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DOMENICA 1 FEBBRAIO 2009 D omenica La di Repubblica GINO CASTALDO GENOVA G li occhi di Gino Paoli sono oltre l’azzurro. Rasentano la trasparenza assoluta. Un buco bianco che riflette il panorama mozzafiato che inonda i balconi della sua casa genovese, in zona Nervi, ai margini della città burbera e stretta che si intravede in lontananza. Occhi che raccon- tano cinquant’anni di canzoni, vissuti in orgogliosa posizione di al- terità, tra successi clamorosi, abbandoni, avventurose battaglie esi- stenziali e politiche. Un turbine che non finisce mai, neanche ora. Dopo cinquant’anni di onorata carriera, è bastata una nuova can- zone, Il pettirosso, una piccola fiaba sulla pietà umana, e qualcuno ha subito insinuato il sospetto di una criminosa indulgenza verso la pedofilia. «È incredibile, sì, ma a questo punto posso dire che alla pe- dofilia aggiungo un’altra cosa. Sono anche razzista, sì, razzista, nel senso che odio gli imbecilli e per me sono una razza inferiore». (segue nelle pagine degli Spettacoli) GINO PAOLI S onodue le sensazioni più forti che ho da quando sono na- to: una è quella del dubbio e l’altra quella della provviso- rietà. Ogni mattina è come se nascessi ed ogni sera è co- me se morissi. Con questa impostazione è difficile per me sapere cosa farò domani, se poi si parla a lunga scadenza non so pro- prio cosa pensare. Quello che è sicuro è che continuerò a fare solo quello che sento e che mi diverte fare. Continuerò a cantare in jazz. Ho incontrato quattro amici e tutte le volte che ci ritroviamo è una festa, e quando facciamo musica ci divertiamo come la prima volta. Il jazz è improvvisazione che avvie- ne senza nessuno schema preparato ed è inventare in quel momen- to quello che tu ascolterai. Nel jazz si imparano le parole amicizia e divertimento. Così, finché mi vorranno con loro, continuerò a suo- nare con Boltro, Gatto, Bonaccorsi e Rea. (segue nelle pagine degli Spettacoli) i sapori Erbe di campo, profumo di primavera LICIA GRANELLO e MASSIMO MONTANARI l’incontro Silvio Orlando, il mio dolore nascosto RODOLFO DI GIAMMARCO la memoria Revelli, il riscatto del Mondo dei Vinti GIORGIO BOCCA, MASSIMO NOVELLI e NUTO REVELLI l’attualità Tornare in pista, Armstrong e gli altri EMANUELA AUDISIO e EDMONDO BERSELLI cultura Il naufrago che ispirò Robinson Crusoe OMERO CIAI e SIEGMUND GINZBERG Gino Paoli poeta contro Dopo cinquant’anni di carriera è ancora al centro della scena per successi e polemiche Siamo andati a frugare nel suo archivio per capire i segreti di una creatività sempreverde Repubblica Nazionale

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DOMENICA 1 FEBBRAIO 2009

DomenicaLa

di Repubblica

GINO CASTALDO

GENOVA

G li occhi di Gino Paoli sono oltre l’azzurro. Rasentanola trasparenza assoluta. Un buco bianco che riflette ilpanorama mozzafiato che inonda i balconi della suacasa genovese, in zona Nervi, ai margini della città

burbera e stretta che si intravede in lontananza. Occhi che raccon-tano cinquant’anni di canzoni, vissuti in orgogliosa posizione di al-terità, tra successi clamorosi, abbandoni, avventurose battaglie esi-stenziali e politiche. Un turbine che non finisce mai, neanche ora.Dopo cinquant’anni di onorata carriera, è bastata una nuova can-zone, Il pettirosso, una piccola fiaba sulla pietà umana, e qualcunoha subito insinuato il sospetto di una criminosa indulgenza verso lapedofilia. «È incredibile, sì, ma a questo punto posso dire che alla pe-dofilia aggiungo un’altra cosa. Sono anche razzista, sì, razzista, nelsenso che odio gli imbecilli e per me sono una razza inferiore».

(segue nelle pagine degli Spettacoli)

GINO PAOLI

Sonodue le sensazioni più forti che ho da quando sono na-to: una è quella del dubbio e l’altra quella della provviso-rietà. Ogni mattina è come se nascessi ed ogni sera è co-me se morissi. Con questa impostazione è difficile per me

sapere cosa farò domani, se poi si parla a lunga scadenza non so pro-prio cosa pensare. Quello che è sicuro è che continuerò a fare soloquello che sento e che mi diverte fare.

Continuerò a cantare in jazz. Ho incontrato quattro amici e tuttele volte che ci ritroviamo è una festa, e quando facciamo musica cidivertiamo come la prima volta. Il jazz è improvvisazione che avvie-ne senza nessuno schema preparato ed è inventare in quel momen-to quello che tu ascolterai. Nel jazz si imparano le parole amicizia edivertimento. Così, finché mi vorranno con loro, continuerò a suo-nare con Boltro, Gatto, Bonaccorsi e Rea.

(segue nelle pagine degli Spettacoli)

i sapori

Erbe di campo, profumo di primaveraLICIA GRANELLO e MASSIMO MONTANARI

l’incontro

Silvio Orlando, il mio dolore nascostoRODOLFO DI GIAMMARCO

la memoria

Revelli, il riscatto del Mondo dei VintiGIORGIO BOCCA, MASSIMO NOVELLI e NUTO REVELLI

l’attualità

Tornare in pista, Armstrong e gli altriEMANUELA AUDISIO e EDMONDO BERSELLI

cultura

Il naufrago che ispirò Robinson CrusoeOMERO CIAI e SIEGMUND GINZBERG

GinoPaolipoeta contro

Dopo cinquant’annidi carriera è ancoraal centro della scena

per successie polemiche

Siamo andatia frugare

nel suo archivioper capire i segreti

di una creativitàsempreverde

Repubblica Nazionale

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l’attualitàSeconde volte

28 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 1 FEBBRAIO 2009

Tornano perché rivogliono il loro infinito. Quella partedi specchio che non riflette più. Non solo soldi, gloria,avventura. Ma perché come dice David Beckham: «Iovoglio giocare per sempre». Tornano perché non siscende mai dal proprio mito, al massimo ci si inciam-pa, contenti che sia ancora lì tra i piedi. Tornano per-

ché lo sport ha una sua densità melmosa, per salire ci devi affon-dare, il paradiso può attendere, le pozzanghere no. Perché i tra-guardi sono avanti, ma le partenze dietro. E una cattiva vita è me-glio di una buona: brucia e spaventa di più, non distende, ma nonspreca un attimo. Lo sport è una piega, anzi una piaga da esibire,un segno del cuscino sulla faccia.

Torna Lance Armstrong, trentasette anni, ciclista americanoentrato nella storia per i sette successi consecutivi al Tour de Fran-ce, «la sua gara», dal 1999 al 2005. Correrà anche il Giro d’Italia. Nonavrebbe bisogno di replicare. Ha avuto tutto: amori, figli (il prossi-mo nascerà a giugno), sfortuna (un tumore ai testicoli nel ‘96), for-tuna, polemiche, palcoscenico, buche, curve, salite. E rivuole tut-to, per una giusta causa: per svegliare il mondo e fare in modo ches’impegni nella lotta ai tumori. Fa niente se i segnali, dopo quattroanni di stop, annunciano un disastro: Armstrong è finito 71mo nel-l’ultima tappa del tour australiano, che si è corso lungo ottocentochilometri, e 29mo nella classifica finale, con 49 secondi di ritardosul vincitore, l’australiano Allan Davis. «È stato solo un allena-mento».

Già. Mai sfregiare la propria ombra, mai ammettere che qual-

cosa è passato, e che è inutile partire alla rincorsa. Tornò nel 2001a trentanove anni, dopo tre stagioni di inattività, anche MichaelJordan, immenso campione di basket, sei titoli Nba, terzo realiz-zatore di ogni epoca, dopo un tentativo di riciclarsi nel ‘94 comemediocre giocatore di baseball. Quando se n’era andato, primaancora di spiegarlo alla stampa aveva dovuto convincere l’inqui-lino di Pennsylvania Avenue 1600 che l’aspettava per farsi un siga-ro nella suite 102. Era il presidente Bill Clinton, era gennaio del1999, là fuori c’erano ancora le torri gemelle, il male non aveva an-cora sfiorato l’America, e l’unica circonferenza importante eraquella del canestro. E lui per tutti era quello: un salto senza freni,un cerchio nell’aria, un uomo agganciato ad una nuvola, Air Jor-dan, appunto. Non c’entravano né i soldi né l’avidità. Infatti nontornò con il mantello di prima, con il fedele esercito vincente deiChicago Bulls, che gli passava belle palle, ma con un’armata Bran-caleone, i Washington Wizards, tra le peggiori squadre Nba. Jor-dan era il lifting sulla pelle bruciata dell’11 settembre, il gigante cheavrebbe lottato e vinto i mostri. Questo pensò l’America, che cer-cava la corazza e andò a frugare negli armadi, stanca della sua im-provvisa vulnerabilità.

È tornato molte volte sul parquet anche Magic Johnson, il PeterPan dei canestri, cinque titoli Nba, che a trentadue anni, nel ‘91,scoprì di essere sieropositivo. Era il giocattolo a stelle e strisce pre-ferito, prima, divenne un traditore pronto a contagiare il paese, do-po. Magic perse tutto: sponsor, basket, fama. La sua immagine sisporcò, non era più il giullare del mondo. Tornò per dignità, per di-mostrare che anche un sieropositivo ha forza e diritto di giocare,vinse con il Dream Team i Giochi di Barcellona nel ‘92. Ma moltiavversari cominciarono ad avere dubbi: e se sanguina in campo?A Magic non andava di fare male al suo sport, così lasciò, ripersetutto per la seconda volta. Ritornò nel ‘96, ma era ormai troppo len-to, e ancora nel ‘99 con una squadra svedese, i Magic M7, prima dismettere e di diventare Mr. Johnson, importante uomo d’affaricon ufficio a Beverly Hills.

Lo sport funziona come Dorian Gray, sequestra i corpi dei cam-

pioni, ne congela l’immagine, in una specie di sala di rianimazio-ne che fa a meno dell’anagrafe. Si fa finta di non vedere: riflessi len-ti e rughe veloci. Ci hanno provato tutti: Bjorn Borg, Ray Sugar Leo-nard, Mark Spitz, Katarina Witt, Edwin Moses. Borg il 23 aprile del‘91 si presentò al Country Club di Montecarlo con le vecchie rac-chette Donnay e con un passo avanti che portò tutti indietro.Dov’era il patrimonio tecnico che aveva cambiato il tennis: il ro-vescio bimane, le rotazioni prodigiose, il gioco di gambe? Quelgiorno il gioco di Bjorn sembrò una moviola naturale. Non ebbesuccesso nemmeno Spitz che a quarant’anni non si qualificò aitrials. Pietro Paolo Mennea per diciassette anni primatista mon-diale dei duecento metri tentò un ritorno con la mistica dell’inte-grità fisica, con il primato della mente su quello della biologia. Siritirò nell’81, rientrò per Los Angeles 1984, dove fu deluso dal set-timo posto, lasciò a dicembre, dopo aver accettato per un mo-mento che il dottor Kerr lo sottoponesse a una terapia basata sul-la somatotropina. Pietro si fece iniettare le prime due fiale, poi ri-fiutò e denunciò la cura-doping per ripresentarsi alla sua quintaolimpiade, a Seul nell’88, dove nei quarti di finale abbandonò lagara, lasciando la sua corsia vuota. Anche Edwin Moses, re deiquattrocento ostacoli, 122 successi consecutivi, a trentasette anniha preferito allungarsi la carriera e passare dalla pista alle nevi conil bob nel tentativo di segnalarsi ai Giochi di Albertville nel ‘92.

Spesso si torna perché in realtà non si è mai andati via. Nel nuo-to Dana Torres, a quarantuno anni, tra una poppata e l’altra è riu-scita a stare più che magnificamente a galla. Da perfetta AmericanWoman. Lady Record tornava ai Giochi dopo otto anni di assenza,aveva già lasciato tre volte, per poi ripensarci con la sua frase prefe-

rita: «L’età è solo un numero». Dana ai Giochi di Pechino ha vinto,trascinando la staffetta, la sua decima medaglia olimpica in cinqueedizioni diverse. Impresa mai riuscita a nessuno. Eppure Dana nonaveva conto in sospeso, anzi: a quattordici anni il suo primo recordmondiale; a Los Angeles nell’84 la sua prima esperienza a cinquecerchi, quando Michael Phelps non era ancora nato; una vita vis-suta, tre mariti, una figlia, Tessa Grace, nata nell’aprile 2006; un’o-perazione alla spalla e una al menisco. Il rientro in piscina, proprioquando era incinta, per combattere la nausea. «Preferivo vomitarein acqua, dove mi sentivo a casa, che fuori». E anche molta onestànell’ammettere il costo dell’operazione rientro. «Centomila dolla-ri l’anno, il prezzo del mio staff». Un capo-allenatore, un tecnicodella velocità, uno della forza, due fisioterapisti, due massaggiato-ri, un chiropratico e una bambinaia. La sua arma segreta: esercizi ametà tra lo yoga e le Cirque du Soleil, un’ora di palestra quattro vol-te a settimana e nessuna voglia di risparmiarsi.

Jury Chechi, Signore degli Anelli, ha sofferto per volare. Nel ’92 èil grande favorito dei Giochi di Barcellona, ma un mese prima si rom-pe il tendine d’Achille, vince a Atlanta nel ‘96, un anno dopo si ritira,ma nel ‘99 torna alle gare. Non va ai Giochi di Sydney per un altro gra-ve infortunio, la rottura del tendine brachiale di un bicipite, la car-riera sembra interrotta. Nel 2003 invece torna, per una promessa fat-ta a suo padre, e ai Giochi di Atene è terzo, meritando di più.

Si torna per ricostruire quello che è disfatto, perché incom-piuti, per estrema soddisfazione o per grande disperazione. Ilring è quadrato, ma i pugni sono molto contorti. Mike Tyson eEvander Holyfield ne sono scesi e risaliti molte volte: per sol-di e necessità. Un quotidiano arabo ha annunciato che idue vecchi avversari si sfideranno ad Abu Dhabi ilprossimo 31 ottobre, per una borsa di oltre 34 mi-lioni di dollari. L’ultima volta che si incontraronoTyson gli morsicò un orecchio, lo masticò e losputò. Holyfield ha undici figli da mantenere.Alla fine si torna per quello: per mettersi al ri-paro dal futuro.

EMANUELA AUDISIO

Avere vinto sette Tour de France consecutivi - unico atletaal mondo - non è bastato all’americano Lance ArmstrongQuattro anni dopo, eccolo ripresentarsi al via. Come lui, moltistraordinari campioni inseguono il mito dell’eterna giovinezzae della sfida infinita. Per comprarsi il futuro o perché,come dice David Beckham, vogliono “giocare per sempre”

A CANESTROMichael Jordancon la magliadei Chicago Bullse dei Washington Wizards

A DUE MANIBjörn Borg quandoera il numero 1 mondialee in un suo successivoritorno in campo

Primae dopo

La voglia di tornare in pista

Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 29DOMENICA 1 FEBBRAIO 2009

Il ritorno è un modello letterario, Ulisse checerca Itaca, così come una morfologia del-l’esistenza, uno schema sentimentale. La

realtà è che tutti tornano sempre, che lo voglia-no o no. Tornano gli uomini politici, passandoindenni da un regime all’altro o scavalcando in-teri ventenni e decenni, i “revenant”. Tornano iprotagonisti dello spettacolo, non soltanto del-lo sport, perché ogni ritorno, alla fine, è un ri-torno in scena. Sipari che si riaprono, vecchie fi-gure che si inchinano a ricevere l’applauso dimaniera, ospiti in un talk show che fanno sfog-gio di memoria.

Per dire, ci si ritrova per le mani, inatteso, il li-bro di Arnaldo Forlani Potere discreto. Cin-quant’anni con la Democrazia cristiana, curatoda Sandro Fontana e Nicola Guiso (editoreMarsilio) e non si riesce a nascondere un piace-vole stupore: bentornato, Coniglio mannaro.La riapparizione dei protagonisti della primaRepubblica rappresenta un benefico tuffo neglianni in cui il segretario della Dc poteva parlareper ore senza dire nulla, salvo una fila di verbicome “concorrere” e di sostantivi come “rac-cordo”. Mentre sulle pagine anche più sofisti-cate furoreggiano di tanto in tanto le intelligen-ze politiche del passato, come quella di RinoFormica, indimenticato interprete della «lite fracomari» con Nino Andreatta, e nelle riprese te-levisive si intravedono i profili di semiprotago-nisti d’antan, seconde e terze file imbucate a de-stra e a sinistra.

Quindi ogni ritorno contiene l’idea del revi-val, o del repêchage, e quindi una concessioneimplicita al voyeurismo del pubblico. «Com’èdiventato vecchio…» era il tormentone di GeneGnocchi, che interpretava comicamente ma inmodo mimetico la reazione immediata delpubblico di fronte a ogni riapparizione. Adessoriapparirà fugacemente Mina, nella sigla delFestival di Sanremo, e si tratterà di capire checosa significa questa trovata in una strategiadell’assenza che dura dal 1978, cioè dagli undi-ci concerti a Bussoladomani, e in cui le epifaniesono accuratamente dosate: il commentinosettimanale sulla Stampa e la rubrica di letteresu Vanity Fair, la comparsa in streaming su in-ternet nel 2001 durante una sessione di regi-strazione, i duetti, le partecipazioni speciali.

Tutti modi per realizzare piccoli ritorni, chepossono facilmente assurgere a grandi eventi.D’altronde, non ritorna continuamente Adria-no Celentano, ripresentandosi dopo ogni lon-tananza con invenzioni attesissime e program-mi inevitabilmente scioccanti? Non è vero cheogni programma televisivo del sabato sera odella domenica dedica uno spazio al revival?«Karaoke dall’oltretomba», lo aveva chiamatoAldo Grasso, una specie di esercizio medianicoin cui i “revenant” si rifanno vivi, tornano in car-ne e ossa, si rimaterializzano uscendo dagli ar-chivi elettronici, si rimettono sul proscenio e si

risincronizzano con il pubblico.Anche perché il ritorno rappresenta una spe-

cie di risarcimento contro il tempo che passa.L’assenza di scansioni storiche definite ha tra-sformato le epoche, termine filosofico e sugge-stivo, in decenni, cioè in una locuzione buro-cratica: all’interno dei quali viene comodo indi-viduare momenti o figure in cui la memoria siimpiglia. Può essere l’elezione di un papa, o ad-dirittura “l’anno dei tre papi” come il 1978(Montini, Luciani, Wojtyla), la tragedia del-l’Heysel, l’11 settembre, ma anche semplice-mente quel momento magico in cui Little Tonyfece ascoltare l’attacco pulsante e inconfondi-bile di Cuore matto.

Solo che i papi non ritornano, mentre LittleTony sì, e anche Bobby Solo, e Iva Zanicchi alprossimo Festival in riviera. Per questo la me-moria si corrobora con le riapparizioni. Oltre-tutto, si può anche pensare che l’immenso gia-cimento di Google e di YouTube rappresenti losfondo potenziale di ogni rientro in scena. Vo-lendo, si può far rivivere un comizio di Bill Clin-ton o un passaggio newyorkese di MonicaLewinsky. Un inciampo lessicale di George WBush o un colossale e visionario discorso di Ba-rack Obama. E allora è possibile che il ritorno,oggi, non sia semplicemente una transizionedal passato al presente: le dimensioni si molti-plicano, perché implicano il tempo, lo spazio, ilmateriale, l’immaginario e il virtuale.

Anche per questo, ogni ricomparsa ha suc-cesso quando viene “costruita” mediatica-mente e nel marketing. Non basta che ritorniun protagonista: il neverending tourdi Bob Dy-lan sembra anzi lo strumento per farlo precipi-tare nell’oblio, dissolvendolo nel ruolo di an-ziano rocchettaro che riesce a raccoglie ormaisoltanto i cultori della memoria (e magari desi-dera proprio questo annullamento finale diidentità). Mentre l’inevitabile ritorno, tantoper fare un esempio, dei Rolling Stones rappre-senta un incrocio formidabile di passato e pre-sente, intrapresa multinazionale e deliri locali,soprattutto di vip: quando il ritorno “riesce”, suun palcoscenico in Brasile o in uno stadio eu-ropeo si manifestano insieme gli eroi genera-zionali di Satisfaction e le mummie stupefa-centi di Mick Jagger e Keith Richards, autenti-che reincarnazioni del “mai morto”, Dracula,Nosferatu.

Già, alla fine ogni ritorno contiene in sé qual-cosa di vampiresco. Sangue che si rigenera, in-cubi che crescono o si dissolvono, uscite atto-riali a sipario chiuso per raccogliere gli ultimiapplausi, come pure giocate in campo in cui siintravede il luccichio dell’antica classe, di unapotenza fisica declinata ma non doma, e che sirivolge all’affetto del pubblico per significare:contemplate, o gente, l’estremo miracolo. Chepoi il miracolo avvenga, è un altro discorso.L’importante è ritornare.

Vampiri, mummie, miracolatifenomenologia del revival

EDMONDO BERSELLI

VELOCISTAPietro Mennea, dettola “Freccia del Sud”,alle Olimpiadi di Monaco(1972) e di Seul (1988)

PATTINI D’ARGENTOKatarina Witt vinsedue ori olimpici quandola Germania era ancoradivisa dal Muro

MAGLIA GIALLADue immagini di LanceArmstrong (in basso,con la maglia di primoin classifica al Tour)

PESO MASSIMOMike Tyson all’apicedel successo e duranteil tentativo fallitodi riconquistareil mondiale dei massimi

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la memoriaInchieste celebri

Alla fine degli anni Settan-ta del secolo scorso lacampagna povera delCuneese, come del restoquella di altre zone simi-li d’Italia, sopravviveva

come sacca di miseria e di depressioneabbandonata a se stessa. Il terremotodell’industrializzazione l’aveva spo-polata, rimanevano soprattutto i vec-chi ad aspettare la morte e l’avanzaredella natura, l’intrico dei rovi e dellesterpaglie, tra le cascine e le baite in sfa-celo. Fu nel medesimo periodo che Nu-to Revelli, classe 1919, ufficiale degli al-pini nella tragedia della Russia, coman-dante partigiano e poi scrittore di gran-de sensibilità e di forte impegno civile,pubblicò da Einaudi i due volumi de Ilmondo dei vinti, dove per la prima vol-ta veniva data voce a quei montanari, aicontadini, ai senza storia, agli uominimandati al macello in due guerre mon-diali.

Proprio nelle steppe e nella neve rus-se aveva cominciato a conoscerli con ladivisa grigioverde e le scarpe di carto-ne. Dopo avere scritto L’ultimo fronte,decise pertanto di raccontare le lorostorie. E per anni, munito di registrato-re, spesso accompagnato dalla foto-grafa Paola Agosti, batté a tappeto bor-gate montane, vallate remote, collinedi “malora”, la maledizione contadinanarrata da Beppe Fenoglio. Revellimorì il 5 febbraio del 2004, lasciandosialle spalle un’esistenza spesa a com-battere «l’Italia delle amnesie, dei vuo-ti di memoria, delle rimozioni». Se neandò confidando che nelle terre dei

suoi dimenticati, dei suoi sconfitti, ungiorno potesse ritornare la vita.

Oltre tre decenni dopo l’uscita del li-bro, che risale al 1977, Andrea Fenoglioe Diego Mometti, due giovani ricerca-tori e documentaristi, ne hanno riper-corso i luoghi e hanno raccolto e filma-

to (per una serie di dvd) le testimonian-ze degli abitanti di oggi, con lo scopo difotografare i cambiamenti e gli sviluppi.Gli esiti della loro indagine che si chia-ma “Progetto Aristeo”, in omaggio auna divinità greca dell’agricoltura, ed èstata voluta dalla Fondazione Revelli di

Cuneo con il sostegno dell’assessoratoalla Montagna della Regione Piemonte,vanno nella direzione auspicata da Nu-to. Il «mondo dei vinti» non è più esclu-sivamente un deserto. La campagnadegli umiliati e offesi di ieri diventa oraun’occasione di alternativa alla crisi

dell’industria. E la natura non si cogliepiù alla stregua di un nemico, come ac-cadeva una volta. Lo rivela una buonaparte delle 125 interviste effettuate suimonti cuneesi, in collina, in pianura.Cinque dei testimoni interpellati eranogià stati ascoltati per Il mondo dei vintie per L’anello forte (il libro sulle donnecontadine), sessanta sono discendentidegli uomini e delle donne fatti parlareda Nuto, altri sessanta sono comunquelegati a quei territori.

Per Marco Revelli, il figlio di Nuto,docente universitario di scienza dellapolitica, saggista e presidente dellaFondazione Revelli, «le nuove intervi-ste, questa ricognizione nell’universoche mio padre aveva descritto nel mo-mento dello spegnimento e dell’ab-bandono, dimostrano che i “vinti”, inun certo senso, hanno iniziato a vince-re qualcosa. Loro non ci sono più, mamolti dei discendenti continuano a es-sere un mondo, pur essendo diversi dainonni o dai genitori. Rappresentanoun mondo completamente nuovo, nonomologato alla cultura urbana, consa-pevole dei problemi odierni, in cui pro-segue il legame con la terra e si affacciail desiderio di socialità, avvolti dalla na-tura, standoci dentro in modo umano:quella stessa natura che aveva sconfit-to i testimoni di mio padre».

Adesso un “vecchio” come MagnoMartini, di Castelmagno, contadino-operaio che Nuto aveva intervistato nelluglio del 1970, può dire: «Secondo meun uomo dovrebbe avere la possibilitàdi rivivere tra mille anni, che venga a ve-dere com’è questo pianeta qui. Cosìpotrebbe risolvere qualcosa, se no sia-mo sempre asini uguale. Siamo igno-

MASSIMO NOVELLI

Il riscatto del Mondo dei Vinti

30 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 1 FEBBRAIO 2009

«Vinti perché bastonati da sempre, vinti perché dimenticati dalla società che conta, dalla società ege-mone. Vinti i miei dalla Russia: noi siamo tornati vinti da quella guerra d’aggressione, da quell’av-ventura finita male. Vinti anche i montanari delle mie valli che han dovuto arrendersi di fronte alle

grandi trasformazioni degli anni Sessanta, all’industrializzazione. Tutto il mondo della campagna povera èentrato in crisi, la piccola proprietà contadina ha dovuto arrendersi. Vinti in questo senso.

Io mi sento vicino ai vinti perché non mi piacciono i vincitori, non mi piace la gente del potere e quindi hosolidarizzato nei confronti di questo mondo perché è stato emarginato e che è lì per spegnersi.

Non sono vinti, sono sconfitti da chi è stato più forte, da chi ha guidato le scelte economiche, da chi li haemarginati. Io intanto non disprezzo mai chi è vinto, anzi sono portato a solidarizzare con il vinto. Il vincitoremolte volte, non poche volte, è odioso. Il vincitore che ha stravinto non è simpatico, comunque non mi è con-gegnale.

I servi corrono a servire il vincitore. Io non servo al vincitore, certamente. E non voglio nemmeno atteggiar-mi a un vinto, non mi considero un vinto, ho avuto una vita privilegiata. Sono tornato vinto dalla guerra di Rus-sia e so cosa vuol dire essere vinto: trasformati, con un vuoto nell’animo immenso. Li conosco questi stati d’a-nimo perché li ho vissuti e li ho anche descritti.

Il mondo della campagna povera, di cui mi sono interessato, è un mondo di sconfitti. Sconfitti forse provvi-soriamente, anche se la vita corre in fretta. Io mi auguro che i figli degli sconfitti abbiano la possibilità di tor-nare dove è possibile tornare, dove l’economia regge, dove si può vivere in maniera civile. Io non augurereimai a un giovane di oggi di ripetere la vita di miseria delle generazioni precedenti della montagna: quello no,no assolutamente. Ma che la montagna non diventi soltanto un monopolio di un turismo sbagliato, scombi-nato, da cattedrali nel deserto, da centri turistici paracadutati in un contesto di un deserto. Questa visione midisturba e mi auguro che questo non succeda. Mi auguro che torni la vita».

(Da un’intervista della metà degli anni Ottanta, rilasciata a Marino Sinibaldiper il programma “Antologia” di Radio Tre)

“Sempre bastonati da quelli che contano”NUTO REVELLI

Cinque anni fa moriva Nuto Revelli, che nei primi Settantaaveva girato a lungo con taccuino e registratore la montagnacuneese per documentare la fine di una civiltà contadinaspazzata via dalle due guerre mondiali e dall’industrializzazioneOggi due ricercatori ne hanno ripercorso le tracce,con un risultato a sorpresa...

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ranti, di fronte alla natura siamo igno-ranti». E un quarantenne quale LeleOdiardo, educatore di Venasca-Frassi-no che non rinuncia a coltivare la cam-pagna, afferma: «Il grosso significatoche la montagna ha in prospettiva è ilsuperare questo sistema economico,che non può durare. È il recuperare nelquotidiano, non nel museo, tutta unaserie di valori e di pratiche che possonoessere il mutuo appoggio, farsi l’orto, otessere una rete di relazioni più ampia.Nella società che si sta prospettandonon sarà importante guadagnare dipiù, ma aiutarsi tra le persone, produr-si delle cose. E questo appartiene allacultura della montagna, non alla cultu-ra metropolitana».

Una tradizione rivendicata da ErichGiordano, venticinquenne, nipote diPietro Bagnis e Caterina Arnaudo, duedei «vinti» di Nuto che, nell’ottobre del1971, a una sua domanda rispondeva-no: «Come vivevamo nel 1900? Di mise-rie». Un secolo dopo Giordano spiega:«I miei genitori sono entrambi di origi-ne contadina e hanno studiato, peròhanno sempre continuato ad andare inmontagna a “fare” la campagna: il fie-no, la legna, portare via il letame e tuttoquello che si deve fare. Hanno semprevissuto veramente la campagna, e d’al-

tra parte sono entrambi insegnanti. Lecose non sono in conflitto. Si può be-nissimo essere degli insegnanti e cura-re fisicamente il proprio territorio. Ec-co, questa è tradizione». Mentre Lucia-na Berardi, maestra elementare diPrazzo, avverte che la distanza tra i pa-lazzi del potere e le vere necessità dellamontagna non è stata troppo ridotta ri-spetto al passato: «Non siamo ancoraarrivati a vedere la montagna come unarisorsa. Una volta non se ne parlava. Lepersone più anziane dicono: “Si ricor-dano di noi quando è il momento di vo-tare, per prendere quei quattro voti, oquando c’è bisogno di fare delle specu-lazioni edilizie”. Bisogna capire che lacura della montagna è fondamentaleper la salute della bassa valle e della pia-nura. Ma non basta dare il finanzia-mento. Noi vediamo dare spesso inmontagna finanziamenti che non sonoconsoni al territorio e alla popolazioneche lo abita».

Tre «apocalissi», ricorda Marco Re-velli, cancellarono la campagna pove-ra: le due grandi guerre mondiali, l’in-dustrializzazione degli anni Sessanta.Prosegue: «Mio padre registrò quellascomparsa. Non c’era nostalgia per lavita ai limiti della sopravvivenza, ma in-dignazione per come finiva la civiltà

contadina. Oggi c’è un’antropologiadifferente. Tutti, bene o male, sonoscolarizzati, tutti sono informati. Intrent’anni sono passati secoli. E nei di-scendenti dei “vinti” il rapporto con laterra, con la natura, diviene quasi unsenso di orgoglio e una ragione di ri-scatto. Anche perché i miti degli anniSessanta, come la fabbrica, si sono in-franti. C’è crisi, ci sono disoccupazionee prepensionamenti, si invecchia soli etristi in una casa di periferia. In monta-gna, in collina, invece, si può immagi-nare forse un’esistenza maggiormentedecorosa».

Sono i valori in cui crede Amos Olive-ro, nato nel 1981, ingegnere informati-co, figlio di Maria Grazia Molinero, unadelle testimoni de L’anello forte: «Inmontagna hai la possibilità di perderetanti bisogni. Il desiderio di apparire,che c’è tanto nella cultura moderna,andrebbe a perdersi. Il problema dellavita moderna è che ci sta spingendoverso valori consumistici che ci rendo-no simili a dei cani mossi da un baston-cino. La possibilità di scegliere cosavuoi, e quando vuoi, è decisamente unaricchezza. Sembra quasi di ritornare al-le cose di cui tu hai bisogno, invece diimpuntarti sulle cose che gli altri ti di-cono di avere. È questo il valore».

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 31DOMENICA 1 FEBBRAIO 2009

Ho vissuto per venti mesi, i venti mesi dellaguerra partigiana, dall’8 settembre del‘43 al 25 aprile del ‘45, sulle montagne dei

vinti, fra i montanari del Cuneese, un altro po-polo, povero, arcaico, ma fraterno e fedele. Par-lavamo tra noi la stessa lingua: l’occitano, la lin-gua d’oc, il provenzale dalle Alpi ai Pirenei, maallora chi lo sapeva? Chi nel nostro gruppo sali-to da Cuneo alla borgata Damiani in Valle Granasapeva di stare in uno dei centri della cultura oc-citana, il Comboscuro? Chi di noi diceva bo perdire sì?

Nei primi giorni non ci fu tempo per conosce-re il popolo dei vinti, la guerra di casa in cui veni-vamo trascinati fra terrore e stupore non conce-deva distrazioni. Strana guerra tra l’imprevedi-bile ferocia, gli incendi, le stragi e il paesaggio fa-miliare, i luoghi e le conoscenze di sempre. Era-vamo scesi allo sbocco delle valli nella pianura eda lì guardavamo il fumo degli incendi, a Bovesriconoscevamo le case di campagna dei nostriamici, a volte i tedeschi sparavano cannonateanche nella nostra direzione, perché il terrorearrivasse dovunque, ti passava sopra, nel cieloazzurro e freddo del mattino come un trenomerci, un rombo metallico che ti schiacciava. Esubito tornavano la pace e il silenzio, il disegnodei campi, dei boschi, dei villaggi, intatto.

In quel gelido rovente autunno il popolo deivinti sulle montagne del Cuneese si era ricom-posto, molti degli emigrati a coltivare fiori nelleserre del Nizzardo o della Provenza erano torna-ti nelle valli credendo di trovare riparo dallaguerra. E si trovavano in mezzo alla guerra piùspietata, alla guerra partigiana. Per molti unasorpresa, un’allucinazione, una confusione incui cercavano di sopravvivere: con chi stare? coni partigiani o con i tedeschi? Con chi parlava la lo-ro lingua, con i partigiani. Un riconoscimentoelementare di appartenenza, non politico madecisivo, checché ne dicano oggi gli storici della“zona grigia”, secondo cui gli italiani qualsiasi,anche i montanari, stavano a guardare, aspetta-vano di capire chi avrebbe vinto. A guardare? Madove erano questi storici? Non lo sanno chequando in un paese arrivavano le Brigate Nere ole Ss la gente chiudeva le porte e le finestre, face-va il deserto attorno al nemico?

Fra i vinti ritornati nelle loro montagne c’era-no i coraggiosi e i vili, i saggi e i mattocchi, le roc-ce fedeli e i povericristi. A uno degli storici dellazona grigia ho scritto: «Caro professore, forseuna memoria complessiva e condivisa di queigiorni è impossibile, forse ognuno di noi restafermo alle sue personali esperienze. Ma voglioraccontargliene una, e poi mi dica se non è deci-siva, chiara, convincente. A Capodanno del ‘45con due brigate di Giustizia e Libertà partiamodalla Valgrana per raggiungere con una marciadi oltre cento chilometri, armi e bagagli in spal-la, le colline del vino e del pane bianco, le Lan-ghe. Si camminava per i campi di neve ghiaccia-ta, ci fermavamo per tirare il fiato nelle cascine,per scambiare due parole con i contadini. “Buonanno parin”. “Sì — diceva il parin, il padre dellafamiglia — speriamo che sia l’ultimo”. L’ultimoin cui sulla porta di casa bisognava appenderel’avviso del comando tedesco: “Chiunque ospi-terà i partigiani sarà condannato a morte e la suacasa bruciata”. Ebbene professore, in quei duegiorni che durò la nostra marcia non mi vennemai il terribile sospetto che qualcuno dei conta-dini ci potesse tradire, nemmeno quando ci fer-mammo a dormire in una cascina dei Murazzi esi sentivano passare sulla provinciale i camiondei tedeschi».

Fra i montanari vinti c’erano i forti come i de-boli e i mattocchi. Uno forte come una roccia eraMarella, il taglialegna della Valgrana a cui i tede-schi nel rastrellamento del dicembre ‘43 brucia-rono la casa e la segheria. Andammo a trovarlol’indomani che le macerie fumavano ancora eveniva giù dalle travi e sui muri l’acqua sciolta dalfuoco che ti sembrava che tutto stesse andan-dosene in quell’acqua sporca, e lui ci offriva il vi-no di una bottiglia rimasta intatta e diceva: «Unerrore i tedeschi lo fanno sempre. Mi hanno bru-ciato la casa e la segheria. Non ho più niente daperdere. Posso solo combatterli».

Ma i più forti di tutti erano i mattocchi e gliubriaconi. I mattocchi in quella guerra scono-sciuta avevano occhi febbrili e deliravano. Unodei due fratelli tornati in una grangia sperdutanei boschi di Monterosso in Valgrana, vedendo-ci passare assieme ai soldati inglesi fuggiti da uncampo di prigionia, ci correva dietro gridando alfratello: «Arrivano i rinforzi ai Damiani. Sunsbarcà gli inglès». Si chiamava Pinot ed era uomodi fantasia, ci indicava il luogo in cui avremmomesso l’aeroporto per arrivare in giornata daNizza al fresco. E c’erano gli ubriaconi canterinie invulnerabili, avevano deciso il giorno in cui sa-rebbero partiti per la loro grande ciucca annua-le, e quel giorno partivano, cascasse il mondo ocominciasse un rastrellamento. Il marito dellaPuni, l’ostessa della Margherita, se ne andò giùper il vallone di Combamala proprio il mattinoche lo risalivano gli Alpenjaegernazisti, che lo la-sciarono passare. Eppure lo videro certamente,perché cantava a voce rauca che anche noi losentivamo dalla Margherita. Rimase via per ven-ti giorni e tornò fresco e allegro come era partito,e la Puni fece finta che fosse il giorno stesso.

C’erano anche i dispersi fra i vinti, dimentica-ti in qualche baita diroccata della montagna. Lanotte del 6 dicembre del ‘43, in fuga dai tugnin,insomma dai crucchi di Germania, salii al valicodel monte Bram sotto una nevicata fitta, scesiper il vallone dell’Arma fin che vidi una lucina ebussai alla porta della grangia. Dentro c’era unodei montanari vinti che stava consumando lasua cena, una broda giallastra in cui nuotava unospaghetto bianco. Mi chiese «se volevo favori-re». Lo ringraziai ma preferii andare nella stallaa dormire insieme a due mucche macilente. Nelbuio sentivo i flop delle loro cacche che scivola-vano a terra rasentando i miei scarponi.

Un popolo arcaicofraterno e fedele

GIORGIO BOCCA

“L’importanzache la culturamontanaraassume in prospettivaè la possibilitàdi superareun sistemaeconomicoche non può durare,è il recuperodi valori e praticheche non attengonoalla culturametropolitanaNella societàche si prospettanon sarà importanteguadagnare di piùma prodursi le cose,aiutarsi tra persone”

LE IMMAGINILe fotografiepubblicatein queste paginesono staterealizzatenegli anniSettantada Paola Agosti,la fotografache accompagnavaNuto Revellinelle sue intervistenella campagnapoveradel Cuneese

© Paola Agosti

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Il 2 febbraio 1709, il marinaio scozzese Alexander Selkirk venivaritrovato su un’isola deserta dell’arcipelago Juan FernàndezA lui, dieci anni dopo, si ispirò Daniel Defoe per il suo Crusoe,

ma in realtà il romanzo è la metafora di un naufragiopiù catastrofico: lo scoppio della bolla finanziariadella Compagnia dei Mari del Sud, una storia d’attualità...

CULTURA*

Il veroRobinson

32 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 1 FEBBRAIO 2009

Robinson Crusoe non è solola storia romanzata deinaufragi, delle peripezie edell’ingegnarsi alla so-pravvivenza di un mari-naio avventuroso. Ha an-

che a che fare con un naufragio econo-mico, con l’esuberanza prima, poi losgomento e infine la speranza del salva-taggio dalle conseguenze dello scoppiodi una bolla finanziaria. Il più famosodei romanzi di Daniel Defoe fu pubbli-cato nel 1719. In coincidenza con la cri-si, che poco dopo si sarebbe trasforma-ta in catastrofico naufragio, della Com-pagnia dei Mari del Sud, di cui pratica-mente lo scrittore era un dipendente,pagato tanto a cartella per promuover-ne le azioni. Sfioriti i tempi delle pro-spettive illimitate di arricchirsi col com-mercio marittimo, riuscì a produrre uncapolavoro sull’argomento del comenon ci si deve disperare quando le cosevanno male e si può, con perizia, pa-zienza, perseveranza e, certo, anche pa-recchia fortuna, sopravvivere ai peggio-ri disastri, e magari guadagnarci pure.

La South Sea Company, era, nelle in-tenzioni originarie, un colossale pianodi salvataggio di un’economia naziona-le disastrata. Non solo e non tanto un“pacchetto” di stimolo, ma un’opera-zione per alleggerire il debito pubblico,insomma un intervento governativoche prometteva due piccioni con una fa-va. Le guerre con la Francia avevano ero-so il tesoro britannico al punto che, dal1707 in poi, quasi un terzo delle entratefiniva coll’essere inghiottito dal serviziosul debito, gli interessi. Poi si sarebberoinventate le svalutazioni e, quando nonsi può svalutare, i fallimenti (un abatefrancese di quei tempi aveva già capitotutto: «Una bancarotta di Stato è cosanecessaria, una volta al secolo, per im-pedire ai privati di essere troppo ricchi,ed allo Stato di essere troppo povero»,scrisse).

Ma il tory Robert Harley nel 1711 pro-

pose un’idea che pareva anche miglio-re, anzi geniale: far assorbire l’intero de-bito pubblico britannico da una nuovasocietà per il commercio con l’Americalatina. A quei tempi a Cile, Argentina,Perù, Brasile ci si riferiva genericamen-te come “Mari del Sud”. Così nacque laCompagnia dei Mari del Sud, le cui pro-spettive erano così brillanti che il pub-blico fece a gara a sottoscriverne le azio-ni. Oltre a fornire merci britanniche,l’attività più redditizia della nuova com-pagnia sarebbe stato il subappalto deltraffico di «negri sani, solidi, di ogni di-mensione» per le piantagioni sudame-ricane.

Non avevano fatto i conti con un det-taglio: quando le amministrazioni colo-

SIEGMUND GINZBERG niali locali nel 1714 respinsero l’Asiento,l’autorizzazione al traffico di schiavi cheera stato concesso da Madrid, le cose co-minciarono ad andare male. Finché tut-ti ci guadagnavano non ci si faceva caso,ma a quel punto ai diminuiti profitti siaggiunsero gli scandali: venne fuori chela Compagnia finanziava e corrompevai politici, si diffuse la voce che Lord Bo-linbroke si teneva il 7,5 per cento per lesue “consulenze finanziarie”, la Reginaaddirittura il 25 per cento. Di lì a poco lasuccess story della Compagnia dei Maridel Sud (il fallimento è del 1720) sarebbepassata alla storia delle manie e specu-lazioni finite male come la gran «Bolladei Mari del Sud».

Defoe aveva ben presente tutto que-sto. Era cronaca dei suoi giorni. Per an-ni aveva scritto su commissione una ca-terva di articoli e pamphlet per pubbli-cizzare le opportunità di investimento.«Scrivere di commercio era la puttanache mi aveva tirato scemo», sarebbe sta-to lui stesso ad ammettere. Ma il climaera cambiato. Ora doveva spiegare i ri-schi e le perdite. A rileggere il romanzointero — non i “sunti” in cui ci è stato ro-vinato come letteratura per bambini —colpisce l’abbondanza di inventari mi-nuziosi, conti, partite di dare e avere, adun certo punto c’è persino un bilancio,su due colonne, come in ogni bilancioche si rispetti, del suo dare e avere nellavita, un rendiconto «molto imparziale,da debitore e creditore, delle soddisfa-zioni ricevute contro le sofferenze pati-te». Il naufrago sembra quasi un rispar-miatore alle prese con gli estratti contodei Mutual Funds. Il succo è che potevaandare anche peggio, e che comunquec’è tempo per rifarsi, anche se tra ven-totto anni (il tempo che rimane nell’iso-la), e poi magari rischiare di nuovo tut-to.

Fallita una “strategia” se ne tentaun’altra. C’è chi ha paragonato gli sforzidella Compagnia dei Mari del Sud peraggirare le difficoltà e tenersi a galla aglisforzi da parte di Robinson Crusoe di co-struirsi una canoa scavando un albero.

Ci metteventi giorni a ta-gliarlo, quattordici per libe-rarlo dalla scorza e dai rami, un mese perscolpire uno scafo, tre mesi per scavar-ne l’interno. Per vararlo decide ad uncerto punto di scavare addirittura un ca-nale. Alla fine rinuncia, dopo aver calco-lato che per scavare il canale gli occorre-rebbero dodici anni. «Ero così concen-trato sul viaggio per mare, che non ave-vo preso in considerazione come farglilasciare la terra», annota. Speriamo nonsia il caso dei nostri ingegneri del salva-taggio dell’economia.

Il suo Robinson, già reduce da un nau-fragio al largo delle coste africane, fattoschiavo dai pirati musulmani, poi salva-to da un capitano portoghese, era finitoa fare il piantatore in Brasile. Ma «accre-scendo affari e ricchezza, la testa co-minciò a riempirsi di progetti e impreseal di là della mia portata; cosa che effet-tivamente porta a rovina le migliorimenti nel business». Così si era avven-turato nel nuovo viaggio naufragato sul-la fatidica isola, con un preciso obietti-vo: procurarsi, appunto, schiavi in Afri-ca. È uno schiavista di buon cuore, anzibenefattore di schiavi, intendiamoci,del tutto «volontari», dal ragazzino as-sieme a cui scappa dai pirati islamici, eche si affretterà a cedere al capitano suosalvatore (non prima di accertarsi che ilpoveretto è consenziente e che verràmesso in libertà scaduti dieci anni), albuon Venerdì eternamente ricono-scente per essere stato salvato dai «can-nibali». È un uomo timorato di Dio, chesi dà da fare per salvargli anche l’anima,oltre che «civilizzarlo», anche se si trovaun po’ in difficoltà a rispondere alle sueobiezioni sul come mai, essendo Dio co-sì più potente del Demonio, non riescea renderlo inoffensivo. Non è un crocia-to, non si sente affatto investito dellamissione di combattere il Male. Perquanto inorridito dai cannibali terrori-sti, non se la sente di «giustificare la con-dotta degli spagnoli in tutte le loro bar-barie praticate in America, dove hanno

Quel pirata naufragosimbolo del crac

Le prospettivedella South SeaCompany, coinvoltanel traffico di schiavi,erano molto brillantie la gente fece a garaper sottoscrivernele azioni

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 33DOMENICA 1 FEBBRAIO 2009

sterminato milioni». Anzi, arriva allaconclusione che «né in principio, né co-me scelta politica» è fatto suo interveni-re da giustiziere in queste faccende, al-meno finché non è lui stesso ad essereminacciato. Imperialista, ma moderatoinsomma.

Alexander Selkirk, il personaggio rea-le cui probabilmente Defoe si è ispiratoper il suo Robinson, faceva di mestiere ilpirata, sia pure con licenza di Stato, erasu una delle navi di William Dampierquando fu abbandonato per insubordi-nazione su un’isola deserta. Tra pirati ecapitani di finanza la distinzione era an-

cora menonetta che og-g i g i o r n o .Defoe invece si gua-dagnava da vivere facendo ilgiornalista. Era pagato a cartella. Chis-sà se è per questo che tende, anche neiromanzi, a tirarla lunga. Da giovane par-teggiava per i “dissenters” e i liberali,contro i conservatori, e finì per questopersino in galera. Era stato salvato da unuomo di destra moderato, proprio ilLord Harley inventore della Compagniadei Mari del Sud, cui rimase riconoscen-te per il resto della vita. Barcamenando-

s i -tra un parti-to e l’altro, riuscendo spesso adispiacere a entrambi. Il Crusoe era na-to come pezzo di propaganda a favoredel suo protettore. Ma forse non gli sa-rebbe dispiaciuto starsene per un po’fuori da quel mondo, per conto suo, co-me il suo Robinson.

ISLA ROBINSON (Cile)

Non è l’isola narrata da Defoe, ma l’epo-pea del naufrago nasce qui, nell’arcipelago diJuan Fernandez, in mezzo al Pacifico, a sette-cento chilometri dalle coste cilene. Lui si chia-mava Alexander Selkirk ed era un marinaioscozzese, anzi un corsaro che batteva i mari delSud. Nel 1704 si era imbarcato su un galeone, ilCinque Ports, che si fermò in questo vulcanicoe abbandonato arcipelago per fare scorta di vi-veri e d’acqua. La storia racconta che Selkirkfosse preoccupato per le condizioni della navee che cercò di convincere alcuni compagni a re-stare sull’isola con lui. Non ebbe successo maneppure volle risalire sul galeone. Il CinquePorts affondò qualche settimana dopo e Selkirkrimase da solo sull’isola per quattro anni e quat-tro mesi, dal 1704 al 1709, quando un’altra na-ve corsara arrivò sull’isola e lo riportò in patria.

L’isola di Selkirk, la più grande del piccolo ar-cipelago, si chiamava fino a qualche anno faMas a Tierra perché è quella più vicina quandosi arriva dal continente. Poi è stata ribattezzata,per motivi turistici, Isla Robinson. Mentre l’al-tra isoletta, questa sì ancora completamentedisabitata, che si chiamava Mas Afuera, oggi èl’Isla Selkirk anche se, molto probabilmente, ilcorsaro scozzese non la vide mai. Per arrivarefin qui bisogna salire su un piccolo aereo. Arri-vati all’aeroporto dell’Isla Robinson il resto delviaggio si fa a piedi e poi in barca fino a una pic-cola baia abitata. I residenti oggi non sono piùdi seicento, discendenti da coloni spagnoli, te-deschi e inglesi, ma si dedicano a un’attivitàmolto redditizia: la pesca dell’aragosta.

Turismo escluso, c’è solo un alberghettoaperto quattro mesi all’anno, l’altra attività del-l’isola è la caccia al tesoro. Un miliardario ame-ricano trascorre, da sei o sette anni, diversi me-si nell’arcipelago scavando buche in cerca deitesori dei corsari. Lo si può vedere al tramonto,tutte le sere, quando torna al paesello con la pa-la in mano, una borsa piena di vecchie mappee il cappellaccio alla Indiana Jones, seguito daquattro o cinque giovani locali che contrattaperché lo aiutino nelle sue avventure. Tempofa, un’impresa cilena costruì addirittura un ro-bot sensibile ai metalli, ma quando il ministrodella Cultura spiegò che qualsiasi cosa avesse-ro localizzato, per legge, sarebbe stata pro-prietà dello Stato, si rifiutarono, tra le protestedei residenti, di metterlo in funzione.

Selkirk visse principalmente in una grotta,che si può visitare, non lontano dalla baia oggiabitata e, all’ingresso del paesello è stata co-struita un’enorme statua in legno del famosocorsaro. Alla sua epopea sono stati dedicati nu-merosi libri — il primo si chiamava La storia delvero Robinson Crusoe — e film. I dettagli dellavicenda che vi si racconta variano a seconda delnarratore ma tutti concordano sul fatto cheSelkirk, quando rimase solo, soffrì per mesi diuna profondissima depressione e si nutrì solodi molluschi e piccoli pesci. Poi si addentrò neiboschi dell’isola, costruì delle piccole armi, einiziò a uccidere pecore selvatiche grazie allequali non solo poté nutrirsi ma anche ripararsidal freddo. Per ben due volte, nell’arco di quat-tro anni e mezzo, Serlkirk vide altre navi appro-dare sull’isola ma erano galeoni spagnoli e sinascose per non essere scoperto. Tornò sullaspiaggia solo nel febbraio del 1709 quando, dal-l’alto del suo rifugio, vide sventolare la bandie-ra britannica.

Nei maridella solitudine

OMERO CIAI

ATLANTEI disegni e le mappe di questepagine sono tratti dall’Atlanteantico di William Hack(1655-1708) del marea sud dell’America

PRIME EDIZIONIIl disegno grandeè un’illustrazionedella prima edizionedi Robinson Crusoedel 1719; accanto,pagine del libroThe Life andAdventuresof Alexander Selkirk,the Real RobinsonCrusoe del 1835

• IL BLUFF DEI TREMONTI-BONDDoveva essere emergenza ma i primi due decreti restano inutilizzati, il terzo è ancora in gestazione.Con costi per le banche giudicati finora troppo alti. I dubbi di Abi e Banca d'Italia

• OBAMA TIRA LA CORSA ALL’AUTO VERDEDopo le promesse del neopresidente americano, riparte in tutto il mondo la sfida a consumare meno e utilizzare combustibili rinnovabili

• LA GUERRIGLIA DELLE PAY TVMediaset che oscura i suoi canali su Sky è l’ultima mossa all’linterno dello scontro infinito tra i due protagonisti

• BIG MAC SI METTE A DIETA PER CRESCEREMcDonald’s a prova di crisi: crescono i clienti, il fatturato tiene grazie agli investimenti sui menù dietetici

Nel numero in edicola domani con

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Una giornata nella sua casa genovese ripercorrendo, con l’aiutodei fogli su cui sono vergate le parole di cinquant’anni di successi,una straordinaria carriera “contromano”. Da “La gatta”

alle polemiche recentissime per “Il pettirosso”. E con un dolore da confessare:“Porto un senso di colpa per il suicidio di Luigi Tenco. Ho sempre pensato chenel suo gesto ci sia stata la voglia di imitare il mio tentato suicidio, tre anni prima”

SPETTACOLI

34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 1 FEBBRAIO 2009

(seguedalla copertina)

«Ma è che nessu-no — continuaPaoli — legge lecose per quelloche sono. Nellacanzone non

c’è ombra di perdono o di giustificazioni.Nessuno lo ha detto, ma è ovvio che contutti quei rossi sparsi qua e là il riferimentoè a Cappuccetto rosso, e a me quando erobambino mi giravano i coglioni che il cac-ciatore ammazzasse il lupo, stavo con gliindiani e quindi stavo anche dalla parte dellupo. Io racconto di un povero vecchiosquilibrato, che tenta una violenza, manon gli riesce e anzi nel tentativo muorestecchito, così alla bambina alla fine vieneun moto di tenerezza... tutto qui».

È uno che non molla mai, l’età non con-ta, un vecchio guerriero scamiciato congenuino accento genovese e la sigarettasempre a portata di mano. La battagliacontro l’imbecillità sembra uno dei puntifermi della sua vita. E un altro, più sor-prendente, è la famiglia. Intorno al tavoloe al profumo di superbe trofie al pesto, siriuniscono tutti: la moglie Paola Penzo,premurosa, accogliente, con lui da decen-ni; due dei quattro figli, il più grande, Nic-colò, simpaticissimo, coi capelli minac-ciosamente pettinati a formare una crestaverso l’alto, felice di aver appena ricevutovia posta una chitarra Dean a freccia, daperfetto metallaro; suocera, manager ePaoli a capotavola, anarchico e benevolopatriarca, che benedice e racconta l’enor-mità della sua storia. «Ho sempre fatto ca-sino, sono fatto così. Mi ricordo che nel1964 a un certo punto venne fuori Saporedi sale. Andai al Cantagiro e arrivai ultimo.Ma subito dopo il pezzo partì a scheggia,

una cosa folle, un successo che non si eramai visto, ero diventato un divo del rock,era un momento che le più belle donne d’I-talia erano con me, avevo le macchine chevolevo e quindi, per come sono fatto io,qual era la cosa giusta? Bum, mi sono spa-rato». Era per vedere che succedeva, disseallora alla stampa incredula, mentre tuttipensavano a storie di donne, o chissà qua-le altro mistero nascosto.

Dal polsino della camicia spunta un ta-tuaggio. «È un’aquila indiana, me lo sonoritrovato dopo una sbronza a Torre An-nunziata, quest’altro fu a Hong Kong,un’altra sbronza, e lo stesso per il delfinoche ho sulle spalle». La sua è stata una vitadi incontri, i francesi innanzitutto («Brelmi cercò lui perché voleva che traducessile sue canzoni, e poi diventai amico diFerrè. Ma il mio vero maestro, che non homai conosciuto è stato Charles Trenet, ilpiù grande di tutti, perfetto in ogni canzo-ne»), poi i suoi compagni di avventura aGenova, il trasferimento alla Rca di Roma,dove incontrò Morricone. «Chiesi io di fa-re il disco con lui, era eccezionale, era tim-brico. Facemmo insieme anche Sapore disalee ci suonò Gato Barbieri. Successe per-ché il regista Gianni Amico, che era amicodei musicisti brasiliani, mi segnalò che aRoma c’era Gato Barbieri e che era in diffi-coltà, io dissi: fallo venire subito».

Non sembra, ma i cinquant’anni di car-riera sono lì, aleggiano nella casa affollatadi quadri e soprammobili simbolici. Digatti ce ne sono tanti, di tutte le fogge, ditutti i colori, uno campeggia sul pianofor-te spianato davanti alla finestra che guar-da al mare. Ma come è iniziato tutto? Si di-ce sempre «i cantautori genovesi», ma ifondo non era un gruppo vero e proprio,casomai un branco di cani sciolti legati tal-volta da burrascose e intense amicizie.C’era la consapevolezza di rivoluzionare lacanzone italiana?

«Stiamo attenti», racconta mentre sfo-gliamo le cartelle che raccolgono tutti isuoi manoscritti. «Abbiamo tutti comin-ciato col rock’n’roll e quindi con delle can-zoni di merda... io, Gaber, Lauzi. L’unicoad aver cominciato in modo diverso è sta-to Umberto Bindi, ma ognuno di noi, sin-golarmente, ha pensato che la canzonepoteva essere un mezzo per esprimersi,così come la pittura e la poesia: questa di-gnità da dare alla canzone era una cosa chepretendevamo. Oggi sembrerebbe chetutti ci volevano bene, ma non era mica co-sì. Quando uscì Sassi, doveva essere il 1961,ci fu uno che scrisse con disprezzo: ma chevuole questo Paoli, vuol fare le domandeesistenziali, un cantante? E come si per-mette? Come se un cantante per forza do-vesse parlare di belinate, che fidanzata haie così via. La prima mossa che feci mialienò tutta la stampa, era il Festival di San-remo del 1961, portavo Un uomo vivo,Nanni Ricordi preparò una conferenzastampa, io arrivai vestito alla cazzo di cane,come al solito mio, con gli occhiali scuri, micriticarono perché avevo le scarpe spor-che, cominciammo e le domande erano:che pensi dell’amore? Sei fidanzato? e cosìvia... Io dopo un po’ dissi: se avete delle do-mande intelligenti bene, se no arrivederci,e me ne andai, quindi mi amarono subito,chiaro? A noi ci massacravano. Con Um-berto all’inizio era diverso, aveva una cul-tura da conservatorio, classica, che noinon avevamo, quindi era rispettato di più.Poi commise l’errore di arrivare a Sanremocon la pelliccia e un anello con un brillan-te. Ci fu un giornalista che lo coprì di ridi-colo, lo descrisse come un culo, senzaneanche dirlo esplicitamente, seguito poida tutti gli altri, e questo lo distrusse: comeè noto, dal ridicolo non esci. Umberto di-ceva sempre: se nascevo cinque anni do-po, sarei stato Renato Zero».

Sfogliando le cartelle escono foglietti

GINO CASTALDO

PaoliNell’archiviodel cantautore

Gino

MicroMega 1/09Il partito dei senza partito

Il dissenso cineseObama gattopardo?

I santini del veltronismo(Fabio Fazio e non solo)

I “Memores Domini” e Mammona La questione morale e il Pd

Censura al “Corriere”Precari e contratto

Nucleare tra illusione e tabùDilemma Palestina

per chi non si accontentadel pensiero unico

Repubblica Nazionale

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scritti a matita, testi incasinati e corretti piùvolte, sovrapposti, da uno spunta una pri-ma versione di Che cosa c’è, mischiata adaltri versi che riportano a Il mio mondo.Emerge un vero e proprio tesoro della can-zone, piccoli dattiloscritti in cui leggiamo:Un cielo in una stanza, Sassi, un frammen-to esiguo con un segno di matita rossa sucui spicca la frase: Senza fine. C’è perfinoun appunto su carta intestata del Parla-mento. Emerge il metodo, o se volete il nonmetodo, l’affidare a fogli sparsi pensieri,sprazzi di poesia, che attraverso passaggisuccessivi sono diventati le canzoni checonosciamo.

«La cosa buffa è che io non avevo nessu-na intenzione di fare il cantante, e neanchel’autore, volevo fare il pittore, ero convinto,la mia vita era quella, e ancora adesso nonso se ho fatto bene o male. Insomma non cipensavo, andavo a cantare a Milano, ognitanto, mi davano ottomila lire a sera, finchéun giorno dissi: mi scrivo una cosa mia, escrissi La gatta. In tre mesi ero diventato uncantautore, il termine lo inventò MariaMonti. Un giornalista del Corriere le chie-se: ma come li definiamo questi, e lei disse,mah? cantautori? e da allora fummo i can-tautori. Mi ci ritrovai dentro, ma continua-vo a lavorare come grafico, e continuai finoal 1962. Con la versione di Mina de Il cieloin una stanza arrivarono un bel po’ di sol-di, ma da buon genovese non mi fidavo econtinuai a lavorare, poi non volevo fareserate, quindi dove li guadagnavo i soldi?Mi convinse Sergio Bernardini, aveva unospettacolo che girava col nome di Bussolaon stage, mi chiamò e io dissi va bene. Fa-cevamo serate nei posti più assurdi, mi ri-cordo che andai in un paesino, e sul mani-festo c’era scritto: dai trionfi di Sanremo al-la Sala Edera di Bagnacavallo. Oppure c’e-ra quello che veniva sotto il palco e mi dice-va: maestro, mi faccia un valzer di Casadei.Certo, dicevo io, e cantavo Senza fine, che

alla lettera è un valzer, e a loro an-dava bene, erano tutti contenti,allora i valzer erano comunque diCasadei».

Da un altro cassetto spuntauna vecchia cartolina, la primadella sua carriera, un giovanis-simo Paoli con accanto unagattina, e poi ancora altri fogli,una montagna di versi, afori-smi, pensieri, sembra di vederscorrere l’inizio della canzo-ne italiana moderna, i baglio-ri di una nuova consapevo-lezza che si stava insinuan-do nel leggero mondo dellacanzone. Sono i testi diquella che, in mancanzad’altro, fu l’educazionesentimentale del Paeseche stava dimenticando laguerra ed esplodeva nelboom economico.

«Per cominciare, questecanzoni hanno sottolineato il valore delsentimento e dell’emozione. La questioneè soprattutto di linguaggio. La prima cosa,cinquant’anni fa, fu quella di usare un lin-guaggio che fosse più comprensibile e raf-finato di quello che veniva usato, e nonparlo solo delle canzoni, un linguaggio dirottura. Ma la nostra grande chance di al-lora è che non ci prendevamo sul serio, ciprendevamo per il culo a sangue, non c’èmai stato un momento in cui uno di noi sela tirava, perché subito gli altri lo massa-cravano. E comunque c’erano persone dienorme valore che hanno avuto il coraggiodi affrontare le peggiori cose della vita conuna capacità di ironia e una forza incredi-bili. Bruno Lauzi è uno di questi, a vederloera un trappolo del cazzo, ma poi era un gi-gante. Il giorno prima che morisse an-dammo a trovarlo, io, Reverberi e Calabre-se. Non parlava più quasi, le gambe enor-

mi, bisbigliando mi disse: que-st’anno al Tenco mi premiano,vacci tu, tanto sarò morto, fam-mi fare una bella figura... eh? Cimisero anni al Tenco, perché se-condo loro era di un’altra par-rocchia, ma lui le sue idee se leportava avanti, non chiedevaaiuto a nessuno. Una giornalistagli chiese: ma perché voi cantau-tori fate sempre canzoni tristi? Luirispose: è perché quando scopia-mo non sappiamo mai dove met-tere la chitarra. E poi scriveva daDio. Uno dei pezzi che gli ho sem-pre invidiato era Se tu sapessi.».

Ma il più tormentato di questirapporti era con Luigi Tenco,amico fraterno ma anche in-quieto, rivale in amore, compe-titivo, nei confronti del qualePaoli nel tempo ha sviluppatouna sorta di senso colpa. Maperché? «Perché Luigi era unaspecie di fratello più giovane,guardava a me come un pun-to di riferimento. Anche perquesto si fece la storia conStefania Sandrelli, io mi eromesso con lei che aveva di-

ciassette anni e lui disappro-vava perché ero sposato e così pensava di

spingermi a tornare con mia moglie.Quando si è ammazzato ho pensato chel’atto, inconsciamente o consciamente,fosse stato anche imitativo, per il mio ten-tato suicidio di tre anni prima. Quando misuccesse, lui è rimasto ore fuori dalla portaper sapere se morivo o vivevo, rimase mol-to scioccato, e quindi ho pensato che inquel gesto ci potesse essere un elemento diimitazione, solo che io mi sono svegliato eho preso gli applausi, lui no».

Non è incredibile, a pensarci dopo tantianni, che il festival non si sia fermato, visto

che Tenco era lì, in gara? «Una cosa è certa,se c’ero io il festival si fermava, mi ricordoche tre giorni dopo incontrai Dalla, e lo at-taccai al muro: ma come tu che sei il miodelfino, ti ho tirato fuori io, e tu vai lì a can-tare Bisogna saper perdere... ma sei matto?Qualcuno ci provò, ma lo spettacolo devecontinuare, e questa è un’idiozia clamoro-sa». Dallo studio siamo passati all’esternodella casa, terrazze e lembi di giardino stra-colmi di piante. Paoli è anche un intendi-tore, cura personalmente ogni fiore, ognibonsai, le mimose che splendono al soled’inverno.

Sembra assurdo che dopo tanti anniPaoli sia ancora lì, con la voglia di suonarein giro, incidere dischi, festeggiare cin-quant’anni di carriera. «Intendiamoci,non li ho celebrati, me li hanno celebrati, ècome il compleanno, mia moglie dicesempre: festeggiamo, io dico no... mai... sefosse per me non si farebbe nulla. Ma a dir-la tutta la voglia mi è passata più volte: daquando morì Luigi nel 1967 fino al 1970avevo smesso, di nuovo smisi alla fine deiSettanta, poi per un motivo o per un altroripartiva tutto. Alla fine ho capito alcunecose. Intanto che non sono uno che piacea tutti. Ho molti contro di me, e si vede an-che con la storia de Il pettirosso, insommasi vede che sto sulle palle a una parte dellagente. Ma c’è una cosa che ho imparato neiconcerti. C’è stato un lungo periodo in cuibastava che uno del pubblico mi facesseincazzare e io mollavo tutto e me ne anda-vo, tiravo i microfoni, un inferno. Ma allalunga ti rendi conto che quando hai il mi-crofono in mano vinci sempre tu, e poi chetre imbecilli non fanno il pubblico, devo ri-spettare tutti gli altri. Ora da molto tempodi queste cazzate non ne faccio più. Vero?»E guarda Aldo Mercurio, il suo fidatissimomanager che ha uno sguardo di infinita pa-zienza, come a dire: sì, è vero, ora va tuttobene, ma quante ne ho passate...

(segue dalla copertina)

Continuerò anche ad inseguire la poesia,questa signora così sfuggente

e incomprensibile che si nasconde in mezzoalle parole e che poche volte riesci a catturare.

Continuerò ad inseguirla e non vorròaccontentare nessuno, né mi curerò degli

imbecilli perché tanto gli imbecilli nonavranno mai il bene di conoscerla.

E continuerò a cercare di essere onestoe non furbo.

E continuerò a cantare per quelli chevogliono ascoltare la mia piccola canzone

solitaria, che viaggia da sola fuoridal branco, fuori dai cori, lontano

dalle bandiere e dalle certezze.

La mia piccolacanzone solitaria

GINO PAOLI

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35DOMENICA 1 FEBBRAIO 2009

SENZA FINEIn alto, il testo di Che cosa c’è; un appunto inedito: variazionisul Padre nostro; in bassoa sinistra, un altro appuntoautografo; nell’altra paginadall’alto, i testi di Senza finee Ti lascio una canzoneLa foto di copertina è la primacartolina di Gino Paoli

FRAMMENTOA sinistra, un frammento:Tabarca; sotto, il testode La gatta

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Un vecchio guerrieroscamiciato,accento genovesee sigaretta semprea portata di mano

Repubblica Nazionale

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36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 1 FEBBRAIO 2009

la societàNuovi orizzonti

Per la prima volta nella storia della scuola italianaagli esami di maturità gli studenti dei licei linguisticiaffronteranno una prova scritta di mandarinoUn risultato del boom che stanno conoscendo i corsi,pubblici e privati, di questa lingua. Nella convinzioneche sia un passaporto per fare carriera e cambiare vita

MILANO

Se ne sono accorti tutti quando il mini-stro dell’Istruzione, Mariastella Gelmi-ni, nel comunicare via You Tube la scor-sa settimana le materie d’esame per le

maturità, ha ammesso per la prima volta il cinesecome prova scritta per i licei linguistici. Pur in pe-sante ritardo rispetto ad altri paesi, lo studio dellalingua cinese in Italia è in pieno boom. E se nel 2009saranno ancora pochini gli studenti alle prese congli ideogrammi alla maturità (una dozzina forse alManzoni di Milano e al Pigafetta di Vicenza, dovecomunque lo studio del cinese nelle quinte è sol-tanto a livello di “terza lingua”), in un futuro pros-simo verranno a maturarsi studenti che hannoscelto l’opzione curriculare per la durata di cinqueanni. E così i tre licei d’avanguardia — oltre a Man-zoni e Pigafetta, il Deledda di Genova — comince-ranno a sfornare ragazzi (soprattutto ragazze) chela «lingua del futuro» la masticheranno con qual-che dimestichezza.

Entriamo in una seconda del Manzoni, banchidisposti a ferro di cavallo attorno alla cattedra. Per-ché avete scelto il cinese? Risponde Lucrezia: «Èuna cosa nuova. La Cina si sviluppa economica-mente e qui ci sono tanti di loro». Però come lavorosogna di fare la regista a Hollywood. Anche Federi-co tiene d’occhio la crescita economica, ma inmente ha di studiare psicologia o giornalismo. Cisono tre studentesse con tratti somatici orientali,molto più concrete dei loro compagni. Claudine èstata convinta ad affrontare il cinese dalla mamma,che è di Singapore, e vuol fare l’avvocato di dirittointernazionale. Sofia è di madre giapponese e, con-tro il parere di mamma, ha deciso di studiare il ci-nese «perché le due lingue hanno la stessa matrice»(e vuol diventare interprete simultanea). XiaoFeng: «Sono cresciuta in Italia e ormai non parlo piùmandarino. Ho provato qualche corso privato, mami facevano solo perdere tempo e soldi. Così mi so-no iscritta qui». Cosa farai da grande? «Voglio tor-nare a vivere in Cina». Se gli si chiede se lo studio èdifficile, quelli della seconda A rispondono in coro:«Bestiale!». Uno per tutti: «Ci vuole costanza. Senon stai sempre in pari, non capisci più niente».Qualche ragazza alza gli occhi al cielo: «Sembravacosì bello all’inizio...».

La professoressa di cinese, Claudia Ambrosini,smonta un po’ le motivazioni della scolaresca: «Sì,va bene, la Cina è una potenza economica e cono-scerne la lingua può aprire molte strade, ma questoè il parere dei genitori. Per i ragazzi vale di più la sen-sibilità new age, il gusto esotico. Per dirla con loro,studiare cinese è figo. Poi si accorgono che non èuna passeggiata e boccheggiano. Ma non è nem-meno la fine del mondo. È vero che ci vuole memo-ria, soprattutto visiva, ma un adolescente ce la fabenissimo. Cinque anni sono il minimo per impa-dronirsi dei fondamenti e non bisogna smetteremai di studiare».

LE IMMAGINI

Le immagini di questa pagina sono tratte dal libro Il mio abbecedario cinese, illustrazioni di Catherine Louis, calligrafie di Shi Bo (L’ippocampo, 2007)

Quelli che puntano sul cineseENRICO BONERANDI

Insomma, è dura. A livello universitario, nei quat-tro atenei di Milano, Roma, Napoli e Venezia chehanno facoltà e corsi di lingua — ma si stanno affac-ciando anche realtà minori, come Firenze, Torino,Pesaro e Como — gli studenti di cinese sono intornoa cinquemila. Il consorzio Almalaurea ha verificatoche 1.257 laureati nei curricula sostengono di cono-scere bene questa lingua. Che si è affermata a spesesoprattutto del giapponese, da quando l’economianipponica ha avuto una curva discendente. L’indi-ce di abbandono è però abbastanza alto: «Almenoun quarto dopo qualche mese rinuncia. Quelli piùanziani, che si sono avvicinati al cinese per pura cu-riosità, non reggono allo sforzo iniziale — ammette

Luigi Stirpe, docente all’Isiao, l’Istituto per l’Africa el’Oriente di Roma —. È un bene che lo studio sia av-viato fin dal liceo, perché i risultati arrivano, ma so-lo dopo qualche anno».

Piero Conti, industriale di Stradella, provincia diPavia, in tutto ha preso una quarantina di ore di le-zione. Ha un’azienda petrolchimica, l’Itm, e cura ungruppo di fitness e kung-fu in Europa, l’Evtf. «In Ci-na vado venti volte all’anno. Non conoscere la lin-gua era un handicap. Allora ho fatto un corso, ma po-tevo seguire poco per i miei impegni». E allora? «I ci-nesi sono molto orgogliosi. Se capiscono che ti inte-ressi alla loro lingua, che ci provi, ti fanno salire nel-le quotazioni. I convenevoli e un minimo di dialogo

ora li so condurre. Nelle trattative intuisco le loroconversazioni, al di là dell’interprete. Una parolaqui, una parola là. Se ti stanno fregando te ne ac-corgi. Il concetto chiave è guanxi, relazione. Devimetterti in relazione con loro, entrare nel gruppo,far parte della famiglia». E adesso come va il guanxi?«Molto meglio. A loro non piacciono gli imprendi-tori in cerca dell’affarone per poi scappare via. Vo-gliono un rapporto continuativo. Se quello è il tuoobbiettivo, la lingua la devi conoscere. E se ti man-cano tutte le parole, ti aiuti coi gesti. Loro apprez-zano, comunque».

Alessandra Lavagnino, docente ordinario allaFacoltà di mediazione linguistica e culturale dellaStatale di Milano, ex-addetta stampa dell’amba-sciata italiana a Pechino, non è d’accordo: «Sonostereotipi che lasciano il tempo che trovano. Micasono stupidi i cinesi. Ti devi avvicinare con umiltàalla loro cultura, perché i loro manager sono moltopreparati. Devi studiare parecchio, fare stage in Ci-na. Così si possono aprire prospettive di lavoromolto interessanti. Alcuni nostri allievi trovano la-voro ancor prima di aver concluso gli studi». Comeè accaduto a Martina Pistarà, ventisei anni, di Ales-sandria. Ha cominciato a studiare cinese per pas-sione culturale, ma è stata presto assunta da un’a-zienda italiana di abbigliamento. Dopo un anno, èpassata a un altro settore, quello della gioielleria.«Ma da studentessa già lavoravo come mediatriceculturale nelle scuole. Il mio sogno è di trasferirmistabilmente in Cina, e prima o poi ci riuscirò».

«Non sono tutte rose e fiori — avverte Stefano Bo-na, trentadue anni —. In Cina incontro tanti italia-ni che si mantengono a stento, in attesa della buo-na occasione». Stefano ha studiato scienze politi-che, una serie di conferenze di una docente affasci-nante come Enrica Collotti l’ha convinto a impara-re il cinese. Cinque anni fa l’assunzione in una me-dia impresa meccanica che ha una fabbrica aSuzhou e il colpo di fulmine con una ragazza diShanghai, ora sua moglie («ma fra noi parliamo in-glese. Il cinese mi serve con i suoceri»).

Luci e ombre. Sacrifici. Ma poi grandi opportu-nità da prendere al volo. Un recente articolo del-l’Herald Tribunesegnala che molte aziende cine-si sono alla ricerca di manager internazionali,purché parlino la lingua con fluidità. «Quelli aiquali l’Italia va stretta, è alla Cina che devonoguardare. Oltretutto, oggi laggiù la vita è molto di-vertente», assicura Alessandra Lavagnino. Atten-zione però ai facili entusiasmi. I corsi universita-ri sono lunghi e impegnativi. Scuole più abbor-dabili ne esistono: qualche decina solo a Milano,in tutta Italia superano il centinaio. Non sempredi grande livello. Professori madrelingua, ma conscarsa esperienza didattica. Ci sono anche corsiin internet, che servono più che altro come sup-porto. Il vero obbiettivo, la luce che fa risplende-re i curricula, è però lo Hsk (hanyu shuiping kao-shi), una sorta di proficiency riconosciuto dal go-verno cinese, che misura in tre categorie il gradodi conoscenza della lingua. No Hsk, no party. E gliesami sono severissimi.

Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37DOMENICA 1 FEBBRAIO 2009

le tendenzeLeggerezze

Volteggiano tra un impegno e l’altro. Danzano tra il lavoro,la famiglia e il tempo libero. Per questo gli stilistihanno disegnato per loro abiti soffici, hanno eliminato le lineedritte, hanno fatto riscoprire le atmosfere da fiabain tempi in cui per tutti sognare diventa sempre più difficile

Donneche ballano da sole. Si muo-vono ritmiche tra un bambino dacondurre all’asilo, una riunionedi lavoro e una piroetta al super-mercato. In una mano il telefoni-no e nell’altra la lista della spesa.

Una vita da equilibriste, la loro. E, quasi per ren-dere omaggio alla speciale capacità delle donnedi volteggiare con leggiadria tra un impegno e

l’altro, la moda dell’inverno le ha rese ancorapiù mobili. Come alleggerite grazie a capiesuberanti che si dilatano, si sollevano,

fluttuano a ogni movimento. Si fermano a unmetro dal cielo. Per merito di sapienti plissé ognipasso si trasforma in una danza. Un movimen-to in un arabesque. Scompaiono le rigidità esbocciano le morbidezze.

Ma, soprattutto, torna la femminilità. Abban-donata la fatica, e gli abiti da lavoro, le ragazzedel 2009 riscoprono il piacere serale di nastri,rouches, increspature, abitini fruscianti e tutùrivisitati. La loro è una grazia lontanissima dallescollature vertiginose e i look da “cattiva metro-politana” delle ultime stagioni. Le ballerine deitempi moderni riscoprono, quasi a sorpresa, lacapacità di sognare. Come se l’unico antidoto alnegativo che le circonda rimanesse la fantasia.E, per sdrammatizzare mise forse troppo impe-gnative, ricorrono a mille trucchi. Il cardigan sul

vestito fatato. Le calze coprenti nere che spun-tano da strati di tulle e organza doppiata. Gli sti-vali in coppia con le rouches delicate. Balze froufrou su insospettabili calzettoni da ginnastica.

Impossibile, guardandole, non pensare a undipinto di Edgar Degas. Sarebbe piaciuta al pit-tore parigino la tavolozza dei colori delle sfilatedel prêt à porter e della haute couture. Il biancopuro ed etereo oppure il rosa cipria, l’avorio e ilgrigio appena perlato. Certo, ci vuole talento perinventarsi un’atmosfera fiabesca quando fuoripiovono negatività e malumore. Ma le donneriescono a fare miracoli. E gli stilisti le aiutanocon la loro inventiva e trasformano la vita in unperenne palcoscenico. C’è la ballerina che ri-corda un pierrot triste di Valentino. La princi-

pessa delle nevi firmata LauraBiagiotti. La dama con tanto

di coroncina sui capelli diRoberto Cavalli.

Anche gli accessorinon sono da meno. Nel-la perenne sfida tra alti ebassi delle scarpe, vincedecisamente il tacco ra-

soterra dei modelli daOpéra parigina (Bally,

Louis Vuitton, Paciotti, Mar-ni). Le più spiritose osano anche

un laccio vivace intorno alla caviglia(Sigerson Morrison). E poiché la mo-

da rimane sempre la più grande ami-ca delle donne, per le più petites (quelle

che i tacchi li vivono come una condizionedell’esistenza) ci sono calzature ugualmentepoetiche che, per merito di decorazioni in piu-me e brillanti, regalano grazia e centimetri.

Abbandonata la maxi praticità delle borseusate nelle ore solari, quasi delle piccole valigie,la sera le neo-romantiche riscoprono il gustodelle pochette preziose come gioielli e sagoma-te con la foggia di scrigni delle favole (Givenchy,René Caovilla). All’interno c’è posto solo per ilrossetto e un telefonino ma poco importa, nonhanno bisogno di altro. Per le più originali, infi-ne, la danza diventa un irrefrenabile can can(Diane von Furstenberg): quasi un ritorno aglianni Trenta, con abiti tempestati di brillanti,frange stile charleston e i capelli arricciati in unalunga onda laterale. Fuori da ogni schema. Infondo, la donna è mobile.

IRENE MARIA SCALISEREGINA DELLE NEVIHa la grazia invernaledi una reginadelle nevi la ballerinadi Laura Biagiotti:tulle leggeroe lussuoso giletin pelliccia. L’insiemeè rigorosamentebianco candido

FAVOLESembra uscitadal raccontodelle fatela borsettadi René Caovilla.Pelliccia preziosae strasssul manicoper far sognarele più romantiche

SIGNORA DELLE CAMELIEEra il fiore preferito

di madame Cocò Chanella camelia. E ora torna

come decorazioneper una collana preziosa

che dona luce attorno al viso

LAGO DEI CIGNIÈ un incrocio tra l’étoiledella danza del cignoe una ragazzaccia in calzettonila ballerina proposta da ByblosPer lei tacchi con zeppavertiginosa e cintura in tinta

MINI TUTÙPer sdrammatizzare il mini

tutù, Blugirl scegliel’abbinamento

con il cardigan in lanapesante e il pull a collo alto

Completa l’insiemela pochette oro chiaro

ELEGANZAGioca con il contrasto

del bianco e nero la ballerinafirmata Valentino. Plissé

elaborati, fiocco al collo e tessutipreziosi. Impeccabile

CHARLESTONSembra quasipensatoper una ballerinadi charlestonl’abito preziosodi Diane VonFurstenberg. Intarsiraffinati e guantilunghi per un fascinoche viene dal passato

ARABESQUESembra adatta per eseguireun arabesque la ballerina di BallyPiacerà alle viaggiatrici perchéoccupa poco spazio in valigia

TASCABILIEntrano in una tasca le ballerineripiegabili griffate Cesare PiaciottiColori smart e morbido vellutoper un modello che piacerà a tutte

TECHNICOLORTinte acide e metallizzateper la ballerina di Marni con nastroin contrasto nero. Per un’estatein technicolor e rasoterra

FIOCCO ROSSOSemplice ma deliziosa la scarpain camoscio di Sigerson MorrisonL’elemento insostituibile è il fioccorosso fuoco da legare al piede

Donne in cerca di equilibrio

Repubblica Nazionale

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38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 1 FEBBRAIO 2009

LICIA GRANELLO

i saporiProfumo di primavera

Prese singolarmente, bietole, cicorie, scarole e cime di rapa non hannolo stesso fascino di latticini e frutta esotica. Eppure le cucine di tuttoil mondo non possono prescindere da loro. I bambini comincianoa conoscerle partendo dagli spinaci. Cotte poco e al vapore, le verdurehanno il vantaggio di essere economiche e reperibili in ogni stagioneE sono componenti essenziali di primi, farciture e contorni

Povere ma belle. E insostituibili. Prese così, poco piùche erba fresca: a fronte di funghi e latticini, uovae frutta esotica, le varie bietole, cicorie, spinaci,scarole, cime di rapa hanno un ben misero appeal.In più, se sono raccolte in campagna (ogni tantosuccede ancora), sono voluminose, fragili, piene

di terra. Eppure non c’è cucina al mondo che possa prescin-dere dalle erbe di campo, senza le quali ci priveremmo diun’infinita quantità di piatti squisiti.

Penalizzate da costi bassi, sapori sem-plici e reperibilità senza stagioni (tra ser-re e surgelati), le erbe di campo passanoinosservate nella lettura del menù. Erro-re! Che sarebbe dei picnic senza torta pa-squalina? E della cucina pugliese senza leorecchiette con cime di rapa? E i ravioli dimagro, le minestre, le frittate, i contorni,le farciture, giù giù fino ai cilestrini fiori diborragine canditi?

Certo, c’è foglia e foglia. Gli spinaci (gliunici declinati al maschile, insieme ai na-poletanissimi friarielli, in un mare di er-be femmine) sono i più conosciuti e po-polari, a partire dai bambini. Generazio-ni di piccini sono cresciute stregate dallaforza bruta eppure gentile di Braccio diFerro. Nessuno può assicurare se gli spi-nach capaci di trasformare il marinaiomingherlino in nerboruto castigamattifossero davvero spinaci o invece robustedosi di marijuana (secondo lo slang del-l’epoca).

Qualunque sia la verità, negli anni della Grande Depres-sione brillava ancora alta la stella del dottor Von Wolf, che afine Ottocento aveva individuato negli spinaci una dose mo-struosa di ferro. Poi si scoprì che il dosaggio miracoloso eradovuto all’errata trascrizione di un decimale — da 3,4 a 34 —e che per giunta il ferro era presente sotto forma di un fosfatodi difficile assimilazione. Ma ormai la fama acquisita era taleda resistere a qualsivoglia correzione di rotta.

Più che la scienza, insomma, poté il cartoon: ancora oggi,da una parte all’altra del pianeta, gli spinaci sono considera-ti una generosa fonte di ferro, oltre che un delizioso suppor-to alimentare. Tanto amati che quando Caterina de’ Medicilasciò Firenze per sposare Enrico di Valois, futuro re di Fran-cia, portò con sé spinaci e ricette dedicate. Una scelta desti-nata a lasciare il segno nella cucina francese, che ancora oggibattezza à la florentine le pietanze appoggiate su un letto di

spinaci.Al di là degli spinaci e dei loro fratelli-

ni novelli (da mangiare crudi e quindicon vitamine e sali intatti), lungo e va-riegato è l’elenco delle erbe da campo.Per una volta, la globalizzazione si ar-rende, lasciando spazio a coltivazionilocali, radicate, non trasferibili. Chi co-nosce i friarielli sa che le pur geografica-mente vicine cime di rapa pugliesi sonotutt’altra cosa. Così, le piccole bietoleche al Nord si vendono come erbette, alSud corrispondono al mazzetto degliodori, mentre le puntarelle — varietà dicatalogna da condire en crudité con sal-sa di acciughe, amatissima nel Lazio —sono poco o nulla conosciute da Romain su.

Che sia la rustica scarola o l’amaro-gnolo tarassaco, le erbe di campo vannorispettate. Non raccogliendole vicino al-le strade, cuocendole poco e al vapore,privilegiando le coltivazioni biologiche,anche nelle versioni conservate (surge-

lati compresi), visto che le foglie assorbono più di qualsiasialtro alimento le tossine dei fitofarmaci.

Se poi siete in pace con bilancia e colesterolo, regalatevi uncroccante finger-food, friggendo borragine e malva dopoaverle passate in una pastella gustosa di uovo e grano sarace-no (o farina di riso venere e semi misti). Insieme a un buon bic-chiere di vino o a un cocktail ben fatto, sarà l’aperitivo più sfi-zioso dell’inverno.

SpinaciNon solo Braccio di Ferro,

tra gli appassionati

dei piccoli cespi di foglie

verde scuro e robuste,

originari della Persia,

ricchi di minerali,

ferro in primis. Ottimo

l’apporto di vitamine

e acido folico

ErbetteLe più tenere

tra le chenopodiacee sono

anche le più facili da inserire

nelle ricette, grazie al loro

sapore caratteristico

La ricchezza in vitamine

- A, B2, PP, C - e sali minerali

si preserva cuocendole

a bassa temperatura

Cime di rapaI boccioli non ancora fioriti

della Cymosa Brassica

Campestris sono alla base

dei piatti più saporiti

della tradizione meridionale,

come le celebri orecchiette

strascinate. Maturano

tutto l’anno e hanno

proprietà disintossicanti

Povere ma bellee anche no global

L’appuntamentoDa oggi a mercoledì

al Milano Convention Center

la quinta edizione di “Identità

golose”. Tra i temi, “Verdure

e vita” con Josean Martinez

Alija (Guggenheim di Bilbao),

Ferran Adriá (El Bulli) e Pietro

Leeman (Joia). Alfonso Caputo

(Taverna del Capitano) parlerà

delle alghe; Stefano Baiocco

(Villa Feltrinelli) presenterà

le verdure in versione dessert

FriarielliFra broccoli e cime di rapa,

contendono alla scarola

il titolo di verdura regina

della cucina campana

Scelti e ripuliti, si friggono

in strutto o extravergine,

con aglio e peperoncino

Abbinamento d’obbligo

con salsicce di maiale

Erbecampo

di

Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39DOMENICA 1 FEBBRAIO 2009

Dici “erbe di campo” e pensi ai fossi, ai prati, alla vegetazione spontanea. Pensi a un cibonon creato dall’uomo, ma dalla natura. Pensi alle piante che nella stagione fredda (e poiavanti, fino a primavera) rallegrano la tavola di sapori diversi, più selvatici, più amari,

a volte più saporiti. Pensi alle erbe officinali del sottobosco, che ci regalano tisane e decotti,utili ai mal di gola e ai freddi pomeriggi invernali. I monaci medievali la chiamavano Provvi-denza, affidando a essa molti bisogni alimentari — senza dimenticare che il Lavoro avrebbeprovveduto al grosso dell’approvvigionamento.

È l’antica dialettica fra Natura e Cultura che si ripropone in campo alimentare. Produrre ilproprio cibo, o aspettare che Qualcuno pensi a noi? Contare sulla generosità di Dio, del clima,della terra, o rimboccarsi le maniche per guadagnarsi il pane quotidiano a colpi di zappa e divanga? Alcuni (come san Benedetto) sostennero la prima via, celebrando il valore della faticae del lavoro. Altri preferirono isolarsi dal mondo, farsi eremiti nelle solitudini boschive e affi-dare alla provvidenza (o all’elemosina) la propria sopravvivenza.

I più giocarono su entrambi i fronti: coltivare la terra, i campi, gli orti, ma nel contempo as-secondare i segnali della natura. Imparare a conoscere le piante, a distinguere le erbe buonedalle cattive, far tesoro di un patrimonio vegetale utile «sia a nutrirci, sia a tenerci in salute»,come scriveva nel Sesto secolo il monaco Cassiodoro. Gli orti del Medioevo (dei monaci, cer-to, ma anche dei signori e dei contadini) sono straordinari luoghi di sperimentazione in cui isaperi agronomici e le pratiche di coltivazione si incrociano con la conoscenza delle pianteselvatiche. In questo mix di saperi si fonda gran parte della cultura alimentare e gastronomi-ca del nostro passato.

Ecco perché parliamo di “campo” (una parola che evocherebbe piuttosto il lavoro agrico-lo, la coltivazione della terra) anche quando intendiamo i prati o i fossi in cui crescono le erbeselvatiche. Ciò può accadere perché una cultura millenaria ci ha insegnato a non porre rigidefrontiere tra i due mondi: il domestico è più produttivo, più rassicurante, più “dolce” del sel-vatico, ma assieme al selvatico è più completo e saporito — e del resto, tutto ciò che è dome-stico ha una sua radice selvatica.

Ben vengano, dunque, i cardi e i finocchi che una straordinaria sapienza di agricoltori e or-ticoltori ha saputo trasformare in succulenti ortaggi dolci; ma il retrogusto amaro del cardo,e la sua sgarbata figura, saranno il segno (assai apprezzato dai gastronomi: «più è brutto, piùè buono») di una selvatichezza non del tutto dimenticata; e l’intrattabile finocchio (che nes-sun vino sopporta) mostrerà una natura solo in parte domesticata. Quanto al radicchio, allamalva, alla borragine, alla bietola, alla cicoria, dovremo ammettere che specie domestiche eselvatiche non si escludono, anzi si valorizzano le une con le altre. Come scriveva nel Sedice-simo secolo il botanico Costanzo Felici: «La cicorea o girasole o radicchi… è pianta molto ap-prezzata nell’insalata d’ogni tempo, così la sativa… como la campestre».

Amaro e dolce stanno bene insieme.

L’amaro cibo della Provvidenzache nutrì monaci ed eremiti

MASSIMO MONTANARI

itinerariIl quarantenneDavide Oldani,allievo di GualtieroMarchesi,è tra i miglioriinterpreti

della nuova cucina low costTra i piatti più golosiserviti dalla trattoriastellata “D’O”,alle porte di Milano,brilla l’agnello stufatocon bietole e prugneal calvados

Nel delizioso borgoadagiato sulla costa tra Genova e Portofino,la borragineè protagonista solitariao come ingredientedel preboggion, mix di erbe selvatiche -che comprende

anche bietole, tarassaco, pimpinella, erbette -per la farcitura dei gloriosi pansotti

DOVE DORMIRELOCANDA I TRE MERLIVia Scalo 5Tel. 0185-776752Camera doppia da 130 euro, colazione inclusa

DOVE MANGIARELA CUCINA DI NONNA NINAVia Molfino 126 Tel. 0185-773835Chiuso mercoledì, menù da 35 euro

DOVE COMPRAREOLCESE E BISSO FRUTTA E VERDURAVia della Repubblica 184Tel. 0185-770447

Camogli (Ge)Minestra di cicureddheselvatiche e pitta(focaccia di patate)con verdure sonotra i piatti-culto della cucina salentina,insieme a ricettestoriche comeorecchiette con cime

di rapa e puré di fave. Le coltivazioni dedicatein Puglia superano i settemila ettari

DOVE DORMIRECASA LI SANTIVia Basseo 31329-4743969Camera doppia da 60 euro, colazione inclusa

DOVE MANGIAREOSTERIA DEGLI SPIRITIVia Battisti 4Tel. 0832-246274Chiuso domenica sera, menù da 30 euro

DOVE COMPRAREMERCATO COMUNALEPiazza Libertini

LecceNon c’è alimentopiù esclusivoe localistico dei friarielliPochi chilometri a suddella città, infatti,i friarielli (friggitelli)sono dei peperonciniverdi. In entrambi i casi

vale la radice “frjere”, friggere. Si servono comepietanza o saporita farcitura della pizza bianca

DOVE DORMIRECARACCIOLO 10Via Caracciolo 10Tel. 081-6584441Camera doppia da 85 euro, colazione inclusa

DOVE MANGIAREROSIELLOVia Santo Strato 10Tel. 081-7691288Chiuso mercoledì, menù da 50 euro

DOVE COMPRAREFORTE FRUTTA E VERDURACorso Vittorio Emanuele 248Tel. 081-415521

Napoli

Tarassaco L’erba spontanea più

popolare viene conosciuta

con nomi diversi, come

dente di leone, soffione

e piscialetto (per le qualità

depurative e diuretiche)

Si può gustare sia cruda,

sia spadellata, da sola

o con altre erbe da taglio

Bietole da costeDette anche coste, le lunghe

foglie di Beta cicla vantano

un doppio utilizzo: la parte

apicale, di un verde brillante

e dal gusto delicato,

da usare per ripieni e contorni,

e la radice costoluta,

spessa e biancastra,

ideale per frittate e tortini

BorragineCosì tante virtù terapeutiche

per la celtica borrach

(coraggio) - stimolante,

ipotensiva, diuretica,

depurativa - da oscurare

le qualità gastronomiche

Rappresenta il ripieno

tradizionale dei ravioli

di magro liguri

CatalognaLa più utilizzata tra le cicorie

si distingue per il contenuto

di fosforo, calcio, vitamina A

e sali minerali. Il gusto amaro

stimola le secrezioni

gastriche. La varietà a costa

larga e bianca - puntarelle -

si gusta cruda con

un condimento a base di alici

Repubblica Nazionale

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40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 1 FEBBRAIO 2009

l’incontroMalinconici

ROMA

In Silvio Orlando gli opposti si toc-cano. Ha lavorato a suo tempo perla Fininvest, e in occasione di unprogramma molto censurato eb-

be modo di incrociare Berlusconi che perintuito personale (e per parere unanimedelle sue guardie del corpo) lo salvò daitagli apportati a quel format televisivo.Poi, al di là degli equilibrismi per far con-vivere il varietà tv Emilioa Canale 5 e filmcome Palombella rossa o Il portaborse, ildestino ha voluto che due anni fa fosse luiil protagonista umano e infelice del Cai-mano di Nanni Moretti, che di Berlusco-ni è stato il ritratto-apologo più spietato.Ha fama incontestabile d’essere un arti-sta di fine e solido talento ma lui sostieneche la prima qualità per recitare è solo lapazienza. Ti dice che la «recitazione»(con le virgolette) è una malattia infanti-le dell’attore, e che lui «recita» solo neimomenti morti della sua carriera, ma in-tanto il suo essere artista, che «reciti» ono, gli è valso la Coppa Volpi all’ultimoFestival di Venezia per l’interpretazionede Il papà di Giovanna di Pupi Avati. Fal’attore ma si schermisce spiegando chedietro ogni attore c’è in fondo un musici-sta fallito, e lui suona il flauto e il sax conuna band (preferisce chiamarla «ban-da»), la S.N.A.P., che sta per Senza NullaA Pretendere, capitanata dal maestroRaia, che dà concerti qua e là.

È eminentemente, squisitamente econtemplativamente un comico, SilvioOrlando, ma dal punto di vista umano, ein certi casi nella professione, ha in ser-bo anche una malinconia, una flemma,un mistero quasi oscurato da una zonad’ombra. Dopo anni di confidenze echiacchiere di lavoro, ora, per caso, ce neparla. «All’inizio di tutto c’è un dolore,con cui non è facile fare i conti. Un pic-colo mostro col quale lotti, che non rie-sci a dominare. Nella storia di ogni arti-sta ce n’è un segno, nascosto da qualche

parte. Scavando, esce fuori. È un puntodi partenza che poi in genere viene som-merso dalla tecnica, dalla pratica, dalmestiere. Ma di fondo, c’è. Molti degli at-tori sono orfani di genitori, di tutti e dueo di uno. Io, se devo trovare una cosa chemi rende diverso, è il non essere mai riu-scito a risolvere il sospeso con una stan-za. Borges citava avvenimenti della vitache se chiudi gli occhi ti riaccadono ineterno. La camera dove è morta mia ma-dre quando io avevo nove anni, me laporto dentro sempre, anche se facciouna cosa comicissima. Riemerge. NelCaimanodi Nanni c’era ad esempio l’os-sessione di non riuscire a trovare un pez-zo di Lego giallo da 12, un’immaginestraordinaria che poteva quasi valere ilfilm, un frammento mancante d’una fe-licità incompiuta. Io quel pezzetto lì losto cercando e non lo troverò mai».

È convinto che magari sia una fortuna.«Meglio che un attore sia lontano dallaperfezione. Resta comunque un vuoto,un’incompiutezza, un qualcosa di so-speso che non si placherà mai. Per cer-care di venirne a capo ho fatto pure per-corsi psicanalitici, non credendoci tan-to. Allora non resta che guardare in fac-cia questa cosa col mestiere. Sembra ci-nismo? Eppure è nel lavoro che trovi unrisarcimento contro il dolore. Anzi, colmestiere il dolore può diventare utile.Qui s’intromette la coscienza, che a vol-te non tollera la professione del far ride-re basata su un’ansia irrisolta. Il rappor-to tra causa e effetto ti sembra un trucco,una cosa brutta. Ma attore sono e attoreresto».

Parla di sé in modo pacato, s’è tolto perun po’ la maschera, e d’altronde Orlan-do, napoletano, classe 1957, ha propriola delicatezza e la sensibilità di un Can-cro mai guidato dalla ragione, dal calco-lo, dall’apatia artistica. «Chissà perchéparlo di un buco che c’è sempre, cheniente ha riempito. E pensare che noi alSud abbiamo un pudore di ferro, non ciapriamo, stiamo attenti a non piangerciaddosso. Per il nostro rapporto con la di-gnità». Fu uno sguardo ricevuto, e un fur-tivo senso di potenza, a cambiargli la vi-ta, quand’era ancora piccolo, già colpitodalla mancanza materna. «Avvenne ascuola. Un’insegnante mi fece interpre-tare a memoria una cosa, e poi mi guardòin un altro modo. Anche i compagni. Av-vertii una forza, un ascendente. E c’eroarrivato senza fatica, senza calcoli mne-monici, tabelline. Non ci fu seguito, ma adiciotto anni, obbligato da un mio ami-co avvocato, in un teatrino da cinquantaposti presi parte alla ricostruzione farse-sca d’un processo ai Nuclei armati pro-letari, nei panni di un imputato non po-litico, col compito di suonare anche unflauto: mi dettero piacere le risate, le rea-zioni, l’ondata d’attenzione che sentivo.Un dubbio ce l’avevo: ero io che li facevoridere o loro ridevano di me?».

Poi mise a punto altri tentativi con To-nino Taiuti, Antonio Neiwiller, RenatoCarpentieri. Assemblaggi di teatro po-polare, con al centro l’attore. «Noi rima-

«Conobbi un po’ di vita in comune al li-ceo, nelle esperienze musicali più vicinealla Nuova compagnia di canto popola-re che al rock, nella sezione del Pci (an-che se prevalse una noia mortale perchési ragionava come nel comitato di unpartito sovietico), e ci fu uno sdogana-mento attraverso le vicende sentimen-tali, anche se nel pianeta femminile so-no atterrato tardi». Viene fuori pian pia-no il ritratto di un napoletano fuori cata-logo. «Beh, io appartengo a una catego-ria di esseri umani normali su cui non pe-sa l’egemonia della città. A volte l’amorproprio e il contegno sembrano un lussoestremo. Ma il peggio ti può capitare nelmondo del lavoro, dove spesso preval-gono superficialità e mancanza d’amo-re, tanto da indurti ad avere poco rispet-to per ciò che fai. Qui un piccolo meritocredo d’essermelo ritagliato dando vocea personaggi che tengono l’anima coidenti, vedi Il portaborse, il professoredella Scuola, Ferie d’agosto, la figura incrisi del Caimano, il marito in Questi fan-tasmia teatro, fino al Papà di Giovanna».

Quando parliamo del suo carattere,dell’indole che adotta e che vive in film espettacoli, fa un’ammissione sorniona.«Mi viene istintivo suscitare un senso dipreoccupazione in chi mi vede. Io sonoclassicamente l’uomo-che-prende-gli-schiaffi, e la gente che mi ha davanti puòchiedersi: io che farei al suo posto? È an-che questione di fisiognomica, che nelmondo dello spettacolo conta come innessun altro mestiere. Se sei alto meno di167 centimetri sai bene in che rapportosei con gli occhi degli altri. Posso anchefare il prepotente, ma è come quandoPavarotti cantava Satisfaction (della se-rie “Apprezziamo, maestro”)». Gli è re-stato sempre impresso, come un tatuag-gio, e ci si è sempre riconosciuto, il primogiudizio critico ricevuto da Repubblicaaitempi di Comedians, quando era in sce-na con Bisio, Rossi e Catania: «Recita l’i-nanità, ne fa un’arte». Non dimentica Gi-no e Michele che lo aiutarono a confe-zionare pezzi di cabaret con cui entrò ne-gli studi della Fininvest per quattro sta-gioni. «I comici erano unti dal Signore,per Berlusconi, e una volta, incontran-domi, lui disse “Orlando, lei è qui. Se loavessi saputo, avrei sciolto i cani” e in-tanto sorrideva».

Abbiamo di fronte un attore che oggi èun beniamino del pubblico sia a teatroche in cinema. «L’equilibrio me lo dà ilmercato. Una faccenda fisiologica.Scompari e ricompari. A me piace la gre-garietà, l’essere chiamato. Apparterrò auna mentalità vecchia, ma l’attore chechiama un regista, o che si propone, ri-nuncia alla propria dignità. L’unica pro-posta a cui a livello umano mi dispiacquedi non dire sì fu una cosa chiestami daTroisi. Ma lavoro bene con la gente piùdiversa, anche “in contraddizione”. Va-do avanti con un misto di flessibilità e dicoerenza». Il legame con Nanni Morettiè noto, e non poggia su alcun camerati-smo. «La complicità non è producente,soprattutto nei confronti di Nanni, an-

nevamo di proposito in un solco antico,mentre in teatro s’affermava una nuovaspettacolarità con diapositive e moltouso del corpo ad opera di Martone e Ser-villo, che più tardi hanno recuperato laparola». Ma in materia di comunicazio-ne ci fu anche un’altra fonte di ammae-stramento, per Silvio Orlando: il padre.«Era un esempio di cosa significhi essereaffabili, estroversi. Lui teneva banco, fa-ceva il commesso viaggiatore e vendevacose che non sapeva come funzionasse-ro. Era un uomo di grande positività, ave-va cinquant’anni quando sono nato io, equesta età matura gli forniva anche unvelo di disincanto, la cosa che in definiti-va m’ha trasmesso di più. Andava a Mi-lano a vendere macchine fotografiche,mentre noi vivevamo a Napoli, al Vome-ro, zona senza una storia propria, Eldo-rado anonimo riservato alla piccola bor-ghesia che guarda dall’alto il proletaria-to del centro storico. Io la città vera l’hoscoperta tardi, da solo, dopo essere cre-sciuto facendo a meno di spazi comuni,piazze, rapporti umani».

Diventare attori senza una gavetta so-ciale, senza l’apprendistato dell’amici-zia, è una faccenda strana, per un artistameridionale. Ma Silvio trovò i rimedi.

che perché quello che io consento a unregista è più di ciò che consento a un ami-co. Ho grande riconoscenza nei suoi ri-guardi, e sostengo che la fortuna è in-contrare persone giuste che t’insegnanoad amare il lavoro. Avrei fatto questo me-stiere anche senza Nanni, ma non così».

Proviamo a individuare qualche mo-mento decisivo della sua carriera. «Losblocco l’ho affrontato reggendo un ar-co di tempo lungo sullo schermo per Ilportaborse, con tutti gli stati d’animo delprotagonista, poi c’è stato il genitore configli complicati nel Caimano di Moretti,e senz’altro quest’ultimo personaggiodel padre nel film di Avati, che ha rap-presentato una difficoltà e ha prodottoun effetto sorpresa, m’ha reso consape-vole di certe corde dopo trent’anni di la-voro. Emozionandomi, anche». Duefilm su tre di quelli che cita implicano unruolo paterno, un ruolo che Orlando nonconosce ancora nella vita. «Sì, non hoavuto finora figli, e penso che mentre perla madre è un fatto biologico, la condi-zione di padre è di fatto uno stato intel-lettuale, di uno che comincia a parlarecon un esserino...». Sorride, con la suaflemma. S’è sposato un mese fa a Vene-zia con la sua compagna, l’attrice MariaLaura Rondanini. «Ho annunciato il ma-trimonio il giorno del premio, e lei non losapeva che l’avrei fatto così pubblica-mente. L’avevamo deciso da tempo. Leiè la persona che più mi ha aiutato negliultimi dieci anni, che mi ha reso possibi-le accettarmi».

Sullo scenario prossimo venturo ètranquillo, fatalista, naturale. «Ho finitoEx di Fausto Brizzi, film molto comico,alle prese con un magistrato divorzista.E poi con Anna Bonaiuto, Michela Ce-scon e Alessio Boni sto per far parte delquartetto teatrale, nel ruolo del padred’un ragazzo preso a randellate per bul-lismo, de Il Dio della carneficina di Ya-smina Reza». Ancora un padre. Sorride.Quasi chiudendo gli occhi. Come fa lui.Con la modestia di un flautista-sassofo-nista imprestato allo spettacolo.

Suscito un sensodi preoccupazionein chi mi vedeIo sono l’uomoche prende gli schiaffie chi mi ha davantipuò chiedersi: chefarei al suo posto?

Dice che in ogni attore c’è in fondoun musicista fallito, e infatti lui suonail flauto e il sax con una bandDice che recita solo nei momentimorti della carriera, ma intanto

è un beniaminodel pubblico sia a teatroche al cinema,dal “Caimano”all’ultimo AvatiÈ un comico di grandesuccesso, ma all’iniziodi tutto, racconta,

“c’è un dolore con cui non è facilefare i conti, nascosto da qualcheparte. Scavi ed esce fuori”

RODOLFO DI GIAMMARCO

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