Rassegna stampa 13 luglio 2016 - patriarcatovenezia.it filearretratezza. Dalla scuola alle...

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RASSEGNA STAMPA di mercoledì 13 luglio 2016 SOMMARIO “Lo scandalo e il dolore” è il titolo dell’editoriale di Domenico Delle Foglie sulla prima pagina di Avvenire di oggi: “Appuntamento con la morte tra gli ulivi della Puglia. Un tunnel verde argento, come si percepisce dalle immagini aeree, dentro al quale scorre quel maledetto binario unico che collega grandi città del Nord Barese con il capoluogo. Sono i treni dei pendolari, degli studenti e delle famiglie, quelli che si sono scontrati frontalmente. Treni utilizzati per spostarsi fra le grandi cittadine che, come grani di un rosario, si incontrano su questa linea ferroviaria interna. Treni locali. Treni del territorio. Treni delle periferie di Puglia. Come ce ne sono tanti nell’Italia profonda. La cronista impietrita dinanzi alle carrozze accartocciate trova solo la forza di ripetere le parole scolpite nel ricordo: «Dov’è Giuseppe? ». Le ha pronunciate uno dei tanti ragazzi che sono accorsi sul posto, in piena campagna, per sapere che fine abbia fatto il suo amico. Se è sopravvissuto alla tragedia. Forse oggi lo piangerà, come faranno tante famiglie pugliesi colpite da questo disastro ferroviario che ripropone in tutta la sua drammaticità le condizioni di un Sud che arranca sempre. Che è sempre più silenzioso, che per la gran parte dei media non fa notizia, se non per gli orrori delle mafie e per le rovine di ciò che resta del suo sistema industriale. E che può talvolta gioire solo perché è riuscito, come è accaduto per la Puglia, a promuovere meritatamente un’immagine di terra dell’accoglienza e del buon vivere. Tanto da divenire uno dei luoghi più ricercati per le vacanze, dagli italiani e dagli stranieri. Ma oggi la Puglia piange e con essa piange l’intero Paese. Il numero altissimo delle vittime è un tributo senza precedenti. Quando le agenzie di stampa hanno battuto le prime righe annunciando il disastro, non possiamo nascondere il dolore che ci ha scosso. Poi un sentimento misto di rassegnazione e di rabbia. Cosa possono aspettarsi oggi i meridionali? Abbiamo visto intere generazioni dei nostri figli andare via dalla nostra terra per cercare lavoro e futuro. E per chi resta la prospettiva è quella della precarietà, del lavoro nero, dell’arrangiarsi e del tirare a campare. Solo qualche giorno fa è stata diffusa la buona notizia del Pil meridionale che è tornato a crescere nel 2015 dell’uno per cento, dopo 7 anni di recessione. Un dato che ci ha rincuorato: non siamo perduti. Abbiamo resistito a questa lunga notte che ha distrutto, come una falce tagliente, il lavoro, l’impresa e la serenità delle famiglie. Ma lo Stato, in questi anni dov’era? Chi ha la fortuna di viaggiare sulle Frecce che collegano l’Italia che conta, dovrebbe sperimentare almeno una volta cosa significhi viaggiare nelle periferie del Sud. I ritardi strutturali ci sono, così come gli sprechi documentati da inchieste giudiziarie che hanno travolto l’altra grande società ferroviaria pugliese (Ferrovie Sud-Est) sull’orlo del dissesto e commissariata per cattiva amministrazione. Guai, però, se i meridionali – e con loro le classi dirigenti del Sud – scaricassero le responsabilità su altri. Lo Stato ha il dovere di esserci, di garantire gli standard strutturali, di concorrere alla programmazione, di verificare le condizioni generali di strutture strategiche per gli spostamenti dei cittadini. Sempre in condizione di sicurezza. Il binario ferroviario unico, nel 2016, è l’emblema di un mondo vecchio. Fermo. Cristallizzato nei propri ritardi. Un esempio per tutti: Matera, capitale europea della cultura 2019, è l’unico capoluogo italiano privo di collegamento ferroviario dello Stato. Le ferrovie Apulo-Lucane (altra linea interna) si fermano al borgo La Martella. Chi scrive queste righe oltre trent’anni fa denunciava questo «scandalo». Lo «scandalo» è sempre lì. Una città dalla memoria millenaria come la lucana Matera può diventare un faro culturale, ma per raggiungerla c’è solo la strada. E anche quella lascia (ancora) a desiderare. Quanto è tragicamente accaduto in Puglia deve suonare come una sveglia per tutti. Guai se dovessimo fermarci solo a piangere i nostri morti. Quando per decreto è stato illuministicamente eliminato l’Intervento straordinario nel Mezzogiorno, in tanti, meridionali compresi, si è brindato alla vera unificazione del Paese. A tanti anni di distanza, abbiamo poco da festeggiare. Il Sud è

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RASSEGNA STAMPA di mercoledì 13 luglio 2016

SOMMARIO

“Lo scandalo e il dolore” è il titolo dell’editoriale di Domenico Delle Foglie sulla prima pagina di Avvenire di oggi: “Appuntamento con la morte tra gli ulivi della Puglia. Un

tunnel verde argento, come si percepisce dalle immagini aeree, dentro al quale scorre quel maledetto binario unico che collega grandi città del Nord Barese con il

capoluogo. Sono i treni dei pendolari, degli studenti e delle famiglie, quelli che si sono scontrati frontalmente. Treni utilizzati per spostarsi fra le grandi cittadine che, come

grani di un rosario, si incontrano su questa linea ferroviaria interna. Treni locali. Treni del territorio. Treni delle periferie di Puglia. Come ce ne sono tanti nell’Italia

profonda. La cronista impietrita dinanzi alle carrozze accartocciate trova solo la forza di ripetere le parole scolpite nel ricordo: «Dov’è Giuseppe? ». Le ha pronunciate uno dei tanti ragazzi che sono accorsi sul posto, in piena campagna, per sapere che fine

abbia fatto il suo amico. Se è sopravvissuto alla tragedia. Forse oggi lo piangerà, come faranno tante famiglie pugliesi colpite da questo disastro ferroviario che ripropone in tutta la sua drammaticità le condizioni di un Sud che arranca sempre. Che è sempre più silenzioso, che per la gran parte dei media non fa notizia, se non per gli orrori delle mafie e per le rovine di ciò che resta del suo sistema industriale. E che può

talvolta gioire solo perché è riuscito, come è accaduto per la Puglia, a promuovere meritatamente un’immagine di terra dell’accoglienza e del buon vivere. Tanto da

divenire uno dei luoghi più ricercati per le vacanze, dagli italiani e dagli stranieri. Ma oggi la Puglia piange e con essa piange l’intero Paese. Il numero altissimo delle vittime

è un tributo senza precedenti. Quando le agenzie di stampa hanno battuto le prime righe annunciando il disastro, non possiamo nascondere il dolore che ci ha scosso. Poi

un sentimento misto di rassegnazione e di rabbia. Cosa possono aspettarsi oggi i meridionali? Abbiamo visto intere generazioni dei nostri figli andare via dalla nostra

terra per cercare lavoro e futuro. E per chi resta la prospettiva è quella della precarietà, del lavoro nero, dell’arrangiarsi e del tirare a campare. Solo qualche

giorno fa è stata diffusa la buona notizia del Pil meridionale che è tornato a crescere nel 2015 dell’uno per cento, dopo 7 anni di recessione. Un dato che ci ha rincuorato: non siamo perduti. Abbiamo resistito a questa lunga notte che ha distrutto, come una falce tagliente, il lavoro, l’impresa e la serenità delle famiglie. Ma lo Stato, in questi

anni dov’era? Chi ha la fortuna di viaggiare sulle Frecce che collegano l’Italia che conta, dovrebbe sperimentare almeno una volta cosa significhi viaggiare nelle

periferie del Sud. I ritardi strutturali ci sono, così come gli sprechi documentati da inchieste giudiziarie che hanno travolto l’altra grande società ferroviaria pugliese

(Ferrovie Sud-Est) sull’orlo del dissesto e commissariata per cattiva amministrazione. Guai, però, se i meridionali – e con loro le classi dirigenti del Sud – scaricassero le responsabilità su altri. Lo Stato ha il dovere di esserci, di garantire gli standard

strutturali, di concorrere alla programmazione, di verificare le condizioni generali di strutture strategiche per gli spostamenti dei cittadini. Sempre in condizione di

sicurezza. Il binario ferroviario unico, nel 2016, è l’emblema di un mondo vecchio. Fermo. Cristallizzato nei propri ritardi. Un esempio per tutti: Matera, capitale europea della cultura 2019, è l’unico capoluogo italiano privo di collegamento

ferroviario dello Stato. Le ferrovie Apulo-Lucane (altra linea interna) si fermano al borgo La Martella. Chi scrive queste righe oltre trent’anni fa denunciava questo

«scandalo». Lo «scandalo» è sempre lì. Una città dalla memoria millenaria come la lucana Matera può diventare un faro culturale, ma per raggiungerla c’è solo la strada. E anche quella lascia (ancora) a desiderare. Quanto è tragicamente accaduto in Puglia deve suonare come una sveglia per tutti. Guai se dovessimo fermarci solo a piangere i

nostri morti. Quando per decreto è stato illuministicamente eliminato l’Intervento straordinario nel Mezzogiorno, in tanti, meridionali compresi, si è brindato alla vera

unificazione del Paese. A tanti anni di distanza, abbiamo poco da festeggiare. Il Sud è

inchiodato, non solo alle proprie drammatiche responsabilità, ma anche alla propria arretratezza. Dalla scuola alle università, dalle ferrovie alle strade, dalle reti idriche

alla banda larga. Alzare la voce e reagire è un dovere” (a.p.)

IN PRIMO PIANO – “MORIRE SUL BINARIO UNICO”, TERRIBILE SCONTRO IN PUGLIA CORRIERE DELLA SERA Pag 1 La sciagura della non politica di Sergio Rizzo Pagg 2 – 3 I due treni accartocciati: “Tra le lamiere l’inferno” di Goffredo Buccini Pag 7 Binario unico di Elena Tebano L’Italia ne ha 15 mila chilometri e molti sono in mano a concessionari. Ma il sistema automatico di sicurezza è obbligatorio solo sulle tratte gestite direttamente dallo Stato Pag 9 Quelle carrozze piene di speranze e di piccole fughe di Donato Carrisi LA STAMPA Quei viaggi a scartamento ridotto di Emanuele Felice

La nostra modernità non contempla tragedie di Antonio Scurati Ci siamo illusi di poter mettere fine a ogni incidente. Istintivamente collochiamo lo scempio in un luogo remoto AVVENIRE Pag 1 Lo scandalo e il dolore di Domenico Delle Foglie Questa tragedia e il dramma del Sud IL GAZZETTINO Pag 1 Errori umani e arretratezza tecnologica di Paolo Graldi CORRIERE DEL VENETO Pag 7 “La strage dei treni pugliesi? Qui non potrebbe accadere” di Martina Zambon Rfi e sindacati: binari unici, da noi c’è la tecnologia. Ma è un caso la Mestre – Adria LA NUOVA Pag 2 Viaggiatori di serie B in trincea di Angelo Di Marino 3 – VITA DELLA CHIESA IL FOGLIO Pag 2 Il Papa manda un americano (di peso) nella fabbrica dei vescovi di Matteo Matzuzzi Perché è importante il nuovo incarico di Cupich da Chicago 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO AVVENIRE Pag 3 Gli scambi ad alta frequenza che “drogano” il mercato di Andrea Di Turi Dopo la crisi e i crac di borsa, “hft” alla fine? 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA LIBERO A Venezia. Musulmano va in chiesa e sfascia un crocifisso antico di Caterina Maniaci

IL GAZZETTINO Pag 10 Venezia: marocchino entra in chiesa e getta a terra il crocefisso di Roberta Brunetti IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag V Entra in chiesa, spezza un crocefisso di Roberta Brunetti San Geremia: ha finto di essere un turista e si è avvicinato all’altare: “C’è qualcosa di sbagliato” Pag XI Sbandati, l’atto di accusa del parroco di Alvise Sperandio Via Piave, don Mirco Pasini: “Vicino alla chiesa siringhe, droga e profilattici. I parrocchiani si sentono abbandonati” LA NUOVA Pag 14 Entra in chiesa e spezza il crocifisso di Nadia De Lazzari San Geremia: 24enne marocchino denunciato per danneggiamento dopo la colluttazione con il sacrestano che voleva fermarlo. Qui sono custodite le spoglie di Santa Lucia CORRIERE DEL VENETO Pag 11 “E’ sbagliato, non è la verità questa”. Magrebino getta a terra il crocefisso di Eleonara Biral San Geremia: il custode tenta di fermarlo, preso dai turisti. Opera danneggiata … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 28 La Cina, le isole contese e la spinta del nazionalismo di Sergio Romano Pag 29 Per Renzi è troppo rischioso rinunciare alla guida del Pd di Gianfranco Pasquino Partito e governo AVVENIRE Pag 8 Islam in Italia: “Dialogo e regole chiare per una via sostenibile” di Imam Yahya Pallavicini Pag 22 Bauman: contro l’Europa del sospetto di Fulvio Scaglione Pag 23 La religione nelle serie tv non fa fede di Andrea Fagioli CORRIERE DEL VENETO Pag 1 Il timore delle idee altrui di Davide Rossi Il negazionismo LA NUOVA Pag 1 Povera Roma, infestata anche di topi di Ferdinando Camon WWW.VATICANINSIDER.LASTAMPA.IT Zarqa, dove cristiani e islamici imparano insieme un mestiere di Cristina Uguccioni Storie di convivenza tra credenti in Cristo e musulmani. Viaggio in Giordania, nella scuola dei padri orionini che accoglie anche profughi iracheni e siriani. Parlano padre Hani Polus Al Jameel e il professor Isam Shuli: «Le persone autenticamente religiose possono mostrare che è possibile costruire cose buone lavorando fianco a fianco»

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IN PRIMO PIANO – “MORIRE SUL BINARIO UNICO”, TERRIBILE SCONTRO IN PUGLIA CORRIERE DELLA SERA Pag 1 La sciagura della non politica di Sergio Rizzo In una sfolgorante mattina di luglio hanno ferito a morte l’Italia intera. Non l’Italia dell’Alta velocità, delle carrozze con le poltrone in pelle, sala cinema e prosecco ghiacciato. Ma l’Italia degli studenti, dei pendolari, dei pensionati, dei poliziotti. Non può consolare sapere che secondo le statistiche il sistema ferroviario italiano è considerato fra i più sicuri d’Europa. Né che una collisione del genere non si verificava da nove anni. E neppure che dei 59 morti per incidenti ferroviari nel 2015 (meno di un cinquantesimo rispetto alle vittime della strada) 57 sono stati travolti sui binari. Se la causa sia da ricercare nell’errore umano o degli strumenti, speriamo venga presto accertato. Ma un colpevole oggettivo lo conosciamo già: la sciagurata non politica del non trasporto pubblico. L’ultimo rapporto Pendolaria di Legambiente ci dà un quadro desolante. Il servizio ferroviario regionale ha subito dal 2010 a oggi tagli valutabili nel 6,5 per cento, mentre le tariffe continuavano ad aumentare. È successo in tutta Italia, ma il Sud è stato letteralmente massacrato: -9,8 per cento in Abruzzo, -12,1 in Sicilia, -15,1 in Campania, -18,9 in Basilicata, -26,4 in Calabria... E anche se la Puglia se l’è cavata con un modesto -3,6, i biglietti sono comunque rincarati di oltre l’11 per cento. Questa storia viene da molto lontano. Comincia già negli anni immediatamente successivi all’Unità d’Italia quando il Sud, con un livello di infrastrutture ferroviarie pari a un decimo del Centro-Nord, viene pesantemente penalizzato negli investimenti. E continua dopo la Repubblica, quando al ferro dei treni (l’ideale per un Paese stretto e lungo, sostengono gli esperti), si preferisce la gomma delle auto e dei camion. Per arrivare al disastro definitivo con le Regioni, alle quali lo Stato centrale demanda la gestione del trasporto locale. Il risultato? Investimenti irrilevanti e qualità del servizio penosa. Una situazione che prefigura, analogamente a quanto accade nella sanità, differenze rilevanti nei diritti costituzionalmente garantiti fra pezzi dello stesso Stato. Per non parlare delle conseguenze sugli stessi livelli di sicurezza. Esistono ormai tecnologie tali da rendere il traffico ferroviario sicuro quasi al cento per cento, con sistemi capaci, in caso di pericolo, di bloccare automaticamente il convoglio. Che su quella linea della tragedia, peraltro ancora a binario unico nonostante un progetto di raddoppio partito addirittura nel 2007, non ci sono. Perché per averli bisogna investire: se i soldi non ci sono, o peggio ancora vengono sprecati come accadeva alle Ferrovie del Sud-Est nella stessa Puglia della tragedia del Barese, ecco che gli investimenti non si possono fare. Di conseguenza ci può andare di mezzo anche la sicurezza. E qui viene fuori tutta la responsabilità della politica, incapace di concepire un disegno strategico per una funzione sociale così importante e delicata, che non sia quello dei tagli. Ricorda sempre Pendolaria che negli ultimi cinque anni sono stati chiusi 1.189 chilometri di ferrovie, con la soppressione di linee un tempo fondamentali per il Sud, come la Pescara-Napoli. Nel frattempo non si può dire che i cordoni della borsa siano rimasti sigillati. Tutt’altro. Abbiamo infatti costruito l’Alta velocità, anche se a un costo triplo rispetto a Paesi quali la Spagna e la Francia. A parte quel dettaglio non esattamente trascurabile, da sommare ai vent’anni che ci sono voluti, siamo ovviamente felici che sia stata fatta. Almeno da questo punto di vista l’Italia si è avvicinata all’Europa. In compenso, ci siamo del tutto e volutamente dimenticati della parte numericamente più rilevante dell’utenza, ovvero quei milioni di pendolari che prendono ogni giorno il treno. In condizioni non sempre degne del genere umano. La mancanza di una seria politica del trasporto locale li ha precipitati in un girone dantesco fatto di carrozze sfasciate gelate d’inverno e roventi d’estate, convogli sudici, stracolmi e perennemente in ritardo. Un girone nel quale si accalcano operatori improbabili, non importa se pubblici o privati. Il tutto in una demenziale ripartizione regionale frutto di un federalismo insensato e accattone. E se non esiste neppure un divario apprezzabile fra Nord e Sud (prova ne sia il fatto che dal 2010 sono state eliminate 15 linee in Piemonte, dove le tariffe sono salite del 47 per cento), di sicuro il Mezzogiorno è sempre più vicino all’Inferno. Adesso ascolteremo le promesse di rito. La cosa grave, temiamo, è che domani, dopo il dolore e i funerali, tutto tornerà come prima .

Pagg 2 – 3 I due treni accartocciati: “Tra le lamiere l’inferno” di Goffredo Buccini Andria. Le cicale non smettono un attimo, e insinuano un senso di pace assurdo: perché qui pace non può esserci, i pezzi di lamiera insanguinati s’incastrano fin nelle chiome degli ulivi. I campi arati tutt’attorno ai binari, tra Corato e Andria, nella grande piana pugliese, smorzano rumori ed emozioni in un’eterna attesa del nulla. Ma adesso sono punteggiati da brandelli di sedili, sportelli ritorti, borse, fogli di carta, bottigliette d’acqua schiacciate, giocattoli smozzicati, piccoli segni di vita, certezze di morte. Ecco i primi corpi, ecco i lamenti, come dopo una bomba, «come quando un aereo cade», dirà Massimo Mazzilli, che a Corato è il sindaco. Ventisette morti, più di cinquanta feriti di cui sei o sette gravissimi, vari dispersi, i numeri s’aggiornano nella notte e alla fine non sono lontani da quelli d’un disastro aereo. Solo che qui, in mezzo al niente, si sono quasi sbriciolati due treni carichi di pendolari, operai, famiglie, bambini, chi andava in vacanza e chi al lavoro, chi al mare per una giornata, chi dalla nonna, chi dal suo amore. Non sono ancora le undici e mezzo del mattino quando il treno Alstom bianco striato di azzurro sbuca dal grande curvone che viene da Corato a due o trecento metri dalla casa cantoniera della provinciale, inatteso come un fantasma ritardatario. Il treno Stadler giallo gli viene incontro, partito puntuale da Andria. Il vecchio Lorenzo, pensionato che gli orari di questi regionali e locali li ha stampati a memoria in testa, l’ha visto uscire dalla stazione pochi minuti prima, il treno di Andria, sfavillante in quel suo giallo canarino, e s’è detto: «Come mai non è arrivato ancora l’altro treno, quello di Corato?». Non è una preoccupazione futile, perché solo nelle stazioni i treni si incrociano, lì c’è il doppio binario, che poi diventa unico, appena le rotaie escono nella piana e nel nulla tra le due città. Perché qui, nella Puglia operosa che per anni ha trascinato l’economia del Sud, la metà di questo circuito gestito da Ferrotramviaria S.p.A, è ancora, incredibilmente, a binario unico: per 37 chilometri; ci sarebbero anche i fondi europei per il raddoppio, ma la gara è stata rinviata, si sa come vanno queste cose da noi, in questa Italia dove giustamente puntiamo sulla Tav ma colpevolmente dimentichiamo che il Sud non può avere trasporti fermi alla metà del secolo scorso. Fatto sta che un anticipo o un ritardo, che altrove si tradurrebbero in un ciao ciao dai finestrini, qui possono spalancare l’abisso, specie se s’aggiunge una svista, un errore umano, un interruttore o un blocco telefonico che non scattano. «È un momento di grande dolore, tecnicamente qualcosa non ha funzionato», quasi sussurra Massimo Nitti, direttore generale della società ferroviaria. I tracciati, le scatole nere, le testimonianze e l’inchiesta della Procura ce lo diranno, per ora non cambia molto. Non cambia nulla nemmeno per i due macchinisti. Luciano, 38 anni, e Pasquale, 54, che tra pochi giorni avrebbe dovuto portare la figlia all’altare. Devono intravedersi in una agghiacciante frazione di secondo, l’uno correre verso l’altro, in un tratto nel quale si va a cento all’ora, su quei serpenti d’acciaio impazziti, nemmeno il tempo di accennare una frenata, solo un fischio d’allarme disperato e vano. Alberto La Rosa, un ragazzo che lavora qui attorno, racconta «un boato che stordisce». Le prime due carrozze dello Stadler si disintegrano dentro le prime due dell’Alstom, le lamiere si spandono in un raggio di centinaia di metri, solo le ultime due carrozze dei due treni non esplodono ma si fondono in un’unica assurda creatura fatta di acciaio e sangue, invocazioni d’aiuto e rantoli. Una mamma stringe la sua bambina un attimo prima dello schianto: sono tra le prime a essere estratte, i volontari faticano a descrivere senza lucciconi quell’ultimo abbraccio di morte. Un contadino, Giuseppe Acquaviva, 55 anni, fa appena in tempo ad alzare gli occhi all’esplosione ma non riesce a ripararsi dietro il suo trattore, una scheggia lo ammazza, come in guerra: beffato dalla malasorte, sarà l’unica vittima estranea ai due treni. In un’ora l’intera provincia Bat sa che è successo qualcosa di terribile. Squilla il telefono negli uffici della Ferrotramviaria e qualcuno dice: «Ci sono centocinquanta morti in mezzo alla campagna». In verità nessuno può sapere davvero quanti siano i morti, perché questo è un treno di abbonati, nessuno azzarda nemmeno quanti fossero i passeggeri. La capienza è di cento, centocinquanta persone. Il conto può essere agghiacciante. In un’ora quell’immoto pezzo di campagna pugliese è macchiato dai teli gialli a coprire i primi corpi, punteggiato dalle bare lì, proprio tra gli ulivi, portate vie velocemente verso l’obitorio di Bari. I pompieri e i volontari delle ambulanze scrivono una pagina di grande coraggio e abnegazione, mentre cominciano ad arrivare i parenti,

quelli che attendevano a casa i loro cari, gli amici, increduli. Un ragazzo dignitoso s’avvicina a Michele Emiliano, il governatore che, accorso tra i primi, dice «non mi muovo da qui finché non sarà estratto l’ultimo passeggero». Emiliano lo abbraccia, il ragazzo è figlio d’un controllore, e chiede: «Tu puoi sapere dov’è papà?». Un padre di Andria, con gli occhi azzurri pieni di lacrime, si aggrappa al figliolo ventenne cercando l’altro figlio, che stava sul treno di Corato: «Abbiamo girato tutti gli ospedali, qualcuno mi dice cosa faccio adesso?», quasi strilla. Ci sono simboli di speranza, come il piccolo Samuele, 6 anni, estratto quasi indenne dalle lamiere e adottato subito dai vigili del fuoco che provano a tranquillizzarlo con un cartone animato su uno smartphone. Ci sono una mamma e una bimba che si sono perse nella tragedia e ritrovate e riabbracciate a Barletta, in uno dei tanti ospedali coinvolti in questa immane opera di soccorso. A tali piccoli segni s’aggrappa ciascuno, oltre la ragione. Finché alle sette della sera i volontari non tentano ancora una volta la «prova del silenzio», imponendo il «tutti zitti!» a soccorritori, famiglie, giornalisti, e ricevendone in cambio il silenzio della morte, il segno che non c’è più nessuno da salvare, ma solo resti da comporre e onorare. A quell’ora è già arrivato il ministro Delrio e sta arrivando Renzi, «a portare un abbraccio» (qualcuno lo contesta davanti alla Prefettura di Bari, «vergogna, è il 2016!»). Si va avanti nella notte. Con le fotoelettriche. Una gru. Una motrice. Si tratta di dividere quell’assurdo mostro di lamiera, adesso. Perché tutti pensano, temono, che tra quelle lamiere ci siano altre vite spezzate, altri drammi da comporre. Tutti sentono questi drammi come propri. Negli ospedali di Andria e Trani, Terlizzi e Bisceglie, in tutta questa parte di Puglia si fanno file interminabili per donare il sangue. Tanti ragazzi. Che ti guardano e dicono: «Sono parenti nostri, quelli». Pag 7 Binario unico di Elena Tebano L’Italia ne ha 15 mila chilometri e molti sono in mano a concessionari. Ma il sistema automatico di sicurezza è obbligatorio solo sulle tratte gestite direttamente dallo Stato La maggior parte della rete ferroviaria italiana viaggia ancora a binario unico. Oltre novemila chilometri sui 16 mila in mano a Rfi, il gestore dell’infrastruttura ferroviaria nazionale. Molti di più in percentuale se si guardano le reti concesse, cioè non controllate direttamente dallo Stato: ben seimila su circa 6.500 chilometri totali. Sono a binario unico tutte le linee della Val D’Aosta, oltre il 90% di quelle di Molise e Basilicata, oltre l’80% di Sicilia e Sardegna. Lo è anche la tratta dell’incidente di ieri in Puglia. In teoria dovrebbero essere riservate alle zone dove c’è un traffico di passeggeri e convogli limitato, in pratica non è sempre questo il caso: sulla frequentatissima Genova-Ventimiglia, ad esempio, i treni si spostano ancora su un solo binario. Quello doppio, oltre a far sì che possano viaggiare più treni, riduce anche il rischio che si scontrino due convogli che procedono in direzione opposta. Ma il binario unico non è di per sé sinonimo di scarsa sicurezza. A fare tutta la differenza del mondo c’è la tecnologia. Oggi ci sono una serie di sistemi che permettono di controllare automaticamente i treni in caso di errore umano. Il 100% delle linee gestite da Rfi è coperto da questi dispositivi, designati da acronimi come SCMT (sistema controllo marcia treno) o SCC (sistema di supporto alla condotta), che impediscono ai macchinisti di superare i limiti di velocità e bloccano il treno se il conducente ignora il rosso. Prima non era così: il 7 gennaio del 2005 un interregionale proveniente da Verona e diretto a Bologna, con a bordo circa 200 passeggeri, si scontrò a Crevalcore, vicino a Bologna, con un merci carico di putrelle d’acciaio proveniente da Roma, proprio perché mancavano i sistemi automatici. All’epoca i morti furono 17, i feriti 15. La «tecnologia» usata in Puglia invece è vecchia di oltre cent’anni: il via libera telefonico. Capostazione, macchinista e capotreno si sentono al telefono per avere il semaforo verde e proseguire. L’errore umano è sempre possibile. È un caso isolato? Per nulla. Perché se la rete gestita da Rfi è sottoposta al controllo dell’Agenzia nazionale per la sicurezza delle ferrovie (Ansf), che impone standard molto chiari, così non è per le reti concesse, gestite da società locali. «Sono prive di sistemi automatici di subentro alla guida, per esempio, anche molte tratte in Lombardia, come la linea Asso-Seveso e quella Iseo-Edolo. E così quelle analoghe di molte altre regioni», spiega il presidente dell’Osservatorio Nazionale liberalizzazioni Infrastrutture e Trasporti Dario Balotta. «Le linee ferroviarie più a rischio sono quelle che non sono sovraintese dell’Ansf, ma da una serie di agenzie più piccole che non impongono la dotazione

tecnologica più avanzata - conferma Andrea Pelle, segretario generale del sindacato dei ferrovieri Orsa -. Il punto è che i sistemi di sicurezza costano cari: non mettere le ferrovie concesse sotto il controllo dell’Ansf è anche un modo per evitare di dover fare gli investimenti necessari...». E qui entra in gioco un capitolo molto spinoso: l’ammodernamento della rete ferroviaria. «La richiesta di traffico passeggeri negli ultimi 20 anni si è concentrata sulle linee a corta distanza, mentre in Italia si è investito soprattutto sull’alta velocità, abbandonando di fatto le linee secondarie, che sono spesso a binario unico - dice ancora Balotta -.E infatti nello stesso periodo le tratte con un unico binario sono rimaste sostanzialmente uguali, con poche eccezioni come il potenziamento della Saronno-Milano». Qualcosa potrebbe cambiare con l’entrata in vigore del quarto pacchetto ferroviario europeo, le misure dell’Ue per favorire la concorrenza e migliorare il sistema dei trasporti su rotaia. «Prevede che si facciano gare per la gestione di tutte le linee ferroviarie - spiega Balotta -. Per darle in gestione però le reti vanno messe a norma con ulteriori garanzie di sicurezza. Vale per almeno la metà di quelle concesse, che così dovranno adeguarsi». La scadenza è il 2019, troppo tardi per i passeggeri che ieri sono morti in Puglia. Pag 9 Quelle carrozze piene di speranze e di piccole fughe di Donato Carrisi Ci sono gli universitari, i «fuorisede». Che se poi prendono casa a Bari con altri studenti, si spostano carichi di derrate alimentari. Perché un pugliese che si rispetti si porta appresso «il mangiare» dal luogo natio anche se si allontana di pochi chilometri. Qualcuno va a seguire soltanto una lezione, e si è interrogato fino all’ultimo se salire sul treno oppure andarsene al mare. Perché con una giornata così è proprio un delitto rinchiudersi in un’aula accaldata. Qualcun altro è reduce da un esame e invece torna al paese, magari con la gioia di poter sfoggiare un altro voto sul libretto, un altro passo verso «il pezzo di carta», che è ancora il modo più nobile per definire una laurea, come fosse il biglietto di sola andata per un futuro migliore. Invece stamattina, l’unico biglietto che ha in tasca è quello di un viaggio che non porta da nessuna parte. Cambiano le generazioni, ma le facce no. Sono sempre le stesse. Lo erano ai miei tempi, e anche ai tempi dei miei genitori. E va a finire che su quel treno dopo un po’ ci si saluta anche senza che siano mai avvenute le presentazioni. Oltre agli universitari ci sono gli studenti delle superiori che hanno preso lo stesso treno tutto l’inverno per andare a scuola in un paese limitrofo e adesso, con l’estate nel cuore, se ne vanno a fare un po’ di struscio in centro nel capoluogo. Ragazze e ragazzi in gruppo che ridono e parlano ad alta voce. Qualcuno è chino sul cellulare, sta mandando un sms e non si accorgerà dello schianto. E quel messaggio rimarrà per sempre incompiuto. In Puglia i treni locali sono il primo vero mezzo di emancipazione dalla vita di paese. Una fuga adolescenziale con biglietto di andata e ritorno. Su quei binari che, come capillari pulsanti, irrorano le campagne e gli uliveti, dallo sperone garganico fino alla punta del Salento, c’è la vita. In mezzo a tanta gioventù, si nota qualche viso extracomunitario. Uno di loro guarda fuori dal finestrino, chissà cosa pensa di questa terra che gli sfila davanti. È diventato schiavo di qualche caporale? Sta andando a farsi cuocere dal sole per raccogliere pomodori? In fondo, è un pendolare anche lui. E prima di lui c’erano gli albanesi, che usavano proprio convogli come questo per disperdersi sul territorio una volta sbarcati da un pezzo di ferro arrugginito che stava a galla solo per la loro magrezza. Clandestini su un treno, con la speranza che non ci fosse un controllo. Ricordo che qualche anziano gli pagava perfino il biglietto, perché la Puglia che conosco è sempre stata un posto accogliente. E allora chissà se quel ragazzo di colore ce l’ha fatta a salvarsi. Sarebbe davvero beffardo se, dopo tante peripezie per arrivare fin qui, fosse morto proprio sul mezzo di trasporto in teoria per lui più sicuro. Se no che nome metteranno sulla tomba? E a casa non arriverà nessuna chiamata di cordoglio, sarà solo il silenzioso passare del tempo a far capire a chi gli vuole bene che è morto. Forse qualche secondo prima del boato ha scambiato un sorriso fugace con una bambina. Lei fa parte dei viaggiatori occasionali. Ieri sera è andata a dormire con una felicità frizzante nel petto, perché la mamma le ha detto che il mattino dopo avrebbero preso il treno per andare in città. Ci sono i saldi, e insieme alle scarpe nuove le è stato promesso un gelato. Una di quelle piccole gite che quando cresci ti sembrano le migliori avventure della vita. Le troveranno abbracciate. Ma forse non è vero, non hanno fatto in tempo. Ma l’immagine allevia un poco il nostro strazio di

superstiti. Perché ognuno di noi è stato su quel treno almeno una volta. Perciò è consolatorio pensare che, in questo inutile e assurdo spreco di vite, ci sia stato un attimo per un ultimo gesto d’amore. LA STAMPA Quei viaggi a scartamento ridotto di Emanuele Felice In Italia corrono 9.200 chilometri di linee a binario unico. Sono oltre la metà, il 55 per cento del totale: una quota rimasta pressoché immutata negli ultimi cinque anni, cioè da quando, per l’intensificarsi della crisi economica, si è arrestata l’opera di modernizzazione delle tratte secondarie. Nello stesso periodo, e per lo stesso motivo, dalle Regioni sono stati tagliati i finanziamenti ai gestori di quelle linee, bisognose di contributi pubblici perché meno remunerative. È questo il motivo per cui nelle tratte secondarie l’Italia è rimasta indietro rispetto agli altri grandi paesi europei (con la sola eccezione del Regno Unito): sia per le condizioni della rete, sia per la gestione del servizio. Ma nell’ultimo decennio l’Italia ha fatto invece grandi, enormi progressi nell’alta velocità: nuove linee sono state inaugurate, che hanno letteralmente cambiato la mappa geografica della penisola, nuove stazioni costruite, nuovi treni e servizi offerti ai viaggiatori. Siamo anche stati fra i primi in Europa ad avviare un effettivo processo di concorrenza, con l’arrivo di Italo a sfidare Trenitalia, e un significativo beneficio per i viaggiatori in termini di prezzi e condizioni. Chi si sposta per affari fra le due capitali del Paese, gode oggi di un servizio fra i più avanzati in Occidente, che (nonostante qualche ritardo) poco ha da invidiare alla Germania o al Giappone. Ma chi deve muoversi lungo linee minori, e specialmente al Sud, si trova catapultato in un altro mondo, come se il tempo non fosse passato. Inchiodato a Eboli. Questo dualismo è conseguenza delle riforme introdotte alla fine degli Anni Novanta, e delle modalità con cui sono state implementate dagli operatori e dai poteri pubblici. Ottemperando alla normativa europea, nel 1999 il governo D’Alema ha liberalizzato il settore, scorporando in due le Ferrovie dello Stato: una società per la gestione dei binari e delle stazioni, la Rete ferroviaria italiana, cui è stato assegnato anche tutto il personale preposto alla circolazione e agli scambi, dai deviatori ai manutentori della linea; una società per la gestione del servizio, Trenitalia, che ha mantenuto invece locomotive e carrozze e il personale dei treni. Un’analoga separazione tra infrastrutture e servizi avveniva anche sulle reti locali non di proprietà Fs. Con questo nuovo assetto, sulla gestione del servizio possono ora operare più società in concorrenza fra loro; tutte, anche Trenitalia, devono pagare un pedaggio alla società gestrice della rete, che sull’infrastruttura rimane l’unico monopolista. Da notare che tale sistema è molto diverso da quello in vigore nell’Ottocento, prima della nazionalizzazione delle strade ferrate: allora i singoli gestori, privati, avevano in concessione tutto il pacchetto, cioè binari, stazioni e treni. Ma quell’assetto era generalmente ritenuto inefficiente e costoso, tanto che quando nel 1905 le ferrovie furono nazionalizzate, il servizio migliorò considerevolmente. Adesso il sistema, di nuovo liberalizzato, è diventato più razionale? Solo in teoria. Perché rimangono le profonde differenze fra le linee; e vi si aggiungono ora quelle fra le Regioni, dal 1997 preposte alla gestione dei trasporti nei rispettivi territori. Nei fatti, la concorrenza si è realizzata solo sulle reti a più alta percorrenza, le uniche che, poiché servono una domanda molto ampia, hanno buoni margini di profitto. Le linee locali, invece, non sono profittevoli. Dovrebbero essere gestite come servizio pubblico, da sovvenzionare per garantire i necessari collegamenti interni: è evidente che la soluzione ai loro problemi non può essere la concorrenza, bensì il coordinamento, per ridurre i costi e offrire ai cittadini migliori servizi; ad esempio integrando trasporti su rotaia e su gomma, cioè i treni e i bus. Ma qui tutto dipende dalle Regioni. Fra crescenti difficoltà di bilancio, ogni Regione ha proceduto in modo autonomo e, come di norma, gli esiti sono stati differenziati. Così in Alto Adige e in Lombardia, o in Emilia-Romagna, si sono avuti tutto sommato buoni risultati, migliori che nel Meridione. Il divario Nord-Sud si è ulteriormente allargato. La nostra modernità non contempla tragedie di Antonio Scurati Ci siamo illusi di poter mettere fine a ogni incidente. Istintivamente collochiamo lo scempio in un luogo remoto

«Dov’è mia figlia, vi prego, fatemela vedere». Una madre barcolla tra le corsie di un ospedale terremotato dal disastro. Il suo mondo all’improvviso è finito. Spera con tutta se stessa nel corpo pulsante, nel sangue vivo da ferita, nella vita cruda e verde dell’infanzia, ma è a tal punto disperata che si sazierebbe anche del corpo morto. Purché gliela facciano vedere. Questo confine impalpabile tra la speranza più fervente e la disperazione più atroce, questa linea scritta a matita tra la vita e la morte, questo è quel che si dice “tragedia”. Solo quando si abbatte su di noi capiamo quanto, nel nostro tempo, la parola sia abusata. La impieghiamo per vegliardi trapassati nottetempo nel proprio letto, vi facciamo ricorso per nominare modesti danni patrimoniali causati da periodici crolli di borsa, la sprechiamo con vergogna perfino per un ottavo di finale perduto ai calci di rigore. Non vi è una sola creatura vivente che, alla fin della fiera, quando si arriva proprio in fondo in fondo, non sia un dilettante della morte. Eppure, noi che viviamo al principio del XXI secolo in Occidente, sul versante esangue della storia, sembriamo non raccapezzarci più, sembriamo quasi non capirla, o fingiamo di non saperlo più fare. Siamo diventati degli idioti della morte. Frastornati dalle centinaia di quotidiane stragi mediatiche, cinematografiche, televisive, internettiane, siano esse filmate da superbi registi, da telecamere di sorveglianza a circuito chiuso o da giovani madri e compagne sedute sul sedile del passeggero, e, al tempo stesso, gioco forza – bisogna pur continuare a vivere – sostanzialmente indifferenti a esse, quando veniamo raggiunti dalla notizia dell’ennesima morte di massa, perfino quando le sue immagini ci scorrono davanti agli occhi, ci smarriamo. Istintivamente collochiamo lo scempio in un altrove remoto. Iraq, Messico, Bangladesh, ci diciamo. Snoccioliamo i grani del rosario dello spettatore blasé della sofferenza altrui. Poi aguzziamo la vista e leggiamo con più cura la notizia: «Scontro di treni tra Andria e Corato». Allora cadiamo nel disorientamento totale. Ma come, ci chiediamo l’un l’altro increduli, il treno non era il mezzo di trasporto più sicuro? Ma come, protestiamo, una catastrofe in provincia di Bari?! Ecco che, allora, sommando in un rapido conto della serva tutte le recenti notizie di carneficine inattese sulla soglia di casa, ci scopriamo inermi, vulnerabili, esposti in ogni centimetro del nostro corpo alla minaccia violenta. Ecco che anche questa del 2016 diventa l’estate del nostro sgomento. E dimentichiamo che noi, donne e uomini nati in Occidente dopo la fine della seconda guerra mondiale, siamo il pezzetto di umanità più agiato, sano, longevo, florido, sicuro e protetto che abbia mai calcato la faccia della terra. Questo crampo mentale lo si deve, senz’altro, all’ingorgo psicologico prodotto dalle alluvioni di morti mediatiche. C’è, però, anche una ragione più profonda, più antica: siamo le vittime di una delusione epocale. Ad averci delusi è niente meno che la modernità. L’epoca che si era aperta sotto l’insegna delle magnifiche sorti e progressive, che si era impegnata a fondo in un progetto capillare di previsione e controllo, che si era votata all’ingegneria della società e del mondo, che si era lasciata guidare da rivoluzionari, profeti e statisti, che aveva venerato prima gli esploratori degli angoli sperduti del globo terracqueo, poi gli scienziati scopritori dei vaccini antipolio e sempre i poeti che ne avrebbero eternato le imprese, la modernità che aveva promesso la fine di ogni incidente. Ci ritroviamo, a valle di tutto questo, a idolatrare maestri del brodetto di pesce, a votare senza nessun entusiasmo modesti amministratori di condominio (nella migliore delle ipotesi) e a leggere di madri ipermoderne e iperistruite che, girata la ruota del progresso, arrivano nelle metropoli d’Occidente a non vaccinare i figli in ossequio ai ciarlatani d’internet. A un tratto, allora, in queste estati del nostro scontento, nonostante la razionalità delle scienze statistiche ci dica il contrario, ci sembra che l’insicurezza sia orbitale, la tragedia quotidiana, che tutto sia un incidente. Il premier, accorso sul luogo del disastro, ha promesso che «sarà fatta chiarezza». Benissimo. È una promessa in linea con quelle della modernità che ci siamo lasciati alle spalle. A patto che venga mantenuta. E per mantenerla c’è solo un modo: la serietà deve fronteggiare la tragedia, l’impegno di tutti deve sublimare lo sgomento, la lotta per migliorare il mondo deve sostituirsi allo sconforto di fronte al suo disastro. C’è solo un modo per liberarci dall’incubo lisergico dell’incidente totale. Prima piangere i morti con sincera compassione, sentire che sono morti al nostro posto sui sedili in similpelle di quel modesto treno di pendolari lungo la tratta tra Andria e Corato, e poi riprendere il progetto della modernità. Sentirci ancora parte attiva di quella severa, grandiosa impresa collettiva che si proponeva di mettere fine a ogni incidente. Un’impresa che non

avrebbe mai tollerato la sopravvivenza, nel luglio del 2016, di un binario unico sulla linea tra Andria e Corato. AVVENIRE Pag 1 Lo scandalo e il dolore di Domenico Delle Foglie Questa tragedia e il dramma del Sud Appuntamento con la morte tra gli ulivi della Puglia. Un tunnel verde argento, come si percepisce dalle immagini aeree, dentro al quale scorre quel maledetto binario unico che collega grandi città del Nord Barese con il capoluogo. Sono i treni dei pendolari, degli studenti e delle famiglie, quelli che si sono scontrati frontalmente. Treni utilizzati per spostarsi fra le grandi cittadine che, come grani di un rosario, si incontrano su questa linea ferroviaria interna. Treni locali. Treni del territorio. Treni delle periferie di Puglia. Come ce ne sono tanti nell’Italia profonda. La cronista impietrita dinanzi alle carrozze accartocciate trova solo la forza di ripetere le parole scolpite nel ricordo: «Dov’è Giuseppe? ». Le ha pronunciate uno dei tanti ragazzi che sono accorsi sul posto, in piena campagna, per sapere che fine abbia fatto il suo amico. Se è sopravvissuto alla tragedia. Forse oggi lo piangerà, come faranno tante famiglie pugliesi colpite da questo disastro ferroviario che ripropone in tutta la sua drammaticità le condizioni di un Sud che arranca sempre. Che è sempre più silenzioso, che per la gran parte dei media non fa notizia, se non per gli orrori delle mafie e per le rovine di ciò che resta del suo sistema industriale. E che può talvolta gioire solo perché è riuscito, come è accaduto per la Puglia, a promuovere meritatamente un’immagine di terra dell’accoglienza e del buon vivere. Tanto da divenire uno dei luoghi più ricercati per le vacanze, dagli italiani e dagli stranieri. Ma oggi la Puglia piange e con essa piange l’intero Paese. Il numero altissimo delle vittime è un tributo senza precedenti. Quando le agenzie di stampa hanno battuto le prime righe annunciando il disastro, non possiamo nascondere il dolore che ci ha scosso. Poi un sentimento misto di rassegnazione e di rabbia. Cosa possono aspettarsi oggi i meridionali? Abbiamo visto intere generazioni dei nostri figli andare via dalla nostra terra per cercare lavoro e futuro. E per chi resta la prospettiva è quella della precarietà, del lavoro nero, dell’arrangiarsi e del tirare a campare. Solo qualche giorno fa è stata diffusa la buona notizia del Pil meridionale che è tornato a crescere nel 2015 dell’uno per cento, dopo 7 anni di recessione. Un dato che ci ha rincuorato: non siamo perduti. Abbiamo resistito a questa lunga notte che ha distrutto, come una falce tagliente, il lavoro, l’impresa e la serenità delle famiglie. Ma lo Stato, in questi anni dov’era? Chi ha la fortuna di viaggiare sulle Frecce che collegano l’Italia che conta, dovrebbe sperimentare almeno una volta cosa significhi viaggiare nelle periferie del Sud. I ritardi strutturali ci sono, così come gli sprechi documentati da inchieste giudiziarie che hanno travolto l’altra grande società ferroviaria pugliese (Ferrovie Sud-Est) sull’orlo del dissesto e commissariata per cattiva amministrazione. Guai, però, se i meridionali – e con loro le classi dirigenti del Sud – scaricassero le responsabilità su altri. Lo Stato ha il dovere di esserci, di garantire gli standard strutturali, di concorrere alla programmazione, di verificare le condizioni generali di strutture strategiche per gli spostamenti dei cittadini. Sempre in condizione di sicurezza. Il binario ferroviario unico, nel 2016, è l’emblema di un mondo vecchio. Fermo. Cristallizzato nei propri ritardi. Un esempio per tutti: Matera, capitale europea della cultura 2019, è l’unico capoluogo italiano privo di collegamento ferroviario dello Stato. Le ferrovie Apulo-Lucane (altra linea interna) si fermano al borgo La Martella. Chi scrive queste righe oltre trent’anni fa denunciava questo «scandalo». Lo «scandalo» è sempre lì. Una città dalla memoria millenaria come la lucana Matera può diventare un faro culturale, ma per raggiungerla c’è solo la strada. E anche quella lascia (ancora) a desiderare. Quanto è tragicamente accaduto in Puglia deve suonare come una sveglia per tutti. Guai se dovessimo fermarci solo a piangere i nostri morti. Quando per decreto è stato illuministicamente eliminato l’Intervento straordinario nel Mezzogiorno, in tanti, meridionali compresi, si è brindato alla vera unificazione del Paese. A tanti anni di distanza, abbiamo poco da festeggiare. Il Sud è inchiodato, non solo alle proprie drammatiche responsabilità, ma anche alla propria arretratezza. Dalla scuola alle università, dalle ferrovie alle strade, dalle reti idriche alla banda larga. Alzare la voce e reagire è un dovere.

IL GAZZETTINO Pag 1 Errori umani e arretratezza tecnologica di Paolo Graldi Un fatto è certo, indiscutibile: non si può morire così. Mai, in nessun caso. Poi si cercheranno i responsabili, le colpe oggettive e soggettive, l’errore umano che s’annida nel gesto come un artiglio al veleno micidiale, la fragilità dei sistemi di sicurezza inopinatamente inaffidabili, pronti a cedere all’improvviso, senza premonizioni. Ventisette morti e cinquanta feriti (alcuni gravissimi) mentre si scava nella notte alla luce delle fotoelettriche in cerca di altre vittime, sperabilmente ancora in vita, sono un prezzo che supera di gran lunga ogni argine di comprensione. Non poteva e non doveva accadere che due convogli si scontrassero a cento all’ora frontalmente su un unico binario dov’erano messi per correre in alternanza, che le carrozze motrici si sbriciolassero l’una nell’altra formando una scena che soltanto l’abbattersi al suolo di un aereo ha saputo offrirci. Dolore, disperazione, rabbia. È quest’impasto di impotenza omicida, di insensatezza colposa, che ci mette di fronte ad una realtà inaccettabile. Ma la storia di questi binari, specie al Sud, è la versione sempre aggiornata e mai cambiata di un lembo di paese nel quale si ragiona ancora volgendo lo sguardo al cielo per invocare la benedizione del santo protettore. È accaduto forse perché doveva accadere quello sfracello di vite spezzate; e doveva accadere perché fatichiamo a convincerci che la scienza e la tecnologia non sono un lusso per pochi, per le saette dell’alta velocità che accorciano il paese a due ore e tre quarti, ma un bene disponibile da utilizzare per tutti, in tutti i casi, ovunque sia possibile e utile. E qui, tra Ruvo e Corato, vicino ad Andria lo era già progettato nelle carte ma stentava a diventare cantiere compiuto. Troppi chilometri, attraverso la campagna riarsa e arroventata, solcati da un solo binario malconcio, nero di ferraglia limata dalle ruote delle carrozze che portano pendolari e studenti su e giù e, adesso, anche chi va verso l’aeroporto di Bari, meta recente e portatrice di altri passeggeri. Un “fatto inspiegabile” il mantra recitato sulle interminabili dirette dal luogo del disastro dai responsabili della ferrovia privata. Inspiegabile proprio no. E, infatti, col passare delle ore, la verità si è lentamente fatta largo tra quelle lamiere sbriciolate, trappola micidiale da sciogliere anche con la fiamma ossidrica alla ricerca di un corpo prigioniero e magari ancora con l’alito della speranza di venir estratto da quell’inferno di latta e plastica, sbranate dall’urto spaventoso. I soccorsi, quelli sì, hanno funzionato bene. Immediati, tenendo conto del contesto quasi inaccessibile per vie normali. Una tenda ospedale per i primi soccorsi tirata su in fretta e bene, gli elicotteri impegnati in una spola contro il tempo nel portare i feriti negli ospedali, la corsa dei volontari per donare il sangue richiesto, altro segno della deflagrazione che ha inferto sofferenze speciali. Il presidente Mattarella esprime un cordoglio talmente profondo parlando di “tragedia inammissibile” e il premier Renzi, che vola a sera sul luogo per testimoniare di persona la vicinanza e il cordoglio del governo, reclama una “totale chiarezza” e la ministra Boschi ammonisce che “il governo non farà sconti a nessuno”, come se fosse aria di lasciar perdere. E’ un dolore che viene posseduto dalla rabbia questo, per tutti. Nell’Italia che aspira alla banda larga da Sondrio a Cefalù si scopre, ma aspettiamo conferma, che metà del traffico su un binario è affidato a una computer e l’altra metà al telefono sicché uno dei due macchinisti si è mosso e ha intrapreso il suo viaggio mentre doveva stare fermo ad aspettare che passasse l’altro, proveniente dalla parte opposta. Bene l’ovvia inchiesta amministrativa accanto a quella giudiziaria sorretta dalle ricerche dei periti ma bene anche uno slancio formidabile, uno scatto d’ira che si trasforma in orgoglio nazionale, per richiedere, senza sconti appunto, una inchiesta sullo stato delle ferrovie, in particolare delle linee periferiche, là dove le proteste per i disservizi e gli incidenti, per fortuna senza vittime, vengono archiviati come lamenti piagnucolosi ma senza fondamento reale. L’imprevisto e l’imprevedibile vanno drasticamente ridotti a numeri vicino allo zero e senza virgole. Lo strazio che ci ha coinvolto e che accompagnerà le prossime giornate di autentico lutto, con tutte le storie di dolore incancellabile che si trascinerà dietro dovrà almeno servire a imporre un patto con la realtà che dev’essere cambiata e presto. L’errore umano in agguato, la macchina infedele che tradisce gli ordini non bastano a consolarci, non cancellano i lutti, non alleviano il dolore. Un dettaglio convince più di ogni altro: si può. CORRIERE DEL VENETO

Pag 7 “La strage dei treni pugliesi? Qui non potrebbe accadere” di Martina Zambon Rfi e sindacati: binari unici, da noi c’è la tecnologia. Ma è un caso la Mestre – Adria Venezia. C’è chi parla di «maledizione del binario unico» commentando la tragedia ferroviaria di ieri nel Barese. E anche in Veneto, dove la Regione ha messo in moto la macchina della solidarietà anche per le donazioni di sangue, sono centinaia i chilometri di «binari semplici», elettrificati e non. Linee frequentate, come nel caso della Puglia, da migliaia di pendolari. Con una differenza sostanziale, però: in Veneto il 99% delle rotaie, gestite da Rfi, è dotato di sistemi di «protezione della marcia dei treni». Si tratta, per le linee secondarie dell’SSC (Sistema di Supporto alla Condotta) e di SCMT (Sistema Controllo Marcia del Treno) attivo sulle linee principali. Tradotto, un sistema combinato di boe a terra e di impianti sui treni permette al convoglio di frenare in automatico se si rileva un’anomalia qualsiasi, dal malore del macchinista alla presenza di un altro treno. Se i convogli che si sono scontrati in Puglia fossero stati dotati di questa tecnologia, si sarebbe evitata la catastrofe. In via di definizione una decina di anni fa, SSC e SCMT sono stati velocemente e capillarmente installati su tutta la rete gestita da Rfi subito dopo l’incidente ferroviario di Crevalcore che presentava molti punti in comune con il disastro di ieri. C’è chi ancora ricorda la sosta forzata alla stazione di Postioma per consentire il cambio assolutamente manuale lungo la Montebelluna-Treviso. Oggi però su questa e su altre linee a binario unico, la Vicenza-Schio, la Castelfranco-Calalzo, la Rovigo-Chioggia, la Rovigo-Isola della Scala o la Cittadella-Camposampiero, per citarne alcune, la sicurezza è garantita, fa sapere Rfi, da un attento piano di manutenzioni e dalle tecnologie più avanzate. Si attende, infatti, il completamento della linea ad alta velocità da Brescia verso Venezia per l’attivazione di un terzo sistema di sicurezza pensato per i treni che viaggiano a 300 km/h, quell’ERTMS (European Rail Train Management System) che per ora protegge solo le grandi direttrici. I pendolari veneti possono tirare un sospiro di sollievo anche secondo i sindacati. «Sicuramente il Veneto dispone di una tecnologia evoluta. – commenta Ilario Simonaggio che si occupa di infrastrutture per la Cgil - Il rischio zero, certo, non esiste ma il tema della sicurezza è sempre stato affrontato in modo adeguato e degno. L’ideale sarebbe avere doppi binari ovunque e l’eliminazione degli attraversamenti a raso ma la situazione veneta è mediamente buona». Resta quell’1% di rotaie a binario semplice, fra Adria e Mestre, gestito dalla partecipata regionale Sistemi Territoriali che, al momento, sul fronte sicurezza, può contare sul sistema «conta assi», in caso di pericolo la sala operativa viene allertata e procede ad avvisare il macchinista. «È un sistema vecchio – ammette il presidente Gianmichele Gambato – che stiamo provvedendo a sostituire. Stiamo appaltando in questi giorni i lavori di posa delle boe per l’SCMT mentre tutti i nostri treni sono già predisposti per dialogare col sistema di sicurezza automatico». I lavori dovrebbero essere ultimati entro agosto 2018 e costeranno 9,2 milioni di fondi comunitari. Ottimista sulla sicurezza dei treni veneti anche Federico Gitto dell’associazione Ferrovie a Nordest «con l’introduzione su vasta scala dei sistemi di sicurezza avanzati – commenta - tutti gli incidenti rilevanti sulla rete Rfi sono stati legati a momenti di manutenzione in cui l’automatismo viene depotenziato ma si tratta di casi molto rari. All’appello manca solo la linea Adria-Mestre, quella delle storiche littorine. Per molte piccole linee ferroviarie come la Ferrotramviaria di Bari, storicamente viste come una sorta di tramvie locali, il problema è proprio la sicurezza. Per altro, pare che proprio sulla linea dell’incidente si stesse per installare un sistema di sicurezza. Venivano chiamate “le concesse”, linee non assoggettate alle stesse norme di sicurezza di Rfi. Spesso di proprietà regionale e locale, hanno sempre potuto contare su finanziamenti minori e una minore sensibilità». LA NUOVA Pag 2 Viaggiatori di serie B in trincea di Angelo Di Marino Rischiare la vita ogni giorno. Come soldati in trincea. È così che si compie il destino di pendolari, studenti, famiglie che viaggiano sui treni locali in tutta Italia. Il disastro pugliese è, purtroppo, quello che giornalisticamente viene etichettato come “una tragedia annunciata”. Da anni le associazioni che raggruppano quanti salgono sui treni di

serie B segnalano disagi di ogni tipo, dalla sporcizia imperante nei convogli alla mancanza di sicurezza sulle linee, dalle stazioni fatiscenti all’impossibilità di acquistare il titolo di viaggio. Anche la normalità, come comprare il biglietto per salire a bordo, nel mondo di mezzo dei pendolari diventa fuori dall’ordinario. Per comprendere come si possa arrivare ad una sciagura come quella di ieri tra Andria e Corato, è forse necessario fare qualche passo indietro. Gli anni a ridosso della Seconda guerra mondiale sono risultati decisivi per il sistema ferroviario italiano. Negli anni ’20 e ’30 il regime fascista puntò molto sui treni, ma se i convogli arrivavano puntuali, come i gerarchi amavano sottolineare, aumentarono a dismisura le ore di lavoro di macchinisti e personale viaggiante. Il proliferare di stazioni e tratte fu un altro degli elementi caratterizzanti di quel periodo. Vennero le bombe e la rete ferroviaria fu distrutta al 60%. Dopo la Guerra furono necessari i soldi del Piano Marshall per ricostruire rotaie e locomotive, nel tentativo di restituire al Paese linee ferroviarie in grado di incentivare la mobilità interna. La politica, però, non guardava già più ai treni ma alle auto. Le incongruenze portate avanti a suon di stazioni e stazioncine non vennero sanate. In compenso, e siamo già negli anni Cinquanta, l’estensione complessiva registrò una progressiva diminuzione, a differenza di quanto avvenne con la rete stradale. In giro per l’Italia da Nord a Sud, isole comprese, rimasero attive linee secondarie quasi tutte non elettrificate. Vennero gli anni dei fondi razionati al trasporto su ferro e poi della famosa politica dei rami secchi. Nel nostro Paese ci sono intere tratte scomparse senza un perché e andate in disuso. È il caso della Sicignano-Lagonegro, per anni unico raccordo tra le zone interne del profondo Sud e il progresso, rappresentato dalla ferrovia per Salerno, Napoli e Roma. A tutt’oggi la linea non risulta soppressa ma i binari non esistono più e le stazioni sono tutte chiuse. L’ennesima incongruenza di un sistema che, in anni più recenti, si è sbilanciato ancora di più. L’Alta Velocità è sicuramente un’eccellenza, ma è anche l’unico modo per viaggiare in treno in Italia. Ci metti 60 minuti per andare a trecento all’ora da Napoli a Roma, poi impieghi almeno due ore per raggiungere Milano da Mantova con un regionale di Trenord. L’attuale sistema del trasporto su ferro è strutturalmente diviso in serie A (l’Alta Velocità) e serie B (tutto il resto). Peccato che gran parte dei viaggiatori salga proprio sugli inadeguati trenini locali dove certezze non ve ne sono molte. Non sempre sai quando si parte, si viaggia in piedi, schiacciati come sardine, perennemente in ritardo e in vagoni o troppo caldi o troppo freddi, a seconda della stagione. Ferrotramviaria, la società proprietaria dei due treni della morte, è una eccellenza in campo ferroviario locale e nulla ha a che fare con Trenitalia. Per le normative, però, non è sotto il controllo dell’Agenzia nazionale per la sicurezza delle Ferrovie, «unico soggetto tecnicamente indipendente rispetto agli operatori del trasporto su ferro», come scrive il Sole 24 Ore. Un organismo che vigila perché siano mantenuti i livelli di sicurezza sulla rete nazionale. Ma che sui viaggi di quei treni accartocciati non poteva vigilare. Per legge. E tra un sobbalzo e un sedile sventrato, i pendolari anche stamattina si sono rimessi in viaggio. Proprio come un esercito pronto a tutto. Anche alla morte. Torna al sommario 3 – VITA DELLA CHIESA IL FOGLIO Pag 2 Il Papa manda un americano (di peso) nella fabbrica dei vescovi di Matteo Matzuzzi Perché è importante il nuovo incarico di Cupich da Chicago Roma. "Penso che la scelta sia splendida", ha scritto il columnist del progressista National Catholic Reporter, Michael Sean Winters, commentando la nomina di mons. Blase Cupich, arcivescovo di Chicago, quale membro della congregazione per i vescovi. "Non penso di aver trascorso così tanto tempo al telefono con così tante persone in un giorno da quando Cupich fu mandato a Chicago, nel settembre del 2014", ha aggiunto. La scelta del Papa, in effetti, è di quelle che pesano e che aiutano a delineare i contorni della reale rivoluzione che Francesco sta conducendo nella chiesa, destinata a lasciare un segno ben più di quanto farà la divisione dei compiti tra dicasteri curiali circa la gestione e il controllo delle finanze vaticane. La congregazione è decisiva nella scelta dei

pastori che da Roma vengono mandati in giro nel mondo. Ne fanno parte una trentina di presuli che votano le terne di candidati che poi il cardinale prefetto, ora il canadese Marc Ouellet, porta sul tavolo del Pontefice, libero di scegliere tra i nomi indicati o di fare di testa sua. Ma più che far parte di una plenaria dove ogni testa vale un voto, la mossa conferma che le idee di Bergoglio sul profilo del pastore ideale sono ben chiare. "Designando Cupich, Francesco ha esteso il suo sforzo di dare un'impronta più moderatamente progressista alla congregazione per i vescovi e, più in generale, all'episcopato globale", ha scritto il sito americano Crux. Cupich diventa infatti l'interlocutore principale, "l'uomo del Papa" per le scelte dei vescovi negli Stati Uniti. Ruolo che è stato del cardinale Raymond Leo Burke, per anni rimasto il punto di riferimento nella scelta dei vescovi d'oltreoceano. Non a caso, il profilo dei presuli nominati nell'ultimo trentennio corrisponde a quello - così definito - del culture warrior, a pieno titolo inserito nella categoria del conservatorismo muscolare che ha caratterizzato la stagione wojtyliana e benedettiana. Già nove mesi dopo l'elezione, Francesco provvedeva a ribaltare l'organigramma della congregazione: se Ouellet veniva confermato, a perdere il posto era Burke. Al suo posto, in quota americana, il Papa nominava il cardinale Donald Wuerl, arcivescovo di Washington, tra i pochi porporati statunitensi esterni alla cerchia dei conservatori muscolari, come si è constatato anche dalle sue dichiarazioni nell' ultima assise sinodale (di cui era membro per la stesura del Documento finale), assai lontane dai toni apocalittici dei suoi confratelli contrari a ogni apertura in materia di morale familiare. Cupich è sulla stessa linea, come risultò subito evidente dopo la sua designazione (a sorpresa) quale suc cessore del cardinale Francis George sulla cattedra metropolitana di Chicago. Scelta fatta a insaputa del predecessore per un triennio presidente della Conferenza episcopale statunitense e tra i più influenti protagonisti della stagione delle culture wars. Una discontinuità lapalissiana, sebbene annunciata. Un punto di svolta che sarebbe stato confermato un anno più tardi dalle parole del Papa stesso, con il discorso pronunciato a Washington, dinanzi ai vescovi locali, nel settembre 2015. In quella circostanza, Francesco chiese agli astanti - senza troppo badare ad addolcire il contenuto del messaggio - di convertirsi all'umiltà e alla mitezza, di mutare prospettiva e modo d'agire nello spazio pubblico, perché "non poche sono le tentazioni di chiudersi nel recinto delle paure, a leccarsi le ferite, rimpiangendo un tempo che non torna e preparando risposte dure alle già aspre resistenze". La ricetta è di aprirsi al dialogo, che "è il nostro metodo", e di lasciar perdere lo scontro muscolare nella dimensione pubblica: "Il linguaggio aspro e bellicoso della divisione non si addice alle labbra del pastore, non ha diritto di cittadinanza nel suo cuore e, benché sembri per un momento assicurare un' apparente egemonia, solo il fascino durevole della bontà e dell' amore resta veramente convincente". Questo è lo schema proposto un anno fa, una richiesta di conversione pastorale che oggi, con la nomina di un vescovo non guerriero nella fabbrica che i vescovi li crea, è messa in pratica. Torna al sommario 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO AVVENIRE Pag 3 Gli scambi ad alta frequenza che “drogano” il mercato di Andrea Di Turi Dopo la crisi e i crac di borsa, “hft” alla fine? Il 6 maggio del 2010 è una data che gli operatori di Borsa di mezzo mondo, e non solo, non dimenticano. È passata alla storia come il giorno del ' flash crash', quando i mercati azionari statunitensi, e segnatamente l’indice Dow Jones, persero oltre il 10% in pochi minuti, per poi recuperare rapidamente nella stessa giornata. Un fatto quasi inspiegabile, almeno agli occhi del cittadino comune che forse ha ancora in mente, quando pensa alle dinamiche con cui funzionano i mercati finanziari, l’epoca delle grida, le contrattazioni che avvenivano a chiamata. Un fatto, però, che non passò inosservato a chi ha il compito di vigilare sul buon funzionamento dei mercati, come la Sec ( Securities and Exchange Commission) negli Stati Uniti o la Consob in Italia. I l sospetto, poi confermato dalle ricostruzioni, fu che in quel 'crollo' fossero pesantemente coinvolti gli operatori Hft (high frequency trading), il trading ad alta frequenza. La Consob, in un

discussion paper del 2012 (disponibile su www.consob.it), definisce l’Hft come una modalità di effettuare le negoziazioni che si basa sull’impiego di algoritmi che consentono di acquisire, elaborare e reagire alle informazioni di mercato con una velocità elevata (siamo nell’ordine dei millisecondi). Fra le caratteristiche che li contraddistinguono vi sono: l’utilizzo di sofisticati supporti informatici; l’elevato numero di ordini immessi nell’unità di tempo (anche diverse migliaia al secondo) e il pure elevato rapporto ' order-to-trade' (cioè tra gli ordini di compravendita immessi e quelli, di molto inferiori, effettivamente eseguiti); il fatto che le posizioni (di acquisto o di vendita) sono generalmente chiuse a fine giornata e nel corso della stessa il periodo medio di detenzione dei titoli è tra qualche secondo e alcuni minuti; gli esigui margini di profitto per singola transazione, che implicano elevati volumi di negoziazioni. Da parecchi anni le autorità di Borsa di diversi Paesi, fra cui l’Italia, hanno avviato riflessioni, e adottato i primi provvedimenti, preoccupate dalla possibilità che la diffusione nell’utilizzo di Hft possa influire negativamente sul buon funzionamento dei mercati. Anche perché in un decennio gli Hft sono diventati degli autentici mattatori: si stima intercettino tra il 20% e il 40% degli scambi sulle piazze finanziarie europee, più del 50% e per alcuni fino al 70% negli Stati Uniti. In un recente report di Deutsche Bank, però (' Highfrequency trading. Reaching the limits', consultabile su www.dbresearch.com), si prevede che per gli Hft i ' glory days', i giorni di gloria siano destinati a finire presto. Senza dimenticare che Deutsche Bank è stata appena indicata dal Fondo Monetario Internazionale come la banca, fra quelle mondiali di importanza sistemica, che 'sembra essere il più importante contribuente netto al rischio sistemico' (' Germany Financial System Stability Assessment', scaricabile da www.imf.org), alcune domande s’impongono: sarà vero che gli Hft sono sulla via del tramonto? E, in ogni caso, dobbiamo augurarcelo o meno, nella prospettiva di mercati finanziari meno rischiosi, più stabili e più capaci di accompagnare un reale sviluppo? A conforto delle sue previsioni, il report cita una serie di fattori concorrenziali: i costi delle infrastrutture di Hft sono sempre più elevati, la competizione è sfrenata, i margini di profitto si erodono. Soprattutto, però, si attende una stretta regolamentare, ad esempio con la Mifid 2, la nuova Direttiva Ue sui mercati degli strumenti finanziari che entrerà in vigore a inizio 2018. E che dovrebbe rendere un po’ più difficile la vita agli Hft, imponendo una serie di più stringenti requisiti, obblighi informativi, procedure, misure di disincentivo e limiti. Il che fa pensare che qualche valido motivo, per frenare gli Hft, ci sarà pure. Valeria Caivano, della Divisione studi della Consob, nel 2015 ha pubblicato uno studio che ha analizzato l’impatto dell’Hft sulla volatilità dei prezzi sul mercato azionario italiano tra 2011 e 2013: «Premesso – spiega – che il fenomeno Hft è così complesso da non essere esattamente misurabile, il lavoro mostra che un incremento del livello di attività degli Hft nel mercato può determinare un significativo incremento della volatilità dei rendimenti giornalieri dei titoli interessati. Il legame è bidirezionale: l’Hft sembra più redditizio in contesti di elevata volatilità; e la presenza di un gran numero di Hft può amplificare movimenti anomali dei prezzi. In condizioni di mercato estremamente incerte, poi (dopo la Brexit, per dire, o con le note tensioni in atto sul settore bancario, ndr), la diffusione dell’Hft può portare ad amplificare le pressioni ribassiste fino a generare situazioni di disordine negli scambi». La ritirata degli Hft paventata da Deutsche Bank, comunque, in Italia ancora non si registra. Anzi: l’ultima relazione annuale della Consob ha evidenziato come nel 2015 si sia verificata una crescita delle quote di mercato degli Hft dal 25,4% al 28,7% sul mercato azionario e dal 39,9% al 43,6% sui future sull’indice Ftse Mib (si arriva al 68,9% considerando i mini-futures). C’è chi sostiene che gli Hft garantirebbero maggiore liquidità sui mercati. Alfonso Scarano, consulente finanziario indipendente molto ascoltato quando si prova a far luce sulle aree grigie della finanza, risponde: «Non è liquidità vera – afferma – ma fittizia e pericolosa: può inondare il mercato quando non ce n’è bisogno e desertificarlo quando servirebbe. Gli Hft, poi, discriminano fra gli operatori dotati degli ingenti capitali richiesti per lo sviluppo di queste piattaforme, spesso posizionate a poche decine di metri dai computer su cui i mercati si svolgono (in co-housing, ndr), e gli altri. Inoltre, immettendo molti ordini che non vanno a buon fine, gli Hft occupano memoria e tempo di calcolo dei computer della Borsa, inducendo forti investimenti in infrastrutture informatiche. Che poi essi non contribuiscono a ripagare perché gli ordini effettivamente eseguiti (su cui si paga una commissione, ndr) sono pochi». Intuibile l’opinione che hanno degli Hft i protagonisti della finanza sostenibile,

che predilige orizzonti di medio-lungo periodo e un legame stretto con i fondamentali economici, che invece nel mondo Hft sembra a dir poco remoto: «Anche riguardo agli Hft – dice Andrea Baranes, presidente della Fondazione culturale Responsabilità etica (Banca Etica) – si ripropone il tema del principio precauzionale, che esiste per ogni prodotto che si immette sul mercato ma non in ambito finanziario. Si tenga conto, inoltre, che queste attività si svolgono anche su mercati alternativi a quelli regolamentati, come le 'dark pool' cui accedono i grandi investitori, il cui nome (pozze nere) la dice lunga sulla loro trasparenza. Come nel caso dei paradisi fiscali, occorrerebbe un coordinamento fra le authority internazionali, che però manca, per affrontare le aree grigie dove le legislazioni nazionali non arrivano». Oltre che dal punto di vista regolamentare, per porre un freno agli Hft si potrebbe poi lavorare in un altro senso: «Riteniamo – dice Francesco Bicciato, segretario generale del Forum per la finanza sostenibile – che si potrebbe incentivare la finanza sostenibile, i capitali 'pazienti' che dispiegano i loro effetti più positivi sul medio-lungo periodo, la finanza agganciata all’economia reale e che soprattutto tutela di più chi investe. Lo abbiamo fatto presente in un recente incontro al Parlamento europeo, dove in riferimento al piano d’azione Capital Markets Union della Commissione europea abbiamo sottolineato l’opportunità di inserire i criteri Esg (ambientali, sociali e di governance, ndr) come fattori strutturali di uno sviluppo armonico della finanza. Con cui gli Hft non sono compatibili: sono finanza per la finanza'. Tornando al cittadino comune, magari a questo punto un po’ disorientato, la domanda finale che potrebbe porsi è semplice: rispetto alla situazione che ha prodotto la crisi nel 2007-08, si è cercato di mettere un po’ le briglie alla finanza speculativa, Hft inclusi, e quindi ai rischi di una nuova crisi sistemica? A rispondere è ancora Scarano: «No – dice categoricamente –. I mercati di Borsa sono nati con la funzione di finanziare l’economia reale, ma sono diventati un’enorme bisca. Qui sta tutto il dramma: oggi la finanza sembra influenzare l’economia in modo molto negativo». Torna al sommario 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA LIBERO A Venezia. Musulmano va in chiesa e sfascia un crocifisso antico di Caterina Maniaci Entra in chiesa come una furia, comincia ad urlare: «C'è qualcosa di sbagliato, qui!» e vuole raggiungere l'altare. Non ce la fa e si è scaglia contro un bellissimo crocifisso del Settecento, tentando di farlo a pezzi. Succede a Venezia, nella chiesa di San Geremia, famosa anche perché ospita le spoglie di una santa importante, venerata in tutto il mondo: Santa Lucia. E' mattina, nella chiesa c'è il solito via vai: turisti, ma anche parrocchiani e molti bambini. Un giovane magrebino, a quanto pare appena arrivato dalla Francia in città, entra a San Geremia. Si guarda intorno e subito si dirige verso l'altare, gridando: «C'è qualcosa di sbagliato». Il custode, come poi racconterà, interviene e cerca di allontanare l'uomo. Il quale sembra acquietarsi e tornare verso l'uscita. Ma poi ci ripensa e si scaglia contro un grande crocifisso, urlando ancora, cominciando a scuoterlo con violenza. Allora il custode gli chiede: «Sei musulmano?». Lui risponde di sì e inizia a dare spinte all'immagine sacra. «Voleva scaraventarla a terra a tutti i costi». Alla fine, il crocifisso è caduto a terra prima che il custode riuscisse a fermare l'uomo: «Con l'aiuto di alcuni fedeli e turisti sono riuscito a bloccarlo ed evitare che facesse altri danni». Nella colluttazione il crocifisso cade: si frantumano alcune parti. Intanto vengono chiamati i carabinieri. Il custode poi racconterà, in un video postato sul sito del Gazzettino.it, che lui stesso ha gridato contro l'extracomunitario: «Ma cosa hai fatto? Ma perché? Se io fossi venuto nel tuo paese io avrei avuto rispetto per la tua religione, per Maometto». E rivolge uno sguardo accorato al Gesù dal braccio spezzato. I danni sono stati ingenti, infatti, e per restaurare l'opera ci vorrà molto tempo. Non si tratta di un episodio isolato, quello accaduto a Venezia. Casomai dell'ultimo, in ordine cronologico. Qualche mese fa, a Eboli, due marocchini hanno distrutto le statue di san Pio e della Madonna Immacolata. Molto scandalo, molta agitazione, tentativi di disinnescare la «bomba» del muro contro muro, musulmani contro cattolici, progetti di

pacificazione religiosa che hanno visto l'imam della comunità locale in prima linea, insieme a sacerdoti e sindacalisti. E poi ci sono gli episodi di profanazione legati a semplice, per così dire, vandalismo, idiozia di ragazzi che agiscono per puro sfregio. Ma ci sono anche le provocazioni gravi, quelle che portano a gruppi legati al satanismo. Il fatto che è gli episodi si moltiplicano, non solo in Italia. In Francia, ad esempio, le profanazioni di statue dedicate alla Madonna, e di tombe nei cimiteri cattolici, nel 2015 ci sono contati a decine. IL GAZZETTINO Pag 10 Venezia: marocchino entra in chiesa e getta a terra il crocefisso di Roberta Brunetti Uno squilibrato si è avventato su un crocefisso settecentesco e lo ha danneggiato, ieri, nella chiesa veneziana di Santa Lucia, in campo San Geremia. L’uomo - un marocchino 25enne, con permesso di soggiorno francese dal 2010, senza fissa dimora, né precedenti in Italia - è stato bloccato dal custode della chiesa, aiutato da altri turisti e parrocchiani. Sul posto sono intervenuti i carabinieri che lo hanno trasportato in caserma. Qui il giovane ha detto di essere musulmano, poi cristiano, infine di essere Jesus, figlio di Maria. Farneticazioni che hanno convinto a trasferirlo nel reparto di salute mentale dell’ospedale veneziano. Sarà denunciato per danneggiamento aggravato. A due passi dalla stazione ferroviaria, accanto alla sede Rai del Veneto, la chiesa di Santa Lucia, che conserva le spoglie della santa siracusana, è un luogo di grande passaggio. E ieri mattina la presenza di questo giovane, carico di bagagli, con una chitarra al seguito, non aveva preoccupato più di tanto. Fino a quando non aveva iniziato a prendersela con i crocefissi. «C’è qualcosa di sbagliato» ha ripetuto più volte, osservandoli. Prima ha cercato di superare la recinzione per raggiungere quello sull’altar maggiore. Bloccato dal custode, si è quindi avventato su quello più vicino all’ingresso. A quel punto è intervenuto il custode che, con l’aiuto di un paio di turisti inglesi, lo ha immobilizzato a terra. Nel parapiglia che è seguito, il crocefisso, alto oltre tre metri, è crollato a terra e un braccio del Cristo si è rotto. Ancora da stimare i danni subiti dall’opera che è stata subito ricollocata al suo posto, con il braccio penzoloni. IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag V Entra in chiesa, spezza un crocefisso di Roberta Brunetti San Geremia: ha finto di essere un turista e si è avvicinato all’altare: “C’è qualcosa di sbagliato” «C’è qualcosa di sbagliato» ripeteva fissando un paio di crocefissi. Poi si è scagliato contro quello più vicino: un manufatto ligneo del ’700, alto oltre tre metri. L’ha scosso, fino a farlo cadere, provocando la rottura del braccio del Cristo. Uno squilibrato ha fatto danni, ieri mattina, nella chiesa di Santa Lucia in campo San Geremia. Un giovane marocchino trasformatosi in una furia, fermato dal custode della chiesa, con l’aiuto di un paio di turisti e parrocchiani. Preso in consegna dai carabinieri, farneticava: si è dichiarato musulmano, poi cristiano, ha detto di essere "Jesus" figlio di Maria. Ora è ricoverato nel reparto di salute mentale del Civile. Sarà denunciato per danneggiamento aggravato. Tutto è cominciato attorno alle 10 e mezza di ieri. Il giovane, all’apparenza un turista, come se ne vedono tanti, si è accomodato in uno dei banchi della chiesa. «Aveva con sé alcuni bagagli e una chitarra - racconta il custode, Sandro Trevisan - Ha tirato fuori bottiglia e forchetta per mangiare. Io vedevo, ma cosa vuole, qui viene tanta gente, bisogna essere misericordiosi. Quando ha provato qualche nota con la chitarra ho pensato che dovevo intervenire». Ma le cose sono precipitate subito dopo, quando il giovane si è avvicinato all’altare: voleva entrare, nonostante la recinzione, indicava un crocefisso e diceva che c’era «qualcosa di sbagliato». A quel punto il custode lo ha allontanato ma lui si è avventato su un altro crocefisso, più vicino all’ingresso. Immediata la reazione del custode e degli altri presenti. «"Questo è sbagliato" ripeteva. Mi ha detto di essere musulmano e allora ho capito che dovevo bloccarlo» continua Trevisan. Ne è nato un parapiglia. Il crocefisso è caduto, un paio di turisti inglesi hanno dato una mano ad immobilizzare il giovane a terra. In aiuto è arrivato anche Paolo Puntar, esercente del campo, nonché Gran priore dell’Ordine di Santa Lucia, mentre

venivano chiamati i carabinieri. Il giovane è stato accompagnato in caserma a San Zaccaria. 25 anni, originario del Marocco, è risultato avere un permesso di soggiorno francese dal 2010, senza fissa dimora, non ha precedenti in Italia. Davanti ai militari, ha farneticato tanto che è stato disposto il suo trasferimento in ospedale. In chiesa, dopo il fatto, si respirava una certa preoccupazione. Il crocefisso è stato rimesso al suo posto, con il braccio che penzola. Non è ancora chiaro a quanto ammonterà il danno. Palpabile è invece il timore di poter essere il bersaglio di squilibrati o peggio. «Questa è una chiesa di gran passaggio - osserva il custode - vicina alla Stazione, vicina alla Rai. Un posto strategico per qualcuno che voglia fare clamore. Io mi aspettavo da tempo che sarebbe successo qualcosa». Aggiunge il guardian grando Puntar: «Le chiese non sono attrezzate per difendersi. E purtroppo ci sono momenti in cui si avverte la tensione di queste persone che entrano». Pag XI Sbandati, l’atto di accusa del parroco di Alvise Sperandio Via Piave, don Mirco Pasini: “Vicino alla chiesa siringhe, droga e profilattici. I parrocchiani si sentono abbandonati” Degrado totale. Se qualcuno pensa che la situazione di via Piave stia migliorando, chieda a don Mirco Pasini, il parroco di Santa Maria di Lourdes. Tutte le notti, ma ormai anche di giorno, il perimetro della chiesa e del patronato è una toilette a cielo aperto, dove gli sbandati fanno i loro bisogni a ogni ora senza alcun pudore. Sul sagrato, le fioriere che dovevano portare un abbellimento sono uno dei nascondigli della droga che i pusher distribuiscono in zona, mentre lo spazio retrostante, più lontano alla vista, è luogo dello spaccio e della prostituzione, con persone che consumano rapporti sessuali anche in strada. A farci un giro c'è da mettersi le mani nei capelli, come racconta il sacerdote che, tornato da una settimana di campo estivo con i ragazzi, si dice scioccato nel constatare il punto di sporcizia accumulata in meno di una settimana. «Amo la mia gente e la mia chiesa, perciò non mi voglio assuefare alla situazione - racconta don Mirco - Qui attorno è tutto un bivacco di senza fissa dimora che passano la giornata in strada lasciando di tutto, con ciò che ne consegue dal punto di vista igienico. I nostri bambini frequentano il patronato e capita che spesso trovino a terra persino delle siringhe e dei profilattici usati». Il quadro, insomma, è preoccupante e la tensione sale: «Conversando con i parrocchiani o nella visita agli anziani, emerge il problema della paura nell'uscire di casa e mi raccontano di spinte, scippi e imprecazioni gratuite. Si sentono abbandonati da tutti, avvertono che il territorio è in mano agli sbandati, a mendicanti professionisti, a spacciatori e protettori. In alcune zone continua la lotta tra etnie e questo si trasforma in schiamazzi notturni, lancio di bottiglie e aggressioni varie, recando seri problemi alla quiete pubblica», continua don Mirco. Il quale va all'attacco delle istituzioni: «I vigili urbani chiamati sul posto mostrano tutta la loro impotenza davanti a un progressivo degrado. In mia presenza sono rimasti in silenzio di fronte a un transessuale che dormiva su dei cartoni e che quand'è stato invitato a sgomberare e ripulire per tutta risposta li ha mandati a quel paese. Mi chiedo perché in centro storico gli agenti si impongono per far rispettare le ordinanze comunali di quello che evidentemente è il salotto veneziano, mentre nella terraferma che ancora è considerata periferia non fanno nulla? Perché esistono dei cittadini di serie A e di serie B, pur pagando tutti le stesse tasse, con i primi tutelati nel decoro urbano e i secondi lasciati a se stessi? C'è un'evidente disparità di trattamento che finisce per pesare sulla vita delle persone». Don Mirco conclude: «In canonica il campanello è di fuoco, sono in costante aumento le richieste di aiuto e soldi di tanti che, a loro dire rifiutati dalle istituzioni e dalle Forze dell'ordine, sono dirottati in parrocchia. Non sono forse delle priorità nelle responsabilità di chi amministra la città gestendo gli appositi servizi? La comunità cristiana di via Piave non si sottrae e risponde alle pressanti richieste e necessità che le giungono da ogni dove con rispetto e carità, ma rimane indignata davanti al silenzio e alla leggerezza degli uffici preposti nell'affrontare tutti questi problemi, che vediamo non risolti». LA NUOVA Pag 14 Entra in chiesa e spezza il crocifisso di Nadia De Lazzari San Geremia: 24enne marocchino denunciato per danneggiamento dopo la colluttazione con il sacrestano che voleva fermarlo. Qui sono custodite le spoglie di Santa Lucia

Da ieri c’è un braccio che penzola dal crocifisso della chiesa di San Geremia, dove sono custodite le spoglie di Santa Lucia. Il palmo resta attaccato alla croce grazie al chiodo, ma il braccio è staccato dal resto del corpo. Un’immagine violenta, di forte impatto, frutto di una colluttazione tra un giovane nordafricano e il sacrestano della chiesa, aiutato da alcuni turisti nel tentativo di bloccare il ragazzo prima dell’arrivo dei carabinieri e della successiva denuncia per danneggiamento. Un nordafricano. Sono le 10.30 di ieri quando un 24enne originario di Casablanca, Marocco, con permesso di soggiorno in Francia, entra nell'edificio religioso. Indossava un cappello, con sé portava alcuni borsoni, una chitarra e del cibo - una bottiglietta d'acqua, un bicchiere di plastica con anguria a pezzi, una forchettina, un tovagliolo di carta - appoggiati sopra l'ultima panca. Qui il giovane si siede: rimane così per oltre quindici minuti. Nel frattempo osserva i fedeli, i turisti, gli altari, i dipinti, le statue, i crocifissi. Il sacrestano. Il racconto di Sandro Trevisan, 69enne sacrestano, residente alla Giudecca, è preciso, dettagliato. «Mi trovavo sull'altare maggiore» spiega «Stavo pulendo e togliendo la cera. L'ho visto entrare, sedersi e appoggiare il cibo. Lavoravo e lo seguivo con lo sguardo. Non mi sono avvicinato per allontanarlo. Inizialmente quella persona mi ha fatto tenerezza. Ho pensato agli appelli di Papa Francesco sulla misericordia e ai nostri atteggiamenti che devono essere misericordiosi. Non conosciamo le storie del nostro prossimo. Mi sono detto: chissà da quale parte del mondo proviene. Ho pensato alla stanchezza, al caldo, alla disperazione». Successivamente il giovane uomo ha estratto dalla custodia la chitarra e ha strimpellato alcune note. Ed è sparito alla vista del volontario. Ad un tratto Trevisan ha sentito un rumore sordo. L’allontanamento. Il giovane aveva lasciato le sue cose vicino al banco, attraversato una navata, superato il confessionale diretto all'altare maggiore. Qui il giovane aveva già staccato il gancio d'ottone e gettato a terra la corda di protezione. Trevisan vedendolo improvvisamente là si è subito avvicinato dicendogli: «Guarda che qui non si può accedere». A quel punto il ragazzo ribatte, in italiano: «No, qua c'è qualcosa che non va bene». «No, qui va tutto bene» replica l’uomo. Ma il giovane si sposta e si dirige verso il grande crocifisso posto all'ingresso della chiesa. Il danno. «Ha iniziato a strattonarlo e toglierlo dal contenitore» racconta «È riuscito a tirare giù il Cristo, che si è spezzato un braccio. Allora gli sono saltato addosso per fermarlo. Immediatamente tre turisti inglesi, due uomini e una donna, hanno realizzato cosa stava succedendo. Altri turisti si sono bloccati dal terrore. Il giovane tirava il Cristo e noi quattro addosso a lui. È stata una lotta. L'abbiamo trascinato e bloccato». Dopo pochi minuti sono giunti i carabinieri che hanno controllato il contenuto dei borsoni e portato in caserma il giovane, dov’è stato poi denunciato per danneggiamento. Il 24enne è stato successivamente accompagnato in ospedale dov’è stato sottoposto a visita psichiatrica. Vigilanza necessaria. Trevisan ancora scosso dall'accaduto conclude: «Qui spesso ci sono furti di denaro e di candele ma è la prima volta che accade una cosa così violenta. Chiedo che la chiesa venga protetta. Purtroppo bisogna imparare a essere sempre più guardinghi e prudenti». La chiesa che si trova nel sestiere di Cannaregio è dedicata ai Santi Geremia e Lucia. La fondazione risale alla fine dell'XI secolo. Nel tempo per le condizioni statiche l'edificio religioso fu demolito e sostituito da una nuova fabbrica. Alla metà del XVIII secolo l'architetto milanese Carlo Corbellini progettò la nuova chiesa con pianta a croce greca a bracci simmetrici terminanti con un’abside semicircolare. I lavori iniziarono nel 1753 e terminarono nel 1871. La prima messa fu celebrata nel 1760. La chiesa di San Geremia ha fama internazionale perché custodisce le reliquie di Santa Lucia, la martire siracusana protettrice della vista venerata da cattolici e ortodossi. Ogni anno il 13 dicembre nella chiesa si riversano migliaia di fedeli. «Ne conto più di 25mila» racconta il parroco don Renzo Scarpa «Ognuno si avvicina al corpo di Santa Lucia. I fedeli pregano, toccano la teca di vetro e lasciano bigliettini». Quel giorno il pellegrinaggio inizia all'alba. La chiesa apre alle 4 e per tutta la giornata si susseguono le celebrazioni eucaristiche. Alcuni anni fa - era il 2014 - Santa Lucia fu traslata temporaneamente nella terra d'origine, Siracusa, con un volo speciale. L'aereo (Piaggio P180) decollò dall'aeroporto Marco Polo di Tessera. Il Patriarca Francesco Moraglia con un gruppetto di sacerdoti accompagnò le spoglie della martire. In quell'occasione il presule disse: «È bella e importante la vicinanza delle due Chiese sorelle, Venezia e Siracusa. Il pellegrinaggio va al di là e

guarda la Chiesa universale». Una curiosità: il sommo poeta Dante che soffriva di una malattia agli occhi era devoto alla santa e la rievoca nei canti della Divina Commedia. Risale al 1700 lo splendido crocifisso con parti dorate posto sopra una base di legno massiccio che ieri è stato danneggiato. Nella caduta si è spezzato completamente il braccio sinistro del Cristo che ora penzola dalla croce. «Questo antico crocifisso di legno ha un valore per noi inestimabile» ha fatto sapere il parroco «Per questo lo teniamo qui all'ingresso attorniato da tante candele sempre accese. Per attirare l'attenzione dei fedeli abbiamo anche messo molti pieghevoli e santini. Con quel parapiglia poteva andare in mille pezzi». Tra le altre opere artistiche custodite nella chiesa le statue San Pietro e San Geremia apostolo (datate 1798) di Giovanni Ferrari, e sullo sfondo l'opera monocroma a fresco di Agostino Mengozzi Colonna “Due angeli in atto di sostenere il globo”. Pregevole l'opera che appare sul quarto altare, “La vergine assiste all'incoronazione di Venezia fatta dal vescovo S. Magno” di Palma il Giovane. Opere scultoree di nota sono la “Madonna del Rosario” di Giovanni Maria Morlaiter e “L'Immacolata” di Giovanni Marchiori. CORRIERE DEL VENETO Pag 11 “E’ sbagliato, non è la verità questa”. Magrebino getta a terra il crocefisso di Eleonara Biral San Geremia: il custode tenta di fermarlo, preso dai turisti. Opera danneggiata Venezia. «Voleva attraversare la recinzione, diceva che c’era qualcosa che non andava bene e che avrebbe dovuto sistemare. Poi si è avvicinato al crocifisso e ha afferrato il chiodo in corrispondenza dei piedi». Sandro Trevisan, custode della chiesa dei santi Geremia e Lucia di Venezia, ieri mattina ha cercato invano di fermare un uomo che ha creato scompiglio all’interno della struttura danneggiando un crocifisso ligneo che risale al 1700. L’intervento di alcuni turisti di passaggio che lo hanno bloccato, trattenendolo a terra, ha permesso al custode di chiamare i carabinieri. L’uomo, un 25enne marocchino, è stato denunciato. È accusato di danneggiamento aggravato, visto che il Cristo in croce è rimasto senza il braccio sinistro e anche una delle mani dovrà essere riparata. Era la tarda mattinata quando il giovane, che secondo gli accertamenti eseguiti dai carabinieri del nucleo natanti di Venezia ha un permesso di soggiorno francese regolare ma sarebbe in Italia senza fissa dimora, è entrato nella chiesa di Cannaregio con fare sospetto. Dopo essersi guardato intorno per qualche minuto ha cercato di oltrepassare il cordone che delimita l’area in cui si svolge la messa, senza curarsi delle parole del custode che lo invitavano ad allontanarsi. «Qui c’è qualcosa che non va bene e che devo sistemare», continuava a ripetere. «Non capivo cosa volesse fare – racconta Sandro Trevisan - So che voleva attraversare il cordone, ma poi si è spostato avvicinandosi al crocifisso che era posizionato di fronte all’entrata». Il 25enne ha alzato la voce: «Qui c’è qualcosa di sbagliato – ha detto più volte - Ve la do io la verità, vi porto io la verità». «Ha afferrato il chiodo ai piedi del Cristo in croce e gli ho detto che non poteva toccarlo – spiega Trevisan -. Gli ho chiesto se era musulmano e mi ha risposto di sì». Il giovane ha cominciato a scuotere il crocifisso pronunciando parole come: «Questo non è il suo posto» fino a farlo cadere a terra, con il risultato che un braccio si è staccato e anche una mano è stata danneggiata. A quel punto avrebbe cercato di allontanarsi ma alcuni turisti che avevano assistito alla scena sono intervenuti e lo hanno bloccato. Lo hanno fatto stendere a terra, tenendolo fermo fino all’arrivo dei carabinieri che lo hanno portato in caserma. Qui non è andata meglio perché il 25enne avrebbe continuato a farneticare. Così la decisione di accompagnarlo all’ospedale di Venezia per sottoporlo a una serie di accertamenti di natura psichiatrica che ieri pomeriggio erano ancora in corso. I militari del nucleo natanti hanno informato la magistratura di quanto accaduto e nei confronti dell’uomo è scattata una denuncia. Anche perché il danno, trattandosi di un’opera del Settecento, da quanto si è appreso sarebbe piuttosto grave. L’opera ieri era stata posizionata al sicuro sopra alcune sedie in attesa della riparazione. Torna al sommario … ed inoltre oggi segnaliamo…

CORRIERE DELLA SERA Pag 28 La Cina, le isole contese e la spinta del nazionalismo di Sergio Romano La sentenza con cui il Tribunale arbitrale dell’Aia non riconosce alla Cina la sovranità sul banco di Scarborough nelle isole Spratly, al largo delle Filippine, non cambierà la linea politica di Pechino. La Repubblica Popolare non smetterà di rivendicare, contro i Paesi della regione, quasi tutti gli arcipelaghi del Mare Cinese meridionale. Continuerà a perlustrare le isole con le sue navi, ad allargare quelle più piccole con colate di cemento e, se possibile, a costruirvi aeroporti. Si dice che queste zone marittime siano ricche di petrolio e che la Cina non voglia rinunciare a una importante risorsa naturale; ma vi sono stati momenti in cui le sue rivendicazioni, nelle dispute con le Filippine, il Giappone, la Malaysia e il Vietnam, sono state meno insistenti e bellicose. Esiste quindi una ragione politica per cui questi arcipelaghi siano oggi più importanti del passato? Esiste ed è, probabilmente, la morte del comunismo. La Repubblica si chiama ancora Popolare, è sempre governata da un partito comunista e stampa moneta su cui è riprodotto il volto di Mao Zedong, il Grande Timoniere. Ma da molti anni ormai ha smesso di giustificare la dittatura del partito unico con i classici argomenti degli eredi di Marx e di Engels. Non è iscritto sul suo stemma nazionale, ma il motto della Cina d’oggi è quello dell’invito rivolto da François Guizot ai francesi di Luigi Filippo e ripreso da Deng Xiaoping nel corso di una famosa ispezione a Shenzhen, nei pressi di Hong Kong, il 18 gennaio, 1992: arricchitevi. Peccato che arricchirsi sia diventato oggi meno facile di quanto fosse negli anni in cui il Prodotto interno lordo della Repubblica Popolare cresceva ogni anno di una percentuale superiore al 10%. Il Paese ha attraversato in questi ultimi anni una lunga fase in cui la crescita del Pil è stata molto più modesta, le rivendicazioni salariali sono diventate più frequenti, molti villaggi sono insorti contro l’esproprio delle terre coltivabili e gli scandali hanno rivelato l’esistenza di una classe politica sfacciatamente corrotta. Xi Jinping, segretario generale del partito e presidente della Repubblica Popolare, lo sa e ha colpito duramente alcuni esponenti della gerarchia del regime. Ma non sappiamo quanto le sue purghe abbiano inciso sulla diffusione del fenomeno. In questa situazione il nazionalismo, mai veramente scomparso, è diventato il surrogato del comunismo, il solo collante che possa tenere insieme questo sterminato Paese. Come ogni nazionalismo anche quello cinese vive di antiche glorie, ricordi dolorosi, ingiustizie subite e umiliazioni sofferte. Le carte geografiche, nelle aule delle scuole cinesi, rappresentano l’Impero cinese al punto massimo del suo sviluppo. I testi scolastici ricordano le ingiuste guerre dell’oppio scatenate dalla perfida Inghilterra contro il debole Stato cinese, le concessioni con cui le potenze europee si appropriarono dei porti più importanti, i massacri giapponesi di Nanchino nel dicembre 1937. E le isole, benché lungamente trascurate da tutti, ricordano gli anni in cui i mari della Cina erano percorsi soltanto da flotte straniere. Non è probabile che la Cina, in questo momento, ricerchi deliberatamente l’occasione di un conflitto. Nei suoi rapporti con gli Stati Uniti, con il Giappone e con Taiwan ha sempre fatto, al momento opportuno, un passo indietro. Ma converrà ricordare che esiste un rapporto fra la politica estera della Cina e le sue condizioni economiche e sociali. Speriamo che i cinesi continuino ad arricchirsi. Pag 29 Per Renzi è troppo rischioso rinunciare alla guida del Pd di Gianfranco Pasquino Partito e governo Da qualche tempo, la/le minoranza/e del Partito democratico (neanche al plurale sembrano essere consistenti) battono su un tasto politico-istituzionale che considerano molto importante: la separazione fra la carica di presidente del Consiglio e quella di segretario del Partito democratico. La coincidenza delle due cariche sta nello Statuto del Partito democratico, sostenuta da alcune buone ragioni. La prima è che questa coincidenza è la norma in moltissime democrazie parlamentari alle quali, per una volta, si è guardato apprezzabilmente. La seconda è che molti ricordano che il segretario della Democrazia cristiana era il primo sfidante del presidente del Consiglio democristiano, sfida molto spesso coronata da successo. Terzo, che la sfida nascesse dai fatti e non dalla natura della Dc e dalle diffuse capacità manovriere di quelle mobili correnti,

apparve chiaro quando, completata la cavalcata iniziata al Lingotto, Veltroni divenne il primo segretario del Partito democratico nell’ottobre 2007. Avendo reso pubblico il suo programma di governo, non un progetto di partito, Walter Veltroni divenne lo sfidante di Romano Prodi che cadde quasi subito. Quanto a Matteo Renzi, prima, dicembre 2013, ha vinto la carica di segretario del Partito democratico. Poi, febbraio 2014, proprio in quanto segretario del Pd fu nominato dal presidente Napolitano a capo di un governo molto più «politico» di quello guidato da Enrico Letta. Sono fragili le motivazioni in base alle quali le minoranze vorrebbero che Renzi rendesse disponibile la carica di segretario. Lamentano che Renzi dispone di un potere eccessivo, rispetto a che cosa: alla sua abilità di svolgere entrambi i compiti? Renzi si occupa del governo, ma non ha trovato né il tempo né il modo di occuparsi del partito. Essendoci due vicesegretari, è anzitutto a loro che bisognerebbe chiedere conto dello stato del partito. Forse apprenderemmo che neppure loro hanno fatto granché, ma che la latitanza dipende dalla visione che Renzi ha del partito. Non è interessato alla presenza sul territorio, all’elaborazione politica, alle strutture, alle donne e agli uomini iscritti perché vogliono partecipare attivamente a un’impresa collettiva. Renzi scommette che il suo modo di governare si rifletterà positivamente sul partito, quantomeno sul «partito nell’elettorato». Renzi non crede, al contrario di molti dirigenti per lo più rottamati, ma anche di molti studiosi, che la presenza organizzata di un partito, il buon funzionamento delle sue strutture, la vivacità (contrapposta al conformismo) del suo gruppo dirigente produrrebbero conseguenze apprezzabili sulla percezione e sull’azione del governo. Temendo la sfida di un eventuale segretario successore, Renzi non intende affatto rinunciare al doppio ruolo. Cercando di fare breccia nei dirigenti del Pd che nutrono qualche preoccupazione, le minoranze hanno fatto circolare l’idea del loro ticket con un candidato alla presidenza del Consiglio post Renzi e un candidato alla segreteria del partito. La mossa tattica è interessante, però, nulla lascia pensare che quel segretario seguirà il «suo» presidente del Consiglio senza sentirsi già incanalato nella carriera che conduce a Palazzo Chigi. Quello che riguarda non solo la parrocchia del Partito democratico, ma il Paese, è che la soluzione non danneggi l’azione del governo. Messi da parte gli strumenti, vale a dire le promesse di carriera nel partito e nelle istituzioni, che producono ossequio e conformismo, magari riconoscendo esclusivamente agli iscritti il potere di eleggere il loro segretario, il Partito democratico riuscirà a diventare più dinamico e più democratico, di una democrazia che non si misura con il numero e la frequenza delle riunioni né con la lunghezza dei dibattiti. AVVENIRE Pag 8 Islam in Italia: “Dialogo e regole chiare per una via sostenibile” di Imam Yahya Pallavicini «No agli imam fai da te, sì invece a nuove figure di religiosi islamici consapevoli del loro ruolo pubblico», disposti a rispettare determinate regole. È quanto emerso da un incontro tra il ministro dell’Interno, Angelino Alfano, e le maggiori associazioni islamiche in Italia, che l’altro giorno hanno approvato un documento in tal senso. Ieri 'Avvenire' ne ha dato conto. Oggi ospitiamo l’intervento dell’imam Yahya Pallavicini. Quali criteri e quali rischi nella formazione degli imam d’Italia? A questa domanda sul ruolo dei ministri del culto islamico cercheremo di rispondere nuovamente questa settimana al Viminale in una riunione con il ministro dell’Interno Angelino Alfano. In effetti molto dipenderà da quale funzione si vorrà attribuire agli imam d’Italia: quella di semplici predicatori o quella di referenti teologici in grado di agevolare l’orientamento dei musulmani tra fede e ragione, e tra diritti e doveri della cittadinanza? Coloro che preferiranno limitare l’importanza dell’imam riducendolo a quella di un 'diacono', vale a dire di una persona che si presta al servizio religioso senza assumere una responsabilità e autorità di rilievo, opteranno per concentrare il 'potere' di amministrazione delle moschee e delle associazioni religiose ai dirigenti, relegando gli imam a una esclusiva funzione di predicazione. In questo caso, la loro formazione sarà più semplice dovendo riguardare solo le basi della dottrina e una conoscenza sommaria del contesto culturale e sociale dell’Italia contemporanea. Ridimensionando l’autorevolezza dell’imam, rimarrà però l’esigenza di accreditare e formare gli amministratori, i gestori italiani dei centri

islamici, affinché questi ultimi diano garanzie di trasparenza e responsabilità nella loro funzione di principali referenti per il culto islamico in Italia. Infatti il modello islamico è ben diverso da quello del cristianesimo, dove l’autorità religiosa è gerarchicamente distribuita tra i ministri di culto, ma è forse più vicino a quello della moderna comunità ebraica, che ha maturato una relazione tra laicità e rabbinato nel pieno rispetto e collaborazione di ruoli e priorità differenti nei rapporti istituzionali e confessionali. In questo caso, l’attenzione si sposterebbe sul riconoscimento di interlocutori affidabili e non sulle qualificazioni dottrinali. Tutto ciò potrebbe complicarsi se le varie associazioni islamiche, storicamente presenti a livello locale o nazionale, pretendessero ancora, ognuna contro l’altra, un’egemonia o un’esclusiva, riflettendo in tal modo l’atteggiamento tipico di un certo nazionalismo panarabo e di un certo fondamentalismo panislamico. In attesa di affrontare e superare questa prova di maturità generale, appare interessante il lavoro di formazione di una nuova generazione di imam d’Italia che, oltre a svolgere il ruolo di servizio da 'diaconi', possano ricevere competenze e fare esperienze da 'parroci', vale a dire da referenti spirituali di un luogo di culto inteso come centro religioso per la preghiera ma anche per il dialogo, l’educazione, l’assistenza, l’integrazione, la mediazione culturale nella città e nel quartiere. A mio avviso è verso questo orizzonte che le attenzioni delle istituzioni dovrebbero volgersi: la lungimiranza di non creare un artificioso confine tra amministratori e ministri di culto, confine che rischia di dividere ulteriormente il gioco di potere interno tra associazioni, ideologie e interpretazioni nazionali ed etniche. Occorre piuttosto investire per un naturale adattamento del modello tradizionale islamico al contesto italiano, che non preveda alcuna clericalizzazione formalista. Questa pista avrebbe anche il merito di distinguere – in un albo ufficiale di ministri di culto proposti dalle varie associazioni islamiche riconosciute in Italia – i referenti, secondo la loro giurisdizione regionale, che possano essere autorizzati a svolgere non solo la predicazione durante la preghiera comunitaria del venerdì e nelle principali festività religiose, ma anche l’assistenza spirituale negli ospedali, nelle carceri e nei cimiteri, nelle funzioni strettamente religiose legate alla nascita, alla istruzione spirituale e al matrimonio o divorzio dei coniugi musulmani, il tutto nel dovuto coordinamento preventivo con le prefetture locali e, all’occorrenza, con i rappresentanti della Conferenza Episcopale Italiana e delle altre confessioni religiose. Per i ministri di culto dell’islam italiano si profila una via sostenibile e virtuosa con regole chiare, per svolgere con autorevolezza la propria funzione spirituale in coordinamento con i referenti della rappresentanza islamica. La via del dialogo che può arginare la corruzione di una minoranza di speculatori disonesti che con il sacro e il bene comune non hanno mai avuto nulla a che fare, tanto meno 'in nome dell’islam' né in nome di Dio. Pag 22 Bauman: contro l’Europa del sospetto di Fulvio Scaglione Saranno le migrazioni e decidere il destino dell’Europa? La domanda, che sarebbe parsa avventata solo poco tempo fa, domina oggi il dibattito politico come le discussioni quotidiane. Il referendum sulla Brexit è stato in gran parte giocato su questo tema. E così anche la campagna elettorale per le elezioni presidenziali austriache, che la Corte Costituzionale ha deciso di far ripetere. Due momenti di scelta che hanno spaccato a metà Gran Bretagna e Austria e hanno di colpo rivelato la precarietà dell’assetto istituzionale comunitario. È quindi di straordinaria attualità il convegno “La nuova Europa: migrazioni, integrazione, sicurezza” che domani porterà a Roma, durante l’East Forum 2016, una serie di personalità della più diversa estrazione ma di comune autorevolezza. Dal ministro degli Interni Alfano al presidente di Unicredit Giuseppe Vita, dal Procuratore nazionale antimafia Franco Roberti a Romano Prodi, da Ismail Yesil (presidente dell’Agenzia per le situazioni d’emergenza del governo turco) a Giuseppe Scognamiglio, direttore della rivista EastWest. Sul tema delle migrazioni abbiamo voluto sentire il professor Zygmunt Bauman. Sociologo e filosofo, è il più acuto studioso della società postmoderna e ha raccontato in pagine memorabili l’angoscia dell’uomo contemporaneo, trasformatosi da produttore in consumatore. La sua metafora della “società liquida” (in cui l’individuo è sempre più costretto ad adeguarsi ai comportamenti dei gruppi per non sentirsi escluso) è ormai diventata proverbiale. Nato in Polonia da genitori ebrei, Bauman conobbe da ragazzo l’esperienza della fuga davanti alla persecuzione e dell’esilio. Forse anche per questo il suo punto di vista sull’incontro-

scontro tra migranti ed Europa è originale e contro corrente. «Oggi si fa spesso confusione tra fenomeni assai diversi», dice Bauman. «Uno è l’emigrazione-immigrazione, da un luogo verso un altro luogo. Tutt’altra cosa è la migrazione: che muove da un luogo, certo, ma verso dove? I due fenomeni hanno radici molto diverse ma effetti molto simili, perché simili sono le condizioni psicosociali dei luoghi di approdo. Umberto Eco, ben prima dell’attuale panico da migrazioni, notò nei suoi Cinque scritti morali che l’immigrazione può essere controllata, limitata, pianificata o accettata, mentre questo non è il caso delle migrazioni. Come tutti i fenomeni naturali, le migrazioni non possono essere controllate. Eco si faceva allora una domanda cruciale: è ancora possibile distinguere l’immigrazione dalla migrazione, quando l’intero pianeta sta diventando teatro di un incessante spostamento incrociato di popoli? E si rispondeva: l’Europa diventerà un continente multirazziale o “colorato”, che ci piaccia o no». Secondo molti studi, per esempio quelli del Pew Research Center di Washington, oggi gli europei sono i più ostili ai migranti. Come si spiega questo, in un continente che nel passato anche recente ha mandato migranti in tutto il mondo? «Oggi gli europei hanno paura del futuro, hanno perso la fiducia nella capacità collettiva di mitigarne gli eccessi e renderlo più amichevole. La parola “progresso”, che ancora usiamo per inerzia, evoca emozioni opposte a quelle che sentiva Immanuel Kant quando coniò il termine. Il pensiero del futuro, oggi, desta in noi più spesso l’idea di una catastrofe imminente che non quella di una vita più confortevole. E lo straniero rappresenta tutto ciò che di instabile e imprevedibile c’è nella nostra vita. Per questo guardiamo ai migranti come a un segno visibile e tangibile della fragilità del nostro benessere e delle sue prospettive. Come direbbe il filosofo Michael Walzer, è sempre in primo luogo contro gli stranieri che i residenti di un quartiere “si organizzeranno per difendere le loro politiche e culture locali” e proveranno a trasformarlo in un “piccolo Stato”. Però è assai difficile, per non dire impossibile, costruire uno Stato futuro libero da stranieri. Quindi l’immagine guida di questo sforzo viene quasi sempre recuperata dal passato. Il passato com’era ma, ancor più spesso, come può essere immaginato: tutto “nostro”, senza sfumature, non ancora intaccato dall’importuna vicinanza degli “altri”. È la reazione tipica della politica che, quando perde la capacità di dar forma al futuro, tende a trasferirsi nello spazio della memoria collettiva, che può essere facilmente manipolata e dà una sensazione di beata onnipotenza. È un’illusione? Sì, certo. Ma è un’illusione che tiene a galla un numero sempre crescente di noi europei». Eppure per giustificare l’ostilità nei confronti dei migranti si adducono questioni economiche. In sostanza: non abbiamo i soldi per accoglierli. «Le ragioni psicosociali e culturali vengono travestite da ragioni economiche per renderle più “razionali” e quindi “politicamente corrette”. Le ricerche più serie mostrano che gli immigrati contribuiscono alla ricchezza del Paese d’arrivo più di quanto prendano in termini di servizi sociali. Altri studi, oltre alle conclusioni del comune buonsenso, mostrano che la diffidenza nei confronti di immigrati e migranti è maggiore laddove ce n’è un numero minore. Nella campagna referendaria per la Brexit i residenti delle aree con meno immigrati hanno votato per portare la Gran Bretagna fuori dall’Europa. Londra, città di infinite diaspore culturali ed etniche, ha votato per restare. Il sospetto quindi è che l’ostilità verso gli “alieni” sia generata soprattutto dal non avere avuto l’opportunità di sviluppare la capacità di interagire con le differenze. Mancando questa, è facile che gli stranieri diventino il simbolo delle forze, reali ma lontane e ignote, che regolano l’andamento del mondo e generano quel sentimento di precarietà che angoscia tanti europei». L’Europa e altre parti del mondo si stanno riempiendo di muri. Non è straordinario che di fronte a fenomeni così complessi ci si affidi a strumenti così primitivi? «Viviamo la crisi della separazione tra potere e politica: i poteri si affrancano dal controllo della politica e la politica perde così il più importante tra i presupposti per produrre azioni effettive. Ma sopra questa crisi ce n’è un’altra, l’incongruenza segnalata dal sociologo Ulrich Beck: viviamo già in una condizione cosmopolita di interdipendenza e scambio a livello planetario, ma la nostra consapevolezza cosmopolita è ancora ai primi vagiti. Il sociologo americano William Fielding Ogburn nel 1922, in piena epoca colonialista e imperialista, coniò l’espressione “ritardo culturale” per descrivere il disagio dei “selvaggi” che erano esposti a una forte pressione verso la modernizzazione ma erano ancora innocenti rispetto alla mentalità moderna. È come se oggi fossimo noi

europei a portare il bastoncino nella corsa a staffetta tra i continenti, il che genera ansia. Il mercato, sotto forma di merci e di beni, ci offre un’ampia gamma di antidepressivi e anti-tutto. Vuole spingere ognuno di noi a ritagliarsi una piccola nicchia consolante e ben attrezzata. Ognuno per sé e gli altri si arrangino. Così ci accecano rispetto alla natura del nostro problema invece di aiutarci a sradicarne le cause». E per aiutare la gente, invece, ad aprire gli occhi? «C’è una personalità assai determinata nel sollevare certe questioni, ed è papa Francesco. Che lo fa, peraltro, senza pretendere di avere la bacchetta magica ma, al contrario, invitando a fare sforzi giusti ma che potrebbero anche fallire. C’è un passo del discorso che tenne il 6 maggio 2016, al conferimento del Premio Carlomagno, che andrebbe imparato a memoria: “Se c’è una parola che dobbiamo ripetere fino a stancarci è questa: dialogo. Siamo invitati a promuovere una cultura del dialogo cercando con ogni mezzo di aprire istanze affinché questo sia possibile e ci permetta di ricostruire il tessuto sociale. La cultura del dialogo implica un autentico apprendistato, un’ascesi che ci aiuti a riconoscere l’altro come un interlocutore valido; che ci permetta di guardare lo straniero, il migrante, l’appartenente a un’altra cultura come un soggetto da ascoltare, considerato e apprezzato. È urgente per noi oggi coinvolgere tutti gli attori sociali nel promuovere una cultura che privilegi il dialogo come forma di incontro, portando avanti la ricerca di consenso e di accordi, senza però separarla dalla preoccupazione per una società giusta, capace di memoria e senza esclusioni (Evangelii gaudium, 239). La pace sarà duratura nella misura in cui armiamo i nostri figli con le armi del dialogo, insegniamo loro la buona battaglia dell’incontro e della negoziazione”. Papa Francesco vuole sottrarre le sorti della pacifica convivenza ai politici di professione e al reame oscuro della politica per portarle nelle strade, tra i negozi e gli uffici, negli spazi pubblici dove noi tutti ci incontriamo. Vuole affidare le speranze del genere umano non ai generali dello “scontro di civiltà” ma a noi soldati semplici della vita quotidiana. Perché questo accada, però, devono realizzarsi anche altre condizioni e il Papa ce le ricorda: “La giusta distribuzione dei frutti della terra e del lavoro umano non è mera filantropia. È un dovere morale. Se vogliamo pensare le nostre società in un modo diverso, abbiamo bisogno di creare posti di lavoro dignitoso e ben remunerato, specialmente per i nostri giovani. Ciò richiede la ricerca di nuovi modelli economici più inclusivi ed equi, non orientati al servizio di pochi, ma al beneficio della gente e della società. E questo ci chiede il passaggio da un’economia liquida a un’economia sociale”. Ho una sola parola da aggiungere: amen». Pag 23 La religione nelle serie tv non fa fede di Andrea Fagioli Del controverso rapporto tra serie tv e religione c’è da qualche settimana stampata nella mente di molti telespettatori un’immagine simbolo. È nella parte conclusiva di Gomorra 2, quando Malammore, sicario di fiducia del boss Pietro Savastano, bacia il Crocifisso che porta al collo e poi spara a sangue freddo alla piccola figlia di Ciro Di Marzio. Terrorizzata, la bambina si rannicchia nel sedile posteriore dell’auto. È un’esecuzione spietata nel nome, o quantomeno nella “giustificazione”, per assurdo, di Colui che ha dato la vita per la salvezza degli altri. La serie ispirata ai romanzi di Roberto Saviano è piena di simboli religiosi. Lo stesso finale, dopo l’uccisione della ragazzina, avviene con la vendetta di Ciro all’interno del cimitero dove Pietro si è recato per parlare (letteralmente) alla moglie morta. In questi uomini spietati c’è dunque il culto e il rispetto dei morti. Pietro, infatti, è andato nella cappella di famiglia per spiegare alla consorte defunta che non ce la fa più a vivere da solo e quindi chiede una sorta di permesso al riaccompagnarsi con un’altra donna. Poco dopo, invece, è costretto ad accettare la morte. Lo farà con dignità, togliendosi gli occhiali e pronunciando la frase: «A’ finè ro’ juorno sta tutta ca’». Criminalità e quotidianità, anche religiosa, vanno di pari passo. I camorristi hanno le case piene di immagini sacre di fronte alle quali si fanno il segno della croce. A tavola non si fuma e si dice la preghiera prima di iniziare a mangiare. In questo senso Gomorra, più che strumentalizzare la religione, cerca di rappresentare un ambiente reale le cui caratteristiche si capiscono bene da quanto narrato dal gesuita padre Fabrizio Valletti, superiore della comunità di Scampia e responsabile dell’omonimo progetto. «Percorrendo le strade del quartiere si potrebbe pensare – racconta Valletti – che la popolazione viva una diffusa religiosità. In ogni

raggruppamento di palazzi si incontrano edicole sacre o sculture con tanto di tempietto sovrastante. Anche nei cortili, negli androni, nei pianerottoli è un susseguirsi di immagini, di altarini, illuminati e sempre decorati con fiori. Se si considera che la maggior parte di queste immagini sacre è stata posta per iniziativa delle famiglie che controllano le piazze dello spaccio, viene da pensare che ci sia un legame fra la cultura della camorra e questa ostentazione di pietà religiosa». Padre Valletti la individua nell’ipotesi di una «continuità simbolica fra l’affermazione del “protettore” malavitoso e la richiesta di protezione divina». Fatto sta che «la religione impregna la camorra»: «Gli uomini d’onore dei clan reinterpretano il messaggio cristiano a loro modo, così che questo, nella loro personalissima concezione, non possa essere considerato in contraddizione con l’attività camorrista ». In poche parole «il clan che finalizza le proprie azioni al vantaggio di tutti gli affiliati considera il bene cristiano rispettato e perseguito dall’organizzazione». Rapporto controverso evidente, che la serie televisiva di Gomorra ripropone più che interpretare. Non è così per altre serie, soprattutto per quelle straniere. Ma anche per altre italiane. Un piccolo, ma significativo esempio, ci viene dal recente Dov’è Mario? con Corrado Guzzanti. In questo caso la religione è irrisa con lo sketch volgare sulla suora protagonista della pubblicità dell’ipotetico medicinale Scurè o con la badante di Mario che tira fuori dalla borsa la statuina di una Madonna e la moglie di Mario che spiega come in quella casa non siano molto religiosi, ma se alla donna avesse fatto piacere avrebbero messo un Crocifisso nella sua camera. «Solo Lei – replica la badante riferendosi alla statua della Madonna –, Lui non lo reggo!». Battuta vicina al blasfemo come per altro accade, dall’altra parte dell’Oceano, con Jane the virgin dove, fatta salva tutta l’ironia che si vuole, la statua della Madonna canta in chiesa insieme al coro invitando la giovane protagonista a tenere le gambe chiuse e dove la madre di Jane, quando scopre che la figlia è incinta pur essendo vergine, si inginocchia e recita una sorta di Ave Maria con sinonimi più che discutibili. Restando sulle serie americane, ci imbattiamo spesso in quelle che hanno in sé elementi religiosi o pseudo tali come Il trono di spade e Dominion. Quest’ultima con tanto di guerra tra due schiere di angeli e l’attesa di un nuovo messia. In entrambi i casi siamo di fronte a uno sorta di fantascienza più portata all’agnosticismo e all’ateismo. Le religioni del futuro sono generalmente appannaggio di un gruppo dominante che le sfrutta per mantenere il potere. Discorso diverso invece per serie come l’apocalittica (ma non in senso biblico) The walking dead, che è seguita a Lost, o più ancora Outcast con i suoi indemoniati e i conseguenti esorcismi. Anche se qui non c’è il prete cattolico de L’esorcista, bensì un pastore evangelista del West Virginia, fermamente convinto che occorra combattere la dura battaglia contro le forze demoniache nonostante lui non sia proprio un esempio positivo. Indemoniati a sfare anche nel sanguinolento Penny dreadful, che però è più una generica storia dell’orrore ambientata nella Londra Vittoriana. Da noi deve ancora arrivare The Path, serie televisiva statunitense incentrata sugli appartenenti a un presunto movimento religioso chiamato Meyerismo. Ma anche in questo caso dietro a riti, regole e preghiere si nascondono oscuri segreti. Ed è appunto uno degli elementi che caratterizza molte serie tv: la religione intesa come mistero con la “m” minuscola, come occasione per mettere in scena soprattutto il male. A volte, invece, la fede è un’opzione tra le altre. In ogni caso, la rappresentazione della religione nelle serie televisive (e non solo) è quasi sempre parziale. Se ne coglie, nel bene e nel male, un aspetto. Gli approcci sono diversificati e spesso la cultura religiosa degli autori è scarsa. CORRIERE DEL VENETO Pag 1 Il timore delle idee altrui di Davide Rossi Il negazionismo In un Paese dove legiferare rimane comunque un percorso accidentato – non facciamoci trarre in inganno dal numero di norme presenti –, dopo anni di discussioni e dibattiti, che hanno coinvolto personalità del mondo della cultura e della politica, storici quanto giuristi, è di questi giorni l’entrata in vigore della disciplina sul cosiddetto «negazionismo», con cui si prevede «la pena della reclusione da due a sei anni se la propaganda ovvero l’istigazione e l’incitamento, commessi in modo che derivi concreto pericolo di diffusione, si fondano in tutto o in parte sulla negazione della Shoah o dei crimini di genocidio, dei crimini contro l’umanità e dei crimini di guerra, come definiti

dagli articoli 6, 7 e 8 dello statuto della Corte penale internazionale». E’ chiaro come esternazioni – ormai amplificate da strumenti mediatici ed informatici che trasformano un piccolo commento locale in un pensiero universale – su argomenti così delicati come la messa in discussione di fatti storici dati per assiomi dalla nostra società, sovente possa suscitare indignazione e sconcerto. Ma pare altresì chiaro come questo tipo di atteggiamento possa trovare un contro limite ed una difesa solamente attraverso la cultura e lo studio, la conoscenza e il desiderio di approfondire determinati argomenti, non certo attraverso la minaccia di una sanzione penale, fin addirittura intimorendo con le porte di un carcere. La legge in questione, non dimentichiamo, ha avuto un iter complesso e faticoso se il politicamente corretto pareva avesse messo tutti d’accordo, poi la voce degli studiosi interpellati durante i lavori parlamentari aveva fatto emergere forti perplessità e contrasti sulla natura del provvedimento, che condanna non soltanto la propaganda di negazionismo, ma pure quella del «riduzionismo», fino a lambire l’espressione di idee in merito, confezionando una verità ufficiale e penalizzando la libera ricerca storica. Ed è questo il punto delicato della questione, in quanto ricercare significa proprio dubitare di quello che oggi pare essere graniticamente immodificabile. Non esistono «verità ufficiali», ma la consapevolezza che la libera critica è sinonimo di capacità di elaborare, interpretare e, quindi, anche poter mettere in discussione valutazioni o ricostruzioni, purché, chiaramente, comprovate ed elaborate attraverso una metodologia corretta. Il Veneto non è certamente esente da questo processo: ha conosciuto l’eccidio di Schio quanto i rastrellamenti nazisti, la persistenza della Repubblica Sociale Italiana come dei partigiani; la presenza dei Padri armeni a Venezia si perde nei secoli, quando dovettero fuggire dall’invasione turca, mentre le foibe, a lungo dimenticate, sono un doloroso patrimonio dell’altra sponda dell’Adriatico, a lungo dominazione della Serenissima. Se la curiosità è il motore del mondo, allora si dovrebbe puntare a stimolare le nuove generazioni verso un’analisi approfondita, magari non scontata, evitando luoghi comuni e stimolando il confronto e la dialettica. Non avendo paura delle idee diverse, ma sostenendo le proprie con convinzione e rigore. Pensare di educare una Nazione a suon di reprimenda penali svilisce e colpisce non soltanto colui che possa commettere questa tipologia di reato, ma anche coloro che credono nella loro verità storica, che non riescono a difenderla con il potere della ragione, ma unicamente con la ragione del potere. LA NUOVA Pag 1 Povera Roma, infestata anche di topi di Ferdinando Camon Roma infestata di topi: nessun italiano, a parte i leghisti, vorrebbe vedere una scena del genere. Ci fa vergognare. Non i romani soltanto, ma tutti gli italiani: in questo momento corrono per il mondo filmati e foto in cui si vede sullo sfondo il Cupolone, che tutti al mondo riconoscono a colpo d’occhio, e in primo piano topi che strisciano da sotto un cassonetto e fuggono tra i rovi, mentre i bambini li contano. Tu pensi: tre, quattro, cinque, quanti saranno mai, i topi che escono da sotto un cassonetto? Invece la conta va avanti: ventitré, ventiquattro, venticinque… Non una famiglia di topi dunque, ma un clan di famiglie. Una colonia. A Roma. In vista del cupolone. Che vergogna per noi tutti! Perché Roma non è dei romani, è nostra, di noi tutti. Roma è la città più gloriosa del mondo. Avere per capitale Roma è un privilegio immenso, e bisogna meritarselo. Lasciamo stare le stupide polemichette nordiste, la capitale a Mantova, il Parlamento del Nord… Uno che si laurea in Albania può ragionare così, ma uno che sappia cos’è Roma, cosa ha fatto per l’umanità, dove ha portato la civiltà, la lingua, il Diritto, dove sta il cuore del Cattolicesimo, fede di un miliardo e 254 milioni di fedeli, Roma è preziosa, e va trattata come un oggetto prezioso. Gli abitanti di Roma che sporcano Roma (non tutti, ma basta un pugno di cialtroni), non meritano Roma. E vanno puniti. La nuova sindaca pensa di infliggere multe pesanti ai residenti del quartiere Prati, che buttano le immondizie per terra pur avendo i cassonetti vuoti. Ha ragione. Prima di tutto vanno educati i romani, con la forza delle multe. Lo chiede anche Verdone. Per far questo ci vogliono i cassonetti videosorvegliati. Dai filmati vedi chi sgarra, lo convochi, gli fai pagare tutto il danno, che è una diminuzione del turismo, un sabotaggio all’igiene e alla salute pubblica, un colpo al prestigio dell’Italia nel mondo. Questi sono i furbetti delle immondizie. Invece di portare le immondizie dove stanno i cassonetti, preferiscono

buttarle in strada, davanti a casa. È più comodo. Dopo di che, è un problema sociale, e se è un problema sociale ci pensi lo Stato. I furbetti del cartellino sono arrivati a un grado di sabotaggio che indica una anti-socialità di fondo: adesso, per non essere filmati, si coprono la testa con una scatola, un cestino o un sacchetto, strisciano il cartellino proprio e quello degli amici, e se ne vanno. Se li hai filmati, non puoi punirli perché non li riconosci. Aumentano l’astuzia. Bisogna aumentare la punizione. Se li trovi, vanno esclusi dal lavoro finché non superano un corso di riabilitazione. In alcune aree di Roma, i cassonetti sono pochi. La neo-sindaca s’impegna ad aumentare le aree ecologiche, dice che ne farà altre 32. Ma se il problema è questo, perché i sindaci precedenti non l’avevano capito? Bisognava arrivare alla “conta dei topi” in faccia al mondo? I topi non sono più portatori di peste, si spera (la peste era trasmessa da una pulce che s’annidava tra i loro peli), ma sono animali sozzi, e trasmettono malattie gravi: è pericoloso toccarli, toccare le loro urine o le loro feci. Vanno catturati ed eliminati. Qui nel Nord c’era un imprenditore che ha fatto fortuna, andando in giro per il mondo, Tokyo, New York, ad eliminare i topi. Aveva inventato un’esca (diversa da luogo a luogo (spiaggia, terraferma, suolo urbano), che attirava gli animali e li faceva morire creandogli sete, in modo che per bere salissero a morire in superficie, fuori dalle fogne. Si chiamava Massimo Donadon, e aveva battezzato il suo sistema “Brasilera Sterminaziòn”. Aveva 30 dipendenti e un fatturato di 30 miliardi di lire all’anno. Che fine ha fatto? I nordisti sono autolesionisti se schifano i problemi di Roma, ma Roma lo è altrettanto se schifa i rimedi dei nordisti. Noi che amiamo Roma vogliamo vedere lo sfondo col Cupolone senza topi in primo piano. È un diritto di tutti. WWW.VATICANINSIDER.LASTAMPA.IT Zarqa, dove cristiani e islamici imparano insieme un mestiere di Cristina Uguccioni Storie di convivenza tra credenti in Cristo e musulmani. Viaggio in Giordania, nella scuola dei padri orionini che accoglie anche profughi iracheni e siriani. Parlano padre Hani Polus Al Jameel e il professor Isam Shuli: «Le persone autenticamente religiose possono mostrare che è possibile costruire cose buone lavorando fianco a fianco» «La religione qui non è elemento di divisione: gli studenti sono legati da rapporti di amicizia e rispetto. I ragazzi musulmani sanno che questo è un istituto cattolico e che troveranno compagni cristiani. Quando cominciano a frequentare le lezioni si accorgono che non vi sono differenze di trattamento e che ciascuno riceve le medesime attenzioni riservate agli altri: alla fine tutti si sentono, semplicemente, studenti della Saint Joseph». Sono parole del professor Isam Shuli, 52 anni, vedovo con sei figli: musulmano, docente di arabo con un’esperienza trentennale, insegna da otto anni alla Saint Joseph School, la scuola professionale maschile fondata dai padri orionini nel 1984 nella periferia di Zarqa, in Giordania. La città è situata a 40 chilometri a nord-est dalla capitale Amman: gli abitanti sono circa un milione, il 6% dei quali di fede cristiana. Non lontano dalla scuola sorge il campo profughi di Zaatari, il più esteso e popoloso del paese. La storia di questa scuola racconta il ruolo strategico e cruciale che gioca l’istituzione scolastica nell’edificazione del legame sociale, un legame saldo, fraterno, capace di tenere, che sia al riparo dagli eccessi di identità o di liquefazione cui è particolarmente esposto nella nostra epoca. La caratteristica della scuola - La Saint Joseph propone diversi indirizzi di studio (scientifico, letterario, informatico, alberghiero, industriale, meccanico, tecnico-falegnameria) e attualmente accoglie 650 ragazzi dai 13 ai 18 anni: 550 sono musulmani, gli altri cristiani. «Una peculiarità bella della nostra scuola è la presenza di studenti che provengono da paesi diversi e imparano a crescere insieme rispettandosi e volendosi bene: vi sono giordani, giordano-palestinesi, ma anche iracheni e siriani fuggiti dalla guerra e dall’Isis», racconta il padre orionino Hani Polus Al Jameel, 37 anni, iracheno, responsabile del santuario mariano Regina della Pace e docente di religione nella scuola. L’impegno degli insegnanti - Il professor Isam si dice contento di lavorare alla Saint Joseph, per diversi motivi: «Apprezzo molto la gestione ordinata della scuola e il fatto che il paese di origine degli studenti non abbia alcun peso: non si fanno distinzioni qui mentre nel mondo giordano queste differenze sono spesso tenute in considerazione.

Inoltre si riservano attenzioni a tutti, anche ai ragazzi meno dotati: in un sistema di scuole private competitivo come quello giordano, siamo contenti dei buoni risultati scolastici, ma il nostro obiettivo primario è offrire a tutti gli studenti la medesima dedizione. Noi docenti condividiamo lo scopo e la filosofia della scuola; il clima fra noi è sereno e la nostra diversa appartenenza religiosa consente di conoscere i rispettivi valori e pregi». Gli fa eco padre Hani, che racconta: «Gli insegnanti cristiani e musulmani lavorano insieme con grande spirito di collaborazione e un unico obiettivo: la formazione professionale ed umana dei ragazzi. Lo scorso anno io e l’insegnante musulmano di religione abbiamo avviato un’iniziativa molto interessante: in alcune occasioni abbiamo unito le nostre classi preparando una lista di argomenti da affrontare dal punto di vista cristiano e islamico: i ragazzi ne sono stati entusiasti, facevano a gara per intervenire! È un’esperienza che vorremmo ripetere». La pace si costruisce - Il professor Isam è convinto che la scuola rivesta un ruolo decisivo per l’edificazione di una convivenza pacifica e operosa tra persone di fede e origine diverse: «L’accoglienza, il rispetto, la collaborazione non nascono spontaneamente nel cuore delle persone: i ragazzi imparano ciò che gli educatori trasmettono loro: la pace si costruisce e alla pace si viene educati». E padre Hani aggiunge: «Nella nostra scuola i ragazzi apprendono un mestiere lavorando con gli insegnanti, fianco a fianco: penso che il lavoro sia un fattore determinante per l’edificazione del legame sociale». Entrambi si dicono convinti che le persone autenticamente religiose, che operano insieme, possano proporre una testimonianza significativa al mondo: «Possono offrire il loro esempio, mostrare che è possibile costruire insieme cose buone, condividere obiettivi e valori in vista dell’autentica promozione umana. Possono mostrare che la religione motiva l’uomo a impegnarsi e a dare il meglio di sé, che non è elemento di divisione per la grande famiglia umana ma, se correttamente intesa, porta a vivere una vita buona». I profughi siriani e iracheni - Padre Hani e i suoi due confratelli si prodigano molto anche nell’assistenza dei profughi. Hanno cominciato prestando soccorso con quel poco che potevano offrire ma, non riuscendo ad aiutare tutti come avrebbero voluto, nel 2013 hanno preparato un progetto che è stato presentato a diverse istituzioni. La Conferenza Episcopale Italiana ha accolto l’iniziativa e, grazie ai fondi ricevuti, i padri orionini sono stati in grado di prestare soccorso a 14.000 profughi, in prevalenza siriani. Successivamente, con la ONG Manos Unidas, hanno avviato un secondo progetto per sostenere 12.000 profughi, soprattutto iracheni. «È stato un lavoro immane», racconta padre Hani. «Le famiglie che lasciano il campo di Zaatari e si stabiliscono a Zarqa hanno bisogno di tutto: noi forniamo coupon per fare la spesa, materassi, stufe, coperte e altri beni di cui possono avere necessità, ad esempio le medicine. Per moltissimi siriani di fede islamica noi siamo stati i primi cristiani conosciuti da vicino: più di una volta si sono detti sorpresi delle nostre premure e ci hanno confessato che non credevano che i cristiani fossero così. Adesso ci rispettano e ci vogliono bene; ne siamo molto lieti. Al momento stiamo cercando altre organizzazioni con le quali proseguire questo lavoro perché sono da poco terminati i fondi e con le sole nostre forze non siamo in grado di assicurare l’assistenza necessaria». L’esodo dalla valle di Ninive - Padre Hani conosce bene le sofferenze, le privazioni, le angosce dei profughi e il dramma degli iracheni nella Piana di Ninive, invasa dai miliziani dell’Isis nell’estate del 2014. «Le famiglie dei miei otto fratelli e i miei anziani genitori (mio padre ha 100 anni) sono stati costretti a lasciare precipitosamente Qaraqosh di notte, nell’arco di poche ore: insieme a migliaia di persone si sono avviati verso il Kurdistan, chi in macchina, chi a piedi. È stato un esodo immenso, un’esperienza durissima. I miei familiari sono ancora in Kurdistan, soltanto alcuni sono riusciti a emigrare. I profughi iracheni vorrebbero tornare nei loro villaggi, ma prevale la paura, sono convinti che non saranno mai al sicuro: per questo cercano in tutti i modi di raggiungere altri paesi». Torna al sommario