42 • CARTA N.2 Q di G. San. PERCHE LA MACCHINA DEI MEDIA RACCONTA CITTAÀ POPOLATE DA ZOMBIE POVERI E MIGRANTI ASSETATI DI SANGUE. LA SICUREZZA E LE TRASFORMAZIONI URBANE , ,

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Sotgia, un urbanista e una storica dellecittà, ci spiegano come mai le città spa-ventino tanto chi sta al potere. SelenePascarella, infine, s’è occupata di analiz-zare il modo in cui le fiction italiane de-scrivano il contesto urbano.

Le foto che illustrano questo «Iper-Carta» raccontano un’originale forma diprotesta che dagli Stati uniti, qui siamoa San Francisco, si sta diffondendo inEuropa: lo Zombie mob. Una massa diattivisti vestiti da non-morti assedianole città e bloccano gli spazi commercia-li. Proprio come nei film di Romero. Pro-prio come i media raffigurano gli abitan-ti delle periferie e tutti i gruppi socialiche non si adeguano al tran tran consu-mo-lavoro-televisione: sono dei devian-ti assetati di sangue.

UALCHE SETTIMANA fa, il sociologo Ilvo Dia-manti ha annunciato su Repubblica che se-condo il recente Rapporto Demos-Osserva-torio di Pavia sulla rappresentazione della

sicurezza, gli italiani si sentono meno minacciati dal cri-mine rispetto a un anno fa. Oggi come un anno fa i rea-ti sono in diminuizione. Diamanti ammette: «Le opinio-ni si sono separate dai fatti». Insomma, non c’era moti-vo perché un anno fa il giornale di Scalfari pubblicassein prima pagina la lettera di un anonimo «elettore di si-nistra» che lamentava la disattenzione dei suoi partiti diriferimento sul tema della sicurezza. Quella lettera sti-molò la risposta dell’allora sindaco di Roma Walter Vel-troni e inaugurò la sua campagna sulla sicurezza. Andòa finire che la destra cavalcò meglio del centrosinistra latigre paranoica del panico. Addirittura, Gianni Aleman-no annunciò al direttivo di Alleanza nazionale, all’indo-mani delle elezioni che lo hanno spinto fino al Campido-glio: «Abbiamo trovato il modo di costruire radicamen-to sociale da destra: la sicurezza».

Dunque vale la pena continuare a interrogarsi suimeccanismi che hanno costruito una gigantesca alluci-nazione collettiva e hanno fatto credere a milioni di per-sone in buonafede, che i loro piccoli figli, i loro anzianigenitori o magari le loro automobili luccicanti, fossero inbalia di orde di immigrati clandestini, baby-gang senzascrupoli, tifosi di calcio inviperiti.

Così, abbiamo chiesto chiarimenti a Steve Macek, so-ciologo dei media che ha studiato come negli Stati uni-ti, tra la fine degli anni ottanta e i primi anni novanta, ladestra abbia costruito lo stesso grand guignol. Nel miri-no delle telecamere, ci ha detto Macek, c’è il vivere co-mune delle città. Per questo, Antonello Sotgia e Alice

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Qdi G. San.

PERCHE LA MACCHINA

DEI MEDIA RACCONTA

CITTAÀ POPOLATE

DA ZOMBIE POVERI

E MIGRANTI

ASSETATI DI SANGUE.

LA SICUREZZA

E LE TRASFORMAZIONI

URBANE

,

,

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EGGERE «URBAN NIGHTMARES» [incubi urbani], saggio di Steve Macek usci-to per University of Minnesota press sull’invenzione dell’«emergenzasicurezza», per un italiano è come entrare in una macchina del tempoe proiettarsi nel futuro. Macek insegna analisi della comunicazione e

dei media al North Central College di Naperville, in Illinois, negli Stati uni-ti, e col suo saggio sugli «incubi urbani» cerca di comprendere come mai, tragli anni ottanta e i primi novanta, uno tsunami di «panico morale» abbia tra-sformato le città post-industriali nel regno della paura. Un meccanismo chenon può far pensare alla strategia sistematica seguita dalle destre italianenegli ultimi anni. La nostra conversazione parte dalla capacità delle le éli-tes al potere di creare capri espiatori soprattutto nei periodi di crisi e di for-ti polarizzazioni economiche nelle aree metropolitane.

Da questo punto di vista, la televisione fa la diffe-renza nella costruzione artificiale del senso di pe-

ricolo e della paura?Ne sono convinto. Nel mio libro analizzo il modo in

cui i principali network televisivi commerciali de-gli Stati uniti hanno raccontato la realtà delle cit-tà americane. In centinaia di storie sui quartie-ri metropolitani, sul crimine urbano, sulla po-vertà e sui comportamenti sociali, i networkinquadrano la città come un luogo spaventosodi violenza, disordine, degrado morale e illega-lità. Tentando di interpretare questo caos im-maginato, si sono rivolti costantemente acommentatori di destra e conservatori, a teorieche scaricano la colpa sulle vittime e che se laprendono, per il crimine e la povertà, con i po-veri stessi. Ciò a sua volta, ha contributo ad ap-piccare il «panico morale», una spirale crescen-te di paura, legittimando la repressione polizie-sca contro la popolazione delle periferie, soprat-tutto contro i giovani lavoratori neri e latinoame-ricani, che erano visti come una minaccia al-

l’America «normale». Come spiego in«Urban nightmares», lo spettacolo dellametropoli-minaccia è servito a distrarrela gente da cosa stava accadendo vera-mente nelle nostre aree urbane dopo an-ni di politiche neoliberiste: crescenti di-suguaglianze, forte aumento della disoc-cupazione, incremento costante dei sen-za tetto, deindustrializzazione, rafforza-mento delle divisioni tra quartieri del ce-to medio e zone povere, rafforzamentodella segregazione razziale.

In Europa, le «leggi speciali» contro i tifosi sono stati illaboratorio per la «tolleranza zero» contro tutti gli altricittadini. È l’ennesima dimostrazione che la creazionedi una «categoria a rischio», di un «folk devil», serve adalimentare il panico morale.

Ormai possiamo definire con una certa precisione il mec-canismo utilizzato per demonizzare alcuni gruppi socia-li e alcune sottoculture. Nel caso dei residenti afroame-ricani e ispanici negli anni ottanta e novanta, i mediahanno scovato storie sensazionali sulle loro malefatte cri-minali, ignorando altri aspetti delle loro esistenze e del-la vita urbana in generale. Senza dubbio, le storie su que-sta fetta di popolazione che hanno circolato in questo pe-riodo hanno riguardato solo il crimine e la violenza. Inqualche caso, questa copertura era legata a disinforma-zione e menzogne. Così, ad esempio, ad un certo punto al-la metà degli anni novanta i media hanno sostenuto l’ideache all’orizzonte ci fosse un’«epidemia» di criminalità gio-vanile, quando i fatti dimostravano che il numero dei rea-ti era in calo. Così, per i media gran parte dei minorennidei quartieri metropolitani apparteneva a gang giovani-li assetate di sangue. Ma solo una esigua minoranza di es-si, e molto spesso si trattava dei più poveri, aveva scel-to le gang. In più, i media hanno utilizzato un mucchio dietichette per definire la povertà urbana - su tutte si è im-posto il marchio di «underclass» - che hanno comporta-to ogni sorta di deroga alla norma. Infine, i media han-no messo in vetrina politici ed «esperti» che hanno cer-cato di costruire i ceti urbani black e latinos come «folkdevil». È un sistema utilizzato molte volte dall’inizio del-l’epoca dei mass media. In passato, i media hanno diffu-

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intervista a Steve Macek di Giuliano Santoro

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Come si inventail panico

LCONVERSAZIONE

CON STEVE MACEK,

SOCIOLOGO

DEI MEDIA,

CHE HA STUDIATO

LA COSTRUZIONE

DELL EMERGENZA

SICUREZZA

NEGLI STATI UNITI

,

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so allarmi con notizie sui bikers fuorilegge, sui punk o su-gli hooligan. Negli Stati uniti degli anni ottanta e novan-ta hanno terrorizzato le persone con storie di appartenen-ti alle «gang» o di «welfare queen» [espressione gergaleusata per definire chi vive da «parassita» accumulandosussidi sociali senza lavorare, Ndt]. Questa forma di sen-sazionalismo aiuta a vendere giornali e aumenta l’atten-zione di cui godi. Dal punto di vista di editori e direttoridi testate giornalistiche, funziona. Con un piccolo detta-glio: genera risultati deplorabili nel discorso pubblico.

Insisti molto sul ruolo dei cosiddetti «esperti» nel legit-timare il «panico morale» È un processo analogo a quel-lo che ha tentato di legittimare la guerra in Iraq?

Esperti, intellettuali, accademici, giudici, uomini di gover-no, analisti, commentatori politici giocano un ruolo cen-trale nel perpetuare il panico. Gli esperti per primi iden-tificano un gruppo sociale problematico o una situazio-ne specifica come causa di preoccupazione pubblica. Nelcaso del panico urbano, intellettuali e analisti, supporta-ti da una rete di think tank e fondazioni di destra, hannoidentificato per primi la crescita della «sottoclasse urba-na» - definita come povera, nera, ignorante e patologica– come la causa dei problemi dell’America urbana.

I giornalisti dipendono da esperti di vario tipo nel ri-portare molte delle storie che vengono diffuse come «no-tizie». Quando gli esperti parlano di una nuova minac-cia alla società, i media tendono ad ascoltare. Ovviamen-te, non tutti gli esperti hanno accesso ai media. In que-sto paese, si tende a privilegiare la voce di esperti chehanno alle spalle istituzioni potenti [come le maggioriuniversità, le fondazioni più ricche o i «think tank» di

Washington] e quelli che assecondano l’ideologia do-minante. Per commentare le notizie che hanno contribui-to a diffondere la paura della città, veniva chiesto ilcontributo di Charles Murray [il cui lavoro è finan-ziato da alcune fondazioni di destra e promosso dal-l’influente Manhattan institute] o di WilliamBennet [che fu ministro dell’istruzione con RonaldReagan].

Allo stesso modo, gli esperti hanno contribui-to a legittimare l’invasione immorale e illegale del-l’Iraq. E, proprio come nel caso del panico sulla cit-tà senza regole, per l’Iraq i media hanno ascolta-to solo gli esperti che erano d’accordo con il pen-siero dominante. Il gruppo «Fairness and accura-cy in reporting» ha fatto un famoso studio sulla co-pertura delle televisioni nazionali del dibattito sul-la guerra. E ha scoperto che solo 3 dei 393 esperticonsultati in quel periodo erano contro la guerra. Sitratta di meno dell’uno per cento degli esperti di tut-te le emittenti televisive. Non era difficile trovarepersone credibili che parlassero contro la guerra.Gente del calibro di Noam Chomsky, Arundhati Roy,Scott Ritter, George Galloway o Hans von Sponeck…

Il «panico urbano» è stato utilizzato anche per ridi-mensionare il welfare. C’è una relazione diretta trala paura indotta e la riduzione delle spese sociali?

Il clima di paura che ha circondato le città ha resopiù semplice, sia per i democratici che per i repub-blicani, tagliare i fondi del welfare. Se l’opinionevede i più poveri come una massa spaventosa didevianti, non protesta quando si tagliano le

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voci di bilancio destinate ai loro bisogni. Nel 1996il Congresso ha eliminato dal bilancio federale gliaiuti alle donne e ai giovani. Non sarebbe mai po-tuto accadere, se gli statunitensi si fossero resiconto che si trattava di persone come loro, che sitrovano in condizioni di bisogno a causa di unasituazione economica che va oltre il loro control-lo. È stato necessario che i beneficiari del welfa-re venissero raffigurati come alieni terrificanti.Il discorso della destra sulle patologie della cit-tà, rinforzato e amplificato dai media a tambu-ro battente, ha reso possibile quella riforma.

Non penso che i politici davvero credesseroche la povertà urbana fosse in grado di mina-re la morale della nazione o di costituire una se-

ria minaccia per l’ordinepubblico. Avevano altre ra-gioni per smantellare il wel-fare. Per dirne una, senzawelfare il lavoro salariatodiventa l’unico strumento disopravvivenza, rendendomolto più difficile per i lavo-ratori resistere alla forzadel capitale.

Dimostri anche che il panicosi riconnette a una antica tra-dizione di anti-urbanesimotradizionalista statunitense.In Italia, l’«emergenza sicu-rezza» è uno dei cavalli di bat-taglia del governo di SilvioBerlusconi, che ha guadagna-

to i primi miliardi costruendo posti come «Mila-no 2», cioè città sub-urbane di plastica e aconflit-tuali per il ceto medio. Non erano solo case, era-no forme di vita. La «tolleranza zero» è la guerracontro le città condotta dalle aree sub-urbane?Penso di sì. Se dai un’occhiata ai sondaggi su te-mi come il crimine e le spese sociali, scoprirai chei ceti sub-urbani tendono a favorire le soluzioni«legge e ordine» e, con l’eccezione della «social se-curity» [il sistema pensionistico su base federale],guardano con sfiducia alla spesa sociale. I politi-ci più impegnati nella campagna per la «tolleran-za zero» e più ostili verso i ceti bassi e le aree ur-bane, arrivano dalle aree sub-urbane. Non mi sor-prende che un reazionario come Berlusconi abbiacominciato la sua carriera come costruttore dicittadelle sub-urbane.

Bisogna considerare che i quartieri resi-denziali delle aree suburbane, almeno

qui negli Usa, non sono più etnicamente e socialmenteomogenei come un tempo. Le zone residenziali tendonoa essere più bianche, più agiate, più conservatrici dellecittà che circondano. Ma questa situazione sta cambian-do. Dove vivo io, nella regione metropolitana di Chicago,abbiamo zone a maggioranza nera, a maggioranza lati-noamericana, e ci sono aree povere proprio come i quar-tieri poveri delle città. In questi quartieri sicuramentenon ti troverai di fronte a quel tipo di ostilità verso la cit-tà che è così evidente nelle zone del ceto medio bianco.Dobbiamo precisare anche che il sospetto e l’ostilità ver-so le città e i loro strati sociali inferiori non sono confi-nati solo all’America sub-urbana e ai politici che essaesprime. Uno dei maggiori sostenitori della «tolleranzazero», Rudolph Giuliani, era sindaco di New York graziealla paura del crimine dei cittadini. A Chicago, RichardHaley Jr. è diventato sindaco usando lo stesso tipo di tat-tica. E so che in Italia, a Roma, Gianni Alemanno è sta-to eletto grazie alla sua promessa di espellere i migran-ti. Le zone residenziali, insomma, non hanno il monopo-lio delle politiche del panico.

Secondo le teorie di Saskia Sassen, le metropoli sono ilcuore della globalizzazione. Un detto del Medioevo te-desco affermava che «l’aria delle città rende liberi», al-ludendo al fatto che spostandosi in città ci si potevaemancipare dalla schiavitù feudale. Le città oggi sonoal centro del lavoro post-industriale: il capitalismo habisogno di incrementare le relazioni sociali, ma contem-

LE CITTA

SONO IL LUOGO

DELLE DIFFERENZE.

ECCO PERCHE

L IDEOLOGIA

DELLA TOLLERENZA

ZERO SI PRESENTA

COME FOBIA

ANTI-URBANA

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tro la legge sull’immigrazione o per sostenere i lavo-ratori che avevano occupato una fabbrica chiusa il-legalmente dai padroni [si riferisce alla Republicwindow and doors factory, occupata alla fine del2008 dai lavoratori che erano stati licenziati, Ndt].Persone provenienti da diversi contesti culturalie diversi quartieri, hanno lottato insieme metten-do l’interesse comune davanti alle immaginariedifferenze. Così, l’eventuale paura e le tensioni raz-ziali hanno cominciato a dissolversi.

Ovviamente, penso che si debbano fare anche al-tre cose. È fondamentale creare e sostenere mediaindipendenti e controllati dal basso che informinola gente con una alternativa alla raffigurazione spa-ventosa delle nostre città che è stata fatta negli an-ni scorsi. Qui negli Stati uniti, riviste come «In the-se times» e «The Nation» sono stati per anni gli uni-ci media che hanno dato conto dei veri problemi. Piùrecentemente, i vari Indymedia e riviste on line co-me Alternet hanno fatto un ottimo lavoro nel raccon-tare le città.

Dobbiamo monitorare e controbattere alla propa-ganda dei grandi media. Ogni volta che parlano digang giovanili o di ragazze-madri appartenenti alla«sotto-classe permanente» come causa dei mali del-la nostra città, ogni volta che tentano di trasforma-re la gioventù in un capro espiatorio per le disfun-zioni sociali che sono un prodotto del capitali-smo, dovremmo protestare.

poraneamente deve controllare sempre di più. Pensiche questa contraddizione sia alla base dell’odio versole città che si concretizza nella «sicurezza»?

Credo che Sassen abbia ragione: le città globali sono l’ar-matura, forse lo scheletro, della globalizzazione neolibe-rista. Sono, come dici, il cuore del lavoro post-industria-le. Ma, come Sassen stessa fa notare, l’economia basatasui servizi delle città dipende dal sudore del lavoro sot-topagato degli ex lavoratori delle aree industriali, le at-tività economiche che avvengono nelle città globalizza-te dipendono direttamente dal sudore e dalla fatica dellavoro a basso salario, spesso fatto da ex lavoratori spe-cializzati o da figli di lavoratori specializzati. La nuovadivisione del lavoro «post-industriale» e il proliferare dilavori sottopagati nei servizi sta determinando la pola-rizzazione economica nelle metropoli. L’attuale forma diisteria anti-urbana è la risposta reazionaria e razzista aquesta polarizzazione, alla forbice crescente tra ricchi epoveri che è il tratto saliente del contesto urbano. In que-sto senso, l’emergere delle città globali e la cosiddetta«economia post-industriale» è un contributo al panico.

Che alternative proponi alla «spirale di paura» e alla «po-litica del panico»?

Il migliore antidoto è la buona vecchia solidarietà, che ol-trepassa i confini etnici, culturali e geografici e che si co-struisce nei momenti di intenso conflitto economico e po-litico. Qui a Chicago di recente i lavoratori bianchi e ne-ri, con i migranti ispanici, si sono uniti per lottare con-

31 gennaio 2009 Circa 300 persone, per la mag-gior parte migranti, ma anche attivisti dei movimenti dilotta per la casa, dei centri sociali e dell’associazione ro-mana gay e lesbiche, hanno assistito lo scorso 19 genna-io a una lezione in piazza, in cui l’avvocato Salvatore Fachi-le – esperto di diritto dell’immigrazione – ha spiegato il di-segno di legge sulla «sicurezza» agli uo-mini e alle donne in carne e ossa chesubiranno il giro di vite, aiutato da in-terpreti che ne traducevano in varievarie lingue. La platea, interpellata di-rettamente dall’avvocato, con striscio-ni e manifesti commentava i variemendamenti. La singolare lezione inpiazza è servita, oltre che a rendere vi-sibile l’opposizione al govenro che la-titta tra i banchi del parlamento, a lan-ciare la manifestazione romana del 30 gennaio prossi-mo contro il «pacchetto sicurezza» e il razzismo: un car-tello di associazioni di migranti e centri sociali ha orga-nizzato il corteo per esplicitare il dissensoall’isteria xe-nofoba e repressiva. Si partirà da porta Maggiore alle15, per attraversare la zona multietnica di piazza Vit-torio e arrivare al centro della città. http://nopacchettosicurezza.noblogs.org

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La città era in quei giorni città perché nello scam-bio, nell’incontro tra diversi, produceva in forma as-solutamente autonoma elementi di capacità criticacontestualizzati. Hanno chiuso Genova prima anco-

ra di cacciarci, rendendo tangi-bile quel paradigma antiurbanodi cui parla Steve Macek. Han-no introdotto la «paura», con cuiavrebbero cementato la rivoltacontro l’urbano, per nasconde-re il vero disegno del mondo li-berista, fondato sull’annulla-mento della possibilità che lecittà si ridefiniscano dal sensodell’abitare. Si vuole distrugge-re la città per impedire all’abita-re di autocostruirsi come prati-ca del fare comune: di ricono-scersi, a fronte dell’omogeneiz-zazione imposta, come «co-scienza di luogo».

La città non può più essereconsiderata come «zona pacifi-

cata», da quando molti saperi e pratiche hanno pre-so parola proprio come espressione autonoma di chivive in una di quelle singole e plurali «zone» che la co-stituiscono. Nuove lotte hanno prodotto altrettantedefinizioni spaziali che in se stesse tengono insieme,con la critica alla città, l’opposizione alla declinazio-ne dei suoi spazi, alle scelte di rappresentarsi.

Nella nostra vita comune di padre e di figlia la cit-tà ha così un significato molto diverso da quello cheha avuto nel rapporto familiare padre-figlio immedia-tamente precedente. La città nell’Italia di quaranta,cinquant’anni fa, era il luogo da costruire secondo iltempo scandito dal lavoro. Per assumere ruoli prede-finiti che già si sapeva sarebbero dovuti restare immu-tati nel tempo. Da vivere, all’interno della binarietàspaziale dove lo spazio pubblico e quello privato era-

LA PAURA

CONTRO L URBANO:

ANCHE IN ITALIA

SI CERCA

DI DISTRUGGERE

O PACIFICARE

LA CITTA

COME PRATICA

DELÒFARE COMUNE

no organizzati intorno al concetto di proprietà. Doveil «panico» era rappresentato dal fatto di non riusci-re a raggiungere la quota parte di «proprietà». Dive-nire parte della città basata sul possesso.

Oggi, nelle città si fa serpeggiare come panico, in-cubo urbano, proprio il perdere questa proprietà.Come invasione dell’altro nel proprio spazio. Comeassenza di elementi materiali immediatamentescambiabili. Come interruzione delle modalità ingrado di portare all’acquisizione. In Italia, tutto que-sto accade grazie all’intreccio proprietario tra banche,immobiliaristi e detentori dei principali mezzi d’infor-

di Antonello Sotgia e Alice Sotgia

’È STATO UN GIORNO PRECISO, nella nostra vita comune di padre e figlia, in cui siamo stati cacciati dal-la città. È accaduto a Genova nel 2001, quando ci siamo ritrovati, tra migliaia di «altri», appunto «incittà»: il luogo dove gli individui, gli uomini e le donne, entrano in contatto tra loro. Eravamo an-

dati per parlare del mondo. Per narrarlo e farcelo narrare da chi abita il mondo in maniera differente da comelo volevano rendere gli «otto» che, nascondendosi in una zona rossa, preparavano la loro guerra infinita. Il pri-mo atto di questa guerra è stato proprio quello di chiudere la città, asserragliandosi dentro le gabbie; dispiegan-do un’occupazione che utilizzava le forme della repressione per schiacciare, con la sovrapposizione militare diun potere esterno e estraneo, la novità e la rivolta rappresentata dalla forza dell’abbondanza con cui i molti, in-contrandosi, parlandosi, sapendosi ascoltare, si scambiavano le loro conoscenze del mondo in un’allora inedi-ta cooperazione sociale.

C

,

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Chi fa la guerra al v

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va escalation di reati. Poi, sempre loro, ne doserannola percezione, decidendo come e quando questi saran-no portati all’ascolto della città. Si servono di questaultima, per includere e riportare ogni fatto sociale nel-l’accaduto del cruento quotidiano [la vendetta, la pas-sione, ma, anche, il regolamento dei conti tra organiz-zazioni criminali], assumendosi il ruolo di spacciato-ri delle opportune dosi di insicurezza urbana.

Ma non sono esclusivamente le televisioni a farsicarico del comporre le «hit» delle forme di esplosionedi violenza, della povertà o del decadimento morale.Da sole non ci riuscirebbero. Per farlo devono inseri-re la città nel generale mondo della comunicazione e,al tempo stesso, fare proprio della comunicazione unelemento di competitività. Al tempo stesso mostrano,a chi scopre la saldatura tra loro delle tante forme dipaura nella globalizzazione del mondo, una possibi-lità rappresentata dalla guerra dei piccoli borghi con-tro le città globali. Un’alternativa? Come se il rinchiu-dersi in recinti anche dorati, del tipo di quelli narra-ti da Rodrigo Pilà nel film «La Zona», possa dirsi vive-re, costretti come si è a rinunciare a tutte le passionie alimentare il solo odio. L’invito a schierarci controla città in realtà è la forma maggiormente artefattaper mascherare il suo presente rappresentato an-che, almeno in Italia, da zone non completamentedefinite per etnia prevalente.

Agli spazi creati dall’immaginario dell’informazio-ne non corrispondono singole comunità, ma una com-plessa interazione spaziale che sfugge alla pretesaghettizzazione e segregazione territoriale. Così il no-stro abitare, quale forma del welfare comune, divie-ne l’elemento di rottura delle modalità che hanno co-struito la città in cui ci vogliono far vivere, intercet-tando e quindi restituendo l’incessante lavoro collet-tivo che le comunità compiono intorno alle trasforma-zioni, affinché risultino patrimonio di chi material-mente le produce.

mazione che alimentano, attraverso i media, la pau-ra. Per loro, che sono poi quelli che fisicamente lo fan-no, coincide con il vedere giorno dopo giorno svani-re, come in una bolla di sapone, la possibilità di con-tinuare a costruire la città conducendo la propria bat-taglia basata sull’espandersi della rendita contro ilreddito. Anche in Italia gli esperti, nota Steve Macek,assumono il compito di «costruire problemi». Lo fan-no intrecciando il tema di una presunta sicurezzacon quelli dell’abitare. Dicono che con la crisi econo-mica sempre più acuta, i licenziamenti e le massicceepurazioni dai posti di lavoro provocheranno una nuo-

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vivere comune

La Zona, di Rodrigo Plà, è il film che rappresenta meglio lo spirito di questo «IperCarta». La storia si svolge in unquartiere residenziale di Città del Messico, un’area c ircondata da muraglioni e controllata metro per metro dal-l’occhio delle telecamere e da guardie private. Ma l’equilibrio artificiale e asettico che si respira dentro le mura di

cinta è soggetto alle inevitabili pressioni esterne. Quando un gruppo di ladruncoli, provenienti dal «mon-do di fuori», riuscirà a intrufolarsi dentro la Zona, gli abitanti della autoproclamata «Repubblica della Sicu-rezza» decideranno di farsi giustizia da soli, entrando in conflitto con un poliziotto corrotto e violento cheper una volta ha deciso di fare «la cosa giusta». Il film, presentato al Festival del cinema di Venezia del 2007,coglie diversi aspetti della paranoia securitaria, a cominciare dal «fare società» perverso delle ronde di cit-tadini e delle comunità chiuse: dentro lo spazio di plastica della Zona tutti si conoscono di persona, le de-cisioni vengono prese su base assembleare e i pochi dissidenti vengono guardati con sospetto. L’automo-bile ufficiale dei residenti della Zona è il Suv, un veicolo impermeabile, quasi cingolato.

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Page 9: Urbanofobia - shmacek.faculty.noctrl.edushmacek.faculty.noctrl.edu/42-51low.pdf · Bennet [che fu ministro dell’istruzione con Ronald Reagan]. Allo stesso modo, gli esperti hanno

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l’effetto di una seduta di ipnosi che spiegare leorigini di un rimosso, di una ossessione, di una

inspiegabile fobia: anni e annidi ragazzini per bene traviatidalla droga, di periferie sotto-poste a multiple invasioni bar-bariche, di commercianti conla Beretta sotto il bancone persfuggire a ladruncoli armati ditaglierini e disperazione, dimamme affrante per la perdi-ta di ogni forma di bene fami-liare ed economico in mezzo alcemento e alle utilitarie: si af-fastellano come i dati dei son-daggi Censis sugli italiani e leloro grandi paure.

Come gli aumenti delle bol-lette non dicono mai niente dinuovo, eppure meritano sem-pre servizi di almeno un paio

di minuti, chiamati a reificare quel diffusosenso di malessere legato a minacce tantograndi quanto inesistenti – su questo tutti itg concordano – che si chiama «percezione»di insicurezza.

Scrive Giuseppe Roma, direttore gene-rale del Censis: «La paura del terzo mil-lennio è la reazione sociale ai grandi mu-tamenti globali», ma «è l’individualiz-zazione delle paure a rendere ancorapiù angosciante la percezione del ri-

schio derivante dalla criminalità ur-bana. L’ansia va gestita da soli,

mentre in passato le grandi pau-re [povertà, disoccupazione,

malattia, guerra nucleare]erano collettive». E in città,

sembra suggerire Roma,

di Selene Pascarella

ARIA HA 15 ANNI, soffici capelli biondi e un bel broncio adolescenziale. Impalata sulla porta pia-gnucola per l’amaro destino che l’ha catapultata dal cuore della capitale al nulla di un quartie-

re residenziale dove le schiere di conifere somigliano tanto a un filo spinato. Suo padre, giovanevedovo dall’aria stanca e bonaria, la stringe a sé. Dopo tutto quello che hanno passato, non c’è al-

tro posto dove la loro famiglia possa rincominciare. Lontano, al sicuro, al riparo. È il 1998, e la fa-miglia in questione, i Martini, diventerà la beniamina del pubblico televisivo italiano facendo di «Un

medico in famiglia», format di importazione spagnola, l’emblema dello stile di vita italico avviatoal secondo millennio. I Martini non sono gli unici, infatti, ad aver optato per la fuga dalla grande cit-

tà, quella che che domina nei telegiornali sotto forma di cronaca nera e nei palinsesti pomeridiani sot-to le brutali vesti - pulp quanto pop - della tv del dolore, leit motiv del piccolo schermo dalla prima me-tà degli anni novanta.

Visionare a ritroso l’archivio di programmi come «Affari vostri», «Verissimo» o «La vita in diretta» fa

VILLETTE AMENE,

SOGGIORNI

COLORPASTELLO

E PICCOLI BORGHI

PACIFICATI

E SONNACCHIOSI:

LA TELEVISIONE

DEI SERIAL

ODIA LA CITTA

M

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si vive soli ma con il telecomando in mano. Con la sen-sazione di trovarsi nel posto sbagliato al momentosbagliato. Dal disastro nucleare si può scampare, macosa fare se si vive in «Città Criminali» – fidatevi, nonse ne salva una, nemmeno Campobasso e Isernia -, se«Delitti» e «Crimini» sono la colonna portante dellastoria di metropoli come Roma e Milano e nemmenola provincia che è un profluvio di «Nebbie e delitti»,che per giunta si rivelano «Delitti imperfetti», è ormaiun posto sicuro?

Se i palazzoni nascondono il serial killer massdi-mensionale e le villette in montagna fanno impazzi-re i padri di famiglia che nemmeno l’Hoverlook Ho-tel di «Shining», l’unica speranza sta nei comprenso-ri stile Milano2, che hanno popolato hinterlandgrandi e piccoli dello stivale.

Anche chi non ci ha mai messo piede sa come sonofatti, e non per merito della Winsteria Lane delle ca-salinghe disperate, come pensano in tanti, ma anco-ra una volta di una frequentazione assidua e di lun-ghissima data. Attraverso un percorso di telefilm no-strani che va dai «Cinque del quinto piano», dove an-cora una vaghissima ambientazione metropolitanapersisteva, ai «Vicini di casa», dove si è «Finalmentesoli», in soggiorni dalle tinte pastello, con bambini chepossono andare in bicicletta magari accompagnati dal«Nonno Felice». C’è un loop in cui si sono persi gli spet-tatori della generazione delle tv private, dove l’esigen-za di sfornare prodotti a basso costo, le situation co-medy appunto, girati in pochissimi interni e ricicla-bili per la produzione successiva, impone uno stilenarrativo dominato dall’autoreclusione dei personag-gi in un’unica dimensione - anomica più che domesti-ca - che alimenta una vocazione al ripiegamento nel-la zona residenziale con vigilante.

Nell’ultima serie di «Un medico in famiglia», non-no Libero, alias Lino Banfi, riesce a far acquistare adaltri personaggi del serial una casetta in un compren-

La finestra

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Page 10: Urbanofobia - shmacek.faculty.noctrl.edushmacek.faculty.noctrl.edu/42-51low.pdf · Bennet [che fu ministro dell’istruzione con Ronald Reagan]. Allo stesso modo, gli esperti hanno

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sorio simile a quello dei Martini, Poggio Fiorito, strin-gendo sempre più il cerchio.

Con un effetto che richiama da vicino anche gli sti-lemi della soap opera: anche qui pochi personaggi ani-mano per decenni paesaggi virtuali e artificiali, le«Centovetrine» di Torino o il Palazzo Palladini dellaNapoli di «Un posto al sole», indifferenti a quel cam-biamento globale che tanto preoccupa gli altri citta-dini, impermeabili alla metropoli che li avvolge, pro-tetti da una bolla che solo di rado attraversano. Ritro-vandosi così, all’improvviso, in un universo parallel-

lo, in cui i sottopassaggibrulicano di senza tetto,dietro ogni angolo si celanopotenziali aggressori, le stra-de sono sporche e squallide, leprostitute offendono lo sguar-do e gli immigrati procurano undisagio cui si cerca di non dareun nome. Tutto è periferia, la cit-tà stessa diventa un regno di con-fine dove ogni cosa è sottratta - laciviltà, la speranza, la felicità - e lanormalità è schiacciata tra case po-polari e smog, senza via d’uscita.

Un meccanismo, questo, che latelevisione riproietta attraversonarrativa di genere e cinema. Sulgrande schermo negli ultimi diecianni si è animato un intero filone de-dicato alla periferia metropolitanacome entità mitologica e selvaggia,appesantita oltretutto della retoricadella denuncia sociale: «Terra dimezzo» di Matteo Garrone, «La guer-ra di Mario» di Antonio Capuano,«Cemento armato» di Marco Marta-ni, «Fame chimica» di Antonio Boco-la e Paolo Vari, sono solo alcuniesempi di una immersione nel tessu-to metropolitano stile DiscoveryChannel. In queste raffigurazioni,c’è spazio solo per famiglie disa-strate, drammi e violenza e non re-sta traccia di tutto il fermento, laspettacolare esplosione mutipla dipersone, stili, culture e fenomeniche, nelle periferie soprattutto,caratterizza il vivere metropoli-tano. Dove semmai c’è vita «no-nostante», nell’impossibilità distare altrove.

Unica apertura permessa èquella del folklore, più grande è la metropo-li più se ne ricerca il lato conservativo,l’estetica strapaesana: il più «innovativo»dei serial italiani, «I Cesaroni», si nutre diquesto, eleggendo il derby Roma-Milana metafora della convivenza in unaGarbatella che somiglia a un parco atema sulla romanità. Fiaschette eporchetta, «volemose bene e an-namo avanti». Non oltre il Rac-cordo anulare, sia chiaro.

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sul cortile

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