e Catturare Sole il - La Repubblica.itdownload.repubblica.it/pdf/domenica/2009/12072009.pdf · I...

14
DOMENICA 12 LUGLIO 2009 D omenica La di Repubblica i sapori Mandorle, il seme della concordia LICIA GRANELLO e MASSIMO MONTANARI l’incontro Nathan Englander, l’“ateo incerto” ANTONIO MONDA spettacoli I novant’anni di Dino De Laurentiis SILVIA BIZIO e GIUSEPPE VIDETTI cultura La vita osservata dalle case del tè GIUSEPPE MONTESANO e RENATA PISU l’attualità Migranti accolti “nel nome di Dio” ENZO BIANCHI e MICHELE SMARGIASSI MAURIZIO RICCI FOTO CORBIS S ole per tutti. I padri fondatori sono Archimede ed Edi- son. Il progetto è figlio degli intellettuali del Club di Ro- ma, da sempre attenti al problema della scarsità di ri- sorse. I soldi sono, per ora, tedeschi. L’obiettivo è por- tare in Europa energia dal sole del Sahara. La data in cui tutto dovrebbe avere inizio è domani. Si riuniscono a Monaco di Baviera una ventina di aziende dai no- mi pesanti: Munich Re, Siemens, Deutsche Bank, E.On, Rwe, in- somma, una fetta cospicua del gotha dell’economia tedesca. Il ri- sultato dovrebbe essere la formazione di un consorzio che dia gam- be al progetto — chiamato Desertec — mettendo sul piatto i primi investimenti di un piano che, alla fine, costerà la cospicua cifra di 400 miliardi di euro. Il punto chiave non è l’idea, che non è nuova. Se ne è parlato anche a livello di governi: il «Piano solare» era il pro- getto preferito di Nicolas Sarkozy, al momento del lancio dell’U- nione per il Mediterraneo, quando la Francia aveva la presidenza dell’Unione europea. La differenza è che il piano solare smette di essere solo un file di computer, qualche diapositiva di una presen- tazione PowerPoint, un paio di paragrafi nei discorsi di un ministro. (segue nelle pagine successive) TAHAR BEN JELLOUN I l deserto affascina e intriga da sempre. La poesia l’ha tal- mente saccheggiato che è diventato un cliché da evitare. Il cinema ne ha fatto un luogo d’avventura senza uscita. Uo- mini eccezionali come l’esploratore e naturalista Théodore Monod (1902-2000) lo hanno attraversato in tutti i sensi per rivelarne le ricchezze inaudite e invisibili e per trovare la ge- nesi del nostro pianeta. René Caillé, nel XIX secolo, fu il primo fran- cese a spingere le porte del deserto e avventurarsi fino ai suoi limi- ti estremi. Lawrence d’Arabia ci ha trovato i pilastri della saggezza e un luogo di riconciliazione tra Oriente e Occidente. Jean-Marie Gustave Le Clézio, premio Nobel 2008, ne ha fatto un tema sublime per un romanzo sui percorsi dell’esilio intitolato Deserto. Altri pen- sano soltanto alle sue profondità e all’oro nero che vi si trova. Ma in- dipendentemente dal modo in cui ci rapportiamo al deserto, siamo senza certezze, senza pretese. Perché la sua vastità, il suo spazio in- finito, la sua luce e i suoi miraggi ci riducono a un granello di sabbia, e ci troviamo di fronte ai nostri limiti e alle nostre illusioni. Il deserto non è il nulla. Non è vuoto; non è morto. È uno spazio vivo la cui sola vista ci porta a metterci in discussione. (segue nelle pagine successive) i luoghi Il castello col fantasma gentile MAURIZIO CROSETTI Sole Catturare il Il calore del deserto trasformato in energia e portato in Europa Un sogno visionario che adesso è diventato un progetto e potrebbe essere presto realtà Repubblica Nazionale

Transcript of e Catturare Sole il - La Repubblica.itdownload.repubblica.it/pdf/domenica/2009/12072009.pdf · I...

DOMENICA 12 LUGLIO 2009

DomenicaLa

di Repubblica

i sapori

Mandorle, il seme della concordiaLICIA GRANELLO e MASSIMO MONTANARI

l’incontro

Nathan Englander, l’“ateo incerto”ANTONIO MONDA

spettacoli

I novant’anni di Dino De LaurentiisSILVIA BIZIO e GIUSEPPE VIDETTI

cultura

La vita osservata dalle case del tèGIUSEPPE MONTESANO e RENATA PISU

l’attualità

Migranti accolti “nel nome di Dio”ENZO BIANCHI e MICHELE SMARGIASSI

MAURIZIO RICCI

FO

TO

CO

RB

IS

Sole per tutti. I padri fondatori sono Archimede ed Edi-son. Il progetto è figlio degli intellettuali del Club di Ro-ma, da sempre attenti al problema della scarsità di ri-sorse. I soldi sono, per ora, tedeschi. L’obiettivo è por-tare in Europa energia dal sole del Sahara. La data in cuitutto dovrebbe avere inizio è domani.

Si riuniscono a Monaco di Baviera una ventina di aziende dai no-mi pesanti: Munich Re, Siemens, Deutsche Bank, E.On, Rwe, in-somma, una fetta cospicua del gotha dell’economia tedesca. Il ri-sultato dovrebbe essere la formazione di un consorzio che dia gam-be al progetto — chiamato Desertec — mettendo sul piatto i primiinvestimenti di un piano che, alla fine, costerà la cospicua cifra di400 miliardi di euro. Il punto chiave non è l’idea, che non è nuova.Se ne è parlato anche a livello di governi: il «Piano solare» era il pro-getto preferito di Nicolas Sarkozy, al momento del lancio dell’U-nione per il Mediterraneo, quando la Francia aveva la presidenzadell’Unione europea. La differenza è che il piano solare smette diessere solo un file di computer, qualche diapositiva di una presen-tazione PowerPoint, un paio di paragrafi nei discorsi di un ministro.

(segue nelle pagine successive)

TAHAR BEN JELLOUN

Il deserto affascina e intriga da sempre. La poesia l’ha tal-mente saccheggiato che è diventato un cliché da evitare. Ilcinema ne ha fatto un luogo d’avventura senza uscita. Uo-mini eccezionali come l’esploratore e naturalista ThéodoreMonod (1902-2000) lo hanno attraversato in tutti i sensi perrivelarne le ricchezze inaudite e invisibili e per trovare la ge-

nesi del nostro pianeta. René Caillé, nel XIX secolo, fu il primo fran-cese a spingere le porte del deserto e avventurarsi fino ai suoi limi-ti estremi. Lawrence d’Arabia ci ha trovato i pilastri della saggezzae un luogo di riconciliazione tra Oriente e Occidente. Jean-MarieGustave Le Clézio, premio Nobel 2008, ne ha fatto un tema sublimeper un romanzo sui percorsi dell’esilio intitolato Deserto. Altri pen-sano soltanto alle sue profondità e all’oro nero che vi si trova. Ma in-dipendentemente dal modo in cui ci rapportiamo al deserto, siamosenza certezze, senza pretese. Perché la sua vastità, il suo spazio in-finito, la sua luce e i suoi miraggi ci riducono a un granello di sabbia,e ci troviamo di fronte ai nostri limiti e alle nostre illusioni.

Il deserto non è il nulla. Non è vuoto; non è morto. È uno spaziovivo la cui sola vista ci porta a metterci in discussione.

(segue nelle pagine successive)

i luoghi

Il castello col fantasma gentileMAURIZIO CROSETTI

SoleCatturare

il

Il calore del deserto trasformatoin energia e portato in Europa

Un sogno visionario che adessoè diventato un progetto

e potrebbe essere presto realtà

Repubblica Nazionale

la copertinaCatturare il sole

I rappresentanti di venti grandi aziende tedesche si riuniscono domania Monaco di Baviera. All’ordine del giorno uno straordinario progettoda 400 miliardi di euro, il Desertec: una rete di centrali a concentrazionetermica per trasformare in energia elettrica i raggi “rubati” al Sahara

Dal Marocco alla Giordania,decine di impianti hi-techdi medie dimensioni, ispiratiall’antica idea di ArchimedeDa Edison invece la sceltadi usare correntecontinua

28 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 12 LUGLIO 2009

liardi di euro, potrebbe disporre di venti gigawatt dienergia, che corrispondono ad un terzo del fabbi-sogno complessivo italiano: venti Gw sono, co-munque, l’equivalente di venti centrali convenzio-nali o nucleari.

Ma vale la pena di produrre elettricità nel Saharaper trasportarla fino in Europa? Dopo Archimede, èquesto il momento di Thomas Edison. Noi, oggi,trasportiamo elettricità a corrente alternata. Ma èpiù frutto del caso che di una migliore tecnologia.Edison sosteneva che la corrente diretta fosse piùefficiente. Nikola Tesla (e la Westinghouse) eranoper la corrente alternata. Vinse Tesla, per il sempli-ce motivo che, al momento della disputa (fine Otto-cento), esistevano già trasformatori per ridurre latensione degli elettrodotti a corrente alternata e di-stribuire l'elettricità nelle case, ma non per la cor-rente diretta.

Oggi assistiamo alla vendetta di Edison. La cor-rente alternata (dove la direzione del flusso si inver-te più di cento volte al secondo) ha una dispersionepiù alta. Su un tragitto di mille chilometri, un elet-trodotto a corrente alternata perde il dieci per cen-to dell’energia che trasporta. Di più se corre sott’ac-qua o sottoterra. Su un tragitto di mille chilometri,invece, un elettrodotto a corrente continua perdesolo il tre per cento dell’energia. Trasportare elettri-cità dal Sahara in Germania comporterebbe unaperdita del 10-15 per cento dell’energia trasportata.Una perdita, dicono quelli di Desertec, ampiamen-te compensata dalla maggiore energia prodotta ri-spetto a centrali collocate in Germania. Le ore di so-le, nel Sahara, sono 1.800 l’anno, il doppio dell’in-

solazione del Nord Europa.Insomma, una raggiera di centrali nel deserto,

collegata da grandi elettrodotti (in parte già previ-sti indipendentemente, come fra Italia e Tunisia) asnodi in Europa, da cui l’energia verrebbe ridistri-buita nel territorio. Ma possiamo fidarci, per ali-mentare le lampadine di casa, di Gheddafi? Vistoche, già oggi, ci fidiamo di Putin e Yushenko e delgas che arriva a singhiozzo dall’Ucraina, la scom-messa non sembra troppo azzardata. Inoltre, an-che un blackout totale di questo quindici per centodel fabbisogno che arriva dal Sahara potrebbe es-sere gestito, senza catastrofi, dall’attuale sistemaelettrico, dove già esiste un cuscinetto di emergen-za del venti per cento.

Al contrario, una volta stabilito il — non facile —principio di produrre lontano l’energia che ci servee poi gestirla e distribuirla collettivamente in Euro-pa, il progetto Desertec è, forse, fin troppo timido.A pianificare più in grande ci ha pensato GregorCzisch, un esperto dei sistemi di energia dell’uni-versità di Kassel (ancora in Germania). Il suo pianonon è in contrapposizione a Desertec. Ne è piutto-sto un complemento, che ne allarga il respiro geo-grafico e tecnologico. Potremmo chiamarlo Deser-tec 2. Dice Czisch: perché limitarsi alle centrali so-lari? La costa atlantica del Marocco e alcune aree delMedio Oriente offrono ottime potenzialità di ener-

gia dal vento. Anche queste turbine dovrebbero en-trare nella SuperRete immaginata dal progetto De-sertec. Soprattutto, dovrebbero entrarci le rinno-vabili europee. Tutte le pale e le turbine che ci sonoe ci saranno sempre più sulla costa atlantica euro-pea e nel Nord Europa, fino agli Urali. Più le tantecentrali a biomasse delle regioni boscose e le idroe-lettriche di quelle di montagna.

Immaginare l’Europa come un unico grande si-stema elettrico consente di superare d’un colpoquello che, oggi, è il più grosso handicap delle ener-gie rinnovabili come il sole e il vento. Le centrali so-lari producono energia quando c’è sole. Le turbineeoliche, quando c’è vento. Niente sole, niente ven-to, niente energia. Ma il sole e il vento, da qualcheparte, ci sono sempre. Se non c’è vento in Dani-marca, ce n’è in Biscaglia o in Marocco. Il problemaè renderlo disponibile in Danimarca, attraversouna SuperRete. Il progetto di Czisch prevede ancheun cuscinetto d’emergenza. L’energia in eccessoprodotta dalle centrali solari o eoliche (quando,cioè, c’è troppo vento o troppo sole rispetto alla do-manda) potrebbe essere utilizzata per ricaricare le

MAURIZIO RICCI

(segue dalla copertina)

Diventa arena degli interessi forti del-l’economia. Qui l’ecologia, l’ener-gia pulita e la conseguente riduzio-ne delle emissioni di anidride car-bonica non sono un ideale, ma unostrumento. Munich Re, un gigante

delle assicurazioni, si preoccupa delle polizze checoprono i danni creati dall’effetto serra. E.On e Rwe,colossi dell’elettricità tedesca ed europea, cercanoalternative efficienti al ventaglio di problemi creatidal carbone, dal gas e dal nucleare. Per la Siemens,che le infrastrutture per la produzione e la distribu-zione di elettricità le costruisce, è semplicementebusiness. Per chi crede che i meccanismi di merca-to, una volta messi in moto, siano una forza assai piùaffidabile e potente dei disegni dei politici, la riu-nione di Monaco, se andrà a buon fine, è una svol-ta.

Toccherebbe, dunque, alla vecchia «mano invi-sibile» di Adam Smith realizzare un’idea tanto gran-diosa, quanto, al fondo, semplice. Secondo l’Insti-tute for Energy, che lavora per la Commissione diBruxelles, basterebbe lo 0,3 per cento della luce so-lare che cade sui deserti del Sahara e del MedioOriente per soddisfare l’intero fabbisogno di ener-gia dell’Europa. Nessuno, tuttavia, pensa ad un’u-nica fantasmagorica megacentrale. Il progetto De-sertec prevede la messa in opera di decine di cen-trali solari di medie dimensioni, in un arco che va dalMarocco alla Giordania. Quali centrali? È qui cheentra in campo Archimede. Non si tratterebbe, in-fatti, di centrali a pannelli fotovoltaici, più costosi,meno adatti alla produzione su grande scala, più er-ratici nel rendere disponibile l’energia, ma di cen-trali a concentrazione termica. Si tratta di installareuna platea di specchi concavi (in California, per ab-battere i costi, stanno tentando di ottenere lo stes-so risultato con specchi piatti) che riflettano e con-centrino la luce solare in un punto. Con questo si-stema Archimede ci bruciava le navi nemiche. Quiinvece la luce si concentra su una cisterna: il liquidoal suo interno si riscalda, bolle e il vapore che ne ri-sulta viene utilizzato per muovere una turbina chegenera elettricità, come in qualsiasi centrale con-venzionale o nucleare.

È una tecnologia già ampiamente sperimentata,dalla California alla Spagna: anche l’Italia sta av-viando una piccola centrale di questo tipo in Sicilia.Usando nella cisterna, invece di acqua, una misce-la di sali fusi, si riesce a conservare il calore e a far gi-rare la centrale di notte, anche se l’obiettivo delle 24ore su 24 non è ancora stato raggiunto. I costi, manmano che la tecnologia si diffonde, stanno scen-dendo rapidamente. Già oggi siamo a meno di die-ci centesimi di euro per kilowattora. I tecnici di De-sertec calcolano che un boom delle centrali solaritermodinamiche, come quello che verrebbe susci-tato dal progetto, creerebbe economie di scala, suf-ficienti a spingere il costo del kilowattora a 4-5 cen-tesimi. A ridosso del carbone e al di sotto del nu-cleare.

Nel progetto Desertec, parte dell’elettricità pro-dotta verrebbe utilizzata nei Paesi d’origine (adesempio, nei dissalatori) e una quota verrebbeesportata in Europa. Una volta completato il pro-getto — e spesi quattrocento miliardi di euro —l’Europa si assicurerebbe dal Sahara il 15 per centodel suo fabbisogno energetico. Già dal 2020, tutta-via, l’Europa, spendendo intorno ai quaranta mi-

Il calore dell’Africailluminerà l’Europa

ILLUSTRAZIO

NE D

I MIR

CO

TANG

HERLIN

I

Repubblica Nazionale

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 29DOMENICA 12 LUGLIO 2009

centrali idroelettriche delle Alpi, ritrasportando inalto l’acqua, da far ricadere poi a valle, per muoverele turbine, nel caso di un inatteso picco della do-manda.

Il progetto di Czisch è, per ora, solo un’utopia cu-stodita nel suo computer. Le simulazioni dello stes-so computer hanno, però, un riscontro molto con-creto. Una simile SuperRete, organicamente e col-lettivamente gestita, consentirebbe di soddisfarel’intero fabbisogno di un’Europa sempre più affa-mata di energia. Tutto con le rinnovabili: niente car-bone, niente gas, niente nucleare. Il conto? Salato:1.500 miliardi di euro. Come al ristorante, però, non

bisogna solo guardare la cifra in fondo. Secondo l’A-genzia internazionale dell’energia, entro il 2030 ilmondo dovrà comunque spendere 13.600 miliardidi euro nella costruzione di nuove centrali elettri-che. Dei 1.500 miliardi di euro stimati da Czisch,1.400 servirebbero per la costruzione di centraliche, probabilmente, dovrebbero essere costruite lostesso, a carbone, a gas, nucleari. O, appunto, sola-ri od eoliche. Il costo effettivo della SuperRete ne-cessaria per collegare le centrali del suo piano è as-sai più maneggevole: 128 miliardi di euro. A volte, sesi pensa davvero in grande, anche i grandi proble-mi diventano più piccoli.

SULLA COSTAQui sopra, l’impiantoa energia solaredi Kingston,in InghilterraA sinistra,un impianto di paleeoliche costruitosulla costadel PortogalloL’illustrazionedel progettoDesertecè di MircoTangherlini

SOLARIDesertec ne prevedea decine di dimensionimedie dal Maroccoalla Giordania

IDROELETTRICHEDislocate nelle regionimontuose, potrebberoessere ricaricateda quelle solari o eoliche

IMPATTO ZERO

(segue dalla copertina)

Epoi ci diciamo: che cosa fare di tutto questo spazio? Che cosafare di questo sole costante e di questa immensità con cui inogni caso non ci si può misurare? L’oceano fa meno paura del

deserto. Eppure, quando lo si studia con pazienzae umiltà, con intelligenza e inventiva, non solo sipuò renderlo molto utile ma anche molto vicino al-l’uomo che vive nelle città o nelle campagne.

È in quest’ottica che si pone il progetto Desertec,un ambizioso progetto europeo per lo sfruttamen-to dell’energia dei deserti. La potenza nascosta deldeserto sarà finalmente messa a frutto per produr-re quella che viene chiamata «energia verde», pu-lita, e che ridurrà le emissioni di anidride carboni-ca e rafforzerà la sicurezza dell’approvvigiona-mento energetico per l’Europa, il Nord Africa e ilMedio Oriente. In Marocco e nel Mar Rosso, per ge-nerare un complemento d’elettricità, è già in uso losfruttamento dell’energia eolica.

Senza entrare nei dettagli tecnici, che non co-nosco, trovo straordinario che la scienza riesca aescogitare simili progetti per cercare di migliorarele condizioni di vita del pianeta, proteggere il climae garantire l’acqua potabile all’umanità. Gli uomi-ni sono capaci sia di fare ricerche approfondite esofisticate per trovare l’arma migliore per uccide-re il maggior numero di persone, sia di mettere laloro intelligenza al servizio della sopravvivenza delpianeta. Come dico spesso ai bambini delle scuo-le a proposito del Bene e del Male, l’umanità puòprodurre tanto un Mozart quanto un Hitler. Allora

quando gli scienziati si dedicano al deserto per trarne il meglio, nonposso che applaudire e smettere di disperare completamente diquest’umanità.

Così il sole maghrebino non sarà più sinonimo di siccità ma di-venterà una fonte di vita e di luce. Luce elettrica ma anche luce spi-rituale, poiché, come ha dimostrato Théodore Monod, nel deserto enel suo mistero si desta e vive la spiritualità, quella che ci avvicina alcuore del mondo e ci allontana dal suo sporco involucro i cui lucci-chii sono solo menzogne.

La luce verrà da lontano; cambierà delle vite creando posti di la-voro e, viaggiando sull’acqua del mare, consoliderà un legame for-midabile tra il sud e il nord, un ponte di luce e di vita. Questo pro-getto scientifico, se verrà applicato per gli usi concreti e nel rispettodegli uomini e del loro ambiente, diventerà una splendida metafo-ra della cooperazione tra le genti del deserto e le genti delle città so-vrappopolate.

Per il poeta sufi (mistico) Ibn Arabi (1165-1241) il deserto è «l’im-maginazione assoluta». Non a caso nel Corano si dice che «la lucenon è il fuoco». È dal deserto, da quell’immensità che ha l’aspettodell’eternità, che emerge l’Invisibile e che uomini di scienza hannofatto di quell’Invisibile una fonte di chiarezza e di vita.

Si sa che ai Paesi del Golfo il petrolio non ha portato soltanto ric-chezza materiale. È stato accompagnato da problemi che hannospinto un osservatore della regione a commentare che «la mannadel petrolio è in realtà una disgrazia». Il Marocco non ha petrolio maha un Sahara eccezionale. Che da questa regione possa scaturire laluce che illuminerà l’occidente è una benedizione della natura edella scienza. Dobbiamo sperare che gli uomini siano all’altezza diquesta bella ambizione e non se la lascino sfuggire per ragioni com-merciali.

Traduzione di Elda Volterrani

È la luce, non il petroliola vera ricchezza del deserto

TAHAR BEN JELLOUN

BIOMASSEIl ricavo di energiada materiale vegetaledi scarto riguardabuona parte dell’Europa

EOLICHESono destinatead aumentaresulla costa atlanticaeuropea e nel Nord

Potrebbe essere solo l’iniziod’un piano ben più ambiziosoUn grande sistemaintegrato continentale,alimentato da una SuperRetee interamente basatosu fonti rinnovabili

Repubblica Nazionale

l’attualitàPersone

“La parola clandestino mi fa orrore”, dice Mary, ghanese,ex irregolare ora a posto con la legge: “Vuole significareche non sarai mai un cittadino vero”. Oggi le nuove normeimpongono di denunciare chi non ha permesso di soggiornoMa in molte chiese d’Italia i preti ignorano questo precettoIn nome di uno più alto: quello dell’evangelista Matteo

A Castel Volturno,primo girone dell’infernodei migranti, i combonianidanno asilo a tutti

30 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 12 LUGLIO 2009

CASTEL VOLTURNO (Caserta)

Più conosce l’italiano, più Mary odiaquella parola. «Clandestino. Mi faorrore». Non è solo questione dibrutti ricordi, è proprio un odio se-

mantico. «Clan/destino: il tuo destino è il clan,non sarai mai un cittadino vero». L’etimologiadi Mary è bizzarra, ma suggestiva. «È l’unicavera parola che troppi italiani hanno per noi.Anche quando dicono regolari, pensano clan-destini: restate al vostro posto, nel vostro clan,non siete come noi».

A volte Mary si sente ancora clan/destinacome all’inizio. Venne dal Ghana col visto tu-ristico e, quando scadde, restò. Ha avuto for-tuna: prese al volo una delle ultime sanatorie.Ora fa l’interprete per un’associazione che as-siste i rifugiati politici, ha due figlie, una casadignitosa e paga un affitto. Ma non ce l’avreb-be mai fatta se un buon samaritano, senza fru-garle le tasche in cerca di documenti, non l’a-vesse ospitata e aiutata. Mary è stata la primatra le migliaia di immigrati che padre Giorgioha accolto da quando, tredici anni fa, reducedalle missioni africane, scelse di farsi missio-nario nell’Africa nostra, la gran piana dei po-modori e dell’illegalità, il primo girone dell’in-ferno migrante italiano: Castel Volturno.

E padre Giorgio dov’è? «In stanza». Quellache sulla porta ha una foto di Auschwitz. Bus-siamo. Eccolo: barba, camiciona arancione,sta timbrando permessi di soggiorno. Col tim-bro del Signore. Non può certo usare quello delministro. «Ma stiamo parlando di dignitàumana, no? E allora è chiaro, tra le due, qualesia l’Autorità più Competente». Compila, con-trofirma il foglio azzurrino: ecco, un altro per-messo di soggiorno in nome di Dio è pronto.Lui e i suoi confratelli ne hanno rilasciati a cen-tinaia: protesta beffarda e amara, ribellionesimbolica e un po’ goliardica. A prima vistasembrano quelli veri, però è difficile che unquestore li prenda per buoni. Ma valgonoqualcosa dinanzi a un Giudice più alto.

Per qualcuno, pochi, è un profeta in sanda-li. Per altri, tanti, è quello che «ci porta in casa i

negri». Per se stesso Giorgio Poletti, 67 anni,comboniano e sacerdote, è «un devoto dellaLegge», occhio alla maiuscola, a costo di sfida-re la legge, occhio alla minuscola. «Non de-nuncerò nessuno straniero senza documenti.Una legge contraria ai diritti umani e all’inse-gnamento di Cristo, io non la servo. Mi metta-no pure in galera. E guardi che io non ho nes-

suna voglia di andare in galera. Non sono unincendiario. Sono figlio di povera gente cheaveva soggezione e rispetto per l’autorità.Quel rispetto ce l’ho dentro. Ma c’era da sce-gliere, e io ho scelto».

La chiesa di Santa Maria dell’Aiuto è unagabbia di cemento armato tamponata di mat-toni, ma dentro è sorprendentemente lumi-nosa. Di fianco all’altare una batteria e un setdi tamburi afro. «Le nostre messe durano unpaio d’ore. Anche adattare il nostro stile litur-gico è accoglienza». Sulle pareti intonacate,affreschi a vivi colori. «Li ha dipinti un unghe-rese. Non è Caravaggio, ma dà l’idea». Un Ge-sù biondo lava i piedi a un san Pietro nero. UnSamaritano nero soccorre un viandante bian-co. E l’Ultima Cena è una mensa multietnica.È la parrocchia degli immigrati: il vescovo diCapua l’ha affidata a padre Giorgio e ai suoidue vicari, padre Antonio e padre Claudio.Forse è l’unica in Italia a non avere un territo-rio ma solo un gregge, il più disperso, anoni-mo e mutevole. Lavorano alla raccolta dei po-modori, nei cantieri, «arrivano, restano unpo’, spariscono. Di molti neanche ho mai sa-puto il nome». Sul sagrato, sotto lo sguardopreoccupato di una madonnina di pietra, dueragazzi color ebano tirano rigori con un pallo-naccio giallo. Altri si stanno preparando il gia-ciglio nel parcheggio, tra panni stesi e vecchimaterassi. «Adesso fa caldo, ma quest’inver-no li ho fatti dormire in chiesa. Il Signore avràgradito la compagnia, di notte è sempre sololà dentro».

Quando arrivò a Castel Volturno, nel ‘93, pa-dre Giorgio dovette trovare una mezza dozzi-na di case d’emergenza. Solo qualche anno fala Caritas lo ha seguito aprendo un centrod’accoglienza, che però è sempre pieno.Quanti avranno i documenti, di questi? «Ionon li chiedo a nessuno. Così evito di saperechi dovrei considerare un delinquente». Chie-diamo a caso: ecco Joe il senegalese, sbarcatoa Lampedusa in marzo lasciando in Libia mo-glie e due figli, arrivato chissà come fin qui a farlavoretti. Carte non ne ha, ma padre Giorgio gliha trovato un riparo: «Sono un cristiano», dicein un inglese cantilenante, «lo ero anche pri-ma. Ma qui ho capito cosa vuol dire».

MICHELE SMARGIASSI

“Ero straniero e mi avete accolto”

Repubblica Nazionale

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 31DOMENICA 12 LUGLIO 2009

L’opposizione alla «legge del dolore», al rea-to di clandestinità, soffia all’ombra di centinaiadi campanili come questo. Il ministro può fararrestare l’istigatore, è molto noto, si chiamaMatteo e il suo proclama sta al capitolo 25, ver-setto 35 del suo Vangelo: «Ero straniero e miavete accolto». La disubbidienza matura sotto-voce dove la porta non si chiude neanche perordine di legge. «Dovrei chiudere anche que-sto?»: il cancello dell’asilo dei comboniani im-mette in un cortile gremito di bambini colorcioccolata tra casette di plastica e scivoli. Sonouna cinquantina: ben pochi dei loro genitorihanno il permesso di soggiorno. Con la nuovalegge sarebbero ignoti all’anagrafe, figli di nes-suno. I rari italiani che passano davanti al re-cinto, sorridono e fanno smorfiette ai bimbi.Allora non siamo tutti malati di cattivismo. «Ibimbi africani sono bellissimi», sospira padreGiorgio, «ma hanno un difetto: crescono. E dagrandi nessuno li trova più così teneri».

Da grandi sono i clandestini, appunto. Mo-derna icona della paura, reincarnazione del-l’eterno barbaro, del turco predatore. E voi,padre, siete i protettori di quell’icona terrifi-cante. «Mi chiamano ‘il nemico numero unodi Castel Volturno’. Ma mi rispettano, perchésanno che non mangio sugli immigrati». Maora il suo aiuto è illegale. «Una condizione ana-grafica non può essere un reato». Il reato vera-mente sarebbe entrare in casa d’altri senzabussare. «Ma cosa credono, i ministri? Che ba-sti alzare il ponte levatoio? Anche se si potesse,che vita sarebbe, chiusi nella fortezza, armati,terrorizzati dall’arrivo dei tartari ogni santogiorno, schiavi dei riti della nostra paura?».

In cornice, una foto con papa Wojtyla chestringe la mano a un irsuto Rasputin in saio ne-ro: era lui, Giorgio, nel 1989, missionario a Bei-

ra in Mozambico. «È un’illusione pensare dipoter fermare le migrazioni. Le abbiamo colti-vate noi. So quel che dico. Ho visto arrivare i te-levisori con la parabola e il generatore nei vil-laggi, e scodellare là il nostro finto benessere.Chi può impedire loro di venirlo a cercare? Bi-sogna regolare l’accoglienza, io dico: organiz-zare l’ibridazione. Ma vedo solo una gran fret-ta di organizzare l’esclusione».

Non ce la farete, padre. Vi faranno passarecome amici dei delinquenti. «In chiesa io gri-do contro gli spacciatori di droga. Chi sbaglia,pagherà. Io sono contro l’illegalità. Ma non ca-pisce che è proprio questo il problema? Vengacon me». Saliamo in macchina. La via Domi-ziana è il museo dell’orrore di un sogno bal-neare abortito. Ventisette chilometri di palaz-zine cadenti, alberghi chiusi, acquaparchi fa-tiscenti, cassonetti sventrati, sporcizia, spiag-ge deserte in pieno luglio: sembra Rimini do-po un bombardamento. Ed ecco la saracine-sca, ora chiusa, dietro cui in settembre seighanesi furono falciati dalle mitragliette dellacamorra. «Non c’è quasi edificio che non siaabusivo, perfino quella chiesetta lì. Potrei ci-tarle a quale clan fa capo ogni isolato. Il benepubblico qui non esiste. In questo scenario,però, gli illegali sarebbero questi uomini cheinseguono un sogno di vita migliore. Vuol direconsegnarglieli in regalo, all’illegalità».

La vera, segreta speranza di padre Giorgio «èl’ipocrisia del potere. Che sia solo una esibi-zione di muscoli per propaganda, che nonstiano davvero per rastrellare migliaia di po-veri. Perché allora bisognerebbe fare qualcosadi più eclatante». Sicuro che Dio voglia questo,padre? «Gesù di Nazaret fu ammazzato peraver amato gli ultimi. Se il Padre somiglia al Fi-glio…».

Quando un forestierobussa alla porta

ENZO BIANCHI

«Erostraniero e mi avete ospitato», oppu-re no? È questo l’interrogativo che noncessa di risuonare da quando l’evange-

lista Matteo l’ha posto in bocca a Ge-sù nella sua descri-

zione delgiudizio

f i n a l e ,descrizio-

ne che nonmira tanto

a racconta-re quanto

accadrà allafine dei tem-

pi, ma piutto-sto a plasmare

l’atteggiamen-to quotidiano

dei discepoli e afornire loro un

criterio di giudi-zio sul proprio e

l’altrui comporta-mento. Del resto,

fin dall’Antico Te-stamento, la cate-

goria dello stranieroera quella che meglio

raffigurava il biso-gnoso: lontano dalla

propria casa, lingua ecultura, privo dei diritti

legati all’appartenenzaa un popolo, sovente lo

straniero finiva per cade-re ben presto nelle altre si-

tuazioni di emarginazio-ne e sofferenza: malato,

carcerato, affamato..., con-dizioni non a caso citate an-

ch’esse da Gesù nel suo rac-conto sul giudizio. Nella tra-

dizione veterotestamentariala cura e il rispetto per lo stra-

niero si fondavano su una me-moria esistenziale prima anco-

ra che storica: l’invito «amate ilforestiero perché anche voi foste

forestieri nel paese d’Egitto»(Deuteronomio 10,19) risuona

pressante e attuale anche per ge-nerazioni ormai da tempo inse-

diate nella terra promessa. A que-sta consapevolezza si aggiunge nei

Vangeli l’inattesa identificazione diGesù con lo straniero che attende ac-

coglienza e che incontra rifiuto: ciòche si fa o non si fa al «più piccolo», al

più indifeso, è dono elargito o negato aGesù, come se egli fosse presente e re-

cettivo ogni giorno al nostro agire.In questo senso un dato complemen-

tare emerge con forza dalle pagine delNuovo Testamento: Gesù stesso, il Gesù

storico che ha abitato tra gli uomini come uno diloro, è percepito e narrato come uno straniero, inquanto ha vissuto «altrimenti», manifestandosicome «altro» agli occhi di chi lo ha incontrato e neha poi raccontato l’esistenza. Dall’infanzia comeprofugo in Egitto alla sua provenienza dalla Gali-lea, tutto lo rendeva marginale nell’ambito di Ge-rusalemme, cuore culturale e religioso di Israele:«Il Cristo viene forse dalla Galilea? [...] Non sorgeprofeta dalla Galilea!» (Giovanni 7,41.52). Inoltre,il suo essere dotato di un’autorità carismatica fuo-ri dell’ordinario suscitava una dura opposizionesia da parte dei sacerdoti che governavano il Tem-pio, i quali lo consideravano pericoloso, sia daparte dei maestri della Legge, invidiosi della suaconoscenza della Scrittura.

Gesù, con la sua missione e la sua esperienza diestraniamento che lo accomuna ai profeti, assu-me il volto dell’«altro»: altro rispetto alle attese delsuo maestro Giovanni Battista, altro rispetto allafamiglia che lo giudica «fuori di sé» e vorrebbe ri-portarlo a casa con la forza, altro rispetto alla suacomunità religiosa che lo considera «indemonia-to» (cf. Marco 3,21 e 22). Egli è altro anche rispettoai suoi concittadini di Nazaret: è significativo cheproprio là dove dovrebbe attivarsi il meccanismodel riconoscimento e dell’accoglienza, nella suapatria, avviene il rifiuto, e Gesù diviene estraneo,fino ad essere nemico. L’incomprensione di que-sta alterità conoscerà il suo culmine quando il Fi-glio sarà «ucciso dai vignaioli» — quelli a cui erastato inviato — «e gettato fuori della vigna»!

Paradigmatica è la presentazione di Gesù qua-le straniero fatta da Luca nell’episodio dei disce-poli di Emmaus (cf. Luca 24,13-35): il Risorto, coni tratti di un viandante, si accosta a due discepoli ecammina con loro, mentre essi parlano con tri-stezza della morte del profeta Gesù di Nazaret. Al-la sua domanda sull’oggetto del loro discorrere,ribattono: «Tu solo sei così forestiero da non sa-pere ciò che è accaduto in questi giorni?»: egli è lostraniero che cammina con gli uomini, che restanascosto fino a quando, invitato a tavola, viene ri-conosciuto nel gesto di condividere il pane. Sì,nella condivisione del pane, nello stare a tavola in-sieme, nel conversare, nel fare memoria di ciò chesi è vissuto, avviene il riconoscimento e lo stranie-ro si rivela.

Forse possiamo allora cogliere meglio tutta lapregnanza di un ammonimento come quello cheGesù rivolge ai suoi discepoli: se egli può identifi-carsi con lo straniero fino a considerare come ri-volta a se stesso ogni cura prestata — e ogni offesaarrecata — a uno straniero nel bisogno è perchéha voluto vivere nella carne l’esperienza di estra-neità, il venire in mezzo ai suoi e non essere rico-nosciuto, il vedersi negata quella dignità fonda-mentale di ogni essere umano. Perché, come haben ricordato papa Benedetto XVI nell’enciclicaCaritas in veritate, «ogni migrante è una personaumana che, in quanto tale, possiede diritti fonda-mentali inalienabili che vanno rispettati da tutti ein ogni situazione». Di questo rispetto la coscien-za ci chiede conto qui e ora, di questo rispetto ungiorno verrà chiesto conto a ciascuno.

Un foglio azzurrinorilasciato “in nome di Dio”È la protesta simbolicaescogitata dai sacerdoti

FINTO DOCUMENTOQui sopra, il “permessodi soggiorno in nome di Dio”rilasciato dai combonianidi Castel Volturno

TEHERAN CAMBIA IL MEDIO ORIENTE

SOGNI E SEGRETI AMERICANI

NETANYAHU SPARIGLIA IL GIOCO USA

www.limesonline.com

il nuovo volume di Limesla rivista italiana di geopolitica

è in edicola e in libreria

LA RIVOLTA D’IRANNELLA SFIDA OBAMA-ISRAELE

Repubblica Nazionale

Spazi vuoti dell’extra quotidiano, eremi, capanne di pagliaSono i luoghi dove i giapponesi da secoli officianola cerimonia che si compie attorno alla preparazione

della bevanda importata dalla Cina nel 900 dopo Cristo. Quella che per l’Occidenteè una mistica lontana e misteriosa, per il Sol Levante è una visione della vita Ora, a testimonianza di una pratica che sopravvive, un libro ne racconta gli scenari

CULTURA*

32 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 12 LUGLIO 2009

Celebrando il rito della lentezzaconcetto che è diventato tutt’uno conl’estetica zen. Pochi ospiti scelti che sidanno convegno in una chashitzu, unacasa del tè, costruzione effimera ai mar-gini di un bosco o nell’angolo di un giar-dino, una stanza illuminata soltantodalla luce che penetra dalla porta o dauna finestrella, pareti grigie di terra, inun angolo il tokonoma, una nicchia do-ve esporre pochi fiori freschi, o una cal-ligrafia; gli utensili, il braciere, le tazze,soffuse di wabi, la patina del tempo chele impreziosisce, disposti sul vassoio. Ebasta, niente altro, se non la comuneaspirazione a isolarsi nel vuoto, nellanon-mente. All’inizio si pronunciano abassa voce i convenevoli d’obbligo, poisi tace. Questo predicava il MaestroRikyu.

Ma il potente daimyoHideyoshi con-cepiva in tutt’altro modo la cerimoniadel tè: una sala sontuosa, un padiglionericco di ornamenti, tutto un luccicare diori e porpore, centinaia e centinaia diospiti invitati a partecipare, dai nobili aipopolani ai quali, nella storica cerimo-nia del tè del 1587, venne servito non ilcostoso tè matcha ma acqua bollente epolvere di riso tostato. A Rikyu tuttoquesto non garbava.

Così, quando Hideyoshi espresse ildesiderio di ammirare la fioritura deiconvolvoli per cui andava famoso ilgiardino di Rikyu, il Maestro strappòtutti i fiori e ne conservò soltanto unoche espose nel tokonoma dentro la suacapanna del tè. Non per fare un dispet-to a Hideyoshi ma nella speranza che ilsignore apprezzasse quell’unico con-

tè. E lei mi rispose: è come per voi lamessa. Ma quanto tempo ci vuole perimparare a officiare una simile cerimo-nia? O apprezzarla in tutti i suoi recon-diti significati? Mi rispose: quanto tem-po ci vuole a suonare il pianoforte? Po-che settimane per una strimpellata,una vita per essere un pianista.

Oggi tra i maggiori pianisti della sce-na mondiale, ci sono dei virtuosi giap-ponesi ma neanche un occidentale è ingrado di officiare, credibilmente, unacerimonia del tè come ancora in Giap-pone, ai nostri giorni, si pratica: in mol-ti uffici delle grandi imprese dove si af-fannano i salarymen, i nuovi samuraidel Giappone del XXI secolo, gli addettialle “risorse umane” hanno allestito sa-le da tè. Non all’inglese, per carità! Luo-ghi oscuri di meditazione, rigeneranti,studiati apposta per offrire un riposo aiguerrieri moderni.

Bere cerimoniosamente il tè era in-fatti un costume che in Giappone eradiffuso non soltanto negli eremi mona-stici ma anche negli accampamenti mi-litari della bellicosa era Momoyama,dove la cerimonia del tè ispirata allo zeninsufflava i principi ultimi sulla vita e lamorte. Fu allora che il celebrato mae-stro del tè Sen Rikyu (1552-1591), con-sigliere del grande daimyo Hideyoshi,codificò definitivamente la Cerimoniadel tè secondo la forma wabi, la raffina-ta sublime estetica della semplicità, il ri-fiuto di qualsiasi orpello, la ricerca esa-sperata dell’apparente imperfezione,gesti cerimoniali talmente studiati daapparire frutto di improvvisazione, un

Un eremo, una capanna dipaglia, delle lastre di pie-tra davanti alla soglia co-me fossero lì per volontàdella natura mentre in-vece sono state disposte

secondo una logica umana impercetti-bile ai non iniziati: un bacile basso, cosìper lavarsi le mani bisogna umilmentechinarsi. L’acqua è fresca, appena at-tinta dal pozzo e il Maestro la versa dauna brocca che un ragazzo gli porge.Un’entrata che di nuovo costringe a ab-bassare la testa, a dimenticare il propriorango. L’ospite della cerimonia del tè siè diretto alla capanna percorrendo unsentiero concepito in modo che non siscorga la meta. Sa però cosa l’aspetta.Lo spazio vuoto dell’extra quotidiano,un qualcosa di sublime: bere una tazzadi tè. Tè matcha, cioè tè verde in polve-re, non un’infusione ma una emulsioneche tiene svegli e che in Giappone arrivòdalla Cina intorno al X secolo, assiemeal buddismo nella versione chan, in ci-nese, zen in giapponese, perché servivaai monaci meditanti a non addormen-tarsi, a non chiudere le palpebre.

Soltanto il Giappone però ha fatto deltè una religione, anzi una mistica in cuitutto si compenetra e riassume: visionedella vita, estetica, filosofia… Chiesiuna volta a una signora giapponese co-sa significasse per loro la cerimonia del

RENATA PISU LE IMMAGINISopra,la verandaesternadi una casa da tènel complessoDaitoku-ji;a sinistra,una finestradi cannedi bambùa Uraku-en;nell’altra pagina,da sopra, ancorauna verandadella casa da tèdi Daitoku-ji;una serie di tè;la stanzadi preparazionenella casadel tempioNinna-ji;la stanza in stileshoin della casada tè a Daitoku-ji;l’internodella casa da tènel tempioSaiho-ji

Repubblica Nazionale

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 33DOMENICA 12 LUGLIO 2009

La tirannia del temposconfitta sul tatami

GIUSEPPE MONTESANO

Sono seduto a gambe incrociate in una casa del tè giap-ponese, e mi ripeto alcune parole come un mantra:Vuoto, Silenzio, Meditazione. È quello che dovrei pro-

vare qui mentre aspetto che sia pronto il tè, ma mi formico-la una gamba per la posizione del loto, e mi distraggo; pro-vo a meditare sul vuoto, ma mi viene in mente che non hopagato l’assicurazione; vorrei lasciarmi scivolare nella dol-cezza della penombra, ma il tatami mi gratta il polpaccio;voglio svuotare il cuore dalla schiavitù del Tempo, ma pen-so: quanto ci mettono per fare questo tè? Mi sento nervoso,vorrei fuggire, non so cosa fare, e mi sveglio. Ho sognato aocchi aperti?

L’orrore del vuoto dell’uomo occidentale mi ha giocatoun brutto scherzo. Guardavo affascinato gli spazi delle casedel tè, aperte su giardini e esse stesse ombrosi giardini inte-riori; ero felice fissando quella semplicità nuda e pulita chesembra sciogliere tutti i grovigli; respiravo meglio inse-guendo il ritmo alternato di chiaro e scuro delle finestre dicarta e delle pareti di legno che pulsano quiete come un qua-dro di Mondrian: ma l’occidentale in me deve essersi rifiu-tato alla felicità del vuoto in cui basta solo lasciare che ilmondo sia e noi con lui, e ha reagito in nome della sua ne-vrosi: il Troppo Pieno. Non c’è scampo al Troppo? Edmondde Goncourt scoprì la limpida freschezza delle stampe diUtamaro e di Hokusai, vedute di onde fatte di curve e vuo-to, ponti sospesi tra la pioggia e il nulla che sconvolsero VanGogh, e con il fratello Jules lanciò la moda delle bianche ma-schere del teatro No e dei colori puri sulla seta cruda dei ki-mono delle fanciulle in fiore del Mondo Fluttuante: ma vis-se in una casa dove era impossibile persino spolverare. Ilprofeta del Giappone si era creato un magazzino delle me-raviglie, un Vittoriale dannunziano in anticipo, una rigatte-ria del Troppo Pieno che costò il licenziamento a più di unafemme de chambre distratta, e costrinse il baffuto Edmonda munirsi di piumino per la polvere e grembiule.

E noi, eredi del groviglio Barocco, della divagazione Ro-cocò e dei tropici dell’Art Nouveau, quanto somigliamo aiGoncourt? Case stipate di oggetti che passano dagli Iper-mercati ai salottini; peluche, ninnoli, tavolini, cose; folla,traffico, squilli, musica negli ascensori e nelle toilettes; e maisilenzio, spazio, meditazione. Il ciarpame esteriore ci soffo-ca come ci soffoca il ciarpame delle parole, l’agire da cani diPavlov spinti da impulsi nevrotici ci strangola, e avremmoun gran bisogno di sgombrare le stanze e fare spazio a quelVuoto illuminante che ci viene incontro seducente dalle ca-se del tè giapponesi. A leggere il Tao Te Ching tutto sembre-rebbe chiaro, le istruzioni semplici: «Raggiungi il Vuotoestremo e conserva una rigorosa tranquillità. Tranquillità ètornare al proprio principio. Colui che non conosce questalegge costante agisce da stolto. Colui che conosce questalegge costante è tollerante; essendo tollerante è senza pre-giudizi; essendo senza pregiudizi, è comprensivo; essendocomprensivo, è identico al Tao, e fino alla fine della sua vitanon è in pericolo…». Nelle case del tè si realizza material-mente un luogo per trovare la «tranquillità», un luogo dovepieno e vuoto si alternino come un inspirare e espirare men-tale. Ma quel luogo, insegnano i Maestri zen, può essere do-vunque. Nella sua tazza di tè Proust vedeva sorgere come dauno specchio incantato i giardini della memoria, nelle taz-ze degli occidentali smarriti che siamo si può forse impara-re a vedere quel vuoto che non è mancanza, ma lo spazio chefa esistere la pienezza della vita.

volvolo come archetipo, come formaconcettuale e essenziale. Ma Hideyoshise la prese e, alla fine, il conflitto esteti-co tra i due — in Giappone l’estetica sot-tintende una visione del mondo e dellapolitica, non è semplice questione digusti — si acuì al punto che il daymio or-dino a Ryuku di fare seppuku. Il Maestroofficiò un’ultima cerimonia del tè per ilSignore e silenziosamente si diede lamorte. Ma la sua concezione povera,minimalista, lo stile wabi, trionfò, e inGiappone i canoni e i gesti da lui codifi-cati più di quattrocento anni fa vengo-no ripetuti ogni giorno, nelle case da tè

che ancora oggi si edificano secondo glistessi austeri e sobri dettami.

Difficile analizzare la struttura archi-tettonica delle case da tè giapponesi, ungenere artistico a sé stante, estrema-mente vario e personalizzato in quantospesso sono edificate dallo stesso Mae-stro del tè che lì dentro officerà e che in-troduce dei suoi minimi tocchi, rivisitacreativamente i canoni proponendo,sia all’esterno sia all’interno, diverse di-sposizioni dello spazio, in modo daadeguare liberamente l’insieme alla va-ghezza della descrizione che il MaestroOkakura, nei primi del Novecento, hadato dell’architettura della casa del tè:«È dimora della fantasia in quantostruttura effimera costruita per ospita-re un impulso poetico. È dimora delVuoto in quanto priva di ornamenti….È dimora dell’Asimmetrico in quantoconsacrata al culto dell’Imperfetto…».

Dell’arte così giapponese e unica del-la casa dove celebrare la cerimonia deltè, compendio filosofico di uno stile divita e di un atteggiamento mentale, ri-mangono tracce nell’architettura mo-derna del Giappone, non nei grattacie-li ma nelle ville extra urbane dove la di-sposizione degli spazi, il rapporto traesterno e interno, la scelta dei materia-li di costruzione volutamente wabi,cioè “poveri”, si richiama a una tradi-zione che rappresenta compiutamentela sensibilità giapponese, quale è stataforgiata dal connubio tra il tè e lo zen.

IN LIBRERIA

Le case del tè - Gli spazi del vuoto

e dell’inatteso di FrancescoMontagnana, Tadahiko Hayashi e Yoshikatsu Hayashi (Electa, 200 pagine, 100 euro)

In molti ufficidelle grandi impresedove si affannanoi “salarymen”,gli addetti alle risorseumane hanno allestitosale dedicatealla meditazione

ilmiolibro.it

GLI SCONTI SONO VALIDI FINO AL 26 LUGLIO.

AFFRETTATI!

SU TUTTI I MATERIALIDI COMUNICAZIONECHE CREI E STAMPICON ILMIOLIBRO.IT

BIGLIETTI DA VISITA, SEGNALIBRI,

ADESIVI, CARTOLINE, VOLANTINI, INVITI,

KIT PER LE PRESENTAZIONI ED EVENTI.

SCONTO DEL

20%

Repubblica Nazionale

Il grande produttoreitaliano è da tempocittadino americanoe vive a Los AngelesL’8 agosto celebreràil suo compleannoE per regaloil governatoredella CaliforniaArnold Schwarzenegger,che fu attore in alcunisuoi film, gli tributeràun rarissimo onore:la celebrazionedi un giorno dedicatoal suo nome

SPETTACOLI

34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 12 LUGLIO 2009

Mercantesogni

Il

di

accarezza: «È un riconoscimento chedanno solo in occasioni speciali», dice.L’8 agosto compirà novant’anni, è informa, elegante, dinamico, mille pro-getti in testa. Sta preparando il sequel diBarbarella, il film di Roger Vadim conJane Fonda che produsse nel 1968. Siaccende un cigarillo: «Ho avuto sessan-ta nomination all’Oscar, è come se liavessi vinti tutti, è già una bella soddi-sfazione essere nella rosa dei cinque. Iovengo da Torre Annunziata, la chiavedel mio successo è l’umiltà».

Entra la produttrice Martha Schu-macher, sua moglie, che venerdì scorsoha compiuto cinquantacinque anni.Bionda, bellissima, fascino alla Candi-ce Bergen. Gli porge una lettera: «Credoche presto dovrai preparare un discor-so!», annuncia radiosa. La lettera portala firma di Arnold Schwarzenegger. Ilgovernatore della California ha decisodi celebrare il Dino De Laurentiis day.

Ne ha fatta di strada il rappresentan-te di Torre Annunziata. «Ah, che vogliadi tornarci, ma ormai ho novant’anni,viaggio poco. Un’infanzia avventurosala mia. Mio padre aveva un pastificio. Aun certo punto ebbe bisogno di un rap-presentante. Mi guardò negli occhi:“Tu”. “Ma papà”, risposi, “io non homai venduto. E dove dovrei andare?”.“Nelle isole, cominciando da Ischia eCapri”. Fu il primo impatto con Capri.L’isola mi impressionò, e da allora ci so-no sempre tornato. Un giorno, andan-do a Roma, sempre per vendere spa-ghetti, vidi un annuncio, il Centro spe-rimentale di cinematografia cercava al-lievi. Ero un ragazzino di provincia, ave-vo diciassette anni, adoravo il cinema,

l’unica cosa che vedevo erano gli attori,così pensavo che il cinema fosse fattosolo di attori. Feci domanda, mi convo-carono: fui ammesso. Ricordo ancoraquella sera a tavola con i miei sei fratel-li. Mamma fingeva di non sapere, papànon proferì parola. Finì di mangiare isuoi spaghetti, poi disse: “Io penso chetu sia un folle, però non voglio che dopola mia morte i miei figli abbiano a direche non gli ho permesso di fare della lo-ro vita quello che vogliono”. Così iniziòla mia avventura cinematografica. Feciun film da protagonista diretto da Pie-tro Germi, andò abbastanza bene, manon ero convinto. Non ero nato per sta-re davanti alla macchina da presa, madietro».

Strizza gli occhi, insegue i ricordi: «Ilproblema, a quell’età, era farsi prende-re sul serio». Aveva solo diciannove an-ni e una grande abilità di venditore, loaveva dimostrato a diciassette piazzan-do quintali di spaghetti, lo confermòtrovando finanziatori con i quali fondòla Real Cine e nel 1941 produsse il primofilm, L’amore canta. Poi arriva la guerraa sbaragliare i sogni. L’Italia ne esce de-vastata, ma le idee circolano più vorti-cosamente di prima. «Il grande cinema,quello che ha fatto scuola, è nato nel do-poguerra», racconta. «Cinecittà era oc-cupata dagli sfollati, non c’erano mac-chine da presa, non c’erano soldi. Soloun gruppo di uomini geniali: Rossellini,De Sica, Fellini, Lattuada e… io», dicecon insospettata timidezza. «Da quelgruppo nacquero Roma città aperta,Sciuscià, Paisà, Ladri di biciclette, i filmdell’industria povera che i critici chia-marono neorealismo. Non giravamo

per le strade con l’idea di creare un nuo-vo stile, ma per necessità, perché nonavevamo soldi per pagare i figuranti.Quei film lanciarono il nostro cinemanel mondo e fecero capire agli ameri-cani che il loro sistema produttivo erasbagliato. Lo hanno detto e ripetutoSpielberg, Pollack e Scorsese: “Abbia-mo imparato da voi”. Fu un momentomagico: Hollywood rischiò di perdere ilprimato. La cosiddetta Hollywood sulTevere fu agevolata da una legge fattada Andreotti, l’unica intelligente maivarata per il cinema, che diceva: un filmper essere italiano deve avere almeno ilcinquanta per cento di personale italia-no. Questo ci dava la possibilità di im-piegare anche attori americani, comeClint Eastwood negli spaghetti westerno Audrey Hepburn in Guerra e pace. Aun certo punto gli americani — ho ildubbio che abbiano pagato salato perquesto — riuscirono a convincere il go-verno a cambiare la legge. Il socialistaCorona varò un decreto che fu la tom-ba del nostro cinema, portava la per-centuale dal cinquanta al cento percento. A quel punto non ebbi esitazio-ne, partii per gli Usa».

Il principe del nostro cinema, l’uo-mo che pensava in grande, il campionedella Lux Film, lo spericolato impren-ditore della ditta Ponti-De Laurentiische nel 1952 produsse il primo film ita-liano a colori (Totò a colori), l’uomo cheaveva stregato e sposato la bellissimaSilvana Mangano, il self-made man no-minato nel 1966 cavaliere del lavoroche in pieno boom economico avevaospitato negli studi di Dinocittà divi co-me Henry Fonda e Ava Gardner, l’au-

dace imprenditore che ave-va portato grandi storie sulpiccolo schermo (L’Odis-sea) gettò la spugna: nonpoteva più competere conHollywood. «Quando arri-vai in America, il sindaco diLos Angeles mi consegnò

le chiavi dellacittà», ricorda. «Ioero terrorizzato:che ci faccio qui,non conosco la

lingua, non conosco i loro gusti, comemi muovo? Tutto dipendeva dal primofilm, se imbrocco quello», mi dissi, «èfatta. Chiamai Peter Maas, un autoredal quale avevo già acquistato i diritti diJoe Valachi-I segreti di Cosa Nostra: “Hobisogno di una storia”, gli dissi. “Stoscrivendo un nuovo libro, ma ho giàpronto solo il primo capitolo”, rispose.Pretesi che me lo mandasse. M’intrigòquel personaggio e comprai Serpico aocchi chiusi. Maas pretese un capitale,cinquecentomila dollari, cinque milio-ni di euro di oggi, ma quel film, inter-pretato da Al Pacino, fece la mia fortu-na. Poi arrivarono I tre giorni del Con-dor, un cult. A quel punto ebbi qualchecertezza: ok, posso fare il produttoreamericano».

Lumet e Pollack, Lynch e Cimino,Ridley Scott e Jonathan Demme sonosolo alcuni dei registi di sangue blu chehanno lavorato a corte. «E ancora dico-no che faccio film commerciali», sbottail produttore di Hannibal Lecter-Le ori-gini del male. «I critici e il cinema nonsono mai andati d’accordo. PoveroTotò... Grande amico, attore immenso.

GIUSEPPE VIDETTI

LOS ANGELES

Non sono affascinanti glistudios nella luce delmattino. La foschia cheavvolge Burbank rende

ogni cosa “normale”, un aggettivo chenella fabbrica dei sogni è un’impreca-zione. I trenini s’inerpicano verso i can-celli della Universal carichi di visitatoripronti a incontrare Shrek e i BluesBrothers. Dai varchi del James StewartBoulevard, invece, entrano addetti ailavori e personaggi in cerca d’autore.

Il bungalow di Mister De Laurentiis èin fondo al viale, uno dei tanti, anoni-mo, troppo piccolo per un uomo cheappartiene alla stirpe reale del cinema.Ma all’interno, l’ufficio del megapro-duttore racconta quasi un secolo di ci-nematografo. Academy Awards, Daviddi Donatello, Leone d’oro e la statuettache gli è più cara, l’Irving G. ThalbergMemorial, premio alla carriera che gliconsegnarono nella notte degli Oscardel 2001. Dino De Laurentiis, all’ana-grafe Agostino, egli stesso membro del-l’Academy, lo prende dalla vetrina, lo

De Laurentiis“I miei novant’anniuna vita da Oscar”

GLI INIZINasce a Torre Annunziatal’8 agosto 1919. Cresce vendendogli spaghetti del padre. Nel 1940produce L’ultimo combattimento

LA LUXProduttore esecutivo alla Lux,realizza Riso amaro, Napolimilionaria, La grande guerraNel 1951 sposa Silvana Mangano

IL SODALIZIO CON PONTICon Carlo Ponti producei due Oscar La strada e Le nottidi Cabiria di Fellini. Poi i grandikolossal come Guerra e pace

IL SUCCESSO NEGLI USANegli anni Settanta si trasferiscein America. Il successo arrivacon Serpico nel 1973. SeguonoI tre giorni del condor e King Kong

PREMINelle foto,De Laurentiiscon l’IrvingG. Thalberg Memorial(l’Oscar alla carriera);e in una fotoda giovane

LA CARRIERA

Repubblica Nazionale

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35DOMENICA 12 LUGLIO 2009

“Happy Birthday!”firmato Al Pacino

SILVIA BIZIO

LOS ANGELES

Quando nel 1973 Al Pacino scelse di fare Serpico, pro-dotto da Dino De Laurentiis, subito dopo che Il padrino loaveva reso una star internazionale, non immaginava i dram-mi che si sarebbero svolti intorno a quel set. Battaglie per i di-ritti del film, problemi con la sceneggiatura, l’improvvisauscita di un regista, John Avildsen, e l’arrivo all’ultimo minu-to di un altro, Sidney Lumet. Nonostante tutto questo, Paci-no si gettò a capofitto nel ruolo, passando intere giornate conFrank Serpico, il vero poliziotto su cui era basata la storia delfilm. Si era così immerso nella parte da fare quasi a botte conun camionista che aveva cercato di arrestare perché il suo ca-mion sputava fumo nero dal tubo di scappamento. Dimen-ticando di non essere davvero un poliziotto, bensì solo un at-tore che recitava un ruolo.

Al Pacino ricorda quei momenti mentre si trova nella saladi montaggio di Beverly Hills dove ogni giorno, minuziosa-mente, ritocca ancora alcune scene del nuovo film di cui è re-gista e protagonista, Salomaybe, prodotto da Barry Navidi. Erievoca il suo rapporto con De Laurentiis: «Dino capiva que-sta mia passione», dice.

Che cosa pensa di lui come produttore?«Tutti sanno che quello di Dino De Laurentiis è un nome

importante in questa industria. È un vero leader, l’impegnoche mette in ogni suo progetto è grandioso: senza di lui Ser-pico non sarebbe mai stato realizzato. È un grande uomod’affari, ma allo stesso tempo anche un grande amante del ci-nema. Un amore che traspira da ogni poro della sua pelle…Oltre ai grandi registi italiani dello scorso secolo — Fellini,

Rossellini, Visconti, De Sica — ci sono igrandi produttori come Carlo Ponti eDino De Laurentiis, il vero gigante».

È stata importante la vostra comuneorigine italiana?

«Certamente! I miei nonni erano ita-liani e io ho sempre avuto un fortissimolegame con l’Italia e gli italiani. Ho ungrande affetto per Dino: è affascinante,ha un grande gusto ed è un gran cuoco.Purtroppo non lo vedo da anni… Manon dimenticherò mai la sua cucina! Acasa di Dino è come essere in Italia: lacucina napoletana, gli spaghetti, la piz-za nel forno a legna in giardino…».

Ha un ricordo particolare di lui neigiorni di Serpico?

«Ricordo una cosa divertente che miraccontò Sidney (Lumet, ndr). Sidneynon voleva mettere nessuna musica nelfilm, invece Dino ne voleva tanta. Sid-ney temeva che Dino portasse la pelli-cola in Italia e l’affidasse a un musicistache l’avrebbe riempita di note dall’ini-

zio alla fine. Per caso scoprì che Mikis Theodorakis, militan-te politico greco e grande compositore, era appena uscito diprigione e si trovava a Parigi. Immaginando che avesse ungran bisogno di soldi, gli offrì settantacinquemila dollari percomporre della musica per il film. Il giorno dopo Theodorakisera a New York: disse a Sidney che era già impegnato per unatournée con un gruppo greco e non poteva dedicarsi al film,ma tirò fuori una cassetta con della musica che aveva com-posto anni prima e che secondo lui avrebbe funzionato. Do-podiché se ne andò a fare la sua tournée. Alla fine ci sono so-lo quattordici minuti di musica originale di Theodorakis intutto Serpico, ma anche Dino, come Sidney sperava, fu lusin-gato di avere un solido uomo di sinistra, uno che era stato inprigione, un vero europeo, come compositore».

Cosa pensa della decisione del governatore ArnoldSchwarzenegger di celebrare il Dino De Laurentiis day?

«Sono d’accordissimo. Nessuno lo merita più di lui. Dino,lavorare con te in Serpico è stata una delle più belle esperien-ze cinematografiche della mia vita. Non so se ti ho mai rin-graziato per questo, forse sì, ma voglio farlo di nuovo, in oc-casione del tuo compleanno e di questa giornata speciale cheti dedica la California. Mi manchi Dino, Happy Birthday!».

La critica lo fece apezzi, lo trattò come un guitto. E La stra-da? Nessuno voleva farlo. Abbiamo vin-to l’Oscar, decine di premi nel mondo. Icritici lo condannarono: “Fellini è ungiovane regista che può fare molto, maquesta volta ci ha deluso”. Così decisi diaffittare una sala sugli Champs-Ely-sées: i francesi impazzirono, critica epubblico. Il successo de La strada partìda Parigi».

Si solleva gli occhiali sulla fronte per

guardare le locandine in-corniciate al di là dell’im-

mensa scrivania. Casano-va, Conan il barbaro, L’an-

no del dragone, Dune, Rag-time, che ha avuto otto no-

mination all’Oscar. «Cosasiamo noi, in fondo?», riflette.

«Creatori di sogni. Per questoadoravo Fellini. Eravamo co-

me fratelli. Volevo portarlo inAmerica, lui era titubante. Un

giorno lo chiamai: “Federico, hocomprato i diritti di King Kong”.

La prima reazione fu: “Ecco, que-sto m’interessa”. Poi ci ripensò:

“Non me la sento”». Meryl Streepracconta di aver sostenuto un provi-

no per King Konge di essere stata bru-talmente scartata da De Laurentiis.

«Macché», contesta, «me la proposeroper Il re degli zingari, nel ’77. Al regista

Frank Pierson non piacque, voleva unaragazza bella, fisicamente prestante.Per King Kong invece cercavo un’attri-ce da lanciare. Mi mandarono JessicaLange. Non mi convinse, brutti denti,poco seno. Dopo il provino, il registaJohn Guillermin mi chiamò: “Dino,questa è una grande attrice”. La convo-cai nel mio ufficio: “Senti Jessica, se tor-ni da me fra quindici giorni con denti eseno rifatti la parte è tua. Ma ricorda, io

negherò sempre di fronte al mondo diaverti fatto questa proposta”. Tornò do-po dieci giorni, aveva seguito il mio con-siglio. Fu la prima attrice che lanciai ne-gli Usa. Poi ce ne sono stati molti, da Ar-nold Schwarzenegger in poi. L’ameri-can dream esiste ancora. Chiunque lopuò afferrare, e senza carte bollate».

«Una vita che è un romanzo», hannoscritto Tullio Kezich e Alessandra Le-vantesi nel bel libro Dino, che nel 2004è uscito anche in lingua inglese. Nei ro-manzi l’italoamericano è sempre vitti-ma di qualche stereotipo. «Infatti qui,per un certo gruppo sociale, l’italianoper sua natura è mafioso. Lo dissero an-che di me, e sa perché? Un mio diretto-re di produzione ebbe un diverbio conla polizia mentre giravamo Pollice dascasso (1978), così dovetti presentarmidi fronte a una commissione. “Lei co-nosce la mafia?”, mi chiedono. “Cono-sco Jimmy Carter, il papa, molti vip, è ilmio mestiere, ma non conosco la ma-fia”. E loro: “Eppure lei conosce VincentAlo, detto Jimmy Blue Eyes”. “Certo, vo-leva bloccare un mio film, The ValachiPapers. L’ho incontrato, l’ho costretto anon importunarmi. Fine della storia”».Un capitolo che non poteva mancarenel romanzo del magnate che ha finan-ziato, distribuito e prodotto oltre sei-cento film. L’ultimo tycoon.

RICORDIA sinistra,il produttoree SilvanaMangano nel ‘57con il GoldenGlobeper Guerrae pace e l’Oscarper La strada

TRIONFIIn alto,AnthonyHopkinsè HannibalLecter nel filmprodotto daDe Laurentiis;qui sopra,Al Pacinoin SerpicoA centropagina,le locandinedi alcuneproduzioniDe Laurentiis

Repubblica Nazionale

i luoghiAntiche dimore

Il conte Luigi Mocchia, nobile ufficiale, fu decapitato dai francesiil 5 luglio del 1799. La sua testa fu portata in processione nelle viedi Cuneo come monito ai rivoltosi. Il suo spettro, dice la leggendanata all’indomani di quei tragici eventi, abita da allora la villadi famiglia. Provare per credere: fino ad ottobre, insiemea un centinaio di manieri del Piemonte, sarà aperta ai visitatori

36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 12 LUGLIO 2009

MADONNA DELL’OLMO (Cuneo)

La chiave è di ferro, enorme e pesantissima, maa che serve chiudere la porta? Lui, se vuole,verrà. Adesso che la finestra incornicia la not-te, è il momento giusto per aguzzare l’udito.

Insieme al fresco e al buio entrano il canto di un uccello, unoscricchiolio di legno calpestato, niente più che un sospirodi vento. E a mezzanotte in punto, oh sì, l’eco lontana di unapendola: rintocchi secchi e lugubri, come di tosse soffoca-ta. Però, ragazzi, chi crede più ai fantasmi in quest’epoca di-gitale, virtuale, razionalmente gelida? Siamo qui per gioca-re, oppure per cercare davvero qualcosa di ultraterreno?

Nella «camera indiana» accanto alla torre medievale do-ve alloggiamo, sotto lo sguardo di un serio antenato baffu-to, distesi su un letto morbido e mormorante — l’anima li-gnea, le molle antiche, le giunture secolari: nulla tace — cimettiamo all’ascolto degli eventuali passi e sospiri e catenedel conte Luigi Mocchia, luogotenentecolonnello del Corpo dei guastatori, giàmaggiore di brigata nella Legione degliaccampamenti, remoto proprietario diVilla Oldofredi Tadini di Madonna del-l’Olmo, nato il 2 giugno 1750 e decapitatodai francesi il 5 luglio 1799. Per tre giorni lasua testa, messa in cima a un palo, venneportata in processione nelle strade di Cu-neo come monito agli eventuali rivoltosi,resistenti e partigiani. Il conte amò la li-bertà e perse tutto: la vita, la testa, la casasaccheggiata. «La leggenda del suo fanta-sma nacque subito, non è un’invenzioneturistica», racconta la signora Gioia Tessi-tore Mattei, che ereditò Villa OldofrediTadini da sua nonna Gabriella e che oggila abita insieme ai figli. «Ce lo raccontaro-no i nostri vecchi, e da piccoli ci piacevacercare la testa del conte Mocchia, aspet-tarlo e spaventare gli amici». Eppure, eppure non è solo unoscherzo. C’è un fitto elenco di medium, sensitivi, esplora-tori dell’occulto i quali garantiscono che in questi corridoiesistono «presenze», e loro non dormirebbero qui per nul-la al mondo. Invece eccoci: è già ora di spegnere la luce. Mase poi dormiamo, sparisce l’incanto? Allunghiamo un po’la notte, dài, siamo qui per questo. Per aspettare.

«Non si è mai saputo con certezza dove abbiano sepoltoil corpo del conte», dice la signora Gioia. «Pare che la testavenne chiesta ai francesi dal parroco del Passatore, che laseppellì forse nel piccolo cimitero della chiesa. Invece ilcorpo del mio antenato fu pietosamente ricomposto daicontadini e sepolto da qualche parte, qui in giardino. Nar-rano che lui si aggiri ancora, di notte, nelle stanze della vil-la per cercare la sua testa perduta».

Alla «camera indiana» si sale attraverso due rampe di gra-dini in pietra, passando sotto l’affresco di una Venere con ipomelli rossi, una dea contadinella. C’è un corridoio lun-go: su un lato le stanze, sull’altro la notte. Entriamo, dun-que. Ci accolgono un bouquet di fiori rossi, i piccoli scattimeccanici di un antico orologio, una teoria di antenati incornice, un armadio a muro e nell’armadio — ohibò — un

pugnale. Ronza una mosca. Ma lui, il conte, dov’è?«Venga, può vederlo in cappella, l’accompagno». In fon-

do al corridoio, ai piedi della scala a chiocciola si entra nel-la cappella di famiglia, un gioiello del barocco piemontesein rosa pastello. Su una parete, ecco il ritratto del beato An-gelo Carletti da Chivasso, e nell’angolo del quadro una te-sta mozzata e una lama. «Venne aggiunta nel dipinto in unsecondo tempo, si vede la mano diversa. La scoprimmo so-lo dopo un restauro». Il viso magro, scavato, più sofferenteche pauroso. Ma almeno l’abbiamo visto: perché il fanta-sma, eventualmente, comparirà decapitato. «Ma non te-ma, sa, è uno spettro gentile».

Risaliamo in camera, accostiamo la porta, lasciamo per-dere l’inutile serratura. Se è un fantasma timido e invisibi-le, ora ci starà forse guardando mentre noi guardiamo lanotte. Oltre i cristalli, la sagoma del faggio rosso del Seicen-to: l’essere vivente più antico, qui. Ha radici che spingonofuori dalla terra, contorte, inquietanti e bellissime. Alla finedel pomeriggio, accanto al tronco becchettava un’upupa,l’uccello dei morti anche se poi non è mica vero: Montale la

difese. Alle spalle del buio e delle nostre, ètutto un delicato concerto di rumori. Sisentono passi al piano di sotto, sarà la si-gnora. Poi un tintinnio strano. Usciamo dinuovo in corridoio, come nei film (piùStanlio e Ollio che Harry Potter, comun-que) e dopo qualche passo scopriamo cheuna corrente d’aria sta facendo tintinna-re piccole campanelle di vetro. Le ombredondolano. Gli armadi scricchiolano. Icardini cigolano. Gli affreschi sembranovivi.

E finalmente, dopo tanta attesa, ecco ilfantasma. Non è vero che è senza testa, neha molte invece: teste di bambini di tantianni fa nelle fotografie appoggiate ovun-que, piccoli visi incorniciati d’argento chenon sono più, teste nei quadri di avi, tri-snonni, antenati come Gabriele Tadino,nobile militare al servizio dei dogi, oppu-

re il pensieroso Gerolamo Oldofredi, gentiluomo di cortedella regina Margherita. Spettri del tempo perduto, ritrattidi donne giovani e tristi, bimbe per sempre. Spiriti di chinacque, visse e passò come un colpo di vento in questa not-te di luglio, e abitò le trentasei stanze della villa, i salottini, idisimpegni, le cucine, aspettando l’acqua corrente che sa-rebbe arrivata solo nel 1967, mentre l’elettricità c’era dal1937. Gente che visse, amò e morì come se niente fosse traun’occupazione spagnola e un saccheggio francese, unpassaggio di tedeschi e un’irruzione di partigiani, un balzodi scoiattolo e una pioggia di glicini. È arrivato finalmente ilfantasma e si chiama tempo.

Anche con la luce spenta, nella stanza il chiarore non ce-de. E le ombre dei rami non smettono di giocare. Bello sa-rebbe non sentirsi soli, e sapere che davvero qualcosa esi-ste oltre la pesantezza dei nostri corpi, oltre le illusioni e i so-gni. Ecco l’ultimo rumore, però vivo e vero: dietro la portachiede di essere ascoltato. La socchiudiamo. Vicino a dueelefanti d’argento, sul davanzale c’è un gatto, rosso, mor-bido e panciuto, gli occhi che brillano nel buio come dia-manti. Perdoni, signor conte, ma si è fatto tardi. È vera-mente ora di dormire.

MAURIZIO CROSETTI

LA RASSEGNA

Da questa settimanae fino al 25 ottobre 2009

le province di Cuneo,Alessandria e Asti ospitanoCastelli aperti. Si potrannovisitare 92 dimore chiuse

al pubblico durante l’anno,scoprire antichi castelli,

enoteche e museiLa rassegna è promossa dalla Regione Piemonte

e dalle province di Cuneo,Alessandria e Asti con il patrocinio

del ministero dello Sviluppo

(www.castelliaperti.it)

Il castello col fantasma gentileF

OT

O G

UG

HI F

AS

SIN

O

Repubblica Nazionale

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37DOMENICA 12 LUGLIO 2009

le tendenzeSottozero

Climatizzatori, frigoriferi, congelatori, macchine del ghiaccioTutti rigorosamente a basso impatto ambientale e a prezzi abbattutigrazie agli ecoincentivi. Tutti accomunati da un’animatecnologica in un corpo retrò. Compresi, per i nemici giuratidell’aria condizionata, i vecchi e romantici ventilatori

Riscaldamento globale e raffreddamento locale: il contrastoglobale-locale riguarda anche i problemi di temperatura.Combattiamo le estati di un pianeta sempre più caldo con ilfreddo che la tecnologia riesce a garantirci. Peccato che ci sia-mo due problemi: primo, il nostro freddo conquistato graziea frigoriferi, congelatori e climatizzatori spesso contribuisce

a far aumentare il caldo generale; secondo, facciamo crescere i consumienergetici a picco, con il rischio sempre più concreto di improvvisi e para-lizzanti blackout elettrici. Merita quindi di ricordare, intanto, che gli in-centivi per sostituire i vecchi elettrodomestici con nuovi apparecchi diclasse energetica non inferiore ad A+ (meglio A++) continuerannofino al 2010. Incentivi che fanno risparmiare il venti per cento diquello che si spende, fino a un massimo di duecento euro. E me-rita aggiungere che, dovendo comprare, è bene valutare anchela rumorosità, perché anche l’inquinamento acustico ha rag-giunto soglie molto elevate nelle nostre città, e privilegiare i pro-duttori che cercano di ridurre l’impatto ambientale di frigoriferie condizionatori.

L’esempio più recente è quello di Daikin, che di recente ha pre-sentato nuovi climatizzatori in cui gli idrofluorocarburi (HFC), dan-nosi per la fascia di ozono che protegge la nostra atmosfera, sono sosti-tuiti con un nuovo refrigerante a base di anidride carbonica. Inoltre, èsaggio domandarsi se la climatizzazione, che nei luoghi di lavoro sal-va la produttività, è proprio necessaria anche a casa. Un amichevole eromantico ventilatore, che consuma molto meno e non inquina, èquasi sempre più che sufficiente per superare i momenti più caldi del-la giornata.

Per quanto riguarda il design, l’aspetto più interessante è che ilcorpo sempre più hi-tech e performante degli elettrodomestici siveste di morbide forme e colori brillanti, composizioni ironichee old fashioned. All’interpretazione più ovvia, ovvero che du-rante i tempi difficili il design tende a forme arrotondate eperfino organiche, psicologicamente confortevoli, si puòaggiungere una seconda osservazione: un tempo gli og-getti ad alta tecnologia dovevano dichiarare le loro presta-zioni con forme e colori algidamente futuristici. Il nero e l’ac-ciaio, spigoli e minimalismo, display a cristalli liquidi racconta-vano quali oggetti straordinari ci venivano offerti. Adesso la tecno-logia è una componente così scontata della nostra vita quotidiana e do-mestica che la concessione al ludico, l’ironia di un frigorifero che sembravestito da Paul Smith o di una gelatiera apparentemente piombata fra noida una cucina americana degli anni Cinquanta non sono più percepiti co-me un attentato alla credibilità del prodotto e al suo valore intrinseco.

D’altra parte, proprio in cucina stanno facendo irruzione i media piùavanzati della comunicazione: Internet e gli sms. E magari, nel corpo pan-ciuto di un frigorifero arancione, andrete e a rivedere videomessaggi regi-strati da tutta la famiglia come promemoria, non necessariamente solo perla lista della spesa.

Un brivido hi-techper fermare l’estateAURELIO MAGISTÀ

fabbricafreddo

La

del

ANIME SEPARATELa funzione Holidaydel Side by Side HotpointAriston permette di mettereil frigorifero in stand byquando si parte, lasciandoin funzione il congelatore

MILLE RIGHECurve anni Cinquantavestite da mille righeper il frigorifero SmegColor Stripes classe AIl volume totale è di 271litri, tra frigo e congelatore

ALIMENTI AL SICUROFrigorifero e congelatore no frost,HVND 4575 doppia porta classe Adi Hoover ha un’autonomia di sediciore in caso di mancanza di corrente

NOTTI TRANQUILLEPortatile e poco ingombrante,il climatizzatore Issimodi Olimpia è dotatodi funzione Moon che alzaa poco a poco la temperaturadurante il riposo notturno

VINO PRONTO ALL’USOSi adatta a tutti i tipidi bottiglia,dalle borgognoneallo champagne,la tasca termicaScrewpull. In freezer,pronta all’uso

COME SU FACEBOOKSullo schermotouchscreendel 3D fridge Haier,oltre a controllarela temperaturainterna si possonovedere i video-messaggi registraticon videocamerae microfono integrati

ARIA D’EPOCAIl ventilatoreanni TrentaAirflow, un gioiellodel designda tempofuori commercio,è operadi Robert Heller

TRADIZIONALEDi Maiugualiil classicoventilatoreda terraad altezzaregolabilefino a 150centimetriIn metallolaccatoin vari colori

COME UNA VOLTAProduce quasi due chilidi gelato, sorbettoe semifreddo la gelatieraKitchenAid, con ciotolarefrigerante. In tanti colori,è garantita cinque anni

Repubblica Nazionale

i saporiDolceamaro

Confetti, orzata, marzapane, martorana, torroni. Ma anche paste,bruschette, insalate, impanature. Una storia secolare che inizianel Medioevo, si mescola con gli arabi, arricchisce le nostre favolee arriva fino a oggi. Quando, durante il tempo della raccolta,ogni chef si diverte a usare questo ingrediente universalecon la stessa fantasia di cui davano prova i cuochi di corte

itinerariSiciliano felicementetrapiantatosulle colline senesi,Gaetano Trovatogestisce col fratelloGiovanni il bel relais

“Arnolfo”. Le mandorle,memoria d’infanzia,accompagnanolo squisito conigliocon le albicocche

La città di Ovidio, che ne fa risalirela fondazione a Solimo, compagnodi avventure di Enea, oltrealla coltivazione dell’insolito agliorosso, vanta una storica,pregiata produzione di confetti,esportati in tutto il mondo

DOVE DORMIRELA DIMORACorso Ovidio 238Tel. 0864-56775Camera doppia da 60 euro,colazione inclusa

DOVE MANGIAREDA GINOPiazza Plebiscito 12Tel. 0864-52289Chiuso domenica, menù da 25 euro

DOVE COMPRARECONFETTI WILLIAM DI CARLOViale del Lavoro 15Tel. 0864-253070

Sulmona (Aq)Adagiata sulla costa ionica,protetta dai monti Iblei, regalail suo nome a un vitigno illustre -il Nero d’Avola - e alla delicatamandorla pizzuta, protettadal presidio Slow Food,attivato nella confinante Noto

DOVE DORMIRETURISMO RURALE AVOLA ANTICA(con cucina) Contrada Avola AnticaTel. 0931-811008Camera doppia da 90 euro, colazione inclusa

DOVE MANGIAREMASSERIA SUL MARE (con camere)Contrada GallinaTel. 0931-560101Da aprile a ottobre. Menù da 30 euro

DOVE COMPRARECONS. PROD. MANDORLA DI NOTOVia XX Settembre 119, NotoTel. 0931-836893

Avola (Sr)Appoggiata sull’altopianodelle Murge, da cui il nome tauretum(collina, in latino), è circondata da coltivazioni di ulivi, viti e mandorliPregiate le varietà autoctone,dall’alto contenuto in olioe acidi grassi polinsaturi

DOVE DORMIREHOTEL VILLA PIROTTAContrada Sannicandro Di BariTel. 080-9934455Camera doppia da 85 euro, colazione inclusa

DOVE MANGIARELA STALLA DEL NONNOVia XXIV Maggio 26, Palo del Colle Tel. 080-629598Chiuso dom. e lun., menù da 30 euro

DOVE COMPRAREFATTORIA DELLA MANDORLAVia Belvedere, Frazione QuasanoTel. 080-992627

Toritto (Ba)

LICIA GRANELLO

MarzapaneMandorle frullate con zucchero,impastate con uova e farina: la pastareale è la base di frutta martorana(dolci colorati siciliani), pasticcini e biscotti che etruschi e romanipreparavano come cibo votivo

LatteFreschissima la bevanda ottenutaallungando con acqua fredda lo sciroppo (mandorle in acquabollente, spellate, pestate, lasciateriposare in acqua, bollitecon zucchero dopo aver filtrato)

ConfettiLa ricetta classica dei bonbondell’amore prevede una semplicecopertura della mandorlacon zucchero cristallizzatoCuore e glassa possono arricchirsicon cioccolato, scorzette, nocciola

TorroneDalla Spagna (turron) alla Francia(nougats, dal nome di un pasticciere),il tradizionale dolce di Nataleammette cento variabili, ma non puòprescindere dall’impasto di mandorle, miele e zucchero

38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 12 LUGLIO 2009

La mandorla è il seme commestibile del mandorlo,dicono i testi di botanica. Come se bastasse confi-nare una delle grandi gioie di cuochi e antropologinel recinto della didattica vegetale per banalizzar-ne il lucore goloso, ridare pudore alla licenziositàdella forma, laicizzare la ritualità del simbolo. Si di-

ce mandorla e si pensa a creazioni tra le più impudenti e carnalidell’intera pasticceria, i dolcetti di marzapane, e le loro artistichederivazioni: agnelli, statuine, giù giù fino alla sfacciata fruttamartorana, tanto bella e colorata da rivaleggiare con quella fre-sca. Raccontano che a crearla furono le ospiti del convento pa-lermitano dedicato alla nobildonna Eloisa Martorana, per ono-rare Ruggero II di Sicilia (da cui la dizione pasta reale) in visitainaspettata durante il tempo invernale, quando nessun fruttopoteva allietare una tavola davvero degna del re.

Tre secoli di produzione sapiente e supergolosa — marzapa-ne, pistacchi, rose, zafferano — fino a quando a fine Cinquecen-to un editto del Sinodo diocesiano di Mazara del Vallo sanzionòle monache, colpevoli di un’attività «capace di disdicevole di-strazione al doveroso raccoglimento religioso». Provvedimentodifficile da spiegare se non quando, pochissimo tempo dopo, lapotente corporazione siciliana dei confettieri sfilò la ricetta allemonache con la benedizione della curia, e ne acquisì il mono-polio, quanto mai fruttifero.

Ma il marzaban arabo (originariamente, il contenitore daviaggio dei pasticcini di mandorla), è solo una delle cento acro-bazie gastronomiche di cui la mandorla si gloria ab aeternum.Una sinfonia di opposti che lascia senza fiato: dolce e amara,croccante e pastosa, bianchissima e scura, pronta ad attraversa-re gloriosa i menù più sfiziosi e complessi, da quelle pennellatedi miele e fleur de sel che Vittorio Fusari serve come aperitivo al-la “Dispensa” di Torbiato (Brescia) insieme allo strepitoso sor-betto di Campari, alla soavissima zuppa di mandorle e basilicocreata da Pino Cuttaia a “La Madia” di Licata.

Tanto generosa e pregiata, da prosperare anche lontana dal-l’alta gastronomia, e perfino dalla gastronomia tout court, se èvero che latte e olio di mandorla sono millenari passaporti di bel-lezza, superstar della cosmetica d’antàn ancora in gran voga. Maguai a sottovalutarne le proprietà terapeutiche, che vanno dallaricchezza in acidi grassi monoinsaturi, vitamina E, proteine, sa-li minerali (magnesio, calcio, rame, fosforo) alla poderosa azio-ne anti-colesterolo, certificata poche settimane fa da una dottaricerca del Journal of Nutrition. Il tutto, con la sola, vera con-troindicazione dell’alto carico calorico tipico dei semi oleosi. Senon sapete decidervi tra versioni dolci e salate, regalatevi un toursiciliano, dato che, dopo la gioia per gli occhi della fioritura pri-maverile, questo è il tempo della raccolta. Da una parte, paste,bruschette, insalate, impanature, dall’altra torroni, amaretti,croccanti, gelati, confetti, petitfours. Tra una tentazione e l’altra,d’obbligo un bel bicchiere d’orzata.

MandorleIl seme della concordia

‘‘Philibert SchogtOgni tanto s’imbattevain una minuscola scagliadi mandorla tostata,avvolta in un velodi croccante caramello,lampi di dolcezzanelle tenebre del cioccolato

Da “LA BOTTEGA DEL CIOCCOLATO”

Repubblica Nazionale

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39

le calorieper etto

581

il contenutoin fibre

12%

Apicio cita il torronenel De re coquinaria

230 d.C.

prime citazionidei confetti

XIII secolo

Latte di mandorle freschee ostrica cotta al saleCarlo Cracco e Matteo Baronetto(“Cracco”, Milano) affumicanole mandorle su un letto di rosmarino,prima di ridurle a latte. Sopra,un’ostrica cotta in crosta di salee cacao. Rifinitura con cipolla rossa

Finti ravioli di mele, tortinodi lamponi e mandorle Giovanni Grasso e Igor Macchia (“La Credenza”, San MaurizioCanavese, Torino) servono un tortinodi farina di mandorle e lime, accantoai ravioli di gelatina di mele, con un infuso di mele e cannella

Agnello laticauda e carciofiPaolo Barrale (“Marennà”, SorboSerpico, Avellino) propone un mosaico di agnello nostrano:pancetta cotta a bassa temperatura,animelle con carciofi e le costoletteimpanate in crosta di mandorle

Il tempo del riposoNel piatto di Corrado Assenza (“Caffè Sicilia”, Noto, Siracusa) il risotto nero Venere, mantecato con emulsione di mandorla “riposa”su gelatina di tè matcha con cedro e profumo di fiori di gelsomino

DOMENICA 12 LUGLIO 2009

Il casto “biancomangiare”che aggirava la Quaresima

MASSIMO MONTANARI

Nella gastronomia contemporanea la mandorla ha un ruolo circo-scritto, per lo più confinato nell’ambito della pasticceria. Ma ci so-no state epoche in cui essa giocava a tutto campo, con una varietà di

impieghi che oggi non manca di stupirci. Il cuoco del Medioevo — almenoquello che lavorava alla corte dei principi o nelle case dei ricchi borghesi —non poteva fare a meno delle mandorle. Le usava, pestate, in molte salse,con funzione addensante (le salse, allora, erano prive di grassi e faticavanoa “legare”). Le usava per ricavarne olio e latte: un latte che, nei giorni “di ma-gro” in cui la Chiesa proibiva di utilizzare prodotti animali, sostituiva il lat-te di capra, di pecora o di vacca in un’infinità di preparazioni.

La pasta di mandorle serviva poi a comporre marzapani e ogni sorta didolcetti, che gli europei del Medioevo impararono a fare prendendo amodello la cucina araba. Se sfogliamo il più importante ricettario dell’I-talia medievale, quello di Maestro Martino, composto a metà del Quin-dicesimo secolo, questa centralità delle mandorle risulta subito eviden-te. Per fare il «riso con lacte de mandorle» bisogna pestarle e continua-mente «sbroffarle», cioè spruzzarle d’acqua fresca, «accioché non faccia-no olio»; indi si stemperano in acqua, si passano per la stamigna e si ot-tiene un latte che andrà bollito mescolandovi il riso e dello zucchero.

Simile procedimento si segue per le «Herbe con lacte d’amandole»,mentre la «Torta de dattali, d’amandole et altre chose» nasce da un com-posto dolce-salato in cui i datteri e le mandorle (sempre pestate e filtrate)si mescolano a fichi secchi e uva passa ma anche a spinaci, prezzemolo emaggiorana, e a una buona quantità di spezie. Pestate con acqua rosatae mescolate a del brodo di pesce, le mandorle serviranno a comporre una«Gioncata» ossia una sorta di formaggio fresco, legato sulla paglia con del-le fronde, da usare in Quaresima al posto dei formaggi «di ver lacte». Mar-tino insegna anche a fare una ricotta e, addirittura, un improbabile (ai no-stri occhi) burro di mandorle, «contrafacto» per il tempo quaresimale.

Le mandorle sono poi un ingrediente base del «biancomangiare», for-se il piatto più celebre della gastronomia medievale, una minestra di cuisi conoscono molteplici varianti, realizzate con soli ingredienti di colorebianco (da cui il nome) come petti di cappone, filetti di pesce, mollica dipane, zucchero e, appunto, le mandorle. Per quanto infine riguarda il«Marzapane», Martino consiglia di tenerle lungamente a mollo prima dipestarle, così da farle «più bianche, più gustose et più dolci a la bocca». At-tenzione agli aggettivi: dolci, gustose, bianche. Buone e belle. In effetti gliimperativi religiosi non bastano a motivare l’incredibile gusto medieva-le per la mandorla. Questo frutto è utile ed estremamente malleabile: inmano al cuoco assume molteplici identità come legante, salsa, pasta,olio, latte, liquido di cottura. Ma poi la mandorla è bella e bianca, e ciò do-vette essere decisivo nell’assicurarle grande successo, in un sistema ga-stronomico in cui l’estetica e il simbolismo dei colori giocavano un ruolofondamentale.

Repubblica Nazionale

40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA

l’incontro

‘‘

Best seller Graffiante quando esercita il sensodell’umorismo, nel privato lo scrittoreebreo newyorkese è timido e gentileDieci anni fa, dopo la fortunata uscita

della sua prima raccoltadi racconti, sentì l’esigenzadi riscoprire le sue radicie si trasferì in IsraeleOggi, lui che si dichiaraun “ateo incerto”,sta ritraducendo

il racconto dell’esodo dall’Egitto“Le mie domande”, dice, “sono senzarisposte, la certezza mi atterrisce”

NEW YORK

Finoa trentatré anni, NathanEnglander ha portato i lun-ghi capelli ricci fin sotto lespalle. Poi, improvvisa-

mente, ha deciso di tagliarli, sostenen-do che, superata l’età di Cristo, quellachioma lo faceva sentire un po’ ridico-lo. Il riferimento può apparire sorpren-dente per una persona cresciuta in unafamiglia ebrea ortodossa, ma a cono-scerlo bene s’impara che nella sua vitaquotidiana i costanti riferimenti reli-giosi non sono mai realmente irriveren-ti, e l’allontanamento sempre più nettodalla propria tradizione non ha maiportato ad una definitiva rottura, e lo haspinto, parallelamente, ad un’attenzio-ne sincera nei confronti delle altre reli-gioni. Negli anni passati si è voluto do-cumentare sul Concilio Vaticano II, ri-manendone estremamente colpito, alpunto da rileggere il Vangelo di San Gio-vanni con quell’incipit folgorante chelo porta a riflettere sulla potenza miste-riosa della scrittura: «In principio era ilVerbo. E il Verbo era presso Dio. E il Ver-bo era Dio». Oggi si dichiara incerto ri-spetto alla propria fede religiosa, maconfessa di baciare i libri sacri ogni vol-ta che se li trova tra le mani, arrivando asostenere che «chiunque abbia scrittola Bibbia è Dio: sono conquistato dallasua complessità e dalla capacità di par-lare il linguaggio dell’eternità».

Le contraddizioni rappresentanouna forza della sua scrittura, e la fragi-lità una condizione accettata della pro-pria esistenza, alla quale reagisce conl’intelligenza di un’ironia mai fine a sestessa. Una volta gli chiesi in maniera

diretta se credesse in Dio, e lui mi ri-spose: «Non lo so. Sarei tentato di diredi no, se non avessi paura di una suareazione». Sarebbe potuta sembrareuna boutade degna della migliore tra-dizione umoristica ebraica, ma l’e-spressione con cui accompagnava labattuta, rivelava qualcosa di molto piùprofondo e meditato. Poi, quasi a sot-tolineare l’incertezza del proprio atei-smo, continuò a parlarmi in questi ter-mini della possibilità di una vita dopola morte: «Ogni volta che ci penso entroin crisi. Sarei tentato ancora una voltadi dire no, non esiste alcuna vita dopola morte, e la nostra esistenza non ènient’altro che un’illusione, e forse an-che una buffonata. Tuttavia, se mi chie-di dove sia in questo momento miononno, ti dico in Paradiso».

Frequentandolo, una cosa che s’im-para subito è l’ammirevole capacità dimettere in discussione se stesso ed ognipropria convinzione, in obbedienza alprincipio «preferisco essere nel giustoche coerente». Englander è una perso-na timida e gentile, che diventa graf-fiante sino alla crudeltà solo quandoesercita il proprio straordinario sensodell’umorismo. Parla velocissimo, etende a dare per scontato che l’interlo-cutore segua il suo ritmo ed i suoi colle-gamenti logici. Ma non c’è arroganza inquesto atteggiamento, semmai piaceredi condivisione e complicità. Ha persoda pochi mesi il padre Herbert, ed è ri-masto molto attaccato alla sorella Sa-rah e alla madre Merle, una donna mi-nuta e piena di spirito, che segue con or-goglio il successo del figlio. È nato aLong Island, dove racconta di aver vis-suto in un ambiente «reazionario, xe-nofobo, anti-intellettuale, ignorante,contrario alla libertà di pensiero, e conuna mentalità da shtetl». La letteraturadivenne una scelta, una necessità eduna fuga, ma Englander non arrivò maia rompere con la propria tradizione, erimase profondamente religioso sino adiciannove anni, quando si recò per laprima volta in Israele. Fu un viaggio chelo segnò profondamente, al punto dadecidere di tornarci a vivere per cinqueanni dopo la pubblicazione di Per alle-viare insopprimibili impulsi, la raccol-ta di racconti che divenne un best sellerinternazionale.

Il libro, che uscì quando Englanderaveva ventinove anni, rappresentò ilpiù folgorante debutto letterario dellafine degli anni Novanta. I racconti, esi-laranti, sorprendenti e pieni di dolore,combinano la grande tradizione lette-raria ebraico-americana di BernardMalamud e Isaac Bashevis Singer con ilgusto dell’ironia e dell’assurdo di Go-

gol, e scatenarono focose proteste in se-no alla comunità ultraortodossa. Luireagì dichiarandosi orgoglioso di viverein un Paese dove esiste la libertà di pro-testare e dissentire, poi affrontò larealtà di essere diventato improvvisa-mente una giovane star della letteratu-ra, riuscendo a non cambiare affatto ilproprio modo di affrontare la quotidia-nità. Era il periodo dei capelli lunghi earruffati, con i boccoli che scendevanosulle spalle: un giornalista di nome PaulZakrzewski, innamorato del libro, volleconoscerlo ad ogni costo, convinto diavere a che fare con uno scrittore chefosse anche nell’aspetto simile a Mala-mud e Singer. L’incontro fu molto calo-roso, e Zakrzewski fu conquistato dal-l’intelligenza di Englander, ma scrisseche somigliava semmai a Roger Daltreydei Who.

Poco tempo dopo Englander si recòin Israele, capendo subito che sarebbestata un’esperienza determinante siasul piano personale che su quello arti-

stico. Il paradosso volle che la scelta diuna vita laica avvenne proprio in quellacittà dove la religione è fondamento.«Rispetto alla fede, Gerusalemme haavuto su di me l’effetto del Triangolodelle Bermude. Un luogo dove ci si per-de e si scompare. Ma è una città che amoprofondamente per la sua gente, la sto-ria, l’architettura. E so che è un luogodove è impossibile rimanere neutralerispetto a qualunque cosa riguardi lospirito e la carne». Era partito per la Ter-ra promessa con l’idea di svilupparequello che sarebbe diventato il primoromanzo, ma per completare Il Mini-stero dei Casi Speciali impiegò nove an-ni, dopo aver tagliato interi capitoli pre-sentati in pubblico come anticipazioni,e aver ridotto il libro da settecento a tre-cento pagine.

Il libro, ambientato nell’Argentinadei generali e dei desaparecidos, è inprimo luogo una storia struggente digenitori e figli ed elabora un elementocentrale della poetica di Englander, cheruota intorno all’identità e alla scom-parsa di una tradizione culturale. L’ideaoriginaria gli venne proprio in occasio-ne del primo viaggio a Gerusalemme,quando conobbe un gruppo di ebrei ar-gentini che lo conquistarono «per lagentilezza, l’esuberanza della loro in-telligenza, ed il senso di appartenenza.Una delle cose che ho imparato in quellungo soggiorno, e a contatto con realtàdiverse, è la molteplicità di tante realtàche sfocia spesso nel caos. E, nello stes-so tempo, il senso di comunanza nelladiversità».

Per capire nell’intimo la sua psicolo-gia, e la ricerca che sta ancora compien-do su se stesso, basta rileggere un pas-saggio chiave del romanzo, nel quale unpersonaggio chiede: «Cosa è meglio, unuomo che non ha il passato, o che nonha il futuro?». Englander risponde che«in quella frase c’è la risposta al fatto cheio faccio lo scrittore e non l’avvocato. Lemie domande sono sempre senza ri-sposta, e la certezza assoluta mi atterri-sce, mi sembra una specie di tortura.Anche se a volte ne sento il bisogno e vi-vo in maniera tormentata l’idea di im-perfezione e sacrificio».

Ma nella quotidianità Englander èuna persona che preferisce tenere persé queste riflessioni ed ama parlare me-scolando senza problemi la cultura altacon quella popolare. Una sua grandepassione è il cinema, sia quello realiz-zato all’interno dell’industria hol-lywoodiana che quello segnatamented’autore. L’ho visto divertirsi come unbambino rivedendo I tre giorni del Con-dor, e poi parlare con competenza del-la maestria registica di Sydney Pollack,

e di quanto sia sedotto da ogni film ba-sato su un complotto misterioso, comead esempio Marathon Man o ParallaxView. Apprezza in egual misura film di-versissimi come Gomorra e I trentano-ve scalini ed è tra gli scrittori che riten-gono che il cinema sia un’arte vera epropria, per nulla inferiore alla lettera-tura. Tuttavia, prima del linguaggio del-l’immagine, la passione divorante e im-prescindibile rimane quella per la paro-la scritta. E in questo si sente erede diuna tradizione millenaria: attualmentesta scrivendo un testo teatrale tratto dalVentisettesimo uomo, uno dei suoi rac-conti più belli e lancinanti, e sta com-pletando la traduzione di una nuovaversione della Haggadah, il raccontodell’uscita dall’Egitto che in occasionedella Pasqua ebraica i genitori leggonoai figli.

«Negli ultimi tempi il mio rapportocon l’infanzia è cambiato: forse è unaquestione di età. Sento il bisogno di af-ferrare i ricordi e la Haggadah nasce for-se da questa esigenza». L’editor del pro-getto è Jonathan Safran Foer, uno deigrandi amici scrittori, insieme a ColumMcCann e Colson Whitehead. In questiultimi anni Englander ha conquistato lastima e la sincera amicizia anche digrandi autori delle generazioni prece-denti e in particolare di Philip Roth, chelo ha voluto tra gli oratori in occasionedel festeggiamento del suo settantacin-quesimo compleanno, e rimane sem-pre colpito da questa sua costante econtroversa relazione con la fede.Quando gli ricordo che si dichiara ateo,o quanto meno incerto, mi spiega che sisente come «una persona che si è spo-gliata di tutto, ne prova eccitazione maforse non sa che rapporto avere con lapropria nudità».

‘‘

ANTONIO MONDA

FO

TO

GR

AZ

IA N

ER

I

In quel lungosoggiorno trascorsoa Gerusalemme,a contatto con realtàdiverse che sfocianospesso nel caos,ho imparato il sensodi comunanzanella diversità

Nathan Englander

40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 12 LUGLIO 2009

Repubblica Nazionale