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I poeti dell'ultimo Novecento salentino "letti" da Rossano Astremo

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Rossano AstremoMaledetti Salentini

Passeggiate critiche tra i sentieri poeticidei maledetti salentini

Spagine è un periodico di informazione culturaledell’Associazione Culturale Fondo Verri di Leccea cura di Mauro Marino

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Maledetti SalentiniPasseggiate critiche tra i sentieri

poetici dei maledetti salentini

Rossano Astremo

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Il presente testo offre una selezione di articolie saggi critici, che ho pubblicato su quoti-diani, riviste e blog negli ultimi anni, riguar-danti l’analisi delle vite e delle opere deiprincipali poeti salentini del ‘900, VittorioBodini, Vittorio Pagano, Salvatore Toma, An-tonio Verri e Claudia Ruggeri. Buona lettura!

R.A.

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Bodini e le struggenti inchieste

Poesia, struggenti inchiestesulla verità dell’essere,

scegliemmo la tua scorciatoia.Non ci ha portati lontano,

no davvero.Sì, qualche volta l’ebbrezza

d’essere vicini a qualcosama in che rari momenti

e a che prezzo d’insofferenze, di rotture

d’ogni più delicata trama d’affetti!

Vittorio Bodini, luglio 1967

Ad esclusione di “Quarta Generazione”, an-tologia curata da Piero Chiara e Luciano Erbasulla giovane poesia, pubblicata da MagentaEditrice nel 1954, di Vittorio Bodini non c’ètraccia nelle principali antologie di riferi-mento sulla poesia contemporanea.Dall’antologia curata da Edoardo Sanguineti,pubblicata da Einaudi nel 1969, a quella diPier Vincenzo Mengaldo, che risale al 1978,quando uscì nella prestigiosa collana de I Me-ridiani della Mondadori, sino ad arrivare allapiù recente, frutto del lavoro di selezione diMaurizio Cucchi e Stefano Giovanardi, dapochi mesi apparsa arricchita nella collanaClassici Moderni della Mondadori, di Bodini neanche l’ombra. Vittorio Bodini, nato a Bari nel 1914, ma di famiglia e formazione leccese,

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ha pubblicato in vita “La luna dei Borboni”(Edizioni della Meridiana, Milano, 1952),“Dopo la luna” (Edizioni Salvatore Sciascia,Caltanisetta-Roma, 1956), “La luna dei Bor-boni e altre poesie/1945-1961” (Mondadori,Milano, 1962) e “Metamor” (All’insegna delPesce D’Oro, Scheiwiller, Milano, 1967). Po-stume sono le raccolte “Poesie/1939-1970”(Mondadori, Milano, 1972), e la completa“Tutte le poesie”, uscita nel 1983 con Monda-dori, curata da Oreste Macrì, molte copiedella quale vennero mandate al macero, sinoalla ripubblicazione della stessa nell’aprile del1997 da parte della casa editrice salentinaBesa. Le poesie di Bodini sono state organiz-zate da Oreste Macrì secondo un criterio tem-porale e così appaiono nell'opera omnia dalui curata: a) Poesie edite in vita: La luna deiBorboni e altre poesie (Foglie di tabacco, Altriversi, La luna dei Borboni, Dopo la luna, ViaDe Angelis, Serie Stazzemese, Appendice) eMetamor; b) Raccolte inedite in vita (Inediti1954-1961, Zeta 1962-69, La civiltà indu-striale o poesie ovali 1966-1970, Collage1969-70); c) Appunti di poesie, residue esparse (Firenze 1939-40, Lecce 1949-44,Dallo “Zibaldone leccese”, Roma 1944-46,Spagna-Roma-Spagna 1946-1949, Lecce-Bari 1949-1960, Roma-Versilia 1969-70); d)Appendice (Poesie futuriste 1932-33). Sì, per-ché quella di Vittorio Bodini, è una poesia chepassa attraverso tutte le esperienze artistiche novecentesche, dal futurismo all’ermetismo, dal barocco ispanico al surrealismo, dallo

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sperimentalismo tecnologico e industriale all’informale, restando immune e costantenella sua soluzione umana, resistenziale e ci-vile. Bodini esordisce come poeta futuristaall’interno della rivista “La voce del Salento”,diretta dal nonno Pietro Marti. A questo pe-riodo si fa risalire un testo poco equivocabiledal titolo A F.T.Martinetti: “Torrente instan-cabile di Fede Futurista / che Incalzi incen-diando ariacquamareterra / al tuo liquidosoffio-fuoco crepitanti / d’ammirazione sinoad esasperare se stesse / di passionalitàbuontempona (VITTORIO BODINI, Tutte lepoesie, Besa, Nardò, 1997, p. 219)”. La fedefuturista del giovane Bodini è frutto del suoodio lancinante per l’immobilismo geneticoche egli attribuisce agli abitanti della suaterra, al quale sostituisce il dinamismo dellateoria futurista. Su “Vecchio e Nuovo”, men-sile futurista di quegli anni, con il quale Bo-dini collabora attivamente, scrive unManifesto ai Pugliesi della Provincia nelquale si legge: “Storicamente vivete come aitempi dei Borboni. Invece di guardare in unoslancio d’amore meccanico veloce bramosodi possesso in direzione di Sole – Acciaio –Domani, preferite riposarvi d’un lavoro chenon fate all’ombra della Magna Grecia, o delperiodo Bizantino, o secolo del Dominio Nor-manno, o francese o spagnolo. Da quasi unsecolo i vostri orizzonti sono tutti retrospet-tivi, ebbene!: dovete riconquistare il tempoperduto (…) Siete piatti e lisci come la vostra regione (ENNIO BONEA, Comi, Bodini, Pa-

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gano. Proposte di lettura, Manni, Lecce 1998, p. 113)”. Bodini abbandona Lecce e, dopo unapermanenza a Roma, si trasferisce a Firenze,dove si laurea in Filosofia, con una tesi sullaTeoria dell’incivilimento in G.G. Romagnosi.A Firenze l’attrazione per gli ermetici e la fre-quentazione del caffè “Giubbe Rosse”, doveconosce Montale, Luzi, Bo, Landolfi, Bigon-giari e Parrochi. Di questo periodo il testo An-notazione, prima di dormire: “Dentro lastanza al buio, quando insonni / galleggiangli occhi a fiore delle tenebre / e mortifica ilcuore l’indolenza, / passo intorno al miocorpo le mie braccia / ed ascolto stupito ilsangue scorrere / di un essere a me ignotoche à un respiro / così simile al mio (VITTO-RIO BODINI, op. cit., p. 151)”. L’ermetismobodiniano, però, va considerato come fase ditransizione del suo percorso poetico. Bodini,è vero, si immerge nella poetica della poesiapura, della letteratura intesa come vita, se-condo il teorema enunciato da Carlo Bo nel1938, ma fa propria solamente la lezione lin-guistica, non ritenendo possibile per un poetaeludere con indifferenza la realtà. Dal 1940 al1944 Bodini torna a Lecce, nella quale, tra lealtre cose, dirige, assieme ad Oreste Macrì, laterza pagina di “Vedetta Mediterranea”, set-timanale della federazione fascista di Lecce,nel quale, grazie all’impegno dei due afascistiintellettuali salentini, compaiono testi diVasco Pratolini, Piero Bigongiari, Vittorio Se-reni, Leonardo Sinisgalli e Alfonso Gatto. Nel 1944 Bodini accetta di trasferirsi a Roma di-

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venendo il segretario particolare di Meuccio Ruini, segretario generale del partito “Demo-crazia del lavoro”, sino ad un momento cru-ciale del suo percorso poetico, ovvero il suotrasferimento a Madrid nel 1946. Dopo seimesi come lettore d’italiano all’Università,Bodini si adatta a fare vari lavori e, soprat-tutto, s’impadronisce della lingua, della lette-ratura, della tradizione spagnola che egli vederiflesse nel barocco salentino. Scrive EnnioBonea al riguardo: “Bodini aveva compreso,nella esperienza fatta da Firenze in poi, dopoaver acquisito e superata la lezione ermeticadella poesia “pura”, che il poeta, l’intellettualenon poteva non essere indifferente, ermeti-camente, alla realtà storico-sociale del pro-prio tempo; ma assorbì la lezione delneo-realismo senza impegnarsi nella mili-tanza e, dopo l’esperienza degli anni ispano-salentini, orientò al gongorismo estetico eformale la istintiva tendenza al barocco e in-nestò, sulla naturale avversione per la poesiacantata, melodica, l’artifizio iperbolico e l’in-curia per la coerenza logica nelle immaginiscattate “automaticamente”, come nei poetispagnoli della “Generazione del ventisette”che egli chiamò surrealisti (ENNIO BONEA,op. cit., p. 97)”. La “Generazione del venti-sette” comprende il gruppo di poeti che, a tresecoli dalla morte di Gòngora (1561-1627), siera costituito a Madrid in occasione dellamessa celebrativa del tricentenario dellamorte, fissata attraverso la rivista “Carmen” dai poeti Gerardo Diego, Pedro Salinas, Dà-

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maso Alonso, Federico Garcia Lorca e Rafael Alberti. Essi rivalutano il poeta secentescoper la sua tecnica versificatoria, il suo prezio-sismo metaforico, rafforzato da un costanteuso dell’ellissi e dell’iperbole. I poeti surrea-listi spagnoli saranno tradotti da Bodini perEinaudi in un volume pubblicato nel 1963.Bodini, inoltre, è stato il traduttore del “Tea-tro” di Lorca (Einaudi, 1952), del “Don Chi-sciotte” di Cervantes (Einaudi, 1957), dei“Sonetti amorosi e morali” di Quevedo (Ei-naudi, 1965), di “Degli Angeli” di Alberti (Ei-nadudi, 1965), delle “Poesie” di Solinas(Lerici, 1958), del “Ricasso” di Aleixandre(Scheiwiller, 1962) e di “Il Poeta nella strada”ancora di Alberti (Mondadori, 1969). L’espe-rienza spagnola rappresenta il momento cru-ciale nella crescita poetica di Bodini. ScriveOreste Macrì: “Rammento il suo assillo equasi disperazione per la civiltà magico-ru-rale e culta barocca (aristocratica ed ecclesia-stica) spente o cachettiche e patologiche diLecce e del Salento, da Santa Croce ai taran-tolati. Consentiva, ma era irritato alle inter-pretazioni logiche e sociologiche del folclorelocale, con tutta la stima che aveva per DeMartino. Odiava Lecce ma di un odio gelosis-simo, filiale, esclusivo. In Spagna gli si esem-plarizzò un folclore (in senso lato) vivo evegeto, non solo nella poesia tradizionale manei costumi, feste, giochi, linguaggio quoti-diano, pur in quel deserto postbellcio. Natu-rale e fatale il trasferimento del ricco e fresco modello al proprio miserabile e morto Sa-

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lento, che subì una sorta di metaforizzazione e sublimazione ispanica come reazione (sin-cronica) a una Spagna salentinizzata (VITTO-RIO BODINI, op. cit., p. 30)”. Una voltatornato nella sua terra gli si palesa in tutta lasua atrocità il vero Salento degli anni Cin-quanta, caratterizzato da estrema povertà, ailimiti della sopravvivenza. Il risultato creativoè rappresentato da una poesia ricca di imma-gini e di suggestioni, ermeticamente oscurain alcuni punti, con forti ed inevitabili in-fluenze spagnoleggianti, ma legata ad unluogo ben preciso, il Sud del Sud, lanciato adinseguire i treni del progresso, ancorato allatradizione. È il momento di “La luna dei Bor-boni” (1952): “La luna dei Borboni / col suoviso sfregiato tornerà / sulle case di tufo, suibalconi. / Sbigottiranno il gufo delle Scalze /e i gerani – la pianta dei cornuti -, / e noi,quieti fantasmi, discorreremo / dell’unitàd’Italia. // Un cavallo sorcino / camminerà aritroso sulla pianura (VITTORIO BODINI,op. cit., p. 68)”. O ancora: “Qui non vorreimorire dove vivere / mi tocca, mio paese, /così sgradito da doverti amare; / lento pianodove la luce pare / di carne cruda / e il ne-spolo va e viene fra noi e l’inverno (VITTO-RIO BODINI, op. cit., pag. 70)”. Sono gli annianche della militanza critica della rivista let-teraria “L’esperienza poetica”, ideata nel1954, in collaborazione con Luciano De Rosa,nella quale appaiono versi di Rocco Scotel-laro, Leonardo Sinisgalli, Giorgio Caproni,Pier Paolo Pasolini, Andrea Zanzotto, Lu-

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ciano Erba, Raffaele Carrieri, Bartolo Cattafi. Ecco come spiega lo stesso Bodini la nascitadella rivista: “Passeggiavo con Luciano DeRosa accanto a palazzi e chiese barocche sucui si dibattevano gli ultimi angeli della no-stra vita: o che almeno si spacciavano per tali,e sognavamo una rivista non più grande di unfrancobollo, su cui dare sfogo a un piccolo te-soro di riflessioni e argomenti che svolge-vamo in un gesto o una mezza frase,completandoli a mente di tutti i discorsi e lesfumature che avevamo bisogno di fare (VIT-TORIO BODINI, La cospirazione provinciale,in “L’esperienza poetica”, n. 5-6, genn.-giu.1955, p.1)”.“L’esperienza poetica” esce sino al settembredel 1956, dando vita ad undici numeri e, so-prattutto, suscitando le attenzioni degli ad-detti ai lavori. Gianni Scalia, recensendola nel1955 su “Officina” afferma: “L’esperienzapoetica, intanto, ci è vicina con la sicura vo-lontà di un discorso insieme libero e impe-gnativo sulla letteratura, con uno sforzoimportante di organizzazione critica e poesiain contemporaneità di esigenze, in coerenzamentale; con un equilibrio difficile e prezioso,anche se a volte insidiato da una misura diestetismo morale e sentimentale di cui sidovrà liberarsi. Per tutto questo la sua pre-senza è opportuna e ci aiuta a comprendere,senza disordine o eclettismo culturale, la re-altà letteraria contemporanea (SILVERIOTOMEO, La prodigiosa finzione, Gino Bleve editore, p. 54)”. E il riferimento alla rivista

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“Officina” non è casuale. Per Bodini la crisiche travaglia la poesia degli anni Cinquantaha origine nel linguaggio che ha fatto diver-gere la sua storia da quella degli uomini. Lapoesia anteriore alla fine della seconda guerramondiale si è creata un codice linguistico vo-lutamente impenetrabile. La proposta di Bo-dini, teorizzata in “L’esperienza poetica”,riguarda il totale sovvertimento dei canoniobbligati che hanno caratterizzato il fare poe-tico, con un profondo intervento sull’abitolinguistico che prevede il recupero di tutte lecoordinate poetiche, dal sentimento al fanta-stico, dal reale al magico, escluse nella codi-ficazione del sistema lirico ermetico. Bodini,che come poeta si è formato nell’ambito dellascuola ermetica, superandone moduli e temi,indica la nuova via nella sperimentazione.Anche Pasolini, su “Officina”, nel tentativo didelineare gli elementi iterativi della poesiaprodotta dopo il 1950 per isolare nuclei nonriconducibili alle due definizioni di post-er-metismo e di neorealismo, parla di “ten-denze” che “spesso si presentano mescolate(PIER PAOLO PASOLINI, Il neo-sperimen-talismo, in “Officina”, 5, febbr.1956, p. 169)”alle quali affibbia l’etichetta di neo-sperimen-tale.Scrive Armida Marasco, giovane studiosameridionale scomparsa prematuramente:“Pasolini, Bodini e tanti altri giovani intellet-tuali di quegli anni, erano il prodotto di unagenerazione inquieta che aveva subito ten-sioni profondissime, scatenate da processi di

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smagliature capillari avvenute nel tessuto so-ciale e quindi obbligata alla riformulazione dinuovi ideologie dalle quali far emergere unnuovo assetto sociale e culturale (ARMIDAMARASCO (a cura di), L’esperienza poetica(1954-1956), Congedo, Galatina, 1980, p.XXIX)”. L’inquietudine in poesia per Bodinisi manifesta nell’osare sperimentando. Del1956 è la raccolta di versi “Dopo la luna”,nella quale Bodini prosegue la linea intra-presa nella precedente raccolta “La luna deiBorboni”, con un’attenzione maggiore neiconfronti del paesaggio umano che abita ilsuo Sud: “Siamo nati dicendo “a priori” nelfondo / delle case, senza neanche confessare/ la sorpresa di un pianto nuovo, / e ci è de-stinato rimpiangere / fin le cose che abbiamo/ qui, vicino, come fossero / miglia e migliaremote (VITTORIO BODINI, op. cit., p. 82)”.Inoltre, costante e ossessiva è la comparsadella luna come oggetto poetico da cantare:“Chiudi le mani a pugno / o luna sull’asfalto;/ lasciaci indovinare dove hai nascosto / lamoneta d’oro ( VITTORIO BODINI, op. cit.p.81)”. La presenza della luna è in tutte le raccolte ele età di Bodini, con un inevitabile riecheggia-mento della luna cantata dal Leopardi: “Èluna bambina, luna lumaca, è conchiglia lu-nare, è luna dei Borboni col ghigno sfigurato,ha i capelli corti ed è ghiotta d’angurie, èamica dell’allodola, nel sole di maggio è mez-zaluna pigra (SILVERIO TOMEO, op. cit., p. 25)”. La ritroviamo già in “Foglie di tabacco”,

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silloge poetica che raccoglie testi che vannodal 1945 al 1947 (“Ma tu, luna, le incognite fi-nestre/ illumini del Nord, / mentre noi quiparliamo, / nel fondo di quest’esule provincia/ ove di te solo la nuca appare (VITTORIOBODINI, op. cit., p. 64)”) e la ritroviamo oltrevent’anni dopo, in un testo dal titolo Per unvolo nei pressi della luna del 1968 (“Vedi laluna rider della luna (…) / Vedi la perfezionedei congegni spaziali / con cui i figli dei pro-feti / ruban ruote di scorta al sogno / Vedi laguerra partorire guerre / la luna calva e grigia/ le bare che si nutrono in anticipo dei pen-sieri dei vivi (VITTORIO BODINI, op. cit., p.132)”). Si è fatto cenno ad un testo di Bodinidel 1968. Gli anni Sessanta, appunto, gli anninei quali Bodini abbandona definitivamenteil suo Salento. Nel 1961 Bodini fugge da Lecceper recarsi a Roma e questa volta definitiva-mente. Nel 1967 pubblicata la raccolta “Me-tamor” che comprende le poesie scritte tra il1962 e il 1966. “Metamor” si apre con unanota di inquietudine e tristezza in Conoscoappena le mani: “Ma gli anni? Dove son glianni, / e tutti i libri che ho letto? (…) / Tuttonella memoria / cade a pezzi, sprofonda /senza rumore / nelle botole dei morti (VIT-TORIO BODINI, op. cit., p. 101)”. Bodini ri-percorre con un sentimento di nostalgicorimpianto il passato e le esperienze vissute,ricercandone il senso. Bodini sembra quasicominciare ad accettare la “civiltà indu-striale” che verrà cantata nelle “La civiltà in-dustriale o poesie ovali” pubblicate dopo la

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sua morte: “presi nelle spire del boom ne gu-stiamo anche noi / gli alti palazzi e le piantenane / piume serpenti chiomati sotterfugi in-timi (VITTORIO BODINI, op. cit., p.101)”.Ma nei versi di Bodini non c’è mai resa.Emerge piuttosto un atteggiamento ironicotramite il quale mostrare poeticamente lepiaghe di tempo presente che non condivide.L’itinerario della poesia bodoniana partedalla civiltà contadina, con le raccolte “Laluna dei Borboni” e “Dopo la luna” e si con-clude con “La civiltà industriale o poesieovali”. Un tragitto che potrebbe apparire in-coerente. Scrive Bonea: “Nel cammino, però, restò le-gato sempre alla concretezza dell’esistere eraccolse dalle situazioni-circostanze contin-genti il dato da tradurre simbolicamente,come Duchamp sapeva estrarlo da un mate-riale degradato, una ruota vecchia di bici-cletta ad esempio, in segno artistico (ENNIOBONEA, op. cit., p. 114)”. Sei mesi prima dellamorte, nel giugno del 1970, Bodini scrive lapoesia Rapporto del consumo industriale,con un titolo da relazione confindustriale, en-nesima testimonianza della capacità delpoeta di osare e sperimentare senza apparte-nere a nessuna militanza avanguardistica:“Dov’eran anfiteatri d’uve dizionari d’ombre/ si alzano nidi di plastica di cemento di cal-coli di gettata / e tra pungoli e gemiti di nottisenza fiori / il numero nemico della bellezza/ coordina coiti prolifici che assicurano all’in-dustria / un più grande mercato di consuma

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tori (VITTORIO BODINI, op. cit., p. 138)”. ed ecco l’insegnamento ultimo che Bodini cilascia: attraverso lo strumento della poesia,“struggente inchiesta sulla verità dell’essere”,il poeta salentino afferma il concetto chel’uomo, sui campi o nelle officine, è semprevittima di soprusi e oppressioni. Un messag-gio pessimistico, senza però essere arrende-vole, e che, a oltre trent’anni dalla scomparsadel poeta, avvenuta nel dicembre del 1970,continua ad essere profondamente attuale.

Pubblicato in Nuovi ArgomentiNumero 32 (ottobre-dicembre 2005)

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Vittorio Pagano nell’analisi di Nicola Carducci

Non avrete di me che la domandapiù subdola della morte,

il mio verso che gioca con la mortela mia tresca di morte per mistero,

ed è certa una gloria dell’opacalapide in cui diventerò scrittura

cabala di me stesso

Vittorio Pagano, da Morte per mistero, “Il Critone”, 1963

Proiettandosi nell’occhio delle vedute critichedi Nicola Carducci diviene meno complicatoscontrarsi con alcune delle personalità più ir-resolute del panorama scritturale salentino.A Nicola Carducci si deve una delle letture piùattente della poetica sperimentale dello scrit-tore di Caprarica Antonio Verri. Allo stessoCarducci si deve una lucida e attenta analisidell’opera stratificata del dimenticato poetaleccese Vittorio Pagano, grazie ad un testo daltitolo Vittorio Pagano, l’intellettuale e ilpoeta, edito dalla casa editrice leccese PensaMultimedia. Chi è Nicola Carducci? La cosainteressante è che non appartiene a quel nu-cleo accademico impettito e monocolore alquale sono legati i successi critici di GirolamoComi e Vittorio Bodini. Carducci ha insegnato Lettere italiane e la-tine nel Liceo classico “G.Palmieri” di Lecce sino al luglio 1990. Ha collaborato e colla-

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bora alle pagine culturali di vari giornali,anche di area nazionale, e a riviste letterarie.Ha compilato voci su dantisti dal Cinque alNovecento per l’Enciclopedia Dantesca e suAutori moderni e contemporanei per l’Enci-clopedia di scienze e Arti, diretta da AntoninoPagliaro (Fabbri Editori). Ha pubblicatosaggi su Giaime Pintor (1965) e su FrancescoAntonio Astore (1987), l’indagine critica suGli intellettuali e l’ideologia americana nel-l’Italia letteraria degli anni trenta (1973), unamonografia su Francesco Jovine (1977-1986),l’ampia raccolta Tra letteratura e ideologia:ricognizioni critiche (1999), una Storia intel-lettuale di Carlo Levi (1999) e l’articolato in-tervento investigativo su L’utopia letterariadell’umanesimo perenne (2003). Della suascrittura critica ciò che emerge è l’impiantorazionale tramite il quale riesce a penetrarenegli ispidi ingranaggi di molta poesia“oscura”, dispiegandone i velati significati at-traverso un linguaggio dotto, ma mai criptico,immelmato di citazioni, senza, però, mai su-scitare cattivi odori. Nella rilettura dell’opera di Vittorio Pagano,in prosa e in versi, Carducci mira a ridiscu-tere e approfondire i nuclei critici più contro-versi del minimale discorso esegetico tenutosu di essa, soffermandosi su alcuni nucleiconcettuali: la natura dell’ermetismo delpoeta Pagano, da Carducci, inteso in chiavepsicologica e non meramente letteraria; il suoblaterato maledettismo, inteso non comemodus vivendi et cogitandi, ma quale compo-

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nente poetica fra le altre; la ragione ideolo-gica alla base dell’ intensa attività traduttoriadal francese di Pagano; il rapporto teoriaestetica e creatività nella coscienza operativadel poeta; il nesso dialettico tra irrequietezzaesistenziale e sua sublimazione artisitica; l’in-terferenza dell’impegno etico-politico dell’in-tellettuale, esplicito o sotteso, nella ragioneletteraria della poesia; l’ingerenza del pen-siero riflesso nella genesi emotiva dellaespressività. Dell’analisi condotta da Carducci risalta unprofilo più compiuto e verace, pur nella suacontraddittoria complessità, del Pagano in-tellettuale non allineato e poeta incisivo.L’operazione di Carducci, d’altro canto, nonpuò essere considerata esaustiva, se si pensache di Pagano non si ha una edizione criticadi tutta la sua produzione poetica, ricor-diamo, uscita per intero con le edizioni de “IlCritone”. A completare il testo di Carducci un’appen-dice con quattro poemetti inediti di Paganodi matrice biblica, Scena per Betsabea, Nu-mero per Giuseppe, Anabasi a Maria e Noti-zia di Lazzaro.

Pubblicato in Musicaos.it - aprile 2005

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Salvatore Toma ed Einaudi, rinasce un amore

Dopo la raccolta delle firme, partita da Ma-glie, ma diffusasi in altri paesi e città del Sa-lento e d’Italia, “Il Canzoniere della Morte” diSalvatore Toma è stato ristampato dalla casaeditrice torinese dell’Einaudi. SalvatoreToma, nato a Maglie nel 1951, è morto all’etàdi trentasei anni nel 1987, a causa di problemid’alcolismo. Toma è stato uno dei principaliesponenti, assieme ad Antonio Verri, del-l’avanguardia poetica salentina cominciataalla fine degli anni ’70 e protrattasi per tuttoil decennio successivo. Da ragazzo aveva fre-quentato il liceo classico “Capece”, ma senzacompletare il ciclo di studi. Ben sei sono sta-tele raccolte di poesia pubblicate tra il 1970 eil 1983: “Poesie”, “Ad esempio una vacanza”,“Poesie scelte”, “Un anno in sospeso”, “An-cora un anno” e “Forse ci siamo”. La fama diSalvatore Toma, però, ha ricevuto una sortadi consacrazione dal lavoro di Maria Corti,notissima filologa, che nel 1999 curò per Ei-naudi, appunto, la raccolta postuma “Il Can-zoniere della Morte”. Il titolo richiama alla mente la costante pre-senza nell’autore si un pensiero, di un’osses-sione, di un proposito: il suicidio come mezzoper squarciare le ombre e ricongiungersi conl’eterno. Toma, però, non si suicidò, come laCorti ha affermato nell’introduzione alla rac-colta, preferì piuttosto lasciarsi morire, perché voleva provare quel brivido della sfida

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alla morte. L’interessante operazione cultu-rale, in grado di estendere la conoscenza dellapoesia dello scrittore magliese oltre i confinisalentini, si scontra con i limiti di una logicaeditoriale che ha messo fuori catalogo il testo,poco tempo dopo la sua pubblicazione. Eppure i testi poetici dell’Einaudi escono conuna tiratura minima di tremila copie, rag-giungendo le cinquemila copie quando a pub-blicare sono autori come Alda Merini,Patrizia Valduga, Cesare Viviani. Risulta improbabile che uno scrittore scono-sciuto al resto d’Italia potesse avere vendutoun simile numero di copie. Il mistero s’infit-tisce. Le librerie, nonostante le richieste, nonricevono più dalle catene distributrici il testo.Chi è riuscito ad acquistare il libro subitodopo la sua pubblicazione può ritenersi unprivilegiato. Si cerca di correre ai ripari. Unadelle case editrici più interessanti del territo-rio, la Manni, chiede all’Einaudi la possibilitàdi acquistare i diritti del libro, accontentandocosì, le pressanti richieste di un numero co-spicuo di lettori. L’Einaudi non accetta talerichiesta. Nel corso del 2003 parte da Maglie,paese natale dello scrittore, una raccolta difirme da presentare alla casa editrice tori-nese, volta alla richiesta della ripubblicazionedi “Il Canzoniere della Morte”. La raccolta di firme si espande a macchiad’olio, toccando vari centri del Salento, maraggiungendo altre zone d’Italia. A Como, un nucleo di intellettuali, capeggiati dal giornalista Pietro Berra, allievo di Maria

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Corti, si batte per la “causa Toma”, racco-gliendo un numero non indifferente di ade-sioni. L’Einaudi non poteva non risponderea questa piccola sollevazione popolare che daMaglie attraversava l’intera penisola per rag-giungere Como. Il resto della storia è nota.L’Einaudi ha ripubblicato “Il Canzonieredella Morte”. Le ragioni del ritiro del testo dalcatalogo ufficiale della casa editrice restanooscure, c’è chi afferma che il testo sia statostampato in una tiratura limitata, poiché l’Ei-naudi non si aspettava un simile successo, oaddirittura che un tot di copie in magazzinosiano state mandata al macero. Non sarebbeuna novità per i poeti salentini, anche moltecopie della raccolta di Vittorio Bodini uscitaper Mondadori sono improvvisamente scom-parse dai magazzini della casa editrice. Al di là di tutte le dietrologie fumose dell’edi-toria nazionale, ciò che ora importa è essersiimpossessati nuovamente di una delle perlepoetiche del ‘900 letterario salentino. Di-venta necessario, a questo punto, portare iltesto alla conoscenza di un pubblico di lettoripiù ampio. La città di Maglie ha vinto la suabattaglia. I versi di Salvatore Toma continue-ranno ad echeggiare nelle nostre menti e isuoi testi a brillare nelle nostre librerie.

Apparso in Nuovo Quotidiano di Puglia22 luglio 2005

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Il libro migliore di Salvatore Toma

Sono passati vent’anni dalla morte di Salva-tore Toma, poeta pugliese (di Maglie, paesedella provincia di Lecce) morto tragicamenteall’età di 36 anni nel 1987. Toma ha ottenutauna discreta celebrità postuma, grazie all’in-teressamento di Maria Corti, che curòil “Canzoniere della morte”, una sorta di bestof, pubblicato da Einaudi nel 1999. Molti deitesti più validi presenti nella raccolta curatadalla Corti appartengono ad un volume, “An-cora un anno”, uscito una prima volta nel1981, edito da Capone, ed ora ripubblicatodallo stesso editore, in occasione del venten-nale della morte del poeta. Presenti in questovolume gli elementi topici della poetica diToma, l’esaltazione della natura, contro leimmani catastrofi dell’umanità, la continualotta tra reale e sogno e il dialogo ossessivotra vita e morte, dove quest’ultima non rap-presenta la naturale conclusione della vita,ma la sua esaltazione, “una sorta di energiareattiva che fa coagulare e filtrare la vita nel-l’alambicco dell’esistenza”, come scritto daDonato Valli nell’introduzione al testo: “acreare progettare ed approvare / la propriamorte ci vuol coraggio! / ci vuole il tempo /che a voi fa paura. / Farsi fuori è un modo divivere / finalmente a modo proprio / a modovero”.Toma, in vita, non ebbe rapporti semplici conl’editoria che contava. Tutte le sue raccolte,infatti, sono state pubblicate da piccoli edi-

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tori. Scrive Maurizio Nocera, nella pagina dipresentazione di questa nuova edizione di“Ancora un anno”: “La silloge “Ancora unanno” fu per Toma uno dei suoi libri dal per-corso più difficile. Non si trovava modo difarlo pubblicare. Venne rifiutato pratica-mente da tutti gli editori ai quali Totò lo inviò.Per di più ci fu qualcuno, come ad esempioMaurizio Cucchi, all’epoca responsabile dellacollana poetica della Mondatori che non sololo osteggiò ma trovò modo di rispondere alpoeta in modo alquanto sgarbato”.Toma è stato un poeta discontinuo. Alternavapoesie di grande valore immaginifico, pureperle liriche, a testi poco efficaci. Siamo certiche il rifiuto di Cucchi sia legato a logicheestetiche e non “territoriali”. Ciò che è vero èche Maria Corti dovette far passare per sui-cida per riuscire a pubblicarlo postumo da Ei-naudi. Venne, invece, stroncato da una cirrosiepatica: “Anche da morto / io sarò un ribelle/ uno strano tipo / giacché non c’è altro modo/ oltre la morte / di curare i rimorsi i dispia-ceri / la noia dei soprusi / le bruttezze le vio-lenze / i capogiri della vita. / Mi sentirò beneanche da morto / e puro e semplice e ribelle”.

Apparso in Nuovo Quotidiano di Puglia2 giugno 2007

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Antonio Verri: Postmodern/Postmortem o le ragioni di una scelta

Introduzione

Antonio Verri, autore difficile, magmatico,barocco, costruttore di una sintassi volteg-giante, inclusiva, generativa, mai lineare, maiscontata, mai semplicistica, sempre ricercata,analizzata, sino allo sfinimento, sino alla con-sunzione delle possibilità linguistiche esi-stenti, amante del neologismo sfinterico,ossia organico, per la necessità vitale di co-struire un mondo possibile alternativo, fattodi grafemi, fonemi, lessemi (parti minimidella struttura linguistica) dotati di una loroautonomia nel testo, in grado di produrre, nelconsueto percorso di lettura orizzontale, se-mantiche diverse, polisemie arabesche, attra-enti, perverse.Credo che ci sia della perversione nella scrit-tura di Antonio Verri, perversione non nel-l’atto della ricezione del testo da parte deilettori, ma nel gesto produttivo dell’opera.Verri è perverso perché, amante carnale dellaparola, la spoglia e la denuda, l’accarezza perpoi implorarla, la fotte e poi la bacia, per ar-rivare poi alla totale immersione nel progettoinfinito, impossibile, ma per la stessa ragioneattraente, indeclinabile: lavorare al Declaro,progetto editoriale in grado di raccoglieretutte i suoni, le suggestioni, le armonie, lestorture dell’esistere in un unico libro.

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Il progetto mefistofelico del mondo in unlibro. Questo vuole essere un breve viaggio nellascrittura perversa (per le ragioni sopra indi-cate) dell’autore che ha smosso le acque stan-tie della letteratura salentina nel corso diquasi un ventennio, a partire dalla fine deglianni ’70, per arrivare al 1993, anno dellamorte dello scrittore.

Antonio Verri ha saputo ridare linfa ad unclima culturale che versava ancora lacrimesulla tomba di Vittorio Bodini, spentosi nel1970. Verri ha preso per mano una genera-zione e l’ha condotta verso le contorte stradedella sperimentazione letteraria, raggiun-gendo degli esiti sorprendenti, ma critica-mente irrisolti. Perché parlare di Verri oggi,a oltre dieci anni dalla sua morte, è parlare diun insieme di meccanismi nascosti che vo-gliono elidere la figura dello stesso scrittore.L’elisione non va vista necessariamente comevolontà, ma come conseguenza che nasce dal-l’indifferenza della critica nei confronti diVerri. La critica alla quale faccio riferimentoè quella accademica, quella formatasi nel-l’ateneo salentino, quella di docenti e ricerca-tori che ha garantito la sopravvivenza testualedel cattolicesimo in versi di Girolamo Comi,del surrealismo di matrice iberica di VittorioBodini e, in parte, del simbolismo colto, in-tarsiato in struttura strofiche appartenentialla tradizione, di Vittorio Pagano. Per gli autori che hanno operato alla fine

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degli anni ’70 e per tutto il decennio succes-sivo, nessuno ha mosso una penna, o, almenonessuno ha costruito un progetto organico diricerca. Salvatore Toma, scrittore di Maglie, stron-cato dalla sua dipendenza dall’alcol nel 1987,all’età di 36 anni, ha dovuto attendere dopola morte la sua consacrazione artistica, grazieal lavoro di Maria Corti, la quale ha curato lapubblicazione del “Canzoniere della morte”,uscito nella preziosa collezione bianca dell’Ei-naudi. Per Antonio Verri, ripeto, poco o nulla è statofatto nell’ambito della ricerca. Si sono susse-guite operazioni editoriali, curate da amici divita, volte a tenere desto il ricordo dello scrit-tore, a non attecchirlo definitivamente, maquella di Verri è una scrittura difficile, che habisogno di un apparato esegetico e filologicocostante, e che nessuno, a oltre dieci annidalla morte, ha avuto il coraggio di intrapren-dere. La critica militante, quella che si muovenei binari fascinosi e contorte dei quotidiani,delle riviste, delle pubblicazione a tiratura li-mitata di brevi saggi, non è stata a guardare,ma non possiamo ritenerci soddisfatti, questonon può bastare.Le ragioni di questa scelta, di questo breveviaggio nella scrittura di Antonio Verri, sonoprovocatorie, ossia, vogliono mettere in sub-buglio le certezze del mondo accademico no-strano, farlo vacillare mostrando la forzaprimigenia dello scrittore più originale delNovecento letterario salentino.

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1. Biografia letteraria ad uso e consumo dei neofiti

Antonio Verri è nato nel febbraio del 1949 edè scomparso prematuramente il 9 maggio1993, a causa di un incidente stradale. Ha vis-suto gran parte della sua vita a Caprarica diLecce, paesino abitato da poche migliaia dianime, centro propulsore dell’infinita poten-zialità creativa dello scrittore. Negli anni chevanno dal 1977 al 1993 Verri ha dato vita aduna produzione spropositata di progetti let-terari, sul quale ci soffermeremo per com-prendere le caratteristiche fondamentalidella sua vita artistica. Ha fondato e direttole riviste Caffè Greco (1979-1981), Pensio-nante de’ Saraceni (1982-1986), Quotidianodei Poeti (1989-1992, dal maggio 1991 si in-terseca con un’altra testata, Ballyhoo-Quoti-diano di comunicazione), ripubblicato nel2003 dall’Associazione Culturale Ernesto deMartino. Ha organizzato due edizioni di unamostra mercato di poesia pugliese, Al bancodi Caffè Greco. Ha allestito un dramma ra-diofonico alla Rai di Bari, ha dato vita ad unaprima mostra/lettura su Joyce e Queneau ead una seconda Scrap, gioco scrittura conscarti tipografici. Ha aderito al MovimentoGenetico di Francesco Saverio Dòdaro, hacollaborato con Sudpuglia(1986-1993) e di-retto On Board (1990) e Titivillus (1991-1992), che dal settembre 1992 diventerà dialtri. Ha curato tutte le attività legate al Cen-tro Culturale Pensionante de’ Saraceni. Inol-

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tre, ha curato le collane I quaderni del Pen-sionante (1983-1987), Spagine. Scrittura In-finita (1991), Compact Type. Nuova Narrativa(1990), Diapositive. Scritture per gli schermi(1990), Mail Fiction (1991),con la collabora-zione di F.S.Dòdaro, Abitudini. Cartelle d’au-tore (1988-1990), con Maurizio Nocera e IMascheroni (1990-1992). Tra queste opera-zioni editoriali un cenno particolare meritaBallyhoo – Quotidiano di comunicazione. IlQuotidiano, stampato a Maglie, la mattinaveniva diffuso nelle più importanti città ita-liane, con un marchingegno di trasporti in-ventato dallo stesso Verri, attraverso unaserie di collaboratori strategici nei capoluoghidi regione. Questa rappresenta una delle piùgrandi performance a cui dà vita Verri, cheper ben dodici giorni riesce a mantenere inpiedi, facendo parlare di questa sua impresanon solo la stampa locale, ma anche quellanazionale. Altra operazione culturale degnadi interesse, sopra non citata, è Ballyhoo-Let-terature (Declaro), del 1992, una sorta di bro-gliaccio composto, stampato, fotocopiato,disegnato da Verri assieme a Mauro Marinoe Maurizio Nocera.Il lavoro redazionale viene svolto a Lecce,presso il teatro Astragali, pubblicato in 200esemplari. Verri riesce ad inserire in questobrogliaccio tutto l’elenco dei suoi amici arti-sti, in tutto 163. Ciò che emerge da questoelenco di riviste, collane e operazioni infiniteè che per quindici anni il monopolio della cul-tura underground è passata dalle mani di An-

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tonio Verri, il quale si è circondato di unaserie di artisti il cui sostegno era fondamen-tale, Antonio Errico, Fabio Tolledi, France-sco Saverio Dòdaro, Cosimo Colazzo,Salvatore Colazzo, Maurizio Nocera, Fer-nando Bevilacqua. Ciò che probabilmente mancava era il con-fronto, la discussione redazionale, il dibattitoteorico, la stesura di manifesti, l’elaborazionedi una poetica, quello che determina la crea-zione di un’avanguardia. Non si può quindiparlare di avanguardia letteraria per la gene-razione di scrittori formatasi nel Salento neglianni Ottanta, ma non per ragioni legate ad in-capacità di Verri e compagni, ma perché ilcontesto storico-culturale non era lo stesso diquello che ha dato vita, per esempio, alGruppo 63. Ecco cosa scrive Umberto Eco nelle Postille aIl nome della rosa: “Arriva il momento chel’avanguardia (il moderno) non può più an-dare oltre, perché ha ormai prodotto un me-talinguaggio che parla dei suoi impossibilitesti (l’arte concettuale). La risposta postmo-derna al moderno consiste nel riconoscereche il passato, visto che non può essere di-strutto, perché la sua distruzione porta al si-lenzio, deve essere rivisitato”. Si è citato Ecoperché da qui bisogna partire per compren-dere la letteratura di Antonio Verri. Verri è autore perfettamente inquadrato nelfilone del postmodernismo letterario italiano,quello visto con sospetto dalla nostra critica accademica, che ha avuto negli anni ottanta i

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suoi elementi migliori, e Verri è autore anniottanta, tra cui Umberto Eco, l’ultimo ItaloCalvino, Antonio Tabucchi, Pier Vittorio Ton-delli e Vincenzo Consolo (autore amato oltre-modo dallo scrittore di Caprarica). Quando siparla di letteratura postmoderna si fa riferi-mento a quella letteratura che fa della cita-zione, dei giochi intertestuali, del pastichelinguistico e stilistico i suoi elementi fondanti,ossia a quella letteratura che considera il pa-trimonio letterario e culturale in genere pa-trimonio al quale attingere senza remore.Verri è autore postmoderno perché la suascrittura più dirompente, quella per inten-derci che parte con La Betissa (1987), per poicontinuare con I trofei della città di Guisnes(1988), Il naviglio innocente (1990), e conclu-sasi con il postumo Bucherer l’orologiaio(1995), dialoga continuamente con gli autoriamati dallo scrittore di Caprarica, a partire daVittorio Bodini, Salvatore Toma e il pittoreEdoardo De Candia, sino ad arrivare ad ElioVittorini, Carlo Emilio Gadda, Jack Kerouac,Allen Ginsberg, Samuel Beckett, Walter Ben-jamin, John Cage, e soprattutto i “suoi” JamesJoyce e Raymond Queneau (solo per rimanerenell’ambito delle citazioni, ricordiamo che Ste-fan è il protagonista di quasi tutti i testi di Verrie Stefan è personaggio joyciano dell’Ulisse, oancora Ulipo è il nome del gatto presente ne Ilnaviglio innocente e Oulipò è l’officina di let-teratura potenziale fondata da Queneau, ma sicontinuerà in seguito). Senza la conoscenza e l’amore per questi au-

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tori, Queneau in primis, Verri non avrebberaggiunto gli esiti brillanti, poetici ed originalidella sua scrittura e non avrebbe osato sfidarele leggi della letteratura sognando di scrivereil libro infinito, il Declaro appunto, il suomondo fatto di parole.

2. L’esordio poetico di Verri, un surreale neocrepuscolarismo

Tra le operazioni culturali effettuate dopo lascomparsa di Antonio L. Verri, la più interes-sante, a mio parere, è stata la ripubblicazionedi Il pane sotto la neve, nel maggio 2003, cu-rata da Maurizio Nocera, ad opera della casaeditrice Kurumuny, diretta da Luigi Chiriatti,a vent’anni di distanza dalla prima uscita deltesto con la casa editrice dello stesso Verri, Ilpensionante de’ Saraceni. Il pane sotto laneve raccoglie testi poetici scritti da Verrinegli anni che vanno dal 1977 al 1982, anni digrande difficoltà per il Mezzogiorno e per ilSalento, a causa della loro condizione di pro-fonda emarginazione economica e sociale.Verri, nei suoi versi, cerca un recupero delpassato, un rigoroso recupero delle sue ra-dici, come dimostra la prima lirica, dedicataa Carmelo Bene, dove lo scrittore ci offre unaOtranto che genera meraviglia:

Otranto ha gustosissimi grumi di neveun lungo discorrere della memoria

vuota silenzio invernale della mia manobianca di turco spolpato.

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Poi la silloge continua con i testi appartenentialla sezione Stefan, alter ego di Verri di ma-trice joyciana, che lo accompagnerà per tuttala sua esistenza creativa (con testi scritti nelbiennio 1981-1982), dove al recupero di unpassato storico si accosta la ricerca di una di-mensione individuale da far riemergere. Esi-ste in questa prima sezione del testo unaparticolare ebbrezza ed un piacere dell’enu-merazione (necessaria per ricostruire anali-ticamente il suo passato) che lega Verri allatradizione sperimentale di autori dallagrande perizia tecnica del nostro Novecento(basti pensare al correlativo oggettivo diT.S.Eliot). Ci sono testi dal grande impattoemotivo, come (per Roberta a Bologna) e (perFranco Gelli), e c’è anche l’energia e il furorepoetico dell’indimenticabile Fate fogli di poe-sia, poeti, il testo che più rappresenta la tena-cia del Verri scrittore, la sua ferrea volontà dinon arrendersi di fronte a nessun potere in-tenzionato a fermare la sua azione creativa:

Spedite fogli di poesia, poetidateli in cambio di poche lire

insultate il damerino, l’accademico boriosola distinzione delle sue idee

la sua lunga morte,fatevi dare un teatro, un qualcosa

raccontateci le cose più idiotesvestitevi, ubriacatevi, pisciate all’angolo

del localecombinate poi anche un manifesto

cannibale nell’oscurità.

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Ma non è quello del Fate fogli di poesia, poetiil tono dominante del testo, poiché ne Il panesotto la neve Antonio L. Verri è soprattuttomeditativo, nostalgico, chiuso in se stesso,come dimostra la seconda sezione Micisca!(testi del 1980-1981) e come dimostrano que-sti versi:

Ecco. Adesso riposonelle urne a vetro nel mare

avvolto nel manto del diniegocon gli occhi ormai lune

vuote perdute senza terra.

Ad avvalorare questa tesi di un Verri a trattineocrepuscolare, come il Giudici di La vita inversi, è la quarta sezione del testo, dopo lesette poesie di Dov’è Samarcanda, che dà,inoltre, il titolo alla raccolta, Il pane sotto laneve appunto, con un poema di 110 versi de-dicati a Vittorio Bodini. Ad accomunare Verrie Bodini è quella profonda riflessione nata dalrapporto conflittuale con la propria terra“così amata da doverla odiare”, è quell’intimaconvinzione che la ricerca di una propria con-dizione di serenità va cercata oltre i propriconfini che sembrano a volte strazianti e op-primenti:

Sto con te, lo sai, e col tuo vecchiocuore di contadina ma cerco, e devo cercareancora madre, continuamente modi nuovi oparole di sangue. Tu, se vuoi, pensa pure alinguette di rosso pomodoro o ai tuoi rossitramonti di giovane sposa.

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Proprio questa dimensione della ricerca su sestesso, che un Antonio L. Verri ancora gio-vane compie lungo le liriche di Il pane sottola neve, rende questo testo una dei migliorilibri di poesia del Novecento salentino, as-sieme alla Luna dei Borboni di Vittorio Bo-dini, ad Ancora un anno di Salvatore Toma(alcune liriche poi confluite nell’antologia ei-naudiana Canzoniere della morte) e al folle edivino poemetto Inferno minore della poe-tessa Claudia Ruggeri, morta suicida all’età di29 anni, nell’ottobre 1996, pubblicato per in-tero nel numero 39-40 del dicembre 1996dell’Incantiere, giornale di poesia a cura diWalter Vergallo e Arrigo Colombo.

3. Il fabbricante d’armonia, sfidare la storia per raccontarsi poeticamente

Dopo Il pane sotto la neve, anche Il fabbri-cante d’armonia: Antonio Galateo, pubbli-cato nel 1985 con la Erreci di Maglie, è statoanch’esso ripubblicato dalla casa editrice Ku-rumuny nel 2004. Il testo in questione erastato parzialmente utilizzato da Verri, poichétrasmesso dalla Rai di Bari nei mesi di aprilee maggio del 1985, con un adattamento diAntonio De Carlo e la regia di GiandomenicoVaccari. In seguito, Antonio Verri ripresequel testo, lo ripropose, lo ampliò, attraversol’aggiunta di monologhi e molte varianti. Ilfabbricante d’armonia ha come figura cen-trale quella dello studioso salentino del ‘500

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Antonio De Ferraris, detto il Galateo, perchéoriginario di Galatone. La storia del Galateo,della sua cacciata da Napoli, poiché accusato di essere stato amico dei Saraceni ad Otranto,la crisi dello stesso studioso, il suo ritorno inpatria dopo la permanenza a Bari nella cortedella duchessa Isabella d’Aragona Sforza, inrealtà rappresentano tutti espedienti tramitei quali lo scrittore vuol mettere a nudo sestesso, la sua fragilità, a tratti, la sua dispera-zione. E lo fa attraverso il gioco intellettuali-stico del ritrovamento nel 1980, da parte didue eruditi, Cesare ed Alberto, di manoscrittiin un convento di Martano, autografi diMauro Cassoni (personaggio realmente esi-stito, profondo conoscitore della lingua edella tradizioni grecaniche salentine, morto aLecce nel 1952) che riguardano Antonio DeFerrariis e ne narrano, alla luce delle sueopere, un probabile momento della sua tra-vagliata esistenza. Dietro questa costruzione,degna delle migliori menti del postmodernoitaliano, basti pensare ai giochi intertestualipresenti nei romanzi di Umberto Eco e Anto-nio Tabucchi, emerge una personale visioneverriana del massacro otrantino del 1480:“Dietro questo tipo di accuse non c’è mai ac-cusatore, il volto di uno, il corpo di uno. Die-tro queste accuse trovi sempre la retorica piùbanale, una violenza sottile, indistinta, unacrudeltà così ben studiata da fare di te l’uomopiù meschino e corrotto che ci possa essere…È ver, sono stato con i Turchi in Otranto. Ma che vuol dire? Spesso sedevo al loro ta-

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volo, affascinato dalle loro storie di donne,dai loro costumi, dai loro racconti, dalla lorostessa mezzaluna… Quanto sanno che pro-prio i Turchi hanno fatto di tutto per non attaccareOtranto? Quanti riescono a capire quali tor-tuose promesse di una vita di altri regnihanno spinto gli Otrantini, che amavano lavita, alla voluttà del martirio, allo sprofon-dare nel nulla!”. Scrive Nicola Carducci su Ilfabbricante d’armonia: “ La ripubblicazionedi questo testo è stata promossa dall’IstitutoDiego Carpitella e curata da un comitatoscientifico composta da Aldo Bello, Luigi Chi-riatti, Eugenio Imbriani, Maurizio Nocera eSergio Torsello. La costituzione di un comi-tato scientifico potrà aiutare la diffusione ca-pillare dell’opera di Verri? Ciò che è certo èche sarà necessario migliorare il lavoro dicorrezione delle bozze, poiché Il fabbricanted’armonia è pieno di refusi e errori d’impagi-nazione, non presenti nella prima edizionedel 1985, e fondamentale sarà avere una di-stribuzione nazionale dei suoi testi, senza iquali Verri continuerà ad essere un autore dinicchia.

4. Da La cultura dei tao a La Betissa, l’adesione al femminilenella maturità scritturale di Verri

A Il fabbricante d’armonia segue un piccolotesto, La cultura dei tao. Si tratta di una in-troduzione ad una mostra sulla cultura ma-

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teriale della civiltà cittadina curata da Anto-nio Verri per conto di un istituto regionalepugliese. Scrive Fabio Tolledi sul terzo nu-mero del periodico di Vertigine, interamentededicato ad Antonio Verri: “L’apertura de Lacultura dei tao (quasi da omaggio leopar-diano, “era ancora luna chiara di gennaio,giovane luna”) vive uno slittamento lingui-stico immediato dove il parlante sembra ri-chiamare una identità femminile: “Voi figliuscivate coi pantaloni gonfi di fichi secchi”.Nelle righe successive è chiaro che la madreparla, la madre è il cuore che pulsa. “Lamadre. La mar. Sussulto genetico”. Il testo siinserisce nello stesso periodo in cui Verri ade-risce al gruppo di arte genetica di FrancescoSaverio Dòdaro. Anche il gusto linguistico ri-chiama Dòdaro, la radice semantica del ma-terno è insomma qualcosa di forte che segnaun passaggio alla maturità linguistica e poe-tica di Antonio Verri. Maturità che segna unpassaggio anche da un punto di vista conte-nutistico, di slittamento dal segno del padrene Il pane sotto la neve e ne Il fabbricanted’armonia ad una totale adesione al maternoe al femminile”. L’adesione al materno perVerri rappresenta la voglia di oltrepassare leforme chiuse della letteratura dei “padri”,rappresenta il tentativo di violentare l’imma-colata forma chiusa del dire passatista, intro-ducendo il passo “sovversivo” della suascrittura poetica, il taglio “rivoluzionario”della sua progettualità stilistica onnivora. LaBetissa, storia composita dell’uomo dei curli

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e di una grassa signora è un testo poeticouscito nel marzo 1987 all’interno della rasse-gna trimestrale della Banca Popolare Sud Pu-glia. Rispetto alle precedenti opere ciò cheemerge con ostinata evidenza è la volontàdell’autore di fare della sua scrittura un cal-derone dalle immense proporzioni simboli-che. L’abbandono del gioco metonimico esintagmatico rappresenta il tendere dell’au-tore verso uno slancio scritturale metaforico,paradigmatico, profondamente e inequivoca-bilmente poetico. La Betissa è un testo costi-tuito da diciotto capitoli. Esiste unamicrostoria che diviene esile filo conduttoredel testo, quella del tentativo da parte di unadelle voci narranti di costruire un trabiccoloin grado di proiettarsi verso il cielo. Il trabic-colo di La Betissa altro non è che il tentativodi Verri dello scrittore di dominare lo stru-mento linguistico dentro il quale moltospesso si immerge, senza riuscire a domi-narlo. Per Verri le parole sono ossessione in-contenibile, sono orgasmo dal quale trarreinfinito piacere, sono codice astratto nelquale insinuarsi per dare un senso alla strut-tura dell’esistere. Il capitolo quindicesimo diLa Betissa, la lettera di Alessandro allamadre, rappresenta uno dei punti più alti epiù significati della scrittura di Antonio Verri:“Come già sai, anche se ti sei chiesta sempreil perché, io continuo a scrivere, continuo acercare parole che dicano, che facciano fedeai diversi e a volte a strani momenti della miavita, che molti dicono poveri. Coi risultati non

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ci siamo, ma questo non vuol dire. Il più dellevolte le parole che affibbio alle cose non reg-gono (che mi stia assalendo quel solito tre-more, quel solito magone?), pare, ti dicevo,non abbiano le parole appigli di nessun ge-nere, e come niente – come fosse la cosa piùnaturale del mondo – mi restano in mano.Me le ritrovo a mucchio – pensa con qualemia sorpresa – nelle palme congiunte: Oddioun tempo, col vigore che avevo, le buttavo inaria, aspettandomi, a terra toccata, di assi-stere e di gustare una di quelle meraviglie chesolo il caso sa così bene tornire. Se il magicorisultato non veniva, le ributtavo e così via”.Una sorta di chiara manifestazione del rap-porto dell’autore con il caotico vorticare dellinguaggio, prima della scrittura prosasticache per l’autore di Caprarica non rappresental’abbandono della poesia, ma la sua accetta-zione totale e onnicomprensiva.

5. La trilogia finale: spingere la prosaliricamente nel magma indistintodel linguaggio, dissolvendo l’intreccio

Alla tripartizione classica dei generi, epos-li-rica-dramma, Roman Jakobson attribuisce,all’interno del suo testo Poetica e poesia.Questioni di teoria e analisi testuali, delle dif-ferenze distintive. Nella poesia domina laprima persona (lo), nel dramma la secondapersona (Tu), nell’epica e, proiettato nellacontemporaneità, nella narrativa la terza per-sona (Egli).

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La scrittura di Antonio Verri è una corsa pro-gressiva verso l’appropriarsi del dominioepico/narrativo di matrice sperimentale. DaIl pane sotto la neve, (dove domina l’io liricodel poeta), passando per Il fabbricante d’ar-monia (il tu mimetico teatrale postmodernola fa da padrone), sino ad arrivare a I trofeidella città di Guisnes, con il quale Verri dàinizio a quel percorso lirico-prosastico (all’iodella poesia si alterna l’egli oggettuale di fattinarrati racchiusi in una matrice poematica).Ci sono testi dalla rara bellezza, pagine incan-tate e sublimi che il peso insolente del temposbiadisce e, senza possibilità di replica, con-suma. Uno di questi è I trofei della città diGuisnes che, all’interno della produzionedello scrittore di Caprarica, rappresental’opera più complessa e sofferta, il testo chesegna la definitiva maturazione artistica,dopo la già pregevole prova di La Betissa.Questo testo verrà ripubblicato nel corso del2005 dalla casa editrice calabrese Abramo,all’interno di una collana dedicata ai testifuori catalogo. Segno aggiuntivo di un ritornolento, ma progressivo, verso la scrittura diVerri. I tempi sembrano essere maturi. Eccocosa scrive Salvatore Colazzo: “Se fino a qual-che tempo prima egli, fragile e grazioso grillo,si trastullava e fremeva coi concetti slegati,senza nesso e significato, prendeva contattocon eccentrici autori di opere sul limite diffi-cilmente discernibile che separa l’arte dallafollia, dopo un lungo pazientare, con i TrofeiAntonio Verri riesce a trasformare in scrit-

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tura, tersa e musicalissima, i suoi giochi, e amettere opportunamente a frutto le sue inso-lite frequentazioni. Il suo grande stupore co-mincia a dar copro ad una grande utopia.Difficile e lunga è la via che porta a gemereogni volta in una nuova fiaba. Ma lungo essa– mi sembra – a partire da i Trofei s’incam-minerà Antonio Verri. Con questo testo ap-proda ad un raccontare che è anche ripensarea come un testo nasce e si costituisce – stal’autore infatti come guardone che adocchiala scrittura -, in un’epoca in cui si è perdutala fede nella narratività tradizionale e l’intel-lettuale che non voglia accettare la logicadell’industria culturale è costretto ad una so-litudine stringente. Immenso è il vuoto e noisiamo costretti alla forma colossa. Per unnarratore, per quanto sappia trattenere il re-spiro, sono troppe le crepe, le ferite: in lui laparola tende a moltiplicarsi ancora –“echi.Echi, solo echi”-, diventa concrezione che cre-sce e si autoalimenta, spurgo forse…” (Salva-tore Colazzo, Titivillus, giugno 1993). PerAntonio Verri scopo fondamentale della suaesistenza e del suo ruolo di scrittore è quellodi creare un libro che in grado di contenerel’intero Mondo, un libro infinito, fatto di pa-role meravigliose, splendenti, in continuo ac-cumulo, in continuo divenire, attraversoun’azione di lavoro sul linguaggio quasiscientifica, mai sconclusionata, fortementesentita. Il culmine della sua operazione su-blime sul linguaggio si ottiene con questo ro-manzo, i Trofei appunto, l’opera più corposa

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di Verri, nella quale l’esplosione irrefrenabiledella sua creatività linguistica si manifesta intutto il suo potenziale, che può rappresentarea tutti gli effetti un metaromanzo, un ro-manzo che interroga le logiche del farsi e delcostruirsi di un mondo possibile, con motiviche si presentano, scompaiono, si ripresen-tano, con valenza semantica accentuata. Untessuto linguistico caratterizzato dall’itera-zione, dai parallelismi, da regolarità ritmichee ciclicità di significati. Ma, entrando neltesto, di cosa parla I trofei della città di Gui-snes? Scrive a proposito Nicola Carduccinell’Annuario Liceo Ginnasio “Giuseppe Pal-mieri” del gennaio 1997: “La fabula ne I trofeiè quasi inesistente, offre appena qualche filoche si fatica ad afferrare: è l’avventura di unio, di uno scrivitore, che, tra mille raggiri e as-salti e agguati, e sempre ritrovandosi al puntodi partenza come un cavaliere antico si af-fanna, con sovrano distacco, nel tentativo didare una forma, sia pure cangiante, all’in-forme esistenza ( e “la forma costa cara”, so-leva ripetere Valery), di supporre un ordine,anche soltanto verbale, al caos della cittàdegli uomini, di rinvenire un senso se pur il-lusorio, nel garbuglio del sordo e monotonosuccedersi delle opere e dei giorni”. L’opera ècostruita attraverso un succedersi di funam-bolici giochi linguistici volti alla determina-zione di un ordine logico-testuale in grado dicontrapporsi al disordine irrazionale delreale. L’essenza concettuale del testo va ritro-vata nel continuo scacco al quale è sottoposto

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l’ordigno linguistico che, puntualmente, im-plode all’interno della struttura romanzescagenerando quel senso di fragilità che sembraaleggiare tra le pagine. Considerate questaparte del testo: “Vogliono maturare. Cercanocomprensione. Il liscio involucro non con-sente appigli e non è difficile trovare vili fo-nemi e minutissime frasi arroganti chenavigano come in una nebbia, oppure sban-date parole che come in un sogno ad altre siaggrappano, suoni affidando al caso e inso-lenti significati… E poi parole disperate peraver perso la meta, e parole incerte, sfinite, avolte piagnucolanti, che il tondo guscio re-spinge mentre freneticamente cercano con-fini: parole che non hanno mai avuto valoreo che hanno perso valore, hanno perso auto-rità, hanno perso peso: come si crucciano! Aloro è vietata ogni penetrazione, non hannopiù quasi coscienza, anche se a volte godonoin piena libertà, nel sonno e nella nebbia go-dono, e nel flusso all’insù godono, spintechissà da quale vento, boriose, scaltre, giova-nili”. Ci troviamo di fronte ad un punto significa-tivo della poetica di Verri, poiché il frana-mento della parola nel nulla dei significati è,basti pensare a Wittgenstein, il fallimento delproprio pensiero e, conseguentemente, dellapropria visione del mondo. L’irrazionalità cheavvolge la struttura testuale de I trofei èquello stesso senso di smarrimento che loscrittore percepisce osservando e scrutandoil mondo nel quale vive. Le mirabili ed ardue

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imprese che hanno accompagnato Verri nelcorso della sua esistenza, sino all’impossibiletentativo di mettere le mani al libro assoluto,il Declaro, il libro fatto di infinito parole, sonosforzi volti alla strenua ricerca di un sensoesistenziale al quale aggrapparsi, per nonnuotare nel mare impetuoso degli interroga-tivi di fronte ai quali la vita ti pone. A seguireVerri pubblica nel 1990 Il naviglio innocente,stampato con la casa editrice Erreci di Ma-glie. Ne Il naviglio innocente si abbandonanoalcune forzature linguistico-sperimentali di Itrofei, presentando una totalità lirica cherappresenta uno dei punti più alti della suascrittura. Scrive Antonio Errico nella postfa-zione al testo: “È il naufragio. Ora il narratoreè parola, non altro che parola tra le tante,molte altre parole. Avrebbe voluto parlare disé il narratore, raccontarsi, dire del panesotto la neve ancora, dire di Sciaffusa ancora,ancora della madre, dei fabbricanti di armo-nia, di zacchinette, della morte che somigliaa storie profumate, di ansie, di candori. Conquesto carico era partita la sua nave. Per que-sto disertava. Ma Stefan ha un declaro per latesta, libro di libri, di parole e basta, un de-claro che pretende il sacrificio, la scancella-zione di qualsiasi cosa. E allora il corpo vieneinvaso da parole; più le parole crescono e piùil corpo si ritrae, diventa l’ombra di una manosopra il foglio. In principio è il brusìo. Poi ilbrusìo si fa parola, le parole si riprodu-cono per partenogenesi, si accumulano, siassociano, cercando cadenze, l’espressione

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diventa sovrabbondante, straniata, surreale,artificiosa, tesa verso la variazione rivitaliz-zante. Il significato è affidato al caso. Non de-terminato dal caso ma affidato ad esso, il chevuol dire che ad una operazione di deseman-tizzazione della parola ne segue una di rise-mantizzazione nell’ambito del costrutto e inrelazione al ritmo che del costrutto costitui-sce l’elemento regolatore. Il ritmo è condi-zione essenziale in questa narrazione: generaimmagini, scandisce sequenze, è portatore disenso, è di per sé espressione. Il caso è ilritmo, dunque, e il ritmo è un caso che pre-tende il controllo anche del respiro”. In que-sto processo di svelamento di nuovi percorsidi senso che Verri attribuisce ai suoi costruttilinguistici un ruolo di primo piano assume ilriutilizzo di scritture altrui. Tutta la scritturadi Verri è disseminata di scritture altre. In-fatti, ne Il naviglio si legge: “Bobo un giornosu di un muro di Guisnes, lui che ha sempreamato il lenocinio, l’ardito artificio, le sedu-zioni numeriche, allettato dai sempre più in-sensati e microscopici chip, un giorno su diun muro di Guisnes mi fece trovare un mes-saggio: cerca nel gioco – era questo il mes-saggio – ti è necessario un elenco di paroleantenne. E ancora: Evviva il munifico plagio.Oh”. Poi il postumo Bucherer l’orologiaio,uscito grazie alla Banca Popolare Pugliese nel1995, curato da Aldo Bello e Antonio Errico,con il quale si conclude il viaggio esplosivo diVerri attorno le folli potenzialità del linguag-gio. Verri continua lo strenuo, a tratti inso-

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stenibile lavoro di ricerca nel mare magnumdella scrittura, iniziato con La Betissa (1987),I trofei della città di Guisnes (1988), Il navi-glio innocente (1990). In Bucherer l’orolo-giaio l’immaginazione di Verri è al culmineesplosivo della sua lirica limpidezza, raggiun-gendo esiti di estrema bellezza nella descri-zione di Zurigo: “Questa terra da fine delmondo, di grandi alghe giganti, di grandi pas-saggi deserti, Zurigo incontro di correnti…Zurigo mi dà l’idea di questo corpo enorme edi una valle di ciliegi e di una valle di alberi dicarta…Zurigo è sonora, assurda, verticale. Lasommità di lucente, duttile stagno, la base dimolle argilla. È una città policroma, un mi-schio di lingue”. Zurigo rappresenta il puntofermo nella circolarità della narrazione ver-riana, contesto all’interno del quale si affermafiera e rigogliosa l’immaginazione dirom-pente e la divagazione surreale del testo.Sembra che Verri non riesca mai a contenersinel limitato spazio della pagina, le sua scrit-tura sembra essere frutto di un sussurro voltoall’oltrepassamento di ogni confine narrativo.A Verri non interessa l’intreccio, non inte-ressa la costruzione di una storia con tutti gliorpelli necessari alla sua esistenza, ma adorala sublimazione nata dall’accumulo di parole,dal ciclico ripetere che genera delizia, stu-pore, meraviglia, aperture al cuore di difficilesaturazione: “Un corpo. Un corpo magnifico,sontuoso, insistente, indicibile, postuloso,tondo (anche se senza un netto profilo), mo-struoso, inalterabile, incessabile, un bizzarro

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mascherone, un nodo, un Grande nodo, ungrande corpo traballante, un accumulo, forsesolo metà della voce, forse un rospo immo-bile, forse l’Oggetto Poetico, la Grande Smor-fia, lo Scafo Regale che al vasto mare siabbandona… Bucherer che sembra un om-brello. Intrappolato – per effetto del suo cer-care – in una bolla di lava mentre cerca dibere dal suo specchio di luce che tutto può.La sua isola. La sua isola immensa. Così so-nora. Il suo legno. La sua grana. Il suo brusio.Il suo acquario…”. Leggendo Bucherer l’oro-logiaio si avverte la maturazione stilistica cheVerri ha raggiunto, eliminando alcune ecce-denze cervellotiche presenti nei Trofei edando vita ad un meccanismo narrativo chegenera sospensione, ammaliante ed incante-vole: “Una spallata all’angelo colossale, alcanceroso, che si muove con ripugnanza, coneleganza, rimescolando, arrischiando, unaspallata all’angelo disarmonico stravaccatosulla intera Niederdorf, all’angelo che unacampana di vetro preserva, stolido, fasti-dioso, madornale, non attaccato da feci,urine, da zagaglie, da febbri, da limiti, da oc-casioni, da virus, da appetiti, figura che ca-valca sui polsini di una camicia, che soffia inquesta gassenzimmer, nei canaloni, sulfiume, nelle pesti, ingombrante, intatto,estraneo, titanico, diseguale…”. Con questeparole si conclude il romanzo e si concludeanche il percorso creativo di una delle figurepiù suggestive del panorama letterario ita-liano, sicuramente la più suggestiva del Sa-

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lento letterario, che ha vissuto la sua esi-stenza con l’angelico ed impossibile sogno dichiudere il Mondo dentro un libro.

Pubblicato in Incroci, numero 11 (gennaio-giugno 2005)

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Antonio VerriUn classico in cerca di pubblico

Vidi per la prima volta la barba di AntonioVerri appesa – in fotocopia di non eccellenterisoluzione - ovunque tra i corridoi della fa-coltà di Lettere e Filosofia dell’Università diLecce. Era il febbraio del 2002. Io ero unostudente in Lettere. Da lì a poco mi sarei lau-reato con una tesi sulla Beat Generation. Daqualche mese distribuivo gratuitamente intutta Lecce, assieme a due miei amici, Paoloe Vito, un foglio autoprodotto di poesie. Sichiamava “Ariosto 219”. Su quella fotocopiac’era scritto che, presso il Teatro Astragali divia Candido, si sarebbe svolto un readingtratto dagli scritti di quest’uomo barbuto edallo sguardo perduto – in quella foto scat-tata dal sua caro amico Fernando Bevilacqua– chissà dove. No, non sapevo nulla di Anto-nio Verri prima del 2002. Mi recai assieme amiei amici poeti, tutti poco più che ventenni,nello spazio teatrale diretto da Fabio Tolledie, in quelle poche ore in cui silente assistettia diverse letture, mi s’aprì osceno e per sem-pre il mondo biografico e poetico di Verri. Diquella sera, a distanza di oltre un decennio,messa in piedi dai suoi amici più cari per ce-lebrare il suo compleanno, a quasi dieci annidalla scomparsa, avvenuta il 9 maggio del1993, ricordo l’emozione di uomini e donneche sul piccolo palco del teatro si succede-vano alternando a ricordi personali relativi alloro vissuto con Verri, passaggi dei suoi testi

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migliori. Ricordo Antonio Errico, Mauro Ma-rino, Piero Rapanà, Maurizio Nocera, Fer-ndando Bevilacqua e lo stesso Tolledi.Ricordo letture tratte da “Il naviglio inno-cente”, “I trofei della città di Guisnes”, “Bu-cherer l’orologiaio”, “La Betissa” e lostupendo manifesto poetico di “Fate fogli dipoesia”, tratto da “Il pane sotto la neve”.Ascoltando quelle parole che in piena travol-gevano la mia attenzione compresi che diquel Verri tutto avrei voluto sapere. E subito.L’indomani mi recai presso la biblioteca cen-trale dell’Ateneo leccese e, compiendo una fa-cile ricerca, vidi che di tutte le sue opere vi erauna copia e quelle copie presto divenneromie, entrando con forza nel suo mondo poe-tico e narrativo e non uscendone mai più. Antonio Verri è stato per la giovane genera-zione di letterati salentini, a partire dalla finedegli anni ’70 e per tutti gli anni ’80, unasorta di faro, punto di riferimento, catalizza-tore di energie, bussola che indirizzava azionie riflessioni. Verri era un uomo dalle milleamicizie, dai molteplici interessi, instancabilecostruttore di progetti, percorsi e azioni, ilquale poneva lo stesso massimalismo – iltutto dentro – nella sua idea di mondo possi-bile, nella sua costruzione letteraria insonnee mai doma. Riprendendo un mio interventoscritto nel 2005 e pubblicato sulla rivista “In-croci”, diretta da Raffaele Nigro e Lino An-giuli, mi pare tuttora valida l’idea secondo cui“per Verri scopo fondamentale della sua esi-stenza e del suo ruolo di scrittore è quello di

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creare un libro che in grado di contenere l’in-tero Mondo, un libro infinito, fatto di parolemeravigliose, splendenti, in continuo accu-mulo, in continuo divenire, attraversoun’azione di lavoro sul linguaggio quasiscientifica, mai sconclusionata, fortementesentita”. La sua idea di scrittura era titanica,molossa, tendente all’infinito. Cosa vuol direavere come obiettivo dare vita ad un libro ingrado di contenere tutto il mondo, se nonagire nella consapevolezza della sconfitta? La migliore letteratura prodotta da Verrinasce da questa crasi: da un lato la sua vogliadi assoluto, dall’altro lato il prodotto finito delsuo tentativo altissimo. Eppure le pagine checi ha lasciato sono poesie e prose che resi-stono al tritacarne del tempo. Verri è già clas-sico, come solo Bodini, nel Salento letterariodel Novecento, perché le sue pagine conti-nuano ad affascinare un ampio pubblico diappassionati lettori. Qui, però, s’apre l’ultimorivolo di questo mio intervento. Quel pub-blico dovrebbe divenire sempre più nutrito,ma lo scoglio sul quale frana l’acqua del suoflusso è dettato da ragioni squisitamente edi-toriali. In vita Verri pubblicò sempre con pic-colissimi editori le sue opere. Dopo la sua morte, grazie all’azione generosadei suoi amici, le sue opere sono state ripub-blicate sempre da piccoli e battaglieri editori,ma questo non ha permesso al suo genio –consentitemi questo termine per una volta –di avere gli allori che merita. Il passaparolanon basta laddove la reperibilità degli scritti

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è assente. Cosa possiamo fare per arginare ilsuo oblio, che sopraggiungerà imperioso qua-lora le sue parole scritte smetteranno di si-gnificare poiché rese mute da una assenza dipubblico?

Pubblicato su Il Paese Nuovo, 31 gennaio 2013

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Per non dimenticare Claudia Ruggeri,sposa barocca del suo inferno minore

Otto anni sono passati dal “folle volo” che haportato via per sempre una delle voci più ori-ginali della poesia salentina del Novecento.Claudia Ruggeri, morta suicida all’età di 29anni, lanciandosi nel vuoto dal balcone dellasua casa leccese, è autrice di un unico poe-metto edito, Inferno minore, pubblicato perintero sul numero 39-40 del dicembre 1996del giornale di poesia “L’Incantiere”, direttoda Walter Vergallo, di un poema inedito Lepagine del travaso e di altre poesie mai pub-blicate. A distanza di molti anni, l’interessa-mento alla poesia della Ruggeri da parte dialcuni critici che operano a Roma, Mario De-siati, redattore di Nuovi Argomenti, AndreaCortellessa e Mauro Martini, collaboratori diAlias, allegato culturale del Manifesto, è unanota che lascia uno spiraglio per una sua ne-cessaria rivalutazione critica.Non si può negare un certo rammarico per ildisinteresse della critica accademica no-strana, la quale non è ancora andata oltre glistudi relativi a Vittorio Bodini, che è mortonel 1970, ma negli ultimi trent’anni di buonascrittura sotto le nostre spesse lenti ne è pas-sata (Salvatore Toma, Antonio Verri e lastessa Ruggeri, appunto). Una laconica giu-stificazione può attribuirsi alla complessitàdella poesia di Claudia Ruggeri. Ha scrittoDesiati, in un sua riflessione critica sulla poe-tessa leccese: “Claudia Ruggeri scriveva divi

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namente. La sua poesia ricca di arrovella-menti lessicali, di figure estreme (il matto inprimis), è una piccola epifania postmoderna,dove echeggia una semantica inconsueta chemischia parole di origine trobadorica, iper-letteraria, dialettale, straniera, aulica, maanche quotidiana. Claudia Ruggeri ha inven-tato una sorta di nuovo barocco, ma senza lasua decadenza.” Eccone, allora, un breve as-saggio, tratto dall’Inferno minore, poemettodedicato a Franco Fortini, poeta stimato dallaRuggeri, ma lontano anni luce dalla poesianeobarocca della stessa: “cavami da le piumegli insulti lo sfrenìo / la velocità indifferen-ziata che era danza / o salto, che ormai nonmuove semplicemente / mi rende probabile;la memoria finta da usare / come un nome,questa memoria insomma divina / indiffe-rente di un calcio e di ossa, di un debole / dè-mone mosso a pena a cerchio (leggeroleggero / lo spirito ragazzino, e ciò sottile sot-tile / indistinto, destinato): Dedico a Te que-sta morte / padula – ché sei l’Arteficiere - ;impiegane / la festa, se pure alza l’Avverso, locattura”. Questo è il lamento dell’Uccello col-pito, uno dei lamenti che strutturano l’In-ferno minore, un poetare tutto sciolto daglischemi il suo, opera folgorante nella sua no-vità, che richiede una particolare attenzioneda parte del lettore, ma che ammalia,s’inarca, t’imprigiona nella sua spirale disensi “forti”, folgoranti anche nelle sue pro-iezioni profetiche: “Del Traghettatore: e volli/ il “folle volo” cieca sicura tutta / Volli la fine

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delle streghe volli // Il chiarore di chi ha get-tato gli arnesi / Di memoria di chi sfilò il suomanto / poggiò per sempre il Libro…” Questotesto è tratto dalla plaquette poetica Salento-Poesia ’95. Per chi volesse leggere l’Infernominore, è disponibile una copia dell’Incan-tiere che tutto lo contiene nell’emerotecadell’ateneo leccese. Un primo approccio conla sua poesia, sicuro che in un prossimo fu-turo sentiremo degnamente parlare dellascrittura accecante di Claudia Ruggeri.

Articolo apparso su Nuovo Quotidiano di Puglia, 25 ottobre 2004

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Ecco “Inferno minore” di Claudia Ruggeri

Dopo tanti anni di silenzio, di disinteressedella critica accademica e militante, è da pocostato pubblicato “Inferno minore”, raccolta digran parte del materiale scritto in vita daClaudia Ruggeri, poetessa morta suicida nel1996 all´età di 29 anni. Il libro è edito dallapeQuod e curato da Mario Desiati. La venacreativa della Ruggeri raggiunge gli esiti mi-gliori in un periodo, il decennio a cavallo trala metà degli anni Ottanta e la metà deglianni Novanta, nel quale la poesia ha esauritole spinte propulsive di molta avanguardia e lasperimentazione non possiede più forti con-notazioni ideologiche, ma diventa terrenofertile di plagi, citazioni, giochi intertestuali.In piena temperie postmoderna, appunto. Daqui il continuo dialogo della Ruggeri conDante Alighieri, Guido Cavalcanti, Jacoponeda Todi, Gabriele D´Annunzio, Umbro Saba,Dino Campana e Carmelo Bene. Inoltre,Claudia Ruggeri era un’eccezionale lettrice,capace di performance fuori dal comune. Lasua poesia colta e passionale si riversavaspesso in reading memorabili di cui oggi restaqualche rara registrazione. L’esordio pub-blico di Claudia Ruggeri fu durante una let-tura alla Festa dell’Unità di Lecce del 1985davanti a un basito Dario Bellezza, uno degliscrittori più vicini all’autrice per spirito anar-chico e sostanza corporea del verso. Il libroraccoglie testi che vanno dal 1982 al 1996:

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poesie del tutto inedite o apparsa su rivisteletterarie di poco conto. La presente pubbli-cazione rende giusto merito all’originalità diuna poetessa che non va dimenticata.

Pubblicato su Booksblog.it, 29 gennaio 2007

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“Canto senza voce”Versi inediti di Claudia Ruggeri

“Canto senza voce”, questo il titolo del libroche raccoglie testi inediti di Claudia Ruggeri,la poetessa leccese morta suicida nell’ottobredel 1996. Il libro edito dall’associazione Terrad’Ulivi presenta in allegato un documentariosulla Ruggeri, diretto da Elio Scarciglia, incui, attraverso le testimonianze della madreMaria Teresa del Zingaro, dei critici EnzoMansueto e Sergio Rotino e dei poeti Giam-piero Neri e Guido Oldani, tra gli altri, si offreuna chiave inedita della personalità com-plessa della scrittrice. Claudia Ruggeri subìsia in vita che dopo la morte il disinteressequasi assoluto della critica accademica e mi-litante. Fu Mario Desiati che in numero dellarivista mondadoriana Nuovi Argomenti, nel2005, dedicò un lungo intervento sulla poe-tica di Claudia, dal titolo “La ragazza dal cap-pello rosso”, e ripubblicò parte del suo poemamigliore, “Inferno minore”, apparso agli inizidegli anni ’90 frammentato su diversi numeridella rivista poetica leccese “L’Incantiere”. Lostesso Desiati curò l’edizione del 2007, pub-blicata da peQuod, di “Inferno minore” in cuiè presente la produzione migliore della Rug-geri, quella comprendente i testi scritti neldecennio a cavallo tra la metà degli anni Ot-tanta e la metà degli anni Novanta. Non soloil poema “Inferno minore”, ma anche il mag-matico e furisoso Pagine del travaso, scrittopoco prima della morte. Fu lo stesso Desiati

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a scrivere : “Claudia Ruggeri scriveva divina-mente. La sua poesia ricca di arrovellamentilessicali, di figure estreme, è una piccola epi-fania postmoderna, dove echeggia una se-mantica inconsueta che mischia parole diorigine trobadorica, iperletteraria, dialettale,straniera, aulica, ma anche quotidiana. Clau-dia Ruggeri ha inventato una sorta di nuovobarocco, ma senza la sua decadenza”. E graziealla riproposizione dei suoi testi, dopo un de-cennio di silenzio, e al culto che ne è seguitocon l’apprezzamento di un numero semprecrescente di lettori, della poesia della Ruggerisi continua a parlare. Non solo. “Canto senzavoce” è un nuovo tassello del cursus editorialepostumo della poetessa di Lecce. Il libro, cu-rato da Esther Basile e Angela Schiavone, rac-coglie testi presenti in agende, taccuini, foglisparsi, giunti a noi grazie alla volontà dellamadre, Maria Teresa. Tutti senza datazione.Le curatrici hanno diviso il testo in sei sezionitematiche. Quello che risulta ad una letturadelle poesie presenti è che tutte appaionoprecedenti alla composizione di “Inferno mi-nore”. Rispetto alla complessità stilistica, allaricercatezza lessicale, alla rappresentazionecoesa di una visione radicale del mondo pre-sente nel suo poema più conosciuto, qui citroviamo ad un livello meno esplosivo, piùcontenuto, piano, ma pur sempre altamenteoriginale. Dialogo con il divino, ricercad’amore, abbandoni, bui laceranti, luci abba-cinanti, corpo contro natura, solitudine,morte invasiva, temi che puntellano le pagine

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di questo libro e invadono l’immaginario cau-stico e colto della Ruggeri. La scelta di pub-blicare questo materiale prezioso con unapiccola casa editrice è un rischio. Dinanzi allaforza di questi poeti è necessario che si met-tano in piedi operazioni editoriali di respironazionale. A ciò s’aggiunge anche che unamaggiore cura nella redazione del testoavrebbe giovato alla lettura. Molti i refusi pre-senti. Un piccolo neo per un’operazione chemerita di certo la più ampia diffusione.

Pubblicato su Nuovo Quotidiano di Puglia, 22 giugno 2013

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Gennaio 2014

Il Fondo Verriè in via Santa Maria del Paradiso 8.aa Lecce (cap 73100)telefono [email protected]

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Rossano Astremo è nato nel 1979 a Grottaglie, in provincia di Taranto.

Vive e lavora a Roma.

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