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RASSEGNA STAMPA di giovedì 17 dicembre 2015 SOMMARIO “Ho desiderato che questo segno della Porta Santa fosse presente in ogni Chiesa particolare - ha detto Papa Francesco durante l’udienza generale di ieri -, perché il Giubileo della Misericordia possa diventare un’esperienza condivisa da ogni persona. L’Anno Santo, in questo modo, ha preso il via in tutta la Chiesa e viene celebrato in ogni diocesi come a Roma. Anche, la prima Porta Santa è stata aperta proprio nel cuore dell’Africa. E Roma, ecco, è il segno visibile della comunione universale. Possa questa comunione ecclesiale diventare sempre più intensa, perché la Chiesa sia nel mondo il segno vivo dell’amore e della misericordia del Padre. Anche la data dell’8 dicembre ha voluto sottolineare questa esigenza, collegando, a 50 anni di distanza, l’inizio del Giubileo con la conclusione del Concilio Ecumenico Vaticano II. In effetti, il Concilio ha contemplato e presentato la Chiesa alla luce del mistero della comunione. Sparsa in tutto il mondo e articolata in tante Chiese particolari, è però sempre e solo l’unica Chiesa di Gesù Cristo, quella che Lui ha voluto e per la quale ha offerto Sé stesso. La Chiesa “una” che vive della comunione stessa di Dio. Questo mistero di comunione, che rende la Chiesa segno dell’amore del Padre, cresce e matura nel nostro cuore, quando l’amore, che riconosciamo nella Croce di Cristo e in cui ci immergiamo, ci fa amare come noi stessi siamo amati da Lui. Si tratta di un Amore senza fine, che ha il volto del perdono e della misericordia. Però la misericordia e il perdono non devono rimanere belle parole, ma realizzarsi nella vita quotidiana. Amare e perdonare sono il segno concreto e visibile che la fede ha trasformato i nostri cuori e ci consente di esprimere in noi la vita stessa di Dio. Amare e perdonare come Dio ama e perdona. Questo è un programma di vita che non può conoscere interruzioni o eccezioni, ma ci spinge ad andare sempre oltre senza mai stancarci, con la certezza di essere sostenuti dalla presenza paterna di Dio. Questo grande segno della vita cristiana si trasforma poi in tanti altri segni che sono caratteristici del Giubileo. Penso a quanti attraverseranno una delle Porte Sante, che in questo Anno sono vere Porte della Misericordia. La Porta indica Gesù stesso che ha detto: «Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvato; entrerà e uscirà e troverà pascolo». Attraversare la Porta Santa è il segno della nostra fiducia nel Signore Gesù che non è venuto per giudicare, ma per salvare. State attenti che non ci sia qualcuno un po’ svelto o troppo furbo che vi dica che si deve pagare: no! La salvezza non si paga. La salvezza non si compra. La Porta è Gesù, e Gesù è gratis! Lui stesso parla di quelli che fanno entrare non come si deve, e semplicemente dice che sono ladri e briganti. Ancora, state attenti: la salvezza è gratis. Attraversare la Porta Santa è segno di una vera conversione del nostro cuore. Quando attraversiamo quella Porta è bene ricordare che dobbiamo tenere spalancata anche la porta del nostro cuore. Io sto davanti alla Porta Santa e chiedo: «Signore, aiutami a spalancare la porta del mio cuore!». Non avrebbe molta efficacia l’Anno Santo se la porta del nostro cuore non lasciasse passare Cristo che ci spinge ad andare verso gli altri, per portare Lui e il suo amore. Dunque, come la Porta Santa rimane aperta, perché è il segno dell’accoglienza che Dio stesso ci riserva, così anche la nostra porta, quella del cuore, sia sempre spalancata per non escludere nessuno. Neppure quello o quella che mi dà fastidio: nessuno. Un segno importante del Giubileo è anche la Confessione. Accostarsi al Sacramento con il quale veniamo riconciliati con Dio equivale a fare esperienza diretta della sua misericordia. È trovare il Padre che perdona: Dio perdona tutto. Dio ci comprende anche nei nostri limiti, ci comprende anche nelle nostre contraddizioni. Non solo, Egli con il suo amore ci dice che proprio quando riconosciamo i nostri peccati ci è ancora più vicino e ci sprona a guardare avanti. Dice di più: che quando riconosciamo i nostri peccati e chiediamo perdono, c’è festa nel Cielo. Gesù fa festa: questa è la Sua misericordia: non scoraggiamoci. Avanti, avanti con questo! Quante volte mi sono sentito dire: «Padre, non riesco a perdonare il vicino, il compagno di

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RASSEGNA STAMPA di giovedì 17 dicembre 2015

SOMMARIO

“Ho desiderato che questo segno della Porta Santa fosse presente in ogni Chiesa particolare - ha detto Papa Francesco durante l’udienza generale di ieri -, perché il Giubileo della Misericordia possa diventare un’esperienza condivisa da ogni persona. L’Anno Santo, in questo modo, ha preso il via in tutta la Chiesa e viene celebrato in ogni diocesi come a Roma. Anche, la prima Porta Santa è stata aperta proprio nel

cuore dell’Africa. E Roma, ecco, è il segno visibile della comunione universale. Possa questa comunione ecclesiale diventare sempre più intensa, perché la Chiesa sia nel mondo il segno vivo dell’amore e della misericordia del Padre. Anche la data dell’8 dicembre ha voluto sottolineare questa esigenza, collegando, a 50 anni di distanza, l’inizio del Giubileo con la conclusione del Concilio Ecumenico Vaticano II. In effetti, il Concilio ha contemplato e presentato la Chiesa alla luce del mistero della comunione. Sparsa in tutto il mondo e articolata in tante Chiese particolari, è però sempre e solo l’unica Chiesa di Gesù Cristo, quella che Lui ha voluto e per la quale ha offerto Sé stesso. La Chiesa “una” che vive della comunione stessa di Dio. Questo mistero di comunione, che rende la Chiesa segno dell’amore del Padre, cresce e matura nel nostro cuore, quando l’amore, che riconosciamo nella Croce di Cristo e in cui ci immergiamo, ci fa amare come noi stessi siamo amati da Lui. Si tratta di un Amore senza fine, che ha il volto del perdono e della misericordia. Però la misericordia e il perdono non devono rimanere belle parole, ma realizzarsi nella vita quotidiana.

Amare e perdonare sono il segno concreto e visibile che la fede ha trasformato i nostri cuori e ci consente di esprimere in noi la vita stessa di Dio. Amare e perdonare come

Dio ama e perdona. Questo è un programma di vita che non può conoscere interruzioni o eccezioni, ma ci spinge ad andare sempre oltre senza mai stancarci,

con la certezza di essere sostenuti dalla presenza paterna di Dio. Questo grande segno della vita cristiana si trasforma poi in tanti altri segni che sono caratteristici del

Giubileo. Penso a quanti attraverseranno una delle Porte Sante, che in questo Anno sono vere Porte della Misericordia. La Porta indica Gesù stesso che ha detto: «Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvato; entrerà e uscirà e troverà

pascolo». Attraversare la Porta Santa è il segno della nostra fiducia nel Signore Gesù che non è venuto per giudicare, ma per salvare. State attenti che non ci sia qualcuno un po’ svelto o troppo furbo che vi dica che si deve pagare: no! La salvezza non si paga. La salvezza non si compra. La Porta è Gesù, e Gesù è gratis! Lui stesso parla di quelli che fanno entrare non come si deve, e semplicemente dice che sono ladri e briganti. Ancora, state attenti: la salvezza è gratis. Attraversare la Porta Santa è

segno di una vera conversione del nostro cuore. Quando attraversiamo quella Porta è bene ricordare che dobbiamo tenere spalancata anche la porta del nostro cuore. Io sto davanti alla Porta Santa e chiedo: «Signore, aiutami a spalancare la porta del mio cuore!». Non avrebbe molta efficacia l’Anno Santo se la porta del nostro cuore non lasciasse passare Cristo che ci spinge ad andare verso gli altri, per portare Lui e il suo amore. Dunque, come la Porta Santa rimane aperta, perché è il segno dell’accoglienza che Dio stesso ci riserva, così anche la nostra porta, quella del cuore, sia sempre spalancata per non escludere nessuno. Neppure quello o quella che mi dà fastidio: nessuno. Un segno importante del Giubileo è anche la Confessione. Accostarsi al Sacramento con il quale veniamo riconciliati con Dio equivale a fare esperienza

diretta della sua misericordia. È trovare il Padre che perdona: Dio perdona tutto. Dio ci comprende anche nei nostri limiti, ci comprende anche nelle nostre contraddizioni.

Non solo, Egli con il suo amore ci dice che proprio quando riconosciamo i nostri peccati ci è ancora più vicino e ci sprona a guardare avanti. Dice di più: che quando riconosciamo i nostri peccati e chiediamo perdono, c’è festa nel Cielo. Gesù fa festa: questa è la Sua misericordia: non scoraggiamoci. Avanti, avanti con questo! Quante volte mi sono sentito dire: «Padre, non riesco a perdonare il vicino, il compagno di

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lavoro, la vicina, la suocera, la cognata». Tutti abbiamo sentito questo: «Non riesco a perdonare». Ma come si può chiedere a Dio di perdonare noi, se poi noi non siamo capaci di perdono? E perdonare è una cosa grande, eppure non è facile, perdonare, perché il nostro cuore è povero e con le sue sole forze non ce la può fare. Se però ci apriamo ad accogliere la misericordia di Dio per noi, a nostra volta diventiamo capaci di perdono. Tante volte io ho sentito dire: «Ma, quella persona io non la potevo vedere: la odiavo. Ma un giorno, mi sono avvicinato al Signore e Gli ho chiesto

perdono dei miei peccati, e anche ho perdonato quella persona». Queste sono cose di tutti i giorni. E abbiamo vicino a noi questa possibilità. Pertanto, coraggio! Viviamo il Giubileo iniziando con questi segni che comportano una grande forza di amore. Il

Signore ci accompagnerà per condurci a fare esperienza di altri segni importanti per la nostra vita. Coraggio e avanti!” (a.p.)

1 – IL PATRIARCA IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag VI Moraglia, Porta santa nelle carceri e in provincia di Alvise Sperandio Domani a Santa Maria Maggiore, il 5 gennaio alla Giudecca. Poi a Borbiago ed Eraclea LA NUOVA Pag 22 Moraglia inaugura la nuova sede dell’archivio storico di Nadia De Lazzari Dopo la Porta Santa ora tocca al carcere di S. Maria Maggiore 2 – DIOCESI E PARROCCHIE IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag VI Aperto al pubblico l’archivio storico del patriarcato alla Salute di Vettor Maria Corsetti CORRIERE DEL VENETO Pag 12 Riaperta la biblioteca diocesana. “Quella antica attaccata dai tarli, servono 500 mila euro per salvarla” di Elisa Lorenzini 3 – VITA DELLA CHIESA L’OSSERVATORE ROMANO Pag 8 Segno del giubileo All’udienza generale il Pontefice parla della confessione. E collega l’inizio dell’anno santo con il Vaticano II AVVENIRE Pag 18 Venezia. Dalla Torre apre l’anno alla Facoltà di diritto canonico di Francesco Dal Mas IL FOGLIO Pag 3 L’amnistia del Papa, silenzio (non) strano Richiesta importante sulla giustizia, ma scomoda per i media 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Un segnale, non la fine di un’era di Massimo Gaggi AVVENIRE Pag 1 La morale di una crisi di Leonardo Becchetti Cappuccetto Rosso, il lupo, le banche 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA

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IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag VII Nicopeja, c’è l’accordo: salvi 48 posti di Filomena Spolaor Pazienti e lavoratori attualmente agli Alberoni andranno all’Ire dei Santi Giovanni e Paolo e a Pellestrina Pag XXVI Appuntamento con il Concerto di Natale della Fenice di Alvise Sperandio A Venezia e a Mestre LA NUOVA Pag 37 Franceschini: “Confermo Baratta” di Enrico Tantucci Una modifica al decreto in materia consentiva l’ulteriore rinnovo alla presidenza. L’ingegnere che ha risvegliato la cultura CORRIERE DEL VENETO Pag 21 Biennale, terzo sì a Baratta. Franceschini: “Scelta giusta” di Monica Zicchiero 8 – VENETO / NORDEST LA NUOVA Pag II Il Giubileo in Veneto tutte le porte sante di Francesco Dal Mas Nessun colpo di spugna né transiti magici, ma misericordia 10 – GENTE VENETA Gli articoli segnalati di seguito sono pubblicati sul n. 48 di Gente Veneta in uscita venerdì 18 dicembre 2015: Pagg 1, 12 – 13 Natale, porte aperte ai poveri Pranzo di Natale al centro Urbani a Zelarino. Al di là della festa, c’è un sistema complesso di assistenza Pag 1 I pasticcetti che esplodono quando si sporcano i soldi di Giorgio Malavasi Pag 3 La soia accende una luce nella notte di P. Marghera di Giorgio Malavasi Investiti 50 milioni e 300 persone sono al lavoro per il nuovo stabilimento di Cereal Docks. I cugini vicentini Mauro e Paolo Fanin nel 2011 hanno rilevato uno stabilimento destinato alla chiusura e lo stanno rilanciando: «Bisogna crederci» Pagg 4 – 5 La misericordia è dietro le sbarre di Chiara Semenzato «Chi è in carcere ha sbagliato e sta scontando il suo errore ma non dobbiamo dimenticarci della sua sofferenza». Don Marco Pozza e Gabriella Straffi: le persone, le voci, le storie dal carcere. Giordano, il “divertimento di Dio”, e quel volto di donna rimasto fermo nel tempo... Pagg 8 – 9 Siate missionari di misericordia di Francesca Catalano Aperta domenica la Porta Santa in San Marco. Il Patriarca: «E’ un tempo di conversione personale e comunitaria. Significa rompere gli schemi. Gesù ci chiede di aprirci al prossimo. Cioè a chiunque abbia bisogno di noi» Pag 12 Natale festeggiando con i poveri (grazie al pallone) di Chiara Semenzato Il pranzo natalizio al Centro Urbani sarà offerto dal presidente del Calcio Mestre. Nessun intento pubblicitario, però, ma il desiderio di mandare un segnale: le società sportive non siano insensibili rispetto al disagio, ma lo contrastino in concreto Pag 13 Il Patriarca apre le porte della casa della Diocesi: pranzo di Natale, con i poveri, al Centro Urbani di Serena Spinazzi Lucchesi «Non è un gesto formale», dice il Vicario episcopale don Dino Pistolato: «E’ il segno

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festoso dell’impegno centrale verso chi è in difficoltà» Pag 15 Il Patriarca: la visita pastorale alla Diocesi inizierà nel 2017 di Lorenzo Mayer Terminato l’Anno Santo prenderà il via la visita del vescovo di Venezia a tutte le realtà diocesane. Mons. Moraglia: «Sottolineo che, prima ancora della sosta, è di grande importanza la preparazione che ogni comunità farà alla visita stessa». L’incontro avverrà per gruppi di parrocchie vicine Pagg 24 – 25 Mister Parkinson, una parola ti abbatterà di Giorgio Malavasi Tony Marra, mestrino, malato da quindici anni e presidente nazionale dei parkinsoniani: “La malattia non si combatte nascondendosi, ma raccontandola” Pag 29 Almeno 40 persone al centro diurno di Ca’ Letizia di Chiara Semenzato Bilancio positivo dell’iniziativa che, grazie alla San Vincenzo, consente di aprire i locali della mensa, ogni pomeriggio, a chi altrimenti non saprebbe dove andare. Per tutti c’è uno spazio caldo, il gioco delle carte o la televisione prima della cena Pagg 36 – 37 Alla Salute è nata la nuova casa della cultura di Giorgio Malavasi Il Patriarca ha inaugurato la nuova sede dell’Archivio e la biblioteca diocesana: un nuovo polo culturale per gli studiosi e per la città all’insegna di confort e sinergia … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 L’anti Nazareno è servito. Per ora di Massimo Franco Pag 15 Mosul. Guerriglia casa per casa, popolazioni filo-Isis. Cosa attende i soldati che difenderanno la diga di Lorenzo Cremonesi Pag 20 Gelli, l’ultima inchiesta e i misteri irrisolti di Giovanni Bianconi Pag 25 L’Islam in Italia. Le nostre vite normali da musulmani: “Ma non chiamateci moderati” di Alessandra Coppola Pag 31 Il soprassalto morale che ha sconfitto il Front National di Bernard-Henri Lévy Pag 40 Il rischio della citazione di Claudio Magris Spesso la paternità delle frasi celebri è falsa. Come spiega un cacciatore di bufale LA REPUBBLICA Pag 1 La strategia del contropiede di Stefano Folli AVVENIRE Pag 1 Una doppia priorità di Marco Dal Prà e Marco Tarquinio Sacrosante domande di cittadino Pag 3 Uno spiraglio per i cristiani. In Nord Corea vera svolta? di Stefano Vecchia Una Messa pubblica e prima visita di vescovi dal 1953 Pag 10 Gelli, misteri e leggenda. Se ne va l’uomo della P2 di Angelo Picariello e Agostino Giovagnoli Fu un pericolo morale: carriera come ideologia Pag 23 La linea d’ombra delle religioni di Elena Molinari Parla Jonathan Sacks IL GAZZETTINO

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Pag 1 “Venerabile” Licio, con lui nella tomba i misteri d’Italia di Edoardo Pittalis LA NUOVA Pag 1 Il venerabile e la loggia dei segreti di Pier Vittorio Buffa

Torna al sommario 1 – IL PATRIARCA IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag VI Moraglia, Porta santa nelle carceri e in provincia di Alvise Sperandio Domani a Santa Maria Maggiore, il 5 gennaio alla Giudecca. Poi a Borbiago ed Eraclea Dopo San Marco, il carcere. Il patriarca Francesco Moraglia domani aprirà la seconda Porta santa in diocesi e lo farà in un luogo particolare, direttamente all'interno della casa circondariale di Santa Maria maggiore, dove sarà in visita a partire dalle 10. Un appuntamento che si ripete ogni anno a ridosso delle feste di Natale e che sarà replicato alla vigilia dell'Epifania anche nel penitenziario femminile della Giudecca. Nella chiesetta interna, il presule presiederà la messa assieme al cappellano don Antonio Biancotto e a seguire si intratterrà in dialogo con i detenuti e quanti lavorano nell'istituto. Il momento clou sarà quando aprirà la Porta santa della misericordia, come comunicato domenica scorsa in basilica a San Marco nella cerimonia di apertura del Giubileo diocesano. «Con gioia - aveva detto nell'omelia in cattedrale - annuncio che vi sarà l'apertura di altre due Porte sante, veramente speciali, nelle cappelle delle carceri veneziane. Sarà, com'è desiderio del Santo Padre, il segno semplice, autentico e concreto della nostra vicinanza e, soprattutto, del fatto che la misericordia di Dio, capace di trasformare i cuori, è anche in grado di trasformare le sbarre in esperienza di libertà». Lo stesso gesto sarà ripetuto il 5 gennaio alle 17 quando il patriarca visiterà le detenute della Giudecca. Il Giubileo, poi, continuerà con altri appuntamenti. Già questa domenica si terrà l'Incontro della carità rivolto ai bambini che assieme ai loro sacerdoti ed educatori si ritroveranno sul Molo di San Marco alle 15 prima di accedere alla zona transennata della piazza e poi entrare in basilica per l'incontro con mons. Moraglia, attraversando la Porta di San Clemente, rigorosamente muniti di pass personale per ragioni di sicurezza secondo le disposizioni della Questura. da ricordare che in diocesi altre due Porte sante saranno aperte con l'arrivo del nuovo anno: il 9 gennaio alle 16 nel santuario di Santa Maria Assunta di Borbiago e la settimana successiva, alla stessa ora, nella chiesa parrocchiale di Santa Maria Concetta ad Eraclea. Più avanti, tra metà febbraio e metà marzo, si terranno 8 pellegrinaggi vicariali nel tempo di Quaresima, in programma ogni sabato e domenica. LA NUOVA Pag 22 Moraglia inaugura la nuova sede dell’archivio storico di Nadia De Lazzari Dopo la Porta Santa ora tocca al carcere di S. Maria Maggiore Venezia. Duplice appuntamento, ieri, nel complesso monumentale della Salute. Alle 15.30 il Patriarca Moraglia, presenti le autorità comunali, ha inaugurato la nuova sede dell’Archivio storico del Patriarcato. Il presule si è soffermato sull’importanza della memoria: «Chi ce l’ha, ha capacità di futuro. Oggi si restituisce un servizio alla città. La storia e la cultura ci aiutano a guardare al futuro. Noi dobbiamo guardare il presente che vuol dire progettare il futuro. Allora abbiamo bisogno della memoria. La cultura, in una società come la nostra sempre più multiculturale, multietnica e multireligiosa, è soprattutto la ragione. Può essere lo scambio opportuno di un dialogo che significa andare verso: ritrovarci e confrontarci per guardare il futuro». La nuova collocazione del Centro di documentazione storica con l’ingresso dal campo della Salute - fino alla scorsa estate si trovava nel Museo diocesano di Sant’Apollonia - con la Biblioteca diocesana intitolata al papa emerito Benedetto XVI che la benedisse nel maggio 2011 occupa uno spazio di 1500 metri quadrati. Sugli scaffali si trovano antiche edizioni, mappe,

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antifonari (libri liturgici), mariegole (statuti). Tra queste una donata da Lady Clarke presente all’inaugurazione. Il testo più antico risale al 999. È una pergamena proveniente dalla Chiesa di San Donato a Murano. Sono intervenuti il preside Giuliano Brugnotto e il Rettore del Seminario patriarcale, don Fabrizio Favaro, che ha detto: «Questo è un luogo della Chiesa di Venezia ma tale appartenenza non preclude la presenza di altre realtà educative e culturali». Poi ha lanciato un appello: «C’è un notevole impegno logistico e uno sforzo economico per la conservazione del patrimonio librario antico. Abbiamo bisogno di 500mila euro. Cerchiamo sponsor. Noi possiamo coprire il 30%». «Il trasloco è durato circa un mese con una breve sospensione per l’arrivo della First Lady Michelle Obama», ha ricordato il direttore don Diego Sartorelli. Verso le 16.30 all’Auditorium del Seminario patriarcale si è tenuto il Dies academicus 2015/16 della Facoltà di diritto canonico San Pio X. Venezia. Dopo l’apertura, la scorsa domenica, della Porta Santa di San Clemente in Basilica di San Marco, dove ogni giorno affluiscono pellegrini di diverse nazionalità, domani alle 10 il Patriarca Francesco Moraglia si recherà come da tradizione nel carcere circondariale maschile di Santa Maria Maggiore. Anche in questo luogo della città ripeterà lo stesso gesto: nella cappella aprirà la Porta della Misericordia. Il presule vincerà la resistenza dei portoni blindati per incontrare l’umanità rinchiusa dietro le sbarre e portare le sue parole di conforto, soffi di libertà, messaggi di speranza. Ad attenderlo con emozione dietro le sbarre uomini che sanno di aver sbagliato. Il Patriarca presiederà la messa in mezzo a quel mondo poliglotta che sogna il ritorno a casa in famiglia, dalla moglie, dai figli, dai genitori. In questi giorni, per l’arrivo del presule, è tangibile il fermento nell’Istituto penitenziario. I detenuti stanno preparando i canti che animeranno la messa; il presepe allestito a mano è quasi pronto. Pronti anche i doni per il Patriarca. Mentre il cappellano don Antonio Biancotto e il segretario particolare del presule don Morris Pasian stanno mettendo a punto il programma, la direttrice Immacolata Mannarella spiega che fin dall’annuncio dell’apertura della Porta della Misericordia - solo alcuni giorni fa - tutti, personale e detenuti, hanno appreso la notizia con grande gioia. Martedì 5 gennaio il Patriarca Moraglia spalancherà un’altra Porta della Misericordia, quella del carcere femminile della Giudecca. Torna al sommario 2 – DIOCESI E PARROCCHIE IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag VI Aperto al pubblico l’archivio storico del patriarcato alla Salute di Vettor Maria Corsetti Antifonari, mariegole, documenti e registri canonici, mappe, catastici, progetti di edifici realizzati o rimasti sulla carta e i testi musicali utilizzati nel Settecento dai cantori della basilica di San Marco. Persino una pergamena datata 999, proveniente dalla parrocchia muranese di San Donato. Oltre a uno scritto autografo di San Lorenzo Giustiniani, una pregevole copia del «Decamerone», l'atto di morte di Tiziano Vecellio e quelli di battesimo di Papa Rezzonico e della figlioccia di Andrea Palladio. Che, ça va sans dire, di secondo nome faceva Corinzia, come lo stile architettonico. Di grande effetto l'esposizione temporanea dei pezzi forti dell'Archivio storico del Patriarcato di Venezia. La cui nuova sede all'interno del Seminario patriarcale è stata inaugurata ufficialmente ieri, insieme alla Biblioteca diocesana intitolata a Benedetto XVI. «Tasselli di un mosaico più grande», li ha definiti il rettore don Fabrizio Favaro, con riferimento a un complesso che ospita anche la Facoltà di Diritto canonico, la Fondazione Marcianum, le edizioni Marcianum Press e la collezione d'arte del Seminario patriarcale. Aggiungendo che «prossima tappa per questo luogo deputato allo studio e alla formazione dei futuri presbiteri sarà rendere accessibile la parte antica della biblioteca storica. Un intervento per il quale stiamo cercando sponsor, dal momento che la spesa complessiva di 500mila euro possiamo coprirla solo per il 30%». A sottolineare l'importanza «della restituzione a Venezia di spazi dove storia e cultura aiutano a guardare al futuro e a progettarlo», è stato il Patriarca Francesco Moraglia. Che, nella circostanza, ha posto l'accento sul valore

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della memoria «in quanto nani sulle spalle di giganti». Evidenziando che «in questa realtà sempre più multiculturale, multietnica e multireligiosa, il dialogo va inteso come »andare verso". Fermo restando che solo chi ha memoria ha capacità di futuro. E di memoria c'è bisogno, perché il ricordo del passato rende più saggi nei confronti del presente". Dopo la visita dei locali destinati alla consultazione e alla conservazione di libri antichi e moderni e documenti (ben due chilometri di materiali), la cerimonia è proseguita con la prolusione per il Dies Academicus 2015-16 della Facoltà di Diritto canonico San Pio X. A tenere la lectio magistralis su «Giustizia e misericordia», Giuseppe Dalla Torre, professore emerito di Diritto ecclesiastico e canonico nella Lumsa e presidente del Tribunale di Stato del Vaticano. CORRIERE DEL VENETO Pag 12 Riaperta la biblioteca diocesana. “Quella antica attaccata dai tarli, servono 500 mila euro per salvarla” di Elisa Lorenzini Venezia. Il materiale è annerito dal tempo e dall’inchiostro che si è deteriorato, ma è proprio quella pergamena datata 999 e proveniente dalla parrocchia di San Donato a Murano il pezzo più antico e prezioso della Biblioteca diocesana Benedetto XVI inaugurata ieri alla Salute. L’entrata dà sul campo, a fianco della Fondazione Pinault, e contiene numerosi pezzi di pregio tra antichi testi liturgici, mariegole, incunaboli, manoscritti recuperati dagli archivi delle parrocchie veneziane a cui si aggiungono testi di carattere giuridico-canonico. La biblioteca è dedicata a papa Benedetto XVI, l’unico papa che finora, nel 2011, ha visitato e benedetto la biblioteca, che prima era riservata al seminario. Contiene 10mila edizioni antiche a partire dal XVII secolo, 50 mila libri moderni, 100 incunaboli, 200 cinquecentine, 650 manoscritti, 15 mila opuscoli. Nella prima sala risaltano cinque antifonari risalenti al 1400-1500, quattro appena restaurati della parrocchia dell’Angelo Raffaele, e uno della parrocchia di San Salvador in cerca di sponsor per un intervento conservativo. La seconda sala è dedicata alle mariegole con disegni e miniature (datate 1300-1600), mentre la terza molto ampia ospita antiche pergamene risalenti fino all’anno Mille oltre ai registri canonici introdotti a partire dal Concilio di Trento dove spunta il certificato di battesimo di Carlo Rezzonico ovvero papa Clemente XIII e il certificato di morte del Tiziano. Mappe cinquecentesche di Pellestrina e progetti architettonici precedono la stanza archivio dove sono raccolti 2 chilometri di materiale proveniente dalle chiese veneziane e un tavolo che espone quattro volumi con testi musicali del Seicento recuperati nella Basilica di San Marco. Ad aprire le porte della biblioteca ieri pomeriggio è stato il patriarca Francesco Moraglia dicendo: «La cultura e la storia ci aiutano a guardare il futuro, la biblioteca e l’archivio sono importanti perché qui vogliamo guardare il presente per progettare il futuro a partire dalla memoria». «In una società dove conta il cambiamento, la velocità, dove la comunicazione viene banalizzata abbiamo bisogno della memoria del passato e del confronto con il presente», ha concluso il patriarca. Il direttore della biblioteca don Diego Sartorelli contestualizza la nuova apertura in riferimento al Giubileo. «Il Giubileo invita a istruire gli ignoranti, ecco il nostro contributo. È uno strumento importante che mostra come la chiesa veneziana sia presente nel territorio con un’offerta culturale». La biblioteca è aperta al pubblico dal lunedì al venerdì dalle 9 alle 13. Tutti i volumi sono consultabili sotto la sorveglianza del personale mentre i prestiti sono possibili solo per gli studenti del Marcianum. Ieri per il rettore del Seminario don Fabrizio Favaro è stata l’occasione per lanciare un appello: servono 500 mila euro per restaurare l’antica biblioteca del seminario dove i tarli hanno divorato l’interno in legno e rischiano di rovinare anche preziosi incunaboli. Un terzo dei soldi ci sono già, per il resto si spera negli sponsor. Con la lectio magistralis del professor Giuseppe Dalla Torre presidente del tribunale dello Stato vaticano ieri è stato il giorno del Dies Academicus della Facoltà di Diritto Canonico Pio X che ha ripreso l’attività dopo la rivoluzione dei soci della Fondazione Marcianum in seguito all’inchiesta Mose. La Facoltà che era finanziata dalla Fondazione ora viene pagata per un terzo dal Patriarcato, un terzo dai vescovi del Veneto e per il restante dalle tasse degli studenti. È stato riattivato il primo anno: in tutto sono iscritti 47 studenti da 22 diversi Paesi. Torna al sommario

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3 – VITA DELLA CHIESA L’OSSERVATORE ROMANO Pag 8 Segno del giubileo All’udienza generale il Pontefice parla della confessione. E collega l’inizio dell’anno santo con il Vaticano II «La salvezza non si paga. La salvezza non si compra. La Porta è Gesù, e Gesù è gratis!». Lo ha detto Papa Francesco all’udienza generale di mercoledì 16 dicembre, raccomandando ai fedeli presenti in piazza San Pietro di accostarsi al sacramento della confessione e di attraversare le porte sante che in questo giubileo «sono vere porte della misericordia». Cari fratelli e sorelle, buongiorno! Domenica scorsa è stata aperta la Porta Santa nella Cattedrale di Roma, la Basilica di San Giovanni in Laterano, e si è aperta una Porta della Misericordia nella Cattedrale di ogni diocesi del mondo, anche nei santuari e nelle chiese indicate dai vescovi. Il Giubileo è in tutto il mondo, non soltanto a Roma. Ho desiderato che questo segno della Porta Santa fosse presente in ogni Chiesa particolare, perché il Giubileo della Misericordia possa diventare un’esperienza condivisa da ogni persona. L’Anno Santo, in questo modo, ha preso il via in tutta la Chiesa e viene celebrato in ogni diocesi come a Roma. Anche, la prima Porta Santa è stata aperta proprio nel cuore dell’Africa. E Roma, ecco, è il segno visibile della comunione universale. Possa questa comunione ecclesiale diventare sempre più intensa, perché la Chiesa sia nel mondo il segno vivo dell’amore e della misericordia del Padre. Anche la data dell’8 dicembre ha voluto sottolineare questa esigenza, collegando, a 50 anni di distanza, l’inizio del Giubileo con la conclusione del Concilio Ecumenico Vaticano II. In effetti, il Concilio ha contemplato e presentato la Chiesa alla luce del mistero della comunione. Sparsa in tutto il mondo e articolata in tante Chiese particolari, è però sempre e solo l’unica Chiesa di Gesù Cristo, quella che Lui ha voluto e per la quale ha offerto Sé stesso. La Chiesa “una” che vive della comunione stessa di Dio. Questo mistero di comunione, che rende la Chiesa segno dell’amore del Padre, cresce e matura nel nostro cuore, quando l’amore, che riconosciamo nella Croce di Cristo e in cui ci immergiamo, ci fa amare come noi stessi siamo amati da Lui. Si tratta di un Amore senza fine, che ha il volto del perdono e della misericordia. Però la misericordia e il perdono non devono rimanere belle parole, ma realizzarsi nella vita quotidiana. Amare e perdonare sono il segno concreto e visibile che la fede ha trasformato i nostri cuori e ci consente di esprimere in noi la vita stessa di Dio. Amare e perdonare come Dio ama e perdona. Questo è un programma di vita che non può conoscere interruzioni o eccezioni, ma ci spinge ad andare sempre oltre senza mai stancarci, con la certezza di essere sostenuti dalla presenza paterna di Dio. Questo grande segno della vita cristiana si trasforma poi in tanti altri segni che sono caratteristici del Giubileo. Penso a quanti attraverseranno una delle Porte Sante, che in questo Anno sono vere Porte della Misericordia. La Porta indica Gesù stesso che ha detto: «Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvato; entrerà e uscirà e troverà pascolo» (Gv 10, 9). Attraversare la Porta Santa è il segno della nostra fiducia nel Signore Gesù che non è venuto per giudicare, ma per salvare (cfr. Gv 12, 47). State attenti che non ci sia qualcuno un po’ svelto o troppo furbo che vi dica che si deve pagare: no! La salvezza non si paga. La salvezza non si compra. La Porta è Gesù, e Gesù è gratis! Lui stesso parla di quelli che fanno entrare non come si deve, e semplicemente dice che sono ladri e briganti. Ancora, state attenti: la salvezza è gratis. Attraversare la Porta Santa è segno di una vera conversione del nostro cuore. Quando attraversiamo quella Porta è bene ricordare che dobbiamo tenere spalancata anche la porta del nostro cuore. Io sto davanti alla Porta Santa e chiedo: «Signore, aiutami a spalancare la porta del mio cuore!». Non avrebbe molta efficacia l’Anno Santo se la porta del nostro cuore non lasciasse passare Cristo che ci spinge ad andare verso gli altri, per portare Lui e il suo amore. Dunque, come la Porta Santa rimane aperta, perché è il segno dell’accoglienza che Dio stesso ci riserva, così anche la nostra porta, quella del cuore, sia sempre spalancata per non escludere nessuno. Neppure quello o quella che mi dà fastidio: nessuno. Un segno importante del Giubileo è anche la Confessione. Accostarsi al Sacramento con il quale veniamo riconciliati con Dio equivale a fare esperienza diretta

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della sua misericordia. È trovare il Padre che perdona: Dio perdona tutto. Dio ci comprende anche nei nostri limiti, ci comprende anche nelle nostre contraddizioni. Non solo, Egli con il suo amore ci dice che proprio quando riconosciamo i nostri peccati ci è ancora più vicino e ci sprona a guardare avanti. Dice di più: che quando riconosciamo i nostri peccati e chiediamo perdono, c’è festa nel Cielo. Gesù fa festa: questa è la Sua misericordia: non scoraggiamoci. Avanti, avanti con questo! Quante volte mi sono sentito dire: «Padre, non riesco a perdonare il vicino, il compagno di lavoro, la vicina, la suocera, la cognata». Tutti abbiamo sentito questo: «Non riesco a perdonare». Ma come si può chiedere a Dio di perdonare noi, se poi noi non siamo capaci di perdono? E perdonare è una cosa grande, eppure non è facile, perdonare, perché il nostro cuore è povero e con le sue sole forze non ce la può fare. Se però ci apriamo ad accogliere la misericordia di Dio per noi, a nostra volta diventiamo capaci di perdono. Tante volte io ho sentito dire: «Ma, quella persona io non la potevo vedere: la odiavo. Ma un giorno, mi sono avvicinato al Signore e Gli ho chiesto perdono dei miei peccati, e anche ho perdonato quella persona». Queste sono cose di tutti i giorni. E abbiamo vicino a noi questa possibilità. Pertanto, coraggio! Viviamo il Giubileo iniziando con questi segni che comportano una grande forza di amore. Il Signore ci accompagnerà per condurci a fare esperienza di altri segni importanti per la nostra vita. Coraggio e avanti! AVVENIRE Pag 18 Venezia. Dalla Torre apre l’anno alla Facoltà di diritto canonico di Francesco Dal Mas «In quella immagine della Chiesa del diritto che deve farsi carico di tutti, ognuno con le proprie debolezze, è plasticamente raffigurata la ragione di un diritto ecclesiale chiamato ad essere stampella misericordiosa di sostegno dell’homo viator nei sentieri accidentati della storia». Lo ha confermato Giuseppe Della Torre, professore emerito della Libera Università Maria Santissima Assunta (Lumsa) in Roma e presidente del Tribunale dello Stato della Città del Vaticano, alla prolusione del «Dies academicus» della Facoltà di diritto canonico S. Pio X di Venezia, introdotto dal preside monsignor Giuliano Brugnotto, presente il patriarca Francesco Moraglia. «Giustizia e misericordia» è stato l’itinerario di riflessione proposto come contributo all’Anno giubilare. Nella contemporaneità, e soprattutto in alcune realtà socio- politiche e ordinamentali, quella della giustizia come implacabile applicazione di una legge positiva che non fa differenze e di un giudice che non distingue, non guardando in faccia a nessuno, è percezione diffusa, per non dire comune, ha fatto osservare Della Torre, introducendo la sua analisi; «una percezione cui fa specularmente eco l’anelito ad una giustizia vera, sostanziale, non formale, non legalistica». Bene, il diritto canonico, ha ricordato, rifugge da una concezione della giustizia come quel 'legalismo' che, nella bolla Misericordiae vultus, il Papa «giustamente condanna». E Della Torre ha tenuto a dire, che la misericordia deve esserci nell’applicazione della legge canonica, sia in sede amministrativa sia in sede giudiziale. «Ciò non significa che in nome della misericordia si possa contravvenire alla giustizia». Ma Della Torre ha ricordato che è la misericordia per la debolezza dell’uomo peccatore, e quindi tendente a vivere difformemente da quanto risponde a vera giustizia, a postulare anche lo strumentario giuridico. È dunque «una misericordia, quella canonistica, che al di là della compassione, mira al perdono ed all’amore». IL FOGLIO Pag 3 L’amnistia del Papa, silenzio (non) strano Richiesta importante sulla giustizia, ma scomoda per i media I grandi media, e non solo quelli italiani, ci hanno abituato a una costante esaltazione delle esortazioni di Papa Francesco, quando sono consone allo spirito umanitario e pacifista. Qualche volta, specialmente se l' esaltazione viene da tribune laiciste, questo suscita qualche interrogativo e dubbio sulla possibile strumentalizzazione politica di affermazioni che hanno, ovviamente, significato prima di tutto religioso. Appare quindi davvero singolare che l' appello del Pontefice in favore di un' amnistia, contenuto nel messaggio per la Giornata della pace, sia stato assai sottaciuto. Questa volta l' appello, che nasce dall' invito alla misericordia giubilare e dalla denuncia delle condizioni dei

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carcerati, ha un destinatario più esplicitamente politico, essendo rivolto ai governi di tutto il mondo. Però, siccome non è in sintonia con gli interessi elettorali, che badano agli umori della società più che ai princìpi del garantismo umanitario, è stato sostanzialmente occultato. Lo spirito pubblico non è facilmente incline al perdono e alla clemenza, prevale l' atteggiamento vendicativo che Manzoni aveva magistralmente condensato nella frase pronunciata durante i tumulti milanesi: "Impiccarli, impiccarli e salterà fuori pane da tutte le parti!". Proprio perché il clima è questo, è particolarmente lodevole l' iniziativa di Papa Francesco, e proprio per questo dovrebbe indurre a una riflessione e avviare un confronto pubblico. La condizione carceraria in Italia è particolarmente deplorevole, anche Sergio Mattarella ne ha indicato il carattere incompatibile con il livello civile di una democrazia matura. Un gesto di clemenza sarebbe utile e l' occasione del Giubileo propizia. Naturalmente esistono anche comprensibili obiezioni, che però dovrebbero essere discusse e superate. Invece è proprio un segno di ipocrisia insopportabile quello di censurare il Papa per non affrontare una questione reale, anche se complessa e impopolare. Torna al sommario 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Un segnale, non la fine di un’era di Massimo Gaggi Con la politica Usa paralizzata dall’anno elettorale, e quindi impossibilitata a fornire stimoli significativi all’economia, la Federal Reserve avvia una manovra ormai probabilmente necessaria ma non priva di rischi per cercare di chiudere la lunga stagione della gestione emergenziale della politica monetaria. L’incremento dello 0,25% dei saggi d’interesse deciso dalla Banca centrale Usa, a quasi 10 anni dall’ultimo aumento del costo del denaro e dopo sette anni di denaro offerto a «tasso zero» è un primo, timido tentativo di evitare che l’eccessivo protrarsi di quell’anomalia produca pericolose patologie croniche e bolle incontrollabili. Una decisione, quella illustrata dal capo della Fed, Janet Yellen, concepita anche per proteggere la credibilità dei banchieri centrali Usa che più volte, quest’anno, avevano promesso il cambio di rotta. Niente di più. Parlare di fine di un’era o di ritorno alla normalità può servire per un titolo suggestivo, ma la realtà è assai meno luminosa: benché più solida di quella europea che ha sofferto di una lunga recessione e più stabile di quelle dei Paesi emergenti, in fase di rallentamento, l’economia Usa rimane vulnerabile. Dopo sette anni di denaro prestato quasi gratis e di sostegni massicci della Fed che ha immesso nell’economia ben 3.800 miliardi di dollari attraverso l’acquisto di titoli, il reddito nazionale Usa cresce al ritmo del 2% circa, ed è in fase di rallentamento a causa dell’eccessiva forza del dollaro e del peggioramento della congiuntura internazionale. Quanto all’inflazione, continua a tenersi ben al di sotto dell’obiettivo del 2 per cento indicato dalla Banca centrale che ora ammette: probabilmente non ci arriveremo fino al 2018-19. Le buone notizie vengono quasi solo dal mondo del lavoro con la disoccupazione dimezzata rispetto al periodo più cupo della crisi. Ma anche qui i dubbi non mancano, visto la riduzione della partecipazione dei cittadini al mercato del lavoro e l’elevato numero di occupati che hanno solo impieghi part-time o ricevono retribuzione che non consentono nemmeno di restare sopra la soglia della povertà. Yellen, che a settembre aveva rinviato un ritocco dei tassi già ufficiosamente preannunciato da vari membri del «board» della Fed, stavolta ha deciso di andare avanti anche se i fattori che avevano consigliato prudenza quattro mesi fa - calo dei prezzi del petrolio e delle altre materie prime, inflazione pericolosamente vicina a quota zero, svalutazione delle monete dei Paesi emergenti, mercati creditizi in tensione - sono ancora tutti lì. Lo ha fatto perché voleva dare un segnale di uscita dall’emergenza, ma al tempo stesso ha rassicurato i mercati spiegando che la politica monetaria della Fed rimane molto accomodante: i tassi l’anno prossimo cresceranno in modo «molto graduale» e solo l’evoluzione dell’economia reale lo consentirà. Probabilmente quattro incrementi che porteranno il costo del denaro, alla fine del 2016, intorno all’1,4 per cento. Non verranno nemmeno meno i sostegni offerti al sistema economico attraverso l’acquisto di titoli: ciò che rientrerà per quelli in

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scadenza verrà reinvestito, le dimensioni complessive del bilancio della Fed resteranno invariate. Insomma, comincia una fase nuova, ma si procede con molta cautela: i governatori della Fed che ieri hanno deciso votando all’unanimità, non dimenticano che nel recente passato altre banche centrali - in Svezia, Canada e Israele - sono state costrette a tornare sui loro passi dopo essere intervenute troppo frettolosamente sul costo del denaro. AVVENIRE Pag 1 La morale di una crisi di Leonardo Becchetti Cappuccetto Rosso, il lupo, le banche Ne sono state dette tante in questi giorni dopo il salvataggio delle quattro banche italiane. Ma la narrativa a senso unico dei poveri risparmiatori ingannati dai bancari fraudolenti, lo scaricare solo sugli altri le colpe di ciò che accade (sport per eccellenza degli italiani malati di qualunquismo) non convince del tutto e non ci aiuta più di tanto a evitare in futuro altre crisi e altre storie personali dolorose. La fotografia di questa crisi, messa vicino a quelle delle crisi precedenti, ci deve ricordare che esistono diversi tipi di banca e ognuno ha i suoi punti di forza e i suoi punti di debolezza. La reazione meno lungimirante e giustificata, dal punto di vista delle conoscenze scientifiche in materia e della tutela della biodiversità, è prendersela con un modello di banca in particolare. Anche perché in questa crisi che coinvolge tre spa e una popolare c’è una “par condicio” che sembra rispettare il peso delle quote dei due diversi modelli nel nostro panorama bancario. Abbiamo vissuto negli ultimi decenni in Italia e nel mondo crisi di piccole e di grandi banche, di banche spa, popolari e cooperative. Al di là del modello e della forma di governance, esistono nel mondo banche ben gestite e mal gestite e conosciamo per fortuna i difetti di ciascun modello. Per le grandi banche spa la crisi finanziaria del 2007 (il cui simbolo è proprio una banca “demutualizzata” come la Northern Rock, ovvero una banca cooperativa che diventa spa e fallisce, con relativa corsa agli sportelli) insegna che il problema è nell’eccessiva presa di rischio con operazioni speculative. Per le banche cooperative e popolari il problema sorge quando la prossimità al territorio si trasforma in incapacità di resistere alle pressioni locali nella concessione dei prestiti (e in una limitata diversificazione del rischio del portafoglio crediti). Dobbiamo pertanto curare entrambi i modelli dalle loro potenziali patologie. Da questo punto di vista la riforma delle Banche di credito cooperativo che sta per andare in porto è un buon passo avanti. Ma anche per gli istituti di credito che si sono dati struttura e logiche di società per azioni, forme di separazione tra banca d’affari e banca commerciale sarebbero altrettanto importanti per scongiurare in futuro le derive speculative del passato, evitando di confidare solo nell’autoregolamentazione attraverso i modelli di rating interno. Dall’altro lato del mercato questa crisi ci insegna che non possiamo restare fermi allo stereotipo del “povero” e inconsapevole risparmiatore che incappa nel bancario fraudolento e investe il 100% del proprio risparmio in un unico prodotto speculativo. Il risparmiatore non è Cappuccetto Rosso e per evitare che il mondo della finanza sia stucchevolmente simile a quello delle favole di Grimm abbiamo paradossalmente bisogno di un passo avanti in direzione paternalista e uno in direzione di una maggiore formazione e responsabilità individuale. Per il primo è presto detto. Come quando nacque il sistema pensionistico i lavoratori furono di fatto costretti ad accantonare parte del loro salario per evitare di restare senza risparmi al termine dell’età lavorativa così è possibile proibire investimenti al di sotto di una soglia minima di diversificazione. Per fare un esempio non sarebbe difficile proibire per legge che una liquidità complessiva di 100mila euro venga investita interamente in un unico titolo. Limiti minimi di diversificazione in proporzione al patrimonio totale liquido possono essere definiti senza particolari difficoltà. Non ha senso invece vietare per se la vendita di obbligazioni subordinate come se fossero la causa di tutti i mali (e allora con le azioni, che sono più “pericolose”, che si fa ?). Il problema è la diversificazione del portafoglio non la possibilità di acquistare titoli rischiosi. Allo stesso tempo non possiamo non promuovere – come è stato sollecitato più volte da queste colonne, da ultimo proprio martedì scorso con un editoriale di Luigino Bruni – un passo avanti in termini di educazione finanziaria. Prima di poter circolare con la nostra macchina nel traffico dobbiamo superare un esame per ottenere la licenza di guida. Il traffico finanziario è altrettanto complesso e pericoloso e alcune regole basilari

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dovremmo impararle tutti prima di prendere il largo. Anche le più semplici, come quella di non mettere tutte le uova nello stesso canestro (il principio della diversificazione del rischio) o di tenere bene a mente che rischio e rendimento sono positivamente correlati e dunque, dove ci si prospetta un rendimento maggiore non possono che esserci maggiori rischi (in finanza non esistono “pasti gratis”). Il traguardo è un mondo di risparmiatori che invece di gridare al lupo sappiano guardarsi meglio dai pericoli e ne siano in parte protetti da regole ed istituzioni. Torna al sommario 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag VII Nicopeja, c’è l’accordo: salvi 48 posti di Filomena Spolaor Pazienti e lavoratori attualmente agli Alberoni andranno all’Ire dei Santi Giovanni e Paolo e a Pellestrina Una gioia sia per il Comune che per i sindacati, perché «con la salute non si scherza». Lo ha affermato con soddisfazione Simone Venturini, assessore alle politiche sociali, che ieri ha incontrato Asl 12, sindacati e Fondazione Opera Santa Maria della Carità, per formalizzare l'accordo che prevede il salvataggio di tutti i 48 posti di lavoro e lo spostamento della cinquantina di ospiti (tra comunità psichiatriche e disabili) di Casa Madonna Nicopeja degli Alberoni. Considerata l'inadeguatezza della struttura, non più accreditata dalla Regione a causa del mancato intervento per la messa a norma dell'edificio, l'Ulss ha dovuto chiedere che tali servizi venissero trasferiti su strutture accreditate. Al termine dell'incontro del 1 dicembre, è stato esaminato l'iter che stava percorrendo la Fondazione, permettendo di tutelare sia i propri dipendenti che gli ospiti. E ieri è stato reso ufficiale il trasferimento delle due comunità psichiatriche e del servizio disabili diurno presso l'istituto dell'Ire S.S. Giovanni e Paolo di Venezia (per il quale è stato chiesto la proroga dell'accreditamento in essere), gestite ancora e direttamente dall'Opera Santa Maria della Carità con il proprio personale. La comunità residenziale disabili, invece, sarà trasferita presso la Casa Santa Maria del Mare di Pellestrina. L'Ulss 12 ha previsto che tali trasferimenti avvengano entro il 31 dicembre. Una soluzione positiva, a cui il Comune è giunto venendo incontro ai sindacati, ma soprattutto "grazie alla nuova collaborazione instaurata con l’Asl" sottolinea l’assessore Venturini. La struttura dell'Ire SS. Giovanni e Paolo è stata infatti individuata dal Comune, in alternativa a quanto proposto inizialmente dall'azienda sanitaria, ossia il trasferimento del servizio e dei pazienti dalla Casa Nicopeja, non più idonea, alla struttura Carlo Steeb. Questo avrebbe comportato un'interruzione dell'attuale servizio e la messa in discussione dei posti di lavoro. «Sono soddisfatta perché viene garantito all'attuale gestore la continuità del servizio e quindi la continuità della relazione terapeutica cara ai pazienti, ma anche la tutela integrale dei posti di lavoro. Una risposta ai bisogni del disagio psichiatrico. Un modello avanzato di servizio, che vede il superamento dell'esperienza manicomiale» afferma Italia Scattolin, rappresentante Fp Cgil. Pag XXVI Appuntamento con il Concerto di Natale della Fenice di Alvise Sperandio A Venezia e a Mestre Venezia - Ritorna il tradizionale concerto di Natale della Fenice, stasera e domani nella basilica di San Marco, e domenica in replica nel Duomo di San Lorenzo a Mestre. L'appuntamento per oggi e domani è alle ore 20, per domenica invece alle ore 21. La Cappella Marciana sarà diretta dal maestro Marco Gemmani e proporrà un programma dedicato al repertorio sacro veneziano. Con musiche di Gioseffo Guami, Giovanni e Andrea Gabrieli, Baldassare Donato, Claudio Merulo e Giovanni Bassano, alcune delle quali in prima esecuzione in tempi moderni, saranno precedute da una composizione anch'essa in esclusiva firmata da Flavio Colusso. Questi, da sempre impegnato nella produzione di capolavori inediti del passato e di prime esecuzioni di nuove opere, è fondatore dell'Ensemble Seicentonovecento e maestro di cappella e direttore della Cappella musicale Theatina. Il brano in questione è il "Puer natus est nobis", brano

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vocale per soprano, alto, tenore, basso, voci in eco e strumenti. Il programma di sala propone una scelta di brani della grande e complessa polifonia del periodo d'oro della storia marciana che furono gli anni a cavallo tra Cinque e Seicento. Come dimostra la stessa celebrità di tutti gli autori interessati che gira, infatti, attorno alla cappella della basilica per i prestigiosi incarichi da loro ricoperti. L'ingresso di stasera è riservato esclusivamente agli invitati della Procuratoria di San Marco, mentre quello di domani è un concerto in abbonamento (turno S) della stagione sinfonica della Fenice. L'ingresso nel Duomo di Mestre è libero, ma sempre su invito che può essere ritirato fino ad esaurimento dei posti alla libreria San Michele. LA NUOVA Pag 37 Franceschini: “Confermo Baratta” di Enrico Tantucci Una modifica al decreto in materia consentiva l’ulteriore rinnovo alla presidenza. L’ingegnere che ha risvegliato la cultura Paolo Baratta alla guida della Biennale di Venezia per il suo quarto mandato, per una storia - con qualche interruzione - lunga quasi vent’anni con la principale istituzione culturale italiana del contemporaneo, cominciata nel 1998. È arrivata ieri, alla vigilia del Consiglio di amministrazione di oggi, l’ultimo primo della decadenza fissata per il 19 dicembre, l’attesa riconferma di Baratta alla presidenza della Biennale da parte del ministro dei Beni Culturali Dario Franceschini. «Ho fatto la proposta formale di riconferma di Paolo Baratta» ha detto ieri Franceschini «e l’ho già inviata alle commissioni parlamentari. Del resto Baratta ha fatto un lavoro straordinario in questi anni e quindi mi pare giusto che ci sia una riconferma». L’attuale presidente, infatti, avrebbe dovuto chiudere la sua esperienza veneziana a fine anno, dopo due mandati consecutivi iniziati nel 2008. Ma la riconferma è stata resa possibile dal codicillo inserito qualche mese fa dal Governo (su input dello stesso Franceschini) in uno degli articoli del Decreto di riforma degli enti locali, sotto la voce “Misure per la città di Venezia”. Baratta guida la Biennale dal 2008 - dopo un primo mandato iniziato nel 1998 e concluso prima del tempo per volontà dell’allora ministro dei Beni Culturali Giuliano Urbani per contrasti sulle nomine - e il decreto legge del gennaio 1998 che regola la vita dell’istituzione prevedeva per la presidenza non più di un solo rinnovo. Ma nella nuova formulazione le parole “una volta sola” sono state sostituite da “non più di due volte”, permettendo così al ministro di riconfermare nuovamente Baratta alla presidenza dell'istituzione culturale. La modifica dello statuto della Biennale, legata anche alla prosecuzione della presidenza Baratta, ha consentito anche di prorogare di un anno i mandati dei direttori di settore, prima che scada il Consiglio di amministrazione, evitando così “vuoti” nella programmazione. E infatti di recente Baratta e il Cda attuale hanno riconfermato per il 2016 Alberto Barbera al settore Cinema, Virgilio Sieni alla Danza, Ivan Fedele alla Musica e Alex Rigola al Teatro. Oltre ad aver nominato Alejandro Aravena per la Biennale Architettura del 2016. Baratta è già adesso il più longevo presidente della storia della Biennale e si avvia - con il nuovo mandato in arrivo, fino al 2020 - a stabilire un record difficilmente battibile. L’interessato è ovviamente soddisfatto - ha detto più volte nei mesi scorsi di non ritenere ancora concluso il suo lavoro alla Biennale - ma non commenta, rispettoso del ruolo delle Commissioni Cultura di Camera e Senato che dovranno “votargli la fiducia” prima che Franceschini possa firmare il decreto di nomina. Nel frattempo l’attuale Consiglio - nel nuovo da nominare, il presidente della Regione Luca Zaia e il sindaco di Venezia Luigi Brugnaro saranno comunque riconfermati d’ufficio - andrà avanti in proroga. La Sfinge resta in laguna. C’è chi lo chiamò così, fin dalla sua comparsa nel 1998 sulla scena veneziana come presidente della Biennale, per l’apparente impenetrabilità dell’uomo e un sorriso enigmatico che accompagnava le sue - parche - dichiarazioni d’intenti. L’ingegner Paolo Baratta arrivava a Venezia già con un cursus honorum importante di ministro nei Governi Amato, Ciampi e Dini e dunque, si poteva presumere, per suggellare serenamente la sua carriera di Grand Commìs di stato e di banchiere con la guida della più importante, anche se un po’ sbiadita, istituzione culturale italiana del contemporaneo. Niente di più falso. L’ingegner Baratta era arrivato con l’intenzione di rifarla da cima a fondo, a cominciare dalle sue strutture e fu il primo, con Harald

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Szeemann alla guida della Mostra Internazionale delle Arti Visive, a intuire le straordinarie potenzialità espositive di un monumento abbandonato a se stesso come l’Arsenale - nel disinteresse dello stesso Comune che molti anni più tardi l’avrebbe ereditato dallo Stato - e a iniziare a recuperarlo. Le importanti relazioni politiche e istituzionali dell’uomo servirono a reperire - attraverso fondi della Legge Speciale destinati ad hoc - le risorse necessarie a recuperare Corderie, Artiglierie, Tese, Gaggiandre e via espandendosi, facendo dell’Arsenale la “casa” della Biennale insieme ai Giardini e contribuendo anche con il riuso di questi spazi unici a rilanciare il target intermnazionale della Biennale. Ma è di Baratta anche il merito di aver reso anche la Biennale Architettura, fino ad allora parente “povera” di quella di Arti Visive e fatta soprattutto per gli architetti, una grande manifestazione internazionale e “popolare»” rendendo le due mostre quasi intercambiabili. Se il ministro Giuliano Urbani volle giubilarlo prima del tempo nel suo primo mandato, invocando lo “sgarbo” di aver nominato in scadenza Deyan Sudjic alla guida della Biennale Architettura per dargli il tempo di lavorare, un altro ministro dei Beni Culturali, Giancarlo Galan, non voleva riconfermarlo, dopo il suo ritorno nel 2008, per mettere al suo posto l’amico pubblicitario Giulio Malgara. Ma dovette arrendersi quando una raccolta di firme - lanciata dal nostro giornale e che richiamò migliaia di adesioni, tra cui quelle dei direttori dei principali musei del mondo - impose il dietro-front di Galan e la successiva riconferma a furor di popolo di Baratta. Che, nel frattempo si è talmente innamorato del ruolo e dell’istituzione da non volerla lasciare, tanto che un ministro che lo stima enormemente come Dario Franceschini ha addirittura cambiato lo statuto della Biennale per permettere al presidente un altro giro di giostra. Perché nel frattempo la Biennale, sotto Baratta, è diventata l’unica istituzione pubblica veneziana che funziona veramente, la Biennale Arti Visive e quelle di Architettura sono diventate le manifestazioni di riferimento del settore a livello internazionale. La Mostra del Cinema “tiene” egregiamente nonostante i problemi strutturali a cui si è in parte posto rimedio. E i conti reggono, nonostante il calo dei fondi pubblici, grazie agli sponsor e all’autofinanziamento. Tanto che la Mostra Arti Visive, unica nel panorama italiano dell’arte contemporanea, si paga da sé. E la Biennale ha ritrovato anche un pubblico giovane, lanciato il settore educativo e di formazione professionale, con la Biennale College, che tanto sta a cuore al suo presidente. In una Venezia che ormai si limita a “mostrare” cultura, ha cominciato finalmente anche a produrla. Per questo Baratta - che ha un alto concetto di sé - è voluto restare. Per finire ciò che ha incominciato quasi vent’anni fa. Il primo impegno saranno le date. Il Consiglio di amministrazione della Biennale di oggi dovrebbe decidere le scadenze per il 2016 delle Biennali Danza, Musica e Teatro, oltre a riconfermare quelle di Cinema e Architettura, che si alterna ogni due anni ad Arti Visive. La Mostra Internazionale di Architettura, affidata al cileno Alejandro Aravena, sarà allungata nella durata rispetto alla precedente, e prevista dal 28 maggio al 27 novembre 2016. La Mostra del Cinema diretta ancora da Alberto Barbera si svolgerà invece dal 31 agosto al 10 settembre del prossimo anno. Possibile che oggi si fissino anche le scadenze del Carnevale dei Ragazzi organizzato ogni anno ai Giardini, vista l’inizio “basso” di quest’anno della manifestazione. Si farà anche un bilancio in particolare della Biennale Arti Visive affidata al critico nigeriano Okwui Enwezor, conclusasi da circa un mese, con un nuovo record di visitatori, oltre mezzo milione nei sette mesi di apertura. Ci vorrà circa un mese prima che le commissioni parlamentari votino il gradimento a Baratta e si avvii la designazione del nuovo Consiglio di amministrazione dell’ente, che dovrebbe essere piuttosto rapida. Tra i primi atti previsti, la scelta del nuovo direttore della Biennale Arti Visive del 2017. CORRIERE DEL VENETO Pag 21 Biennale, terzo sì a Baratta. Franceschini: “Scelta giusta” di Monica Zicchiero «Gli incarichi pubblici né si chiedono né si rifiutano». È una delle frasi iconiche di Paolo Baratta, la ripete sovente da mesi, da quando sono iniziati i «rumors» sulla sua riconferma alla presidenza della Biennale di Venezia. E terzo mandato sarà: lo ha annunciato ieri il ministro della Cultura, Dario Franceschini: «Ho scritto la proposta

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formale di riconferma di Baratta e l’ho già inviata alle commissioni parlamentari. Baratta ha fatto un lavoro straordinario in questi anni e mi pare giusto che ci sia una riconferma». L’iter nelle commissioni di Camera e Senato non è ancora cominciato ma col suo annuncio il ministro ha messo lo stop al conto alla rovescia della scadenza del mandato di dopodomani, 19 dicembre. E incorona doge di lungo corso dell’istituzione di Ca’ Giustinian l’economista milanese, classe 1939, tre volte ministro nei governi Amato, Ciampi e Dini e approdato per la prima volta alla Biennale nel 1998, sotto il governo di Romano Prodi. La seconda nomina nel 2008, di nuovo col governo Prodi, poi la riconferma accidentata dopo che l’allora ministro Giancarlo Galan annunciò di volerlo sostituire con l’imprenditore veneto Giulio Malgara. La risposta della città e degli intellettuali fu una levata di scudi e così si arriva ad oggi, al terzo mandato consecutivo, il quarto sommato alla nomina del 1998. A Venezia Baratta supererà pure il record di Massimo Cacciari, che è stato sindaco «solo» tre volte. I commenti a caldo sono perlopiù positivi, a cominciare dall’assessore regionale alla Cultura, Cristiano Corazzari (Lega): «Fin dall’inizio con Baratta c’è stata una franca e aperta collaborazione e non posso che esprimere soddisfazione per la riconferma, insieme ad un augurio di buon lavoro». «È sotto gli occhi di tutti il risultato positivo di questi anni e la scelta di Franceschini è conseguente», dice il deputato Pd Michele Mognato. «Baratta ha conseguito brillanti risultati e l’autonomia finanziaria - gli fa eco il collega di partito alla Camera Andrea Martella - la riconferma è naturale». Naturale perché lo scorso agosto il decreto di riforma degli enti locali, approvato dal Consiglio dei ministri, ha reso possibile un terzo mandato grazie all’articolo 13-ter «Misure per la città di Venezia», che modifica la legge e permette il rinnovo non una sola volta ma «non più di due volte». «Le ragioni? Ho qui i numeri record della Biennale Arte 2015, dimostrazione di una cura intelligente della proposta culturale — commenta dalla commissione Cultura l’onorevole Giulia Narduolo (Pd) -. E se il ministro Franceschini ha chiamato Baratta nella commissione di valutatori dei nuovi direttori dei musei nazionali, è segno di stima per la competenza professionale». La Biennale Arte 2015 ha sfondato il tetto del mezzo milione di visitatori, per la precisione 501.502 (furono 475mila nel 2013), il 31% . Record di partecipazioni nazionali: 89, con 44 eventi collaterali. «I Paesi nuovi che emergono da profonde trasformazioni per prima cosa vanno a New York, all’Onu, come seconda vanno a Parigi, all’Ocse, e come terza chiedono di venire alla Biennale di Venezia», aveva detto Baratta alla vigilia dell’inaugurazione. «Amazing», era stato il commento di Michelle Obama dopo la visita. L’Esposizione Internazionale riesce ad autofinanziarsi (costa 13 milioni, 8 arrivano dalla biglietteria il resto da sponsor e donors); la Mostra del Cinema (13 milioni di costo) può contare su 2,5 milioni che vengono corrisposti dagli sponsor, poco più di un milione ricavato dai biglietti e il resto erogato dal ministero. E mentre il Lido rifletteva sul buco del Palacinema, la Biennale investiva 7 milioni di euro (altrettanti quelli messi da Comune e altri istituzioni) su Sala Grande e la Sala Darsena, che adesso offrono 4665 posti rinnovati sui 5165 totali. Sono in perdita le rassegne più di nicchia, danza, teatro e musica, che costano 4,5 milioni mentre il Fus ne eroga 1,6 milioni. Nel generale plauso a Baratta, spicca il silenzio dei parlamentari di Forza Italia. E il M5S smorza l’entusiasmo: «Al di là della persona e dei risultati, si conferma una modalità che non prescinde dalla connotazione politica, quando si tratta di nomine - scuote la testa il deputato Marco Da Villa -. Quello di Baratta è un nome legato a doppio filo alla politica. Auspichiamo un cambio di metodo, che seguiamo noi quando alla Consulta proponiamo Franco Modigliani, un nome indipendente da tutti. Anche da noi». Torna al sommario 8 – VENETO / NORDEST LA NUOVA Pag II Il Giubileo in Veneto tutte le porte sante di Francesco Dal Mas Nessun colpo di spugna né transiti magici, ma misericordia La solidarietà è davvero un istinto del cuore di ogni uomo - e donna, naturalmente - come ha detto il vescovo di Padova, Claudio Cipolla, all’apertura dell’anno santo della misericordia. La misericordia, appunto: da chiedere e da dare. I veneti sono

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particolarmente sensibili su questo fronte: domenica scorsa hanno partecipato in massa al primo ingresso attraverso la Porta Santa delle diverse cattedrali della regione. Più di 20 mila, forse 25 mila, 2 mila soltanto a Chioggia, la minore, ma non meno importante, comunità diocesana del Veneto. E tutto questo nonostante le misure di sicurezza, i metal detector, i controlli in borsa e nello zaino. Ma quale secolarizzazione? L’anno giubilare voluto da papa Francesco, per riconciliare gli uomini con Dio ma anche tra di loro, è destinato ad una mobilitazione straordinaria. L’anno santo è destinato a certificare che il Veneto non ha perso la sua identità: cristiana, quindi anche misericordiosa, ancorché espressa in forme laiche, diciamo pure civili. Certo, si pone il problema dell’autenticità. Nessun rito magico. I vescovi per primi sono preoccupati perché le porte sante della Basilica di San Marco, delle cattedrali di Padova, Treviso, Vittorio Veneto, Belluno, Feltre e Chioggia, quelle dei santuari (da Sant’Antonio e San Leopoldo a Padova a Motta di Livenza, a Follina e a Monte Berico) e di alcune chiese minori, non si trasformino in transiti magici, ossia in colpi di spugna per cancellare i peccati. La solidarietà non può essere quella che ciascuno si dà, la carità fai da te. Il patriarca Moraglia lo spiega puntualmente. «Gesù ci chiede così di riscoprire, ridefinire e dare nuovo respiro al modo in cui viviamo la nostra prossimità. Il mio prossimo non è quello che io sono disposto a riconoscere come tale ma colui - chiunque sia - che ha bisogno di me, che mi tende la mano e che io sono nelle condizioni di poter soccorrere» puntualizza il patriarca che, non lo si dimentichi, è il metropolita della Chiesa veneta. Conversione politica. «Questo è un tema di riflessione comune e oggetto di un cammino di conversione spirituale, culturale e anche politica che oggi, risulta, tra l’altro, di drammatica attualità» specifica Moraglia, pienamente cosciente che i veneti, istintivamente o consapevolmente solidali, in tanti casi si scelgono i poveri da aiutare, lasciando in ultima fila i profughi, ad esempio. L’anno giubilare, collegato anche alla memoria del Concilio Vaticano II, a 50 anni dalla conclusione, ma non ancora pienamente attuato avrà successo, anche sul piano culturale, oltre che spirituale, se - come sollecita il patriarca - la prossimità verrà riscoperta, ripensata e ridisegnata alla luce del Vangelo e non dei convincimenti personali o a partire dal comune modo di pensare che per il cristiano deve essere sempre sottoposto al vaglio della Parola di Gesù. Dirimente, quindi, è la circostanza che le porte sante siano anche quelle delle cappelle delle carceri di Venezia e Padova. Ciò significa che dei detenuti il cristiano veneto deve farsene carico. «Se non basta esprimere a parole la propria compassione, vicinanza e solidarietà, allo stesso modo non è ancora evangelica un’efficienza fatta di pianificazione e organizzazione che arriva anche al dettaglio ma è priva di carità, ossia di un cuore fraterno capace di condividere personalmente» sottolinea con forza Moraglia. Le prossime tappe. I prossimi appuntamenti sono già definiti: dal fine settimana con l’apertura dell’anno santo nella concattedrale di Feltre e con quella dell’Abbazia mariana di Follina, nel Trevigiano. E, prima ancora, il 18, al carcere di S. Maria Maggiore, a Venezia, cui seguirà quello femminile, alla Giudecca, il 5 gennaio. Successivamente al santuario mariano di Borbiago di Mira (9 gennaio) e nella chiesa parrocchiale di Eraclea, sul litorale (il 16). Dal momento dell’apertura, la Porta Santa della basilica marciana è aperta tutti i giorni e accessibile ai fedeli dalle 9.30 alle 16.30. Ai pellegrini viene garantito un percorso particolare e differenziato rispetto a quello solitamente riservato ai turisti della basilica. «Essi potranno così compiere quelle azioni previste per ottenere l’indulgenza plenaria, tra cui la confessione, la recita della professione di fede, l’eucarestia», spiega don Morris Pasian, responsabile dell’ufficio liturgico. Entrati dalla porta di San Clemente, i fedeli si recheranno in battistero dove, alle ore 10 dei giorni feriali, viene celebrata la messa a cui farà seguito l’adorazione eucaristica. L’uscita avviene passando attraverso la Cappella Zen. Tanti pellegrinaggi. L’anno santo sarà un seguito ininterrotto di pellegrinaggi; confermati quelli vicariali alla basilica di San Marco previsti in Quaresima che inizieranno con una processione esterna a partire da una chiesa vicina. La diocesi di Vittorio Veneto si farà pellegrina a Roma, il 28-30 dicembre. Nelle domeniche di Quaresima, alle 15, si terranno dei pellegrinaggi interforaniali in quattro chiese della diocesi: Cattedrale, Santa Lucia di Piave, Abbazia di Follina, Basilica di Motta di Livenza, dove il 13 febbraio si celebrerà anche il giubileo diocesano dei malati. A Padova le porte sante sono cinque. Oltre a quella di Sant’Antonio che verrà aperta domenica, saranno aperte dal vescovo domenica 27 la cappella della casa di reclusione Due Palazzi di

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Padova, l’11 febbraio quella del santuario di Terrassa Padovana e il 17 febbraio il santuario di San Leopoldo, in occasione del rientro della salma del santo. Torna al sommario … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 L’anti Nazareno è servito. Per ora di Massimo Franco Ha tutta l’aria di un anti patto del Nazareno, cementato sull’altare della Consulta. Fuori Forza Italia, dentro i 5 Stelle. Col Pd nel ruolo di perno di qualsiasi alleanza. Rimane solo da capire se lo scarto di Renzi segni l’inizio di una nuova strategia, con l’abbandono definitivo di FI come interlocutrice, e l’opzione del dialogo con Grillo. Oppure se l’iniziativa di ieri sia soprattutto l’estrema risorsa tattica di un presidente del Consiglio in difficoltà: accerchiato dagli attacchi sul salvataggio delle quattro banche locali, che si riverbera su Palazzo Chigi; e ansioso di uscire dall’angolo. Probabilmente ci sono entrambe le cose. Ma è una manovra rischiosa, sebbene forse prevedibile. Nel momento in cui il partito di Silvio Berlusconi certifica la subalternità alla Lega proponendo la gogna per il ministro Maria Elena Boschi e la sfiducia al governo, i fili tendono a spezzarsi: anche quelli sotterranei affiorati nei momenti più delicati per fornire a Renzi un soccorso parlamentare decisivo. Il premier spera di recuperare in primo luogo il Pd, che non riesce più a dominare dal tempo dell’elezione-capolavoro di Sergio Mattarella al Quirinale. Tenta di rompere l’accerchiamento sbloccando le votazioni su tre giudici della Corte costituzionale, che hanno superato la trentina. E sembra voler ribadire di non sentirsi prigioniero di nessuno, e di poter pattinare tra le alleanze parlamentari più spregiudicate. La domanda ineludibile, tuttavia, è se la sua iniziativa sia un segno di massima forza o di crescente debolezza. Perché se la strada obbligata era quella di un accordo col M5S, forse andava imboccata prima, non dopo trentadue scrutini a vuoto. Fa capolino il sospetto che la virata renziana sia vissuta come un cedimento del Pd ad un acerrimo avversario. Il M5S incassa una vittoria, infatti, perché la sua irrilevanza viene smentita proprio dal premier: tanto più mentre i seguaci di Grillo si propongono come forza di governo negli enti locali dove il Pd arranca. Ma non è detto che un accordo sulla Consulta segni la fine di qualunque prospettiva di «Partito della Nazione»: l’ipotesi di una sinistra pilotata dal presidente del Consiglio verso un approdo moderato. Al contrario, potrebbe segnare un’offensiva ancora più frontale contro FI, per schiacciarla su Matteo Salvini e spremere i consensi che rifiutano di essere usati per legittimare una deriva estremista. L’elezione dei giudici dopo un anno e mezzo, comunque, rimane una pagina nera per il Parlamento e per i partiti: tutti. Pag 15 Mosul. Guerriglia casa per casa, popolazioni filo-Isis. Cosa attende i soldati che difenderanno la diga di Lorenzo Cremonesi Kobane (Siria) Le colline attorno alla diga sono brulle, costellate di villaggi poveri: casette ad un piano, fattorie isolate con torme di cani randagi spaventati dalla guerra. L’anno scorso tra il 15 e 19 agosto, quando i guerriglieri di Isis avevano occupato gli spalti alti dello sbarramento e setacciavano i nuclei urbani vicini, i peshmerga bloccavano l’accesso a noi giornalisti dicendo: «Sono zone dove è facile organizzare imboscate. Tra le rocce piazzano le mine. Dalle colline alte i cecchini dominano settori molto ampi. Non possiamo garantire la vostra sicurezza». Il bacino artificiale si vede da molto lontano, si incunea azzurro in mezzo al marrone verdastro. D’estate una lieve brezza allieta un poco dal caldo opprimente. Ma d’inverno soffia perennemente il vento freddo del deserto, che non trova ostacoli e porta facilmente a temperature ben sotto lo zero. Questo è il luogo della diga posta una quarantina di chilometri a nord di Mosul. La sua instabilità cronica, strutturale, si offre a facile metafora delle difficoltà che attendono i 450 militari italiani destinati a garantire la sicurezza dei tecnici e operai della Trevi di Cesena chiamati a cercare di ripararla. I problemi che la circondano sono però politici e militari, prima che ingegneristici. L’area a sud di Dohuk e a nord di Mosul, dal giugno 2014 capitale irachena del Califfato, è infatti terra di confine tra le province curde e

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quelle sunnite. Non a caso i peshmerga, grazie alla copertura dei caccia americani, prima di avanzare sono costretti a setacciare i villaggi. Qui la popolazione sunnita sta in maggioranza con Isis. La guerriglia è strada per strada, casa per casa. I cartelli stradali sono in curdo e arabo, raramente in inglese. I villaggi vuoti, le abitazioni abbandonate stanno a testimoniare le ultime fughe di popolazione, compresa quella cristiana, oggi rifugiata soprattutto a Erbil, ma in maggioranza già emigrata tra Europa, Canada, Usa. Ci siamo fermati quattro giorni fa sulle sponde settentrionali del grande lago artificiale venendo da Erbil. Sulla statale verso nord, interminabili file di camion turchi rappresentano la linfa vitale per la provincia autonoma curda, formalmente ancora sottomessa alla sovranità di Bagdad, ma de facto ormai totalmente indipendente. Nel giugno-settembre 2014 il lago era praticamente irraggiungibile. Adesso, con il fronte spostato a ridosso di Mosul, vengono le famiglie curde per i picnic del venerdì. Però la diga resta inavvicinabile. La pattugliano unità scelte di peshmerga assieme a un pugno di commando americani e inglesi. «La diga è troppo importante. Non dobbiamo assolutamente rischiare ancora che cada nelle mani di Isis», dicono i comandi di Dohuk. Così hanno posto limiti invalicabili ben lontani dallo sbarramento e sulle colline più alte: sensori elettronici, visori notturni, campi minati. Gira anche voce che siano state poste delle reti nel bacino, per evitare che Isis possa lanciare cariche esplosive galleggianti. I tecnici italiani dovranno comunque fare i conti con instabilità strutturali di vecchia data. Se ne accorsero presto i dirigenti del consorzio italo-tedesco che nel 1980 Saddam Hussein assoldò per costruire lo sbarramento sul Tigri. L’ex dittatore iracheno lo volle in quella gola aperta una quarantina di chilometri a nord di Mosul, anche se la qualità del suolo era considerata assolutamente inadatta, per il fatto che nei suoi piani le priorità politiche sovrastavano quelle economiche. Intendeva continuare l’«arabizzazione» della regione, spingendo i curdi verso nord. La costruzione andò per le lunghe. Lo sbarramento sfiora i tre chilometri e mezzo e raggiunge l’altezza di 133 metri. Dietro nacque un lago gigantesco destinato a soddisfare la sete cronica del Paese, penalizzato dal fatto che le sorgenti del Tigri e l’Eufrate sono situate tra le montagne turche. Oggi la diga ha in valore ancora più vitale, visto che dal 2003 le strutture idriche del Paese sono diventate ancora più obsolete. Ma nel 1984 i tecnici furono costretti a scavare profonde gallerie sotto la diga destinate ad essere via via riempite con iniezioni di cemento e materiali consolidanti. Il terreno gessoso si scioglie al contatto con l’acqua. L’embargo internazionale seguito all’invasione del Kuwait nel 1990 ridusse ulteriormente le riparazioni. Nel marzo 2003 furono i blitz di peshmerga e marines ad evitare che potesse venire minata dai baathisti fedelissimi di Saddam. Fu allora che venne alla luce il problema della diga quale potenziale catastrofe umanitaria. Gli ingegneri Usa resero noto che il suo crollo avrebbe causato un’onda alta oltre venti metri: in due ore poteva sommergere Mosul, la valle di Ninive con i suoi antichi villaggi cristiani, e avrebbe quindi raggiunto Bagdad con un onda alta ancora quattro metri e mezzo. Vittime possibili: mezzo milione di persone, oltre a danni incalcolabili. Quella minaccia non è cambiata, resta più attuale che mai. E i militari italiani dovranno contribuire a dissiparla. Pag 20 Gelli, l’ultima inchiesta e i misteri irrisolti di Giovanni Bianconi L’ultima inchiesta si concluderà con la formula «per morte del reo». A 96 anni Licio Gelli se n’è andato con un’indagine a suo carico ancora aperta, sebbene con una richiesta di archiviazione pendente: quella per l’omicidio di Roberto Calvi, il «banchiere di Dio» iscritto alla Loggia P2 e trovato morto sotto il ponte di Londra, nel giugno 1982. Il pubblico ministero aveva chiesto la riapertura dell’inchiesta sul Venerabile come mandante del delitto, con questo movente: «Evitare che Calvi potesse esercitare il suo potere ricattatorio e svelare i segreti a sua conoscenza». Alla fine dei nuovi accertamenti, però, nell’ottobre 2013 lo stesso pm aveva concluso per l’archiviazione, come già accaduto in passato: «Gli elementi probatori di cui si dispone consentono di ritenere molto plausibile una corresponsabilità nel delitto, ma non hanno assunto il valore di prove certe». Esito che ha lasciato insoddisfatto l’erede di Calvi, il figlio Carlo, il quale aveva chiesto al giudice delle indagini preliminari di ordinare nuove accertamenti. La decisione del giudice era attesa a giorni, ma l’indagato non ce l’ha fatta a vedere la fine. Così i segreti alla base del possibile ricatto rimarranno tali: morto Calvi (assassinato con simulato suicidio) e morto Gelli nel suo letto, resta la leggenda dei

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misteri che finiscono nella tomba insieme ai loro custodi. Misteri che cominciano quando il futuro capo della P2 è poco più che un ragazzo e si mostra già abile nei doppi e tripli giochi tra partigiani, repubblichini, Alleati anglo-americani, ex fascisti, e secondo qualcuno persino servizi segreti dell’Est. Manovre che ne caratterizzeranno l’intera esistenza, insieme all’affiliazione alla massoneria: recinto nel quale coltiva contatti e - sosterranno le accuse a suo carico - tesse trame contro la democrazia. I segreti del fallito golpe Borghese (dicembre 1970) passano anche da lui se venticinque anni dopo, nel 1995, un giudice sarà costretto a chiudere il procedimento per prescrizione, stabilendo però che «risulta obiettivamente accertato un ruolo di Gelli nei fatti di cospirazione politica». Pare che toccasse a lui il compito di arrestare il presidente della repubblica Giuseppe Saragat, e che fu proprio una sua telefonata a bloccare il blitz all’ultimo momento. Ma il Venerabile ha sempre taciuto o negato ogni responsabilità a seconda delle circostanze. Da allora, mentre la P2 si espandeva arruolando esponenti politici, funzionari dello Stato civili e militari, imprenditori, giornalisti e personalità influenti di ogni tipo, il nome di Gelli ha accompagnato pressoché ogni vicenda misteriosa, e ogni processo in cui s’intrecciavano politica e affari, crimini e patti inconfessabili. Veri o presunti. Dalle stragi nere al sequestro Moro ad opera dei brigatisti rossi, dall’eccidio alla stazione di Bologna (2 agosto 1980, 85 morti e oltre duecento feriti) al crac del Banco Ambrosiano, con correlata scalata al Corriere della Sera, passando per l’omicidio Pecorelli e molte altre indagini su massoneria deviata e finanza drogata. Vicende nelle quali ha avuto quasi sempre al suo fianco l’avvocato romano Michele Gentiloni Silveri, che lo assisteva anche nell’ultimo procedimento sull’omicidio Calvi. Ma il mistero più grande, quello che più ha inciso sulla sua storia personale e forse del Paese intero, riguarda la trama grazie alla quale è riuscito a farsi assolvere nel processo P2, quello dov’era imputato di «cospirazione politica mediante associazione». Un altro verosimile esercizio del potere occulto. Se la commissione parlamentare d’inchiesta guidata da Tina Anselmi è faticosamente riuscita a denunciare l’inquinamento istituzionale provocato da Gelli, attraverso una «ragionata e massiccia infiltrazione nei centri decisionali di maggior rilievo, sia civili che militari, e ad una costante pressione sulle forze politiche», alla magistratura restava da chiudere il cerchio sul fronte giudiziario. Dopo la scoperta degli elenchi dei quasi mille iscritti negli uffici di Castiglion Fibocchi, la Procura di Milano cominciò a indagare, ma presto arrivò lo «scippo» (così definito per come si svolsero i fatti e si accavallarono le indagini, con tanto di conflitto di competenza davanti alla Corte di Cassazione deciso dalla sezione feriale durante l’estate del 1981) che spostò tutto a Roma. Mentre Gelli era latitante all’estero. In due anni arrivò la richiesta di proscioglimento per i coimputati, e quando il processo al Venerabile (nel frattempo arrestato in Svizzera ma non estradato per il reato di cospirazione) approdò sul tavolo del pubblico ministero Elisabetta Cesqui, lei stessa constatò che «era già morto», per come era stato condotto fin lì. La battagliera inquirente provò a rianimarlo, utilizzando gli elementi raccolti dalla commissione d’inchiesta che potevano provare il condizionamento esercitato su governo e Parlamento. Ma fu tutto inutile. La «morte del processo», certificata dalla definitiva assoluzione, ha consentito a Licio Gelli di sopravvivere potendo sostenere che la P2 era solo un gruppo di amici. Massoni e influenti, ma niente di più. Pag 25 L’Islam in Italia. Le nostre vite normali da musulmani: “Ma non chiamateci moderati” di Alessandra Coppola Si potrebbe forse provare con il «test del maiale»: chi lo mangia non è musulmano, oppure non lo è abbastanza. È una provocazione, una delle argute invenzioni che tessono i romanzi di Amara Lakhous (nello specifico, «Contesa per un maialino italianissimo a San Salvario», e/o). Ma contiene una questione seria e attuale, sulla quale lo scrittore continua a interrogarsi: come si distingue un islamico moderato? «Nel caso di una donna, per esempio, non porta l’hijab? Fuma? Ha relazioni fuori dal matrimonio? Dice le parolacce? E se invece è velata e prega con regolarità, si tratta di un’integralista?». Nato nel 1970 ad Algeri, dove si è laureato in Filosofia, Lakhous nei suoi studi alla Sapienza si è dedicato anche alla comunità musulmana italiana. Ha scritto quattro romanzi sullo «scontro di civiltà» che alla fine è incontro di pregiudizi, manie e abitudini tra condomini, mercati e stazioni ferroviarie. Ha vissuto a Roma, a Torino, in

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Francia, e ora risponde al telefono da New York. «Il concetto di moderato è pieno di trappole - ragiona -. Perché è stato importato da un altro contesto, di relazioni internazionali. A un certo punto, i Paesi a maggioranza musulmana sono stati classificati come fondamentalisti o moderati. In base alle convenienze. L’Arabia Saudita, per esempio, fondamentalista nel senso peggiore della parola, è collocata tra i moderati perché ha appoggiato la guerra in Afghanistan contro i sovietici, e così via. Questo concetto ora è applicato ai musulmani tout court , ai quali viene chiesto di prendere una posizione moderata. Non ha senso. Perché mai dovrei giustificarmi per qualcosa che hanno fatto altri, lontanissimi da me?». Se il termine moderato risulta inadeguato, però, se sembra un’etichetta ritagliata per tranquillizzare le coscienze occidentali e creare un «musulmano su misura» dall’aspetto gradevole e poco dissonante, come si può correttamente riferirsi a chi, per esempio, non va in moschea e non si attiene rigidamente a tutte le prescrizioni del Corano, e alla fine rappresenta la maggioranza del milione e settecentomila fedeli in Italia? «Nato musulmano, non praticante», suggerisce Youssry Alhoda. Non è un intellettuale, ma è un uomo conosciuto a Milano per la sua straordinaria serietà e competenza, 53 anni e 5 figli, titolare di una ditta di ristrutturazione, responsabile delle attività culturali di uno dei centri islamici col timbro «moderato», la moschea di Segrate. «Per me è un dovere inserirmi nel modo giusto e regolare nel posto in cui vivo - spiega -: l’Islam è questo, non si limita a una preghiera. È ricevere aiuto e aiutare, è un sistema di vita. Non è una barba o un foulard in testa». Degli oltre seimila versetti, dice, la maggioranza indica come comportarsi da buon musulmano. E chi non lo fa alla lettera? «Non è praticante». Nulla di male, ma neanche un ragazzo giovane come Burhan Mohammad, arrivato bambino dal Pakistan a Villafranca di Verona, concede molto spazio alle sfumature: «Fino a due anni fa ero il tipico trasgressore, mi ubriacavo, andavo in discoteca, portavo le ragazze nei privé». In una vacanza in Tunisia è stato folgorato dalla frase di un amico, alla vista di un uomo anziano col turbante bianco sul ciglio della strada: «Guardalo, se morisse adesso non avrebbe problemi». Ha cominciato a riflettere, racconta, poi ha anche avuto dei guai, ha perso il lavoro da metalmeccanico, il papà è stato male: «Un momento di crisi, e non potevo parlarne con nessuno. Un conoscente mi ha proposto di andare in moschea. Fino a vent’anni non ci avevo messo piede». E da allora neanche una birra? Ride. «Non è che si possa essere praticante a metà…». Non è neanche che abbia smesso di divertirsi, sostiene. Ha trovato, anzi, un modo piuttosto originale di rendere pubblica la sua svolta: registra un video blog in cui scherza anche sui difetti degli islamici («Sempre pronti a puntare il dito contro i peccati degli altri») o cerca di smontare pregiudizi. «Che cosa non vuoi più sentirti dire come musulmano?». Con una certa tenerezza, uno dei suoi intervistati, adolescente, confessa: «Non voglio che i miei compagni di scuola mi gridino Allah u akbar». Resta la questione più seccante per i fedeli di tutte le età oggi in Italia: dover continuamente spiegare di non avere contiguità coi terroristi. «Mi sento umiliata quando mi chiedono di dissociarmi - dice Shereen Mohamed -. Io lo faccio anche, ma in quanto essere umano dotato di logica. L’Islam non è l’Isis. È dura doverlo ripetere: io sono italiana, musulmana, europea». Nell’immagine ideale di islamico «moderato», Shereen rientra perfettamente: lodigiana, 22 anni, genitori egiziani, diligente studentessa all’Università Cattolica di Milano, anima uno spazio di confronto con coetanei copti (e non solo) che si chiama Swap (Share with all people). Strano? Per nulla. Molti musulmani frequentano scuole cattoliche, tanti genitori non chiedono per i figli l’esonero dall’ora di religione, gli oratori milanesi sono pieni di bimbi musulmani. Secondo una ricerca dell’anno scorso, il 26,9% dei ragazzi di origine straniera che frequentano le parrocchie è islamico. E i momenti di preghiera comune, con cattolici ed ebrei, sono tanti: è facile che tra praticanti ci si intenda. Più faticoso pare, forse, lo spazio per i «laici», o «non praticanti», o ancora come propone Akram Idries, per i «riformisti». Ingegnere trentenne, italo-egiziano-sudanese, collaboratore del blog La Città Nuova sul Corriere.it, Idries rivendica di essere musulmano anche se la sua immagine non corrisponde allo stereotipo: «Gli islamici sono fatti anche come me…». Cioè fedele, ma critico: «Questo modello di Islam ha fallito, non c’è bisogno di essere a favore né contro, non ha senso parlare di moderati: servono riforme», che aggiornino una serie di partiche e consuetudini consolidate in tempi remoti. È una linea che non scandalizza l’orientalista Massimo Campanini, docente a Trento, massimo esperto di Islam e politica: «Il riformismo fa parte del Dna dell’Islam, e individua una corrente ben

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precisa di approccio innovativo alle fonti». Bocciata anche dal professore, invece, l’etichetta «moderato»: «Sarebbe come dire che l’Islam è violento, e poi ci sono i moderati che non lo sono…». Assodato che esiste una possibilità riformista nell’Islam, e che ha anche precedenti storici, chi potrebbe oggi realizzarla? Amara Lakhous ha una risposta: «La diaspora. Nel mondo musulmano esistono due poteri: dittature e fondamentalisti. Che sembrano avversari, ma alla fine sono giocatori della stessa squadra. Le riforme richiedono libertà, e la libertà si trova in Europa e negli Usa». È tra i musulmani «occidentali», dunque, che si producono le condizioni ideali per un Islam riformato, dice Lakhous. Ma attenzione, «tra partiti xenofobi e socialisti che vogliono forgiare il musulmano su misura, si perde anche questa opportunità». Pag 31 Il soprassalto morale che ha sconfitto il Front National di Bernard-Henri Lévy Ci avevano annunciato che cinque regioni, o anche sei, sarebbero cadute in mano al Front National. Ebbene, il popolo francese è tornato in sé. Ha ripreso la strada dei seggi elettorali. Il risultato è che questo partito xenofobo, razzista, ostile a quello che rappresenta il genio e la grandezza della Francia, è stato bloccato ovunque sembrava potesse avere la meglio. Alcuni troveranno singolare che questo strano Paese non è mai tanto grande se non quando è sull’orlo del precipizio. Troveranno preoccupante - a ragione - che debba vivere una situazione di estrema emergenza, quasi di «patria in pericolo», affinché i nostri concittadini ritrovino i riflessi giusti e la via della ragione. E si potrà deplorare che non siamo uno di quei popoli normali, ordinari, prosaici, che sanno essere se stessi in regime e velocità di crociera e non hanno bisogno per questo di sentire la prossimità immediata di un grave rischio. Ma i fatti sono questi. E non parliamo del piacere di aver visto il decomporsi dei tratti - o il ritornare, è la stessa cosa, agli accenti di odio e di rabbia sguaiata che probabilmente sono la loro vera voce - di quei furfanti che tanto credevano in se stessi. Vittoria della Repubblica. Trionfo della resistenza civile. La Francia ha votato in massa. E si è unita perché non voleva che la gang Le Pen facesse man bassa sulle nostre regioni. È la prima lezione di domenica, ed è confortante. Cosa è successo? E cosa è stato determinante, concretamente, perché il Paese riprendesse il controllo di sé? Non è certo questo o quel «risultato» ad aver placato, in otto giorni, il «malessere» dei francesi. Né chissà quale promessa a dare una «risposta» alle «buone domande» poste dagli elettori del Front National. No. È un soprassalto morale che si è verificato. Un atto di legittima difesa del corpo sociale e politico. E un’idea semplice si è imposta, un’idea molto semplice, ripetuta fra i due turni da tutto quel che resta delle autorità morali e politiche in Francia: il Front National può restaurare la sua facciata quanto vuole, ma non è mai stato, e tuttora non è, un partito come gli altri...Da quanto tempo ci vien detto che la «stigmatizzazione» non «funziona» e rafforza coloro che essa pretende di indebolire! Era falso vent’anni fa, e non si ripeterà mai abbastanza che quando sinistra e destra morali erano forti, quando associazioni come Sos Razzismo tracciavano linee di demarcazione chiare e nette, si riusciva ad arginare il Fn; e quando le linee sono diventate meno nette, quando le dighe sono crollate e quando le sentinelle antirazziste si sono lasciate intimidire o hanno abbassato le braccia, esso invece ne ha approfittato. Ebbene, è lo stesso oggi: questa divina sorpresa non la dobbiamo alla compiacenza dei grandi partiti che, come ci viene ripetuto fino alla nausea, avrebbero «udito il messaggio» a loro trasmesso dagli elettori «in collera», ma al fatto che un numero sufficiente di elettori abbia finalmente capito che in quella collera, nelle parole che essa stessa si è scelta e nei portavoce che si è data, c’è qualcosa che mette in pericolo la Repubblica, volta le spalle alla democrazia e tradisce i valori della patria. È il secondo insegnamento. Cosa succederà domani? E come impedire che l’onda, appena rifluita, si alzi di nuovo, riprenda lo slancio e dilaghi con maggior forza in occasione delle prossime elezioni presidenziali? Ci vorranno probabilmente migliori «dati sulla disoccupazione». Certamente più «crescita». Ci vorranno «sforzi» e «gesti» nei confronti di quel terzo di giovani sotto ai trent’anni e di quella metà circa di operai e impiegati che hanno fatto sentire la loro «esasperazione» e la loro «angoscia». Ammettiamolo pure. Ma nulla di tutto questo basterà se non emergeranno uomini e donne che siano all’altezza e rendano alla parola pubblica il suo perduto credito. Nessuna strategia funzionerà se continuerà a essere portata avanti da persone mediocri

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che frequentano assiduamente le tribune televisive per promettere, con la mano sul cuore, in una commedia disonorevole quanto vana, che il famoso «messaggio» è stato ben ricevuto. Lo si voglia o meno, la chiave di tutto sarà nel dire a voce alta non solo ai quadri, ma agli elettori del Front National che non c’è risposta alla domanda che hanno tentato di porre. Nella storia politica della Francia ci sono stati periodi in cui intere porzioni dell’elettorato si sono messe fuori gioco e non si è andati per questo a mendicare il loro ritorno nel grembo comune. Che io sappia, i Clemenceau, i Jaurès e i Poincaré degli inizi del XX secolo non hanno negoziato i voti di quasi la metà del Paese che, con l’affaire Dreyfus, si era messa al bando della Repubblica. Né il generale de Gaulle ha avuto la minima esitazione nel far sapere ai sostenitori dell’Algeria francese che, in fin dei conti, non li aveva capiti. Né Pierre Mendès-France ha avuto tanti scrupoli per dire ai comunisti che non voleva i loro voti. In un certo senso, siamo a questo punto. E per riconquistare gli altri territori perduti della Repubblica che sono i territori Front National, sarà necessario un coraggio politico che per il momento sembra offrire pochi esempi. Pag 40 Il rischio della citazione di Claudio Magris Spesso la paternità delle frasi celebri è falsa. Come spiega un cacciatore di bufale I Balcani, ha detto Churchill, producono più storia di quanta ne possano digerire. Un bell’inizio per un articolo. Poche cose come una citazione aiutano a cominciare uno scritto o comunque a rafforzarlo. La citazione è una specie di chiave musicale, dà un’intonazione al discorso e conferisce autorità a quanto si scrive e alle tesi che si sostengono. Inoltre è una sintesi che semplifica ed esprime con chiarezza le idee che vengono espresse. È anche rischiosa, perché spesso viene tirata in ballo senza controllarla, risuona nella mente e nella memoria con una sicurezza che esime dallo scrupolo di verificarne l’esattezza; nessuno va a rileggersi Giulio Cesare per accertarsi che egli abbia detto esattamente «veni, vidi, vici». I giornali e ancor più i dibattiti pubblici, con la fretta che impongono all’espressione delle opinioni, accentuano il ricorso alla citazione incisiva. Quando si discute, non si può consultare l’enciclopedia. Sotto questo profilo, la citazione è l’opposto del plagio: si cita senza talora copiare alla lettera, mentre nel plagio si copia senza citare l’autore del testo rubato e anzi attribuendosi la paternità di quest’ultimo. Ma la citazione si presta all’inconsapevole falsificazione. La paternità di molte delle più famose fra esse è data per scontata, ma spesso è falsa. Voltaire non ha mai detto «non condivido quello che dici ma difenderò fino alla morte il tuo diritto di dirlo». Questa frase è certo fedele al pensiero di Voltaire, ma a dirla o meglio a scriverla è stata Evelyn Beatrice Hall, scrittrice britannica e autrice di una biografia del filosofo del 1906 intitolata Gli Amici di Voltaire. Non è stato Goebbels a dire «quando sento la parola cultura tolgo la sicura alla mia Browning», bensì, in un suo testo teatrale, Hanns Johst, drammaturgo tedesco nazista. Maria Antonietta non ha mai detto «se non hanno pane mangino brioche». La frase è sicuramente precedente perché già nota ai tempi di Jean Jacques Rousseau, epoca in cui l’arciduchessa austriaca non era ancora nata. L’aneddoto da cui è tratta la frase è contenuto nel libro VI delle sue Confessioni , pubblicate peraltro postume. Machiavelli non ha mai detto esplicitamente «il fine giustifica i mezzi», parole che certo riflettono il suo pensiero ma da lui mai proferite. Gli esempi potrebbero continuare. A elencarmeli, non senza qualche rimprovero per alcuni miei cedimenti in questo campo, è Adriano Ausilio, accanito cacciatore di bufale d’ogni genere e implacabile soprattutto con le attribuzioni inesatte di frasi celebri. Di formazione giuridica, Ausilio è un appassionato lettore e studioso di filosofia, in particolare del pensiero di Augusto Del Noce, il geniale filosofo cattolico di cui ho avuto la fortuna di essere amico, grande critico dell’ateismo e della società opulenta, avversario inesorabile e affascinato del marxismo. Perché, gli chiedo, tale ostinata caccia proprio a questo tipo di errore? «Perché - risponde - con l’avvento di Internet e dei media sociali si è diffusa una nuova tendenza. L’uso incontrollato della citazione. Si prendono per buoni passi o frasi famose solo perché li si è letti da qualche parte o per sentito dire, senza preoccuparsi di controllare se provengano effettivamente da una fonte veritiera. La Rete è piena di siti che contengono sillogi di citazioni storiche e letterarie. Ed è lì che si annida l’errore, perché le citazioni non provengono più da una conoscenza diretta dei testi, bensì da raccolte compilatorie non molto affidabili. Del resto

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già Hegel diceva che “il noto in genere, proprio perché noto, non è conosciuto”. A lei è mai capitato di incorrere in errori del genere?». Non ricordo, gli dico, crederei di no; ho fatto altri, per fortuna piccoli ma errori veri e propri e dunque più gravi, come quando ho citato un verso di Shelley attribuendolo a Tennyson o quando ho confuso, penso anche causa la grafia del nome, una cittadina russa con un’altra, dov’erano accaduti rilevanti fatti storici. I ntelligente, generoso e amabile, Ausilio rischia di contagiare, grazie alla simpatia e al suo modo di essere e di parlare, il suo interlocutore e di lanciarlo come un cane da caccia sulle piste degli errori e delle imprecisioni. Non si rischia tuttavia, gli chiedo, di cadere in una mania della precisione, in un gusto di cogliere tutti in fallo, sia pure minimale? Anche la verità può diventare un fanatismo, scadere in un formalismo che perde di vista la sostanza, dato che quelle citazioni sbagliate non falsificano il pensiero dell’autore citato bensì ne ribadiscono l’essenziale? (Voltaire era un campione della tolleranza, la pistola di Johst messa in mano a Goebbels corrisponde all’atteggiamento nazista verso la cultura). Inoltre c’è il peso, l’autorità della storia che ha fatto entrare magari da secoli nella testa delle persone l’identificazione di una frase famosa con un autore sia pure sbagliato. Naturalmente se si trattasse di uno sbaglio che adultera un’opera o un autore, ad esempio una falsa citazione dei Vangeli che attribuisse a Cristo un’espressione malvagia, sarebbe doveroso smascherarla anche dopo millenni, cosa non necessaria se la bufala non altera la sostanza. Il peso della storia è così forte, che si continua ad attribuire una frase a chi non l’ha detta anche quando il presunto autore lo ha dichiarato lui stesso: la famosa, grande espressione «pessimismo dell’intelligenza, ottimismo della volontà», non è di Gramsci, come tutti ripetiamo, bensì di Romain Rolland ed è stato Gramsci stesso a precisarlo. Ma ormai è entrata nel mondo come frase di Gramsci e tutti lo ripetono, anche chi sa - grazie a Gramsci - che è di Rolland... «Concordo con lei - replica Ausilio - che ogni eccesso debba essere evitato. Se, per esempio, dopo una partita a carte, qualcuno dicesse “l’importante non è vincere ma partecipare” per consolare i perdenti, mi sembrerebbe inopportuno chiedergli chi ne sia l’autore per poi correggerlo. Ma, al contrario, riterrei doveroso intervenire nel caso di un uso strumentale della citazione. Chi non ricorda la celebre frase “eppur si muove”, attribuita a Galileo Galilei che volle così rispondere, ci viene detto, alla condanna dei giudici dell’Inquisizione per le sue scoperte scientifiche? Quella frase mai pronunciata da Galileo fu inventata, come ormai è risaputo, dallo scrittore italiano Giuseppe Baretti nel 1757, con lo scopo di creare il mito di una Chiesa oscurantista e incapace di aprirsi alle nuove scoperte scientifiche». A proposito, gli dico alla fine della nostra chiacchierata, ho appreso di recente da Pierre Assouline, autorevole scrittore e biografo francese, che Flaubert non ha mai detto «madame Bovary c’est moi, madame Bovary sono io». Spero che sia stato veramente Churc hill a dire quelle parole sui Balcani... LA REPUBBLICA Pag 1 La strategia del contropiede di Stefano Folli Come sempre quando è in difficoltà, Renzi dimostra il suo miglior talento: la capacità di spiazzare gli avversari con una mossa abile e non priva di implicazioni politiche ancora da esplorare. Nel turbinio del pasticcio familistico-bancario, la controffensiva del premier non era sufficiente. Occorreva una novità immediata in grado di riempire la scena parlamentare e mediatica. In una parola, serviva un successo. E l'inverosimile pantano della Consulta, con le oltre trenta votazioni a vuoto per eleggere tre giudici, era l'occasione propizia e non rinviabile. Coinvolgendo i Cinque Stelle e rinegoziando la terna dei candidati (ma non Augusto Barbera, verso il quale i "grillini" hanno fatto cadere il loro veto), il presidente del Consiglio si è attribuito di fatto il ruolo di regista dell'operazione. E ha dimostrato, se ce ne fosse stato bisogno, che il lungo rosario dei voti nulli era dovuto anche, forse soprattutto, all'assenza di una mente politica capace di mettere ordine fra le esigenze e i problemi del quadro parlamentare. Successo, quindi. Tardivo ma netto. Si spezza, in un certo senso, il fronte delle opposizioni che tendeva a compattarsi nel gioco delle mozioni di sfiducia intorno alla vicenda Banca Etruria. Certo, sulla carta il terreno istituzionale non c'entra con la polemica politica. Eppure il nesso esiste, per quanto sottile. Un Parlamento incapace di eleggere i magistrati della Consulta anche a Natale avrebbe fatto risaltare in modo impietoso l'affanno del governo sulle altre questioni. Un doppio danno di immagine da evitare. Così Renzi ha offerto una chance a

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Grillo e questi l'ha colta al volo: la forza anti-sistema per eccellenza accetta di condividere una responsabilità istituzionale con l'ingresso alla Corte del prof. Modugno, figura da tutti rispettata. Nella strategia renziana i Cinque Stelle sono un avversario da tenere a bada, non un nemico da esorcizzare. Quest'ultima è una parte che il premier attribuisce al leghista Salvini, a maggior ragione dopo gli insulti ricevuti nei giorni scorsi. Salvini, il trascinatore di Forza Italia sulla linea di un estremismo "lepenista" che in apparenza Berlusconi asseconda, ma le cui conseguenze cominciano a farsi sentire nel ridotto di Forza Italia. Non è un caso che l'operazione Consulta veda uno sconfitto evidente: il capogruppo alla Camera, Brunetta. È lui l'artefice, talvolta molto brillante, della linea più intransigente contro Palazzo Chigi, una linea che si è mescolata ormai a quella della Lega. Ma ieri Brunetta e Forza Italia sono stati tagliati fuori dall' accordo. Renzi ha esasperato di proposito lo scontro verbale in aula e poi ha fatto dire che l'intesa con M5S era una conseguenza dell'irritazione procuratagli dal capogruppo forzista. La verità è un po' diversa: la svolta aveva bisogno di un pretesto. O se si vuole Renzi ha colto l'occasione per mandare un messaggio a Berlusconi, l'antico partner del Nazareno. Messaggio semplice: la linea filo-Salvini è utile solo al leghista e contraddice tutta la storia di Forza Italia. Sarà un caso, ma proprio ieri pomeriggio da Palazzo Grazioli è arrivata la notizia che il partito berlusconiano non voterà la sfiducia personale alla ministra Boschi, mozione grillina peraltro destinata alla sconfitta. Si direbbe che nel centrodestra si stia muovendo qualcosa. La linea dello scontro frontale non sta dando frutti. E se qualche risultato c'è, se lo annette l'ingombrante alleato Salvini. Non sarebbe strano se dopo lo smacco della Consulta Berlusconi facesse qualche riflessione. Quanto ai Cinque Stelle, qualcuno pensa che il compromesso parlamentare sporchi la purezza populista e anti-casta del movimento. Ma probabilmente è vero il contrario. Un certo grado di maturità istituzionale aiuta le ambizioni "grilline" di porsi come credibile alternativa politica al Pd quando si andrà al voto. Del resto, i sondaggi indicano che il consenso c'è ed è vasto, a 3-5 punti dal partito renziano. La partita è appena agli inizi, ma si capisce che nel sistema tripolare oggi gli antagonisti principali sono Pd e M5S. AVVENIRE Pag 1 Una doppia priorità di Marco Dal Prà e Marco Tarquinio Sacrosante domande di cittadino I lettori non si stupiranno troppo se il direttore di “Avvenire” firma questo editoriale assieme a uno di loro: Marco Dal Prà, veneto di Mestre, cittadino, contribuente, lavoratore e principale sostegno economico in una famiglia di sette persone: padre, madre e cinque figli. Hanno già trovato in questa stessa posizione di rilievo su questa stessa prima pagina loro lettere trasformate in commento del giorno. Così è anche stavolta anche se in una forma un po’ diversa. Questa firma condivisa segnala, infatti, una adesione convinta e piena alla domanda con la quale ancora una volta, con coraggio civile e “dal basso”, si incalza chi ci rappresenta, ci governa e fa le leggi. Scrive dunque uno di noi, rivolgendosi tramite “Avvenire” a tutti coloro che hanno responsabilità politica e in primis al presidente del Consiglio e al ministro dell’Economia e delle Finanze: «Vorrei sapere se anch’io potrò accedere a quel piccolo “aiuto umanitario a sostegno delle fasce più deboli” del quale ha parlato il ministro Padoan in questi giorni a proposito delle conseguenze del fallimento di quattro banche italiane. Certo, io non sono paragonabile a coloro che hanno perso migliaia di euro in azioni od obbligazioni subordinate, ma magari avendo moglie e 5 figli a carico qualche spiraglio lo si potrà trovare. Non appartengo nemmeno a quella parte di popolazione che, come ha detto il ministro, ha fatto delle scelte sbagliate con i propri soldi, ma del resto potendo accantonare non più di due euro al mese non è che possa fare grandi errori...». E continua: «Magari potranno farci accedere al fondo con la motivazione che sono oltre 5 anni che non facciamo ferie di nessun tipo, oppure perché rientriamo tra le tante persone che dopo anni dal fallimento dell’impresa dove lavoravano, non hanno ancora visto un centesimo degli stipendi arretrati. Credete che stia scherzando? Purtroppo no». Già, non è affatto uno scherzo. E il fatto che la piccola e giustamente spigolosa serie di domande formulata da un cittadino–lettore di questo giornale abbia in sé tante risposte negative spiega perché non possiamo e non dobbiamo smettere di proporle con forza e crescente indignazione, chiedendo che le risposte arrivino e siano positive, sagge,

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efficaci. È ovvio, infatti, che in un Paese civile si debba dare sostegno attraverso un trattamento fiscale di riguardo, assegni familiari (o strumenti di solidarietà analoghi) e servizi accessibili e degni di questo nome a una famiglia ricca solo di figli. Così come è ovvio che un lavoratore derubato degli stipendi arretrati ( sua « giusta mercede » ) merita di ricevere una considerazione almeno pari a quella offerta ai titolari di investimenti a rischio inconsapevoli (cioè indotti con inganno e dolo) proprio come quelli di cui si parla tanto e da tanti giorni a causa del fallimento di quattro banche. Quando se ne renderanno conto tutti coloro che siedono nelle assemblee elettive, prima fra tutte il Parlamento, e nei diversi livelli di Governo del nostro Paese e si ostinano a considerare rinviabile all’infinito l’avvio di una politica strutturalmente attenta alla famiglia e in special modo alla famiglia con figli? E quando si sveglieranno tutti coloro – in buona misura gli stessi di cui sopra – che non perdono il vizio di giudicare un trascurabile dettaglio il macigno dell’ingiustizia contro i poveri e gli impoveriti del nostro Paese nonché inattuale e inattuabile una politica di inclusione sociale non semplicemente assistenzialistica? Famiglia e poveri non chiedono una stessa politica, ma una stessa visione. E reclamano, dopo anni di miopie acute, due contemporanee azioni politiche, certamente coordinate tra loro, ma specifiche. Una doppia svolta che in Italia, in pauroso ritardo sul fronte del contrasto alla miseria, è particolarmente urgente come continua a ricordare il cartello di associazioni e organizzazioni capitanato dalla Caritas che si batte per l’introduzione di uno strumento come il Reis (il reddito di inserimento sociale). Una doppia e concretissima priorità che, dando serio sbocco al chiacchiericcio inconcludente sull’applicazione del dettato costituzionale pro famiglia, può portare sulle vie che il Forum delle famiglie continua a indicare con pazienza e insistenza. Ne ha diritto un popolo che purtroppo, nei lunghi anni della crisi, si è fatto immenso: le persone che vivono in “povertà assoluta” sono più di 4 milioni, che quasi raddoppiano, sino a poco meno di 8 milioni, se il metro diventa quello della “povertà relativa”. Alcune migliaia di risparmiatori e piccoli (e, spessissimo, turlupinati) investitori hanno diritto a essere ascoltati e soccorsi, ma ancor di più lo hanno i milioni di poveri che non possono risparmiare né investire. Dovrebbe essere queste grandi vittime di un economia e una finanza irresponsabili e di una politica tenacemente e temerariamente inadeguata la prima preoccupazione di tutti coloro che, comunque la pensino, hanno testa e cuore da «concittadini». Usiamo non caso, un’espressione cara a Sergio Mattarella. E ci ricolleghiamo al suo primo pensiero da presidente della Repubblica eletto. Chi ha il compito di fare, sappia essere conseguente ed efficace. Pag 3 Uno spiraglio per i cristiani. In Nord Corea vera svolta? di Stefano Vecchia Una Messa pubblica e prima visita di vescovi dal 1953 La Corte suprema nordcoreana ha condannato ieri ai lavori forzati a vita il pastore presbiteriano Hyeon Soo Lim, nato in Corea del Sud ma di cittadinanza canadese. Dopo l’arresto a febbraio, Lim aveva confessato pubblicamente i suoi «crimini contro lo Stato». Arrivato per svolgere attività umanitarie, come decine di altre volte dal 1997, il canadese avrebbe – per sua ammissione ripresa dall’agenzia ufficiale Kcna – raccolto informazioni da utilizzare all’estero per propiziare la fine del regime «con l’amore di Dio». Per molti, la Corea del Nord sotto l’attuale dittatura di Kim Jong-un è il Paese al mondo dove la cristianità è più repressa. Il governo mantiene assoluto controllo sulle attività religiose e perseguita chi pratica la fede cristiana al di fuori dei pochi ambiti ammessi. Eppure, anche da questa situazione disperata, emergono segnali di evoluzione. Sicuramente da esaminare anche alla luce delle necessità del regime guidato dal terzo erede dell’unica dinastia comunista della storia, ma tuttavia sono positivi e come tali interpretati dalla Chiesa cattolica coreana, che seppure con un’unica sede a Seul, ha tra statuto legale, volontà di dialogo e impegno di solidarietà una responsabilità che copre l’intera Penisola coreana. Il 12 ottobre, preti sudcoreani hanno celebrato la Messa a Pyongang, nell’irreale cornice della 'cattedrale' di Changchung, unico luogo di culto cattolico ufficiale nel Paese. Comunque, una cerimonia centrale in quella che è stata la prima visita di sacerdoti cattolici dal 2008. Ancora di maggior rilievo, l’esperienza di quattro vescovi e 13 preti che, guidati dall’arcivescovo di Gwangju e presidente della Conferenza episcopale coreana monsignor Hyginus Kim Hee-joong, si sono recati al Nord dal 1° al 4 dicembre su invito dell’Associazione cattolica coreana. In

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questo caso, la visita dei vescovi, la prima dalla fine del conflitto coreano nel 1953, potrebbe preludere un programma di visite regolari di clero del Sud a Nord del 38° parallelo prospettato alla fine del viaggio della delegazione già dalla prossima Pasqua. Tra le possibilità segnalate ai vescovi, maggiori iniziative di assistenza e forse anche un nuovo edificio di culto cattolico a Pyongyang, ma non la preparazione di sacerdoti nordcoreani, come chiarito dai vescovi. Perché questa apparente distensione? La Chiesa della Corea del Sud sta incentivando l’impegno per la riconciliazione di un’unica nazione divisa dalla logica dei blocchi ideologici e delle superpotenze dopo un devastante conflitto durato dal 1950 al 1953. Tra le conseguenze, oltre alla divisione di centinaia di migliaia di famiglie, anche una Chiesa spezzata da un confine mai ufficializzato in mancanza di un trattato di pace, ma assai più costrittivo di qualunque atto legale o barriera fisica, per la volontà di isolamento e di L controllo del regime nordcoreano. La cattolicità del Nord, fiorente in passato, ridotta a forse 50mila membri alla fine del conflitto, conterebbe oggi poche migliaia di aderenti ufficiali (3.000 sono quelli registrati per sua pretesa dall’Associazione cattolica coreana controllata dal potere politico e il cui ruolo è nella sostanza di incentivare e gestire gli aiuti destinati ai nordcoreani dai confratelli di fede). Le testimonianze, sia di visitatori, sia di cattolici in grado a volte di far sentire la loro voce oltreconfine, segnalano una attività comunitaria, ardua e perlopiù nascosta, ma anche un buon numero di battezzati tra gli almeno 150mila ospiti involontari dei campi di lavoro e di rieducazione, la cui condizione è alla base del dibattito in corso all’Onu sul deferimento del regime alla Corte penale internazionale dell’Aja. La leadership del Nord prosegue infatti nella sua politica insieme provocatoria e opportunista. Essa utilizza anche la minaccia missilistica e nucleare non per ottenere concessioni – negate dal rifiuto di un dialogo costruttivo con la comunità internazionale e Seul –, bensì considerazione e aiuti economici. Rispetto al passato il regime deve inoltre giocare meglio carte secondarie ma di grande risalto mediatico: temporanee ricongiunzioni familiari; arresti, condanne e liberazioni di stranieri con motivazioni religiose e spionistiche; rapporti con la Chiesa cattolica che guardano fino a Roma e al prestigio diplomatico della Santa Sede, ma poco hanno a che vedere con una libertà di fede scritta nella Costituzione e negata nella pratica. La presenza formale di una cattolicità locale è ragione e pretesto per sollecitare aiuti e per tollerare la presenza di organizzazioni di soccorso cattolico nel Paese, inclusa la Caritas, e c’è chi ha da tempo raccolto la sfida. Padre Gerard Hammond, attuale superiore regionale dei missionari di Maryknoll vive in Corea del Sud da 1960. Dal suo primo ingresso al Nord nel 1995 ha collezionato 51 viaggi oltreconfine. L’81enne missionario si considera una 'apostolo di pace e di speranza' e le sue esperienze non hanno il senso dell’evangelizzazione ma dell’assistenza umanitaria: un tempo soprattutto invio di cibo, ora medicinali per gli ammalati di tubercolosi. «Nessuno nega la povertà del Nord», segnala. Ricorda però anche che la situazione della Corea del Sud che si trovò davanti 54 anni fa non era migliore, con «migliaia di profughi, ponti crollati, strade in condizioni pessime, senz’acqua corrente». Se oggi la Corea del Sud è la 13ma economia mondiale con un Pil venti volte superiore di quello del Nord – ricorda ancora padre Hammond – un contributo lo ha dato anche la Chiesa, che ha giocato un ruolo primario nel movimento che ha portato alla fine dei regimi autoritari e a una democrazia compiuta. L a linea della Chiesa cattolica coreana non è quella dell’ignavia o dell’ottimismo forzato, ma quella espressa da papa Bergoglio durante la Messa che ha celebrato durante la sua visita al Sud dal 14 al 18 agosto 2014. Una Messa dedicata espressamente alla riconciliazione in cui ha richiamato al principio che «tutti i coreani sono fratelli e sorelle, membri di una sola famiglia, di un solo popolo». Nessun accenno di carattere politico, nessuna menzione dell’oppressione subita dalla cattolicità nordcoreana. Fede e riconciliazione al centro, sfide e opportunità per una Chiesa che è parte integrante della nazione coreana. Come sottolineato da padre Timothy Lee Eun-hyung, segretario del Comitato per la Riconciliazione del popolo coreano, «dobbiamo consolidare la piattaforma per la riconciliazione intensificando scambi e collaborazione. I coreani di oggi possono focalizzare sul futuro, ma vediamo che i giovani rischiano di diventare indifferenti verso un passato che non hanno vissuto direttamente e c’è il rischio di una indifferenza crescente verso il desiderio di riunire i coreani». Per questo, ricorda ancora padre Lee, «occorre mettere da parte atteggiamenti aggressivi e camminare sul sentiero

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dell’inclusione, del perdono e della riconciliazione che anche papa Francesco ha ricordato quando è venuto in Corea». Pag 10 Gelli, misteri e leggenda. Se ne va l’uomo della P2 di Angelo Picariello e Agostino Giovagnoli Fu un pericolo morale: carriera come ideologia Roma. Se ne è andato a 96 anni con una valigia piena di misteri. Dici misteri d’Italia e dici - a torto o a ragione - Licio Gelli. Il 'Venerabile', fondatore della loggia massonica P2 che - portata alla luce - fece tremare le vene ai polsi del Palazzo all’inizio degli anni ’80, è scomparso l’altra sera nella famigerata villa Wanda, la lussuosa magione di famiglia sulle colline di Arezzo dedicata alla moglie scomparsa nel 1993. La stessa in cui la Digos in un blitz - l’ennesimo - del 1998 scoprì lingotti d’oro nascosti nelle fioriere, quasi a non essere da meno a un celebre iscritto alla P2, quel Duilio Poggiolini, il re Mida della Sanità. Burattinaio o millantatore? O a sua volta burattino di un gioco più grande di lui? Erano anni in cui l’Italia era l’anello debole dell’Alleanza Atlantica. Che a metà anni ’70 (quelli del massimo fulgore della stella di Gelli) vedeva, in piena Guerra fredda, il più grande partito comunista d’Occidente. In una delle ultime interviste ne ha tratto un titolo di merito: «Gli italiani dovrebbero ringraziare la P2 perché è stato anche grazie ad essa che i comunisti non sono arrivati al potere », rispose ad Alessandro Iovino. Era nato a Pistoia il 21 aprile 1919. E la stessa città natale, (dopo aver ricevuto in dono all’Archivio di Stato provinciale - al netto di qualche documento che si è tenuto per sé - il suo leggendario archivio personale) ospiterà oggi i suoi funerali. Ad Arezzo, invece, sua città di adozione, la camera ardente ha restituito di lui un ritratto uguale a sé stesso fino alla fine, con la spilla fascista con il fascio littorio appuntata sulla giacca in gessato, l’anello con stemma nobiliare all’anulare destro e gli occhiali nel taschino. A 18 anni si era arruolato come volontario nelle “camicie nere” di Franco in Spagna. Fu fascista e repubblichino, mai pentito. Anzi. Inutile provare a ricordargli che in Italia è reato la ricostituzione del partito fascista. «Sono nato fascista, ho studiato sotto il fascismo, ho combattuto per il fascismo, sono fascista e morirò fascista!», era la sua risposta. Il 16 dicembre 1944 sposa Wanda Vannacci dalla quale avrà 4 figli. Dopo la guerra si trasferisce in Sardegna e poi in Argentina, dove conosce Peron. Tornato in Italia comincia a lavorare nella fabbrica di materassi Permaflex e diventa direttore dello stabilimento di Frosinone. Una celebre immagine lo ritrae, all’inaugurazione, con Giulio Andreotti. Era in fondo il suo collegio elettorale, ma la foto verrà buona per decenni per accostarlo, insieme ad Andreotti a molti dei mille misteri italiani (compreso l’omicidio Pecorelli, altra tessera P2) che lo hanno coinvolto, colpito ma mai in pieno. Poi - restando nell’abbigliamento - diventa socio dei fratelli Lebole e proprietario dello stabilimento di Castiglion Fibocchi, dove vennero trovati i famosi elenchi della loggia. È nel 1963 che Gelli si iscrive alla massoneria. Tre anni dopo passa alla loggia “Propaganda 2”, nata a fine ’800 e riservata a personaggi pubblici. Nel 1975 se ne decide lo scioglimento, ma Gelli la fa rinascere semi-clandestina, divenendone Gran maestro, con l’obiettivo di allargare i tentacoli in ogni ramo del potere. Una vera e propria associazione sovversiva, per i magistrati, in anni in cui i tentativi di sovvertire il potere fuori dalle istituzioni si moltiplicarono. Ma come in un puzzle di difficilissima composizione, negli anni si sono persi dei pezzi, o i disegni si sono scoloriti. Una commissione presieduta dall’ex ministro Tina Anselmi acquisirà tutti gli atti, ma non scioglierà tutti i nodi. Dalla strage di Piazza Fontana nel dicembre del 1969 al tentato golpe ideato dall’ex comandante della X Mas, il principe Junio Valerio Borghese, del 1970. Fino alle grandi stragi, quella dell’Italicus dell’agosto 1974 e quella della stazione di Bologna dell’agosto 1980, per il cui depistaggio Gelli riceverà una delle poche condanne definitive. È la strategia della tensione, la pagina più oscura della Storia repubblicana della quale si conosce la matrice, ma quasi mai esecutori e mandanti. E la matrice (di estrema destra) è proprio quella di cui Gelli rivendica di esser stato dominus assoluto. Al punto che quando, nella primavera del 1978, il presidente della Dc Aldo Moro finisce nella mani delle Brigate Rosse tutta la filiera di vertice delle Forze Armate e dei Servizi di Sicurezza è in mano a uomini della P2. Lo si scoprirà il 17 marzo 1981, quando i giudici milanesi Giuliano Turone e Gherardo Colombo, indagando sul crack Sindona, mettono le mani sulle liste, e per il mondo politico italiano è un terremoto.

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Quasi mille nomi tra cui ministri, parlamentari, finanzieri come Michele Sindona e Roberto Calvi, editori (fra cui il dg del Corriere della Sera Bruno Tassan Din) giornalisti, militari, uomini dei servizi, prefetti, questori, magistrati. C’è anche Silvio Berlusconi, che però diventerà più noto molto dopo, a seguito della discesa in campo. Tanti intrecci, a partire dal crack Sindona e del Banco Ambrosiano, entrambi legati a i nomi di due iscritti. Il 22 maggio 1981 scatta il primo ordine di cattura, ma Gelli è irreperibile. Verrà arrestato a Ginevra il 13 settembre 1982. Rinchiuso nel carcere di Champ Dollon, in Svizzera, evade il 10 agosto 1983. Il 21 settembre 1987 si costituisce a Ginevra. Torna a Champ Dollon, che lascia il 17 febbraio 1988 estradato in Italia. L’11 aprile ottiene però la libertà provvisoria per motivi di salute. Il 16 gennaio 1997 c’è un nuovo ordine di arresto, ma il ministero della Giustizia lo revoca. Il 4 maggio 1998 Gelli è di nuovo irreperibile: la fuga dura più di quattro mesi. Gli vengono quindi concessi i domiciliari, che sconterà a Villa Wanda, la residenza che nell’ottobre 2013 gli viene sequestrata a conclusione di una indagine per un debito col fisco e poi rientrata nella sua disponibilità nel gennaio scorso per prescrizione del reato. In tempo per ospitarlo nei suoi ultimi giorni. Francesco D’Amato fu direttore del Giorno, considerato molto vicino a Bettino Craxi: «Lui e Forlani mi chiesero di salvare la testata nel 1989. E una delle prime telefonate fu proprio di Licio Gelli, che non conoscevo – ricorda –. Si proponeva per un’intervista che dovetti rifiutargli. Ho l’impressione che si tratti di una figura sopravvalutata. Avvicinava le persone giunte in posizioni di comando per arruolarle e farci affari, puntando sul fatto che la carne è debole». Giudizio analogo quello di Paolo Cirino Pomicino, ex ministro vicinissimo a Giulio Andreotti: «Non l’ho conosciuto, ma noto che molte carriere, a partire da quella di Berlusconi, si sono sviluppate dopo il suo arresto. Più un millantatore, a mio avviso, che uomo in grado di tessere trame e favorire carriere». Ma con la sua morte un pezzo importante di verità della storia italiana si allontana, forse definitivamente. Di Licio Gelli si è detto e scritto molto. Ma chi sia stato veramente si è capito ancora poco. Probabilmente, il 'burattinaio' – la definizione è sua in un’intervista a Maurizio Costanzo, anch’egli tessera P2 – ha avuto meno potere di quanto millantava. E forse non sono poi così decisivi i misteri che si è portato con sé. Ma non ha avuto torto la Commissione d’inchiesta presieduta da Tina Anselmi – coraggiosa staffetta partigiana e prima donna ministro, una delle figure più luminose della Repubblica – a definire la Loggia guidata dal 'Maestro Venerabile' un grave pericolo per la democrazia. Aiuta a capire il fenomeno Gelli il tempo in cui questi raggiunse il culmine del suo successo, tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta. Fino a quel momento le riserve morali del popolo italiano erano riuscite ad arginare una crisi che covava da tempo. In quegli anni, invece, cominciò a diventare palese il tramontato del tessuto etico e valoriale che aveva sostenuto il grande slancio post-bellico, la ricostruttivo degli anni Cinquanta, le speranze degli anni Sessanta e persino le proteste dei primi anni Settanta. Sono stati gli anni in cui Berlusconi – uno degli affiliati alla P2 – ha cominciato ad accumulare il suo ingente patrimonio. Scomparvero allora due fondamentali figure di riferimento per l’intera società italiana: Paolo VI e Aldo Moro. Nel Congresso del 1980, Benigno Zaccagnini, protagonista di un impegnato tentativo di rifondazione morale della Dc, lasciò la guida del partito. La Dc abbandonò allora di fatto un riferimento essenziale all’'ispirazione cristiana' che aveva giustificato fino a quel momento un ruolo di questo partito sulla scena politica italiana superiore alla sua forza parlamentare. Ne divenne segretario Flaminio Piccoli, che in seguito ha cercato di contrastare lo sforzo di Tina Anselmi per fare luce sulla P2. Tutto era pronto per 'normalizzare' finalmente la politica italiana. Paradossalmente, fu proprio la scoperta della famosa lista di Castiglion Fibocchi con i 962 iscritti alla loggia P2 ad offrire l’occasione lungamente attesa: Forlani, che aveva tenuto nel cassetto questa lista per qualche settimana, fu costretto a dare le dimissioni. Gli succedette il primo Presidente del Consiglio laico dal 1945, Giovanni Spadolini, personalità di indubbio spessore, ma alla guida di una forza tropo esigua per fermare la spinta ad una divaricazione sempre più profonda tra morale e politica. Volontario nella guerra di Spagna, Licio Gelli ha sempre ostentato simpatia per il fascismo – salvo passare improvvisamente dalla parte degli Alleati negli ultimi mesi di guerra – e ha lungamente coltivato rapporti con il mondo sudamericano di destra, dai peronisti al generale Massera, membro della giunta militare che rovesciò Isabelita Peron

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per instaurare la sanguinaria dittatura da cui Jorge Bergoglio ha difeso tanti uomini e tante donne. Ma Gelli non ha avuto profonde convinzioni politiche fasciste. Condannato nel 1945 non per le sue idee ma per reati comuni commessi nel periodo precedente, ha costituito un pericolo morale più che politico. Il suo progetto di 'rinascita democratica' è rimasto confuso, difficilmente decifrabile, ma non per questo innocuo: era chiaro infatti l’intento di svuotare la democrazia italiana del nerbo etico-politico che lo aveva animata fino a quel momento. Sebbene abbia nutrito forti sentimenti anti-comunisti e avuto molti rapporti con militari di altro grado e con dirigenti dei servizi segreti, è difficile attribuirgli un disegno vincente per impadronirsi del potere. Anche se fu accertato che Gelli ebbe un ruolo nel 'colpo di Stato' del generale Borghese nel 1970, è difficile immaginare che tanti iscritti alla P2 – da Angelo Rizzoli ad Alighiero Noschese, da Pietro Longo a Enrico Manca – volessero davvero effettuare un golpe. Ma quella lista riflette un intreccio di interessi e di favori alternativo al confronto delle idee e alla competizione democratica. È stata soprattutto l’'ideologia della carriera' a ispirare questa massoneria, tanto lontana dalle espressioni più nobili di questa singolare tradizione associativa. Come si legge nelle conclusioni della Commissione parlamentare sulla P2, Licio Gelli si è valso «di una tecnica di approccio strumentale rispetto a tutto ciò che ha avvicinato nel corso della sua carriera. Strumentale è il suo rapporto con la massoneria, strumentale è il suo rapporto con gli ambienti militari, strumentale il suo rapporto con gli ambienti eversivi, strumentale insomma è il contatto che egli stabilisce con uomini ed istituzioni con i quali entra in contatto, perché strumentale al massimo è la filosofia di fondo» che ha ispirato una «concezione politica del controllo, che tutto usa ed a nessuno risponde se non a se stesso, contrapposto al governo che esercita il potere, ma è al contempo al servizio di chi vi è sottoposto». Pag 23 La linea d’ombra delle religioni di Elena Molinari Parla Jonathan Sacks New York. Dio non è morto. Anzi. Al contrario di quanto predetto dalla maggiore parte dei pensatori occidentali negli ultimi tre secoli, le forze della secolarizzazione stanno arretrando sotto la pressione di una crescente adesione alle religioni organizzate. La predizione, illustrata e motivata nell’ultimo libro di Jonathan Sacks (fino al 2013 rabbino capo del Regno Unito e del Commonwealth) contiene però corollari preoccupanti. Porterà a un aumento degli estremismi? A un moltiplicarsi della violenza commessa in nome di Dio che ha segnato l’inizio del XXI secolo? Secondo Sacks, che ha da poco completato una serie di presentazioni del suo nuovo libro Not in God’s Name («Non nel nome di Dio») negli Stati Uniti, è possibile, ma non inevitabile. Un mondo più religioso è un mondo più violento? «Lo può essere, ma questo non significa che dobbiamo auspicare un mondo meno religioso, perché la religione può aiutarci a superare la violenza. Mi spiego. Gli esseri umani cercano naturalmente conferma, conforto e protezione all’interno di un gruppo. Giustamente, perché i membri di una comunità etnica, nazionale o di fede possono essere molto altruisti verso gli altri membri. Ma possono essere anche molto sospettosi e persino aggressivi verso l’esterno. Più un gruppo diverso è percepito come 'altro', più è deumanizzato e diventa oggetto di attacchi, anche violenti». Ma è un fenomeno che s’innesca anche con l’appartenenza a qualsiasi tipo di gruppo… «Sì, basta pensare che le più violente ideologie del secolo scorso, il nazismo e il comunismo, erano secolari. Ma la religione contiene il rischio intrinseco di dividere il mondo in santi e peccatori, in salvi e dannati, e questo è il primo passo verso la violenza in nome di Dio». Come evitarlo? «Ci sono stati tentativi nella storia di rimpiazzare la fedeltà al proprio gruppo religioso con ideologie universaliste e relativiste o con filosofie individualiste. Hanno sempre fallito, perché non hanno risposto al bisogno umano di appartenenza e di significato. Si può invece tentare una strada diversa: riconoscere la validità della religione dell’altro anche nel contesto della propria fede. E i testi sacri ci aiutano a farlo». In che modo? «A mio parere le apparenti rivalità che la Bibbia propone non demonizzano mai l’altro, quello che esce sconfitto. Anche se Isacco è scelto da Dio, e non Ismaele, Giacobbe e

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non Esaù, Giuseppe e non i suoi fratelli, il testo non implica mai un loro rifiuto da parte di Dio. Nella Genesi, la commovente descrizione del dolore di Ismaele, di cui Dio ascolta il lamento, ci insegna a riconoscere e a rispettare la sua umanità. Dio dice ad Abramo che manterrà l’alleanza attraverso la stirpe di Isacco, ma non disprezza Ismaele, promettendo che anche lui sarà benedetto. E l’episodio nel quale Hagar e Ismaele sono cacciati nel deserto è denso di emozioni e attira la compassione del lettore». Il dualismo dunque non è insito nei testi sacri ma nella loro interpretazione? «La teologia delle tre grandi religioni monoteiste può enfatizzare la pietà verso l’altro invece della paura e del dualismo patologico». Non è il fenomeno al quale stiamo assistendo in alcune parti del mondo, soprattutto in Medio oriente, dove il Daesh uccide nel nome di Dio. «Il Daesh è proprio un esempio del fallimento dei movimenti secolari e sedicenti democratici nel mondo islamico. Una larga parte della popolazione si è sentita tradita dai governi secolari che hanno preso il controllo del Medio Oriente dopo la prima guerra mondiale e può trovare risposte identitarie in una versione estrema della fede islamica, che promette l’ordine e la dignità dell’antico califfato». Anche se l’aderenza al Daesh è determinata più da motivi economici e politici che religiosi, diffonde comunque una versione distruttiva dell’islam dalla quale anche giovani occidentali sono attratti. Come contrastarla? «Bisogna fare leva sui giovani musulmani istruiti in Occidente che cercano un ritorno alla fede in risposa al secolarismo e al consumismo, ma che non sono cresciuti in un’ideologia di violenza. Li turba vedere la loro religione accusata di violenza e vogliono avere l’opportunità di dimostrare che non lo deve necessariamente essere. Ripartire dalle scritture rispettate da giudaismo, islam e cristianesimo è un modo di dare a loro e a tanti altri un’alternativa alla lettura estremistica di 'noi contro di loro' che prevale in Medio oriente. Le scritture ci insegnano infatti che Dio è anche con l’altro e che senza rinunciare alla nostra fede possiamo trovare la riconciliazione». IL GAZZETTINO Pag 1 “Venerabile” Licio, con lui nella tomba i misteri d’Italia di Edoardo Pittalis Licio il “Materassaio”, ma anche Licio il “Venerabile”. Perché c’erano in lui molte anime e non tutte evidenti, quasi nessuna trasparente. Ex commerciante di materassi, fascista e franchista, grande tessitore di rapporti di potere, di trame occulte, di legami internazionali. Arrestato e evaso. Uno che qualche anno fa si vantava: “L’Italia ha applicato il mio piano per la giustizia, la tv, l’ordine pubblico. Forse sì, dovrei chiedere i diritti d’autore”. Nei biglietti da visita scriveva: “Poeta molto noto”. E gli amici nel 1996 lo avevano pure candidato al Nobel per la letteratura. Dicono che conoscesse i segreti scomodi e inconfessabili dell’Italia degli ultimi cinquant’anni: Moro, Italicus, strage di Bologna, Golpe Borghese, Sindona, crack Ambrosiano, caso Calvi, scalata ai grandi gruppi editoriali, Tangentopoli, Stato e mafia, naturalmente P2. Certo è entrato in ognuno di quei misteri. Come accadeva ai personaggi di una volta, si è portato gran parte di quei segreti nella tomba. Forse ha conservato un lungo diario, scriveva un appunto al giorno, tutto nascosto dietro una porta a scomparsa. Non lasciava più in giro raccoglitori da quando, nel 1981, due magistrati milanesi cercando un elenco di imprenditori evasori fiscali sulla scia di Sindona, scoprirono la lista della “Propaganda Due” e mezzo Stato saltò in aria. Licio Gelli si è portato via i misteri a 96 anni nella sua casa sulle colline di Arezzo, a Castiglion Fibocchi, la stessa Villa Wanda dove fecero irruzione i magistrati Colombo e Turone e trovarono la lista con i 962 nomi della loggia segreta massonica P2. C’erano anche tre ministri, i vertici dei servizi segreti, 208 alti ufficiali, 18 alti magistrati, 49 banchieri, 120 imprenditori, 27 giornalisti, 44 parlamentari. Venne fuori che Licio Gelli, oltre che con Sindona e Roberto Calvi, aveva avuto contatti col principe Borghese, quello del tentato golpe, fallito perché per errore quella notte i golpisti anziché davanti alla Rai finirono sotto la finestra del Santo Padre. Si disse anche che Gelli era dentro alla “strategia della tensione”, coinvolto in manovre sovversive per allontanare le mani comuniste dal governo. I nomi della lista fecero tremare il Paese, non solo quelli dei politici, dei funzionari, dei banchieri, di imprenditori come l’editore del Corriere della Sera Angelo Rizzoli. In pochi giorni il governo del democristiano Arnaldo Forlani fu costretto alle dimissioni, sostituito dal repubblicano

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Giovanni Spadolini. Il Parlamento varò una commissione d’inchiesta affidata a Tina Anselmi, democristiana veneta di Castelfranco. Approvò una serie di leggi che vietavano le associazioni segrete. Fu allora che l’Italia incominciò a prendere confidenza col nome di Licio Gelli, un pistoiese nato nel 1919, che a vent’anni se n’era andato in Spagna a combattere con Franco, che era tornato in Italia nella guerra civile per schierarsi prima con i fascisti di Salò poi con i partigiani bianchi della Toscana. Nel dopoguerra era emigrato in Argentina dove aveva rapporti con Peron; negli anni ’60 aveva investito in materassi e in abiti da uomo, dirigendo la Permaflex e entrando in società con i fratelli Lebole. “Ho un debole per l’uomo in Lebole”, diceva un Carosello popolare. Ormai si era insediato nella villa dedicata alla moglie Wanda, con i quattro figli. Si era iscritto alla massoneria e aveva fatto della loggia “Propaganda Due”, soppressa dalla massoneria ufficiale, la sua creatura eversiva. Una specie di antistato con personaggi di spicco della società, un’arma per realizzare quello che chiama il suo “Piano di rinascita democratico”. E pare funzioni, visto che nel caso Moro il comitato di crisi voluto dal ministro Cossiga risulta affollato di iscritti alla P2! Con la sua cricca tiene in scacco il Paese reale. Si muove come un grande avventuriero del potere occulto e sotterraneo. La scoperta della lista non lo ferma, espatria, si nasconde in Svizzera dove riesce anche a evadere dal carcere di Champ Dollon, si consegna e viene estradato, ma evita la detenzione per motivi di salute. L’uomo è abile, dice e non dice, dotato di una memoria prodigiosa non dimentica un particolare ininfluente, ma salta i grossi fatti. Mentre attorno personaggi a lui legati vengono trovati morti: come Roberto Calvi appeso a un’arcata del ponte dei Frati Neri a Londra; come Michele Sindona avvelenato in prigione. Entra ed esce da processi legati agli anni di piombo e agli scandali della politica. Forse lo chiamano in causa troppe volte, come un prezzemolo per condire una storia fitta di misteri. Pensano sappia tutto sulla strage di Bologna, accertano che forse ha depistato le indagini. Di sicuro è condannato a 12 anni per il crack del Banco Ambrosiano. L’uomo bada a custodire il personaggio che si è cucito addosso, quello dell’uomo che sa tutto di tutti e che aveva un progetto sull’Italia. Sta attento a rivendicare il passato: “Sono fascista e morirò fascista”. Sarà sepolto con la spilla del PNF. Sarà sepolto anche con i suoi misteri. Forse il vero mistero era lui. “Il silenzio cala un muro dorato sui mie dubbi”, dicono i versi de “La sfida finale”, l’ultima poesia del “Maestro Licio Gelli”. LA NUOVA Pag 1 Il venerabile e la loggia dei segreti di Pier Vittorio Buffa Licio Gelli è morto a 96 anni nella sua dimora di Arezzo, Villa Wanda. Il suo nome legato alla vicenda della loggia P2 di cui fu Gran Maestro, poi tante volte tornato nella storia di prima e seconda Repubblica, tra rapporti occulti con il potere e vicende giudiziarie. Oggi i funerali a Pistoia. Sarà tumulato nella cappella di famiglia dove già riposa la prima moglie, Wanda. Era la primavera del 1977. Licio Gelli arrivò al secondo piano del palazzo di giustizia romano, a piazzale Clodio, accompagnato solo dal suo avvocato. In giacca e cravatta, senza soprabito. Nell’aula di tribunale, quel giorno, non entrò come imputato ma come parte civile in un processo per diffamazione che aveva intentato contro di me e il direttore dell’Espresso per un articolo uscito l’anno prima. Nessuno aveva previsto che quell’uomo misterioso, di cui si andava poco a poco scoprendo l’inquietante biografia, si presentasse davvero davanti ai giudici. I nostri avvocati non lo avevano nemmeno ipotizzato e io restai sorpreso nel trovarlo in tribunale. Non ci presentammo, ciascuno si sedette dalla propria parte e l’udienza durò un battito di ciglia. Ma avevo davanti Gelli e io non lo avevo mai visto in faccia perché non erano mai state pubblicate sue fotografie. Così, prima che il giudice ci convocasse, infilai un gettone nel telefono pubblico più vicino e chiamai un amico che abitava a Corso Francia, Andrea Ponticelli. In quel momento faceva il fotografo, poi nella vita ha fatto tutt’altro. Arrivò in tempo, quando Gelli ancora passeggiava nell’ampio corridoio, e scattò. Una, due, tre volte. Il mio amico stampò uno di quegli scatti, con il maestro venerabile della P2 preso di tre quarti. Lo vendette per poche migliaia di lire a qualche giornale e poi cambiò mestiere. Ma Gelli aveva costruito intorno a sé una barriera così robusta che quell’immagine rubata a piazzale Clodio restò l’unica in circolazione. Anno dopo anno appariva sempre più spesso sui giornali italiani

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poi, dopo la scoperta degli elenchi della P2, nel 1981, la rividi su quotidiani e settimanali di tutto il mondo. L’articolo che aveva spinto Gelli a querelare l’Espresso e a salire i gradini di piazzale Clodio era un normale articolo scritto da un giovane cronista che era andato in giro a documentarsi. Nessuno scoop, niente documenti riservati. Solo notizie messe in fila. Rileggendole oggi monta una gran rabbia. Se un cronista poteva scrivere, nel 1976, che la loggia P2 di Gelli aveva ramificazioni in tutto il mondo e che era, probabilmente, una sorta di potente e segreto collegamento tra gruppi eversivi e potentati economici, come poi è stato dimostrato, vuol dire che la loggia P2 era molto, molto di più. Se un cronista poteva scrivere queste cose con così tanto anticipo rispetto all’esplodere vero dello scandalo, vuole anche dire che la trama di menzogne che ha accompagnato tutta la vicenda della P2 era fitta e robusta. Chi era andato a prestare giuramento a Gelli, nella sua famosa suite dell’Excelsior, come ha poi potuto dire che non immaginava cosa veramente fosse la P2? A cadere dalle nuvole? Quello che i giornali avevano anticipato era, del resto, diventato anche materia di inchieste giudiziarie. Una per tutte quella di Bologna dove, nella seconda metà degli anni Settanta, si indaga sulla strage del treno Italicus (4 agosto 1974). Il giudice istruttore Angelo Vella approfondisce eventuali connessioni tra la loggia e gli autori della strage. Non emergono fatti di rilevanza penale ma Vella scrive nella sua ordinanza (l’Espresso ne dà notizia nel settembre 1980, quindi prima del ritrovamento degli elenchi) che la «P2 è all’epoca dei fatti il più dotato arsenale di pericolosi e validi strumenti di eversione politica e morale; e ciò in incontestabile contrasto con le proclamate finalità statutarie della istituzione». Come si poteva, dunque, non sapere? Come si poteva pensare di iscriversi a qualcosa di simile a una bocciofila? Della lista della P2 trovata a Gelli e diffusa nel maggio 1981 facevano parte 962 persone. Comprendeva ministri e sottosegretari in carica, generali dei carabinieri, della Guardia di Finanza, dell’esercito, dell’aeronautica, della marina. E poi Silvio Berlusconi, Vittorio Emanuele di Savoia, Maurizio Costanzo… e tanti, tanti altri. Torna al sommario