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RASSEGNA STAMPA di martedì 6 febbraio 2018 SOMMARIO “Sarebbe interessante sapere chi, quale Paese, si riprenderà mai i seicentomila immigrati che Berlusconi ha promesso, se vince le elezioni, di cacciare via dall’Italia -– afferma Ernesto Galli della Loggia nell’editoriale di apertura del Corriere della Sera di oggi -. Nessuno lo sa, e naturalmente non ne ha una minima idea neppure Berlusconi stesso. Basterebbe questo a indicare l’incosciente superficialità con cui la classe politica italiana è abituata a trattare il tema dell’immigrazione. È la stessa superficialità, del resto, che l’ha portata a lasciare in vigore a tutt’oggi la legge Bossi- Fini. In base alla quale, è bene ricordarlo, l’unico modo legale per immigrare per ragioni economiche in Italia consiste nell’ipotesi che un imprenditore italiano, bisognoso di assumere un lavoratore, e sapendo che c’è un cittadino, mettiamo senegalese, desideroso di venire a lavorare nella Penisola, gli faccia pervenire la richiesta di assumerlo con regolare contratto di lavoro. Un’ipotesi assolutamente realistica, nessuno vorrà negarlo: più o meno come lo sbarco di un’astronave domattina su Marte. Se tanto mi dà tanto non stupisce che in queste ore la reazione della nostra classe politica ai fatti di Macerata non sappia andare oltre lo sdegno virtuoso dei buoni sentimenti, da un lato, e il losco calcolo politico dall’altro. Sempre accompagnati però da nessun’idea, da nessuna proposta, da nessuna capacità di trarre qualche lezione non retorica da quanto è successo. Che invece di lezioni e indicazioni importanti ne contiene parecchie. Ne accennerò qualcuna in ordine sparso, non necessariamente secondo l’ordine della loro importanza. 1) Chi ha ascoltato ieri mattina su Radio 24 i balbettii del sindaco di Macerata Carancini (centrosinistra), indeciso tra il dire e il non dire, tra la denuncia del degrado e la volontà di spalmare vaselina, incapace di dare un quadro vero e preciso della situazione, ha potuto, diciamo così, toccare con mano un dato preoccupante dell’Italia di oggi, che spiega molte cose. Il fatto cioè che grazie alle nefande leggi elettorali succedutesi negli ultimi vent’anni le città e i territori della Penisola sono ormai privi di un’autentica rappresentanza politica e quindi privi di voce presso il potere centrale. Oggi come oggi, se vuole illustrare il disagio e i bisogni della sua città (per esempio riguardo la sicurezza), il sindaco di Macerata può al massimo (spero non balbettando come ha fatto alla radio) rivolgersi al prefetto. Un tempo, invece, il deputato e il senatore eletti localmente fungevano da naturali raccordi e collettori dei problemi locali verso il governo nazionale. Essi informavano, chiedevano, insistevano: non da ultimo perché ne andava della loro rielezione: che oggi invece dipende solo da una segreteria di partito a Roma o a Milano. L’attuale solitudine politica di città e territori produce una disarticolazione complessiva del Paese e nelle collettività un sentimento di abbandono e di frustrazione dagli esiti imprevedibili; oltre naturalmente a far dipendere il governo solo dal canale informativo rappresentato dalle prefetture. Un canale inevitabilmente portato più a una valutazione dei problemi di tipo burocratico- amministrativo e di tono rassicurante piutto-sto che, quando è necessario, drammaticamente politico. 2. Come mostrano le evidenze statistiche, che non sono né di destra né di sinistra, certi reati sono commessi dagli immigrati in una percentuale enormemente superiore agli italiani (si arriva al 60 per cento). Si tratta specialmente dei reati connessi alla prostituzione, allo spaccio e di quelli contro il patrimonio (furti in appartamento, borseggio, ecc.): reati suscettibili in tutti e tre i casi di diffondere degrado nelle zone più povere dei centri urbani e allarme, spesso anche un senso di rivolta, negli strati più deboli della popolazione. Mi chiedo: è possibile che non ci sia nulla da fare per arginare simili fenomeni? Perché non pensare ad esempio, data l’alta incidenza di recidività che esiste in questo tipo di reati, a cancellare ogni tipo di attenuante, di arresti domiciliari, di patteggiamento, di libertà vigilata et similia, che insieme a percorsi giudiziari accelerati sia in grado di dar luogo a un’alta probabilità di sicura e immediata detenzione carceraria per i colpevoli?

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RASSEGNA STAMPA di martedì 6 febbraio 2018

SOMMARIO

“Sarebbe interessante sapere chi, quale Paese, si riprenderà mai i seicentomila immigrati che Berlusconi ha promesso, se vince le elezioni, di cacciare via dall’Italia -– afferma Ernesto Galli della Loggia nell’editoriale di apertura del Corriere della Sera di oggi -. Nessuno lo sa, e naturalmente non ne ha una minima idea neppure Berlusconi

stesso. Basterebbe questo a indicare l’incosciente superficialità con cui la classe politica italiana è abituata a trattare il tema dell’immigrazione. È la stessa

superficialità, del resto, che l’ha portata a lasciare in vigore a tutt’oggi la legge Bossi-Fini. In base alla quale, è bene ricordarlo, l’unico modo legale per immigrare per

ragioni economiche in Italia consiste nell’ipotesi che un imprenditore italiano, bisognoso di assumere un lavoratore, e sapendo che c’è un cittadino, mettiamo senegalese, desideroso di venire a lavorare nella Penisola, gli faccia pervenire la richiesta di assumerlo con regolare contratto di lavoro. Un’ipotesi assolutamente

realistica, nessuno vorrà negarlo: più o meno come lo sbarco di un’astronave domattina su Marte. Se tanto mi dà tanto non stupisce che in queste ore la reazione

della nostra classe politica ai fatti di Macerata non sappia andare oltre lo sdegno virtuoso dei buoni sentimenti, da un lato, e il losco calcolo politico dall’altro. Sempre accompagnati però da nessun’idea, da nessuna proposta, da nessuna capacità di trarre qualche lezione non retorica da quanto è successo. Che invece di lezioni e indicazioni

importanti ne contiene parecchie. Ne accennerò qualcuna in ordine sparso, non necessariamente secondo l’ordine della loro importanza. 1) Chi ha ascoltato ieri mattina su Radio 24 i balbettii del sindaco di Macerata Carancini (centrosinistra),

indeciso tra il dire e il non dire, tra la denuncia del degrado e la volontà di spalmare vaselina, incapace di dare un quadro vero e preciso della situazione, ha potuto,

diciamo così, toccare con mano un dato preoccupante dell’Italia di oggi, che spiega molte cose. Il fatto cioè che grazie alle nefande leggi elettorali succedutesi negli

ultimi vent’anni le città e i territori della Penisola sono ormai privi di un’autentica rappresentanza politica e quindi privi di voce presso il potere centrale. Oggi come oggi, se vuole illustrare il disagio e i bisogni della sua città (per esempio riguardo la sicurezza), il sindaco di Macerata può al massimo (spero non balbettando come ha fatto alla radio) rivolgersi al prefetto. Un tempo, invece, il deputato e il senatore

eletti localmente fungevano da naturali raccordi e collettori dei problemi locali verso il governo nazionale. Essi informavano, chiedevano, insistevano: non da ultimo perché

ne andava della loro rielezione: che oggi invece dipende solo da una segreteria di partito a Roma o a Milano. L’attuale solitudine politica di città e territori produce una disarticolazione complessiva del Paese e nelle collettività un sentimento di abbandono

e di frustrazione dagli esiti imprevedibili; oltre naturalmente a far dipendere il governo solo dal canale informativo rappresentato dalle prefetture. Un canale inevitabilmente portato più a una valutazione dei problemi di tipo burocratico-

amministrativo e di tono rassicurante piutto-sto che, quando è necessario, drammaticamente politico. 2. Come mostrano le evidenze statistiche, che non sono

né di destra né di sinistra, certi reati sono commessi dagli immigrati in una percentuale enormemente superiore agli italiani (si arriva al 60 per cento). Si tratta specialmente dei reati connessi alla prostituzione, allo spaccio e di quelli contro il patrimonio (furti in appartamento, borseggio, ecc.): reati suscettibili in tutti e tre i casi di diffondere degrado nelle zone più povere dei centri urbani e allarme, spesso

anche un senso di rivolta, negli strati più deboli della popolazione. Mi chiedo: è possibile che non ci sia nulla da fare per arginare simili fenomeni? Perché non pensare

ad esempio, data l’alta incidenza di recidività che esiste in questo tipo di reati, a cancellare ogni tipo di attenuante, di arresti domiciliari, di patteggiamento, di libertà vigilata et similia, che insieme a percorsi giudiziari accelerati sia in grado di dar luogo

a un’alta probabilità di sicura e immediata detenzione carceraria per i colpevoli?

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Conosco l’obiezione: la capienza delle carceri italiane è al limite. Bene: ma è proprio impossibile, pagando profumatamente (come del resto già facciamo per cercare di tamponare l’afflusso di nuovi venuti), stipulare degli accordi con almeno alcuni dei

Paesi di provenienza degli immigrati affinché le pene inflitte ai loro cittadini dai nostri tribunali vengano scontate nelle loro rispettive patrie? Almeno ci si provi, il ministro Minniti ci provi. Il fatto assolutamente devastante che la classe politica sembra non capire è che oggi come oggi nessun italiano è in grado di ricordare neppure un solo

provvedimento, adottato diciamo negli ultimi dieci anni, volto a contrastare all’interno del territorio nazionale uno dei mille aspetti negativi legati al fenomeno immigratorio. Neppure uno solo. Ci si rende conto che razza di delegittimazione ciò significa? 3. E infine l’integrazione. Anche qui un mare di chiacchiere da parte dei pubblici poteri e di tutti i partiti ma pochissimi fatti. Il primo e più ovvio percorso

d’integrazione per gli immigrati dovrebbe consistere ovviamente in un lavoro. Ma non in un lavoro purchessia: in un inquadramento lavorativo legale. Qui comincia però la

demenza burocratico-amministrativa italiana: essendo clandestini gli immigrati, infatti, non possono essere assunti legalmente se non dopo procedure assai

complesse. Dunque anche il loro lavoro resta in un gran numero di casi un lavoro «clandestino», in nero e sottopagato. In verità clandestino spesso per modo di dire:

tanto è vero che da anni, ad esempio, le campagne dell’Italia meridionale rigurgitano di decine di migliaia e migliaia di giovani, in stragrande maggioranza africani, dediti ai lavori agricoli, sottoposti a uno sfruttamento infame e in condizioni di vita ancora più

infami. Il tutto a vantaggio dei proprietari e delle organizzazioni malavitose di «caporalato», mentre il ministro del Lavoro, il placido Giuliano Poletti, con i suoi ispettori sta placidamente a guardare. E con le conseguenze nell’animo di quei miserabili che è facile immaginare: odio, disprezzo, e un sentimento di rivalsa

aggressiva verso il Paese in cui si trovano: un Paese che parla in continuazione di accoglienza per poi trattarli in quel modo” (a.p.)

2 – DIOCESI E PARROCCHIE LA NUOVA Pag 20 Addio a padre Temperini, missionario in Giappone di s.b. Il sacerdote aveva 91 anni Pag 34 Un sondaggio sui problemi delle famiglie di Francesco Macaluso IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag VI Addio a padre Temperini, “parroco” del Giappone di a.spe. 3 – VITA DELLA CHIESA L’OSSERVATORE ROMANO In pochi a lottare per la vita La preoccupazione espressa dal Papa all’Angelus. Indetta per il 23 febbraio una giornata di preghiera e digiuno per la pace La preghiera di adorazione Messa a Santa Marta LA REPUBBLICA Pag 29 Il Papa e la solitudine del Sultano di Bernardo Valli IL FOGLIO Pag 1 Il Papa in cinquanta minuti sfugge al trappolone di Erdogan di Matteo Matzuzzi Ankara voleva arruolare Francesco tra gli alleati per rafforzare la propria posizione nel vicino oriente

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Pag 3 Brutte nuove per il Papa sul fronte abusi L’Ap trova un documento del 2015: “Francesco sapeva del vescovo Barros” 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO AVVENIRE Pag 3 Cosa vuol dire amare gli allievi come figli di Ferdinando Camon L’insegnante ferita che non trema e s’interroga 6 – SERVIZI SOCIALI / SANITÀ LA NUOVA Pag 26 L'offerta di Villa Salus per il San Camillo di Francesco Furlan La Congregazione delle Suore Mantellate ha dato la disponibilità per l'acquisto dell'ospedale religioso degli Alberoni 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA CORRIERE DELLA SERA Pag 21 Brugnaro e lo stadio del basket: “Conflitto d’interessi a Venezia” di Gian Antonio Stella IL GAZZETTINO Pag 9 Indossa abito d’epoca. Il sacerdote rifiuta di darle la comunione di lil.ab. Venezia, inatteso divieto durante la messa domenicale a S. Moisè. Il parroco nega l’eucarestia a una signora vestita da Carnevale IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag IV Meno turisti, stavolta va bene a tutti di Michele Fullin Carnevale, i numeri Pag V Sfida alla sicurezza in Piazza, blitz no global sulla Basilica di Michele Fullin Pag VI Appello al parroco: “Non trasformi la merceria in un’altra osteria” di Daniela Ghio Petizione dei residenti in fondamenta degli Ormesini: “Non se ne può più” Pag XII Interviste con i candidati al Lux Si comincia domani con Mognato e Nicoletti LA NUOVA Pagg 2 – 3 Scontro sui Pili. Lo show di Brugnaro, piange e lascia la coppa di Alberto Vitucci e Mitia Chiarin Il sindaco smentisce i conflitti, elenca tutto quello che ha fatto da privato e accusa: “Siete dei rancorosi”. Il Consiglio vota sì, anche i Cinque Stelle stanno con il sindaco Pag 21 Porto, traffici complessivi in lieve calo di Gianni Favarato Crocieristi in picchiata dell’11%, ma i container sono stabili. Musolino: “Lo scalo del Nordest siamo noi” 8 – VENETO / NORDEST LA NUOVA Pag 1 La Patreve, una fuga dal realismo di Maurizio Mistri … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA

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Pag 1 Le regole sbagliate di Ernesto Galli della Loggia Pag 5 Un tema serio declassato a polemica elettorale di Massimo Franco Pag 6 Arrivi, reati, rimpatri. I migranti in numeri di Fiorenza Sarzanini Pag 19 “Chiedo la sedazione”, l’addio di Patrizia di Elvira Serra e Margherita De Bac Nuoro, la 49enne malata di Sla è la prima paziente a sfruttare la nuova legge sul biotestamento. La differenza con eutanasia e suicidio assistito LA STAMPA Se il Colle parla a nome dell’Europa di Stefano Stefanini AVVENIRE Pag 1 Che pesi l’unione di Leonardo Becchetti La verità sul debito e un piano utile Pag 3 Il ritorno dei taleban a Kabul e il miraggio di pace svanito di Francesco Palmas A chi interessa far salire la tensione Pag 7 “Se negli altri non si vede umanità è la fine dell’empatia, che genera odio” di Marina Corradi La filosofa Boella: siamo tornati alle “non persone” di Arendt IL GAZZETTINO Pag 1 Il dialogo con Erdogan frena il ruolo di Macron di Alessandro Orsini LA NUOVA Pag 1 L’autonomia è diventata un pasticcio di Mariano Maugeri Pag 4 Costa caro cavalcare la pantera identitaria di Claudio Giua Pag 5 Fascismo o unità europea, il bivio passa per l’urna di Roberto Castaldi Pag 12 Raccolte per beneficenza, via libera alle parrocchie di Andrea Passerini CORRIERE DEL VENETO Pag 1 Quelle anomalie del voto di Umberto Curi Verso le elezioni

Torna al sommario 2 – DIOCESI E PARROCCHIE LA NUOVA Pag 20 Addio a padre Temperini, missionario in Giappone di s.b. Il sacerdote aveva 91 anni Venezia. Ha dedicato la sua vita al ruolo di missionario, svolto per sei decenni in Giappone, e all'età di 91 anni padre Aldo Temperini è morto sabato scorso. Una delle figure più preziose tra i padri missionari veneziani se n'è andata nella casa di cura Rosario No Sono Sisaikan di Saga, proprio in Giappone, dove viveva da alcuni anni. Padre Aldo Temperini faceva parte del Pontificio Istituto Missioni Estere, sacerdote nel Patriarcato di Venezia, e ha dedicato gran parte della sua vita e della sua attività all'annuncio del Vangelo in Giappone dove è stato per oltre sessant'anni e fino, appunto, alla sua morte. «Siamo stati raggiunti della notizia della morte del caro sacerdote padre Aldo Temperini, uniamoci tutti nella preghiera per questo nostro confratello che tanto ha

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fatto per annunciare il mistero di Cristo a tutte le genti», ha scritto ieri nell'annuncio funebre il vicario generale del Patriarcato, monsignor Angelo Pagan. Padre Aldo era nato il 3 dicembre 1926 a Venezia, facendo parte della parrocchia di San Francesco della Vigna, e aveva frequentato nel seminario patriarcale il ginnasio e il liceo. All'inizio del 1948 era entrato nel Pime a Milano, con il suo giuramento perpetuo arrivato nel 1950. Il primo luglio 1951 venne ordinato sacerdote a Milano dall'arcivescovo cardinale Schuster. Per alcuni anni è stato anche vicerettore e insegnante al seminario del Pime a Monza. Nel 1955 la svolta con la decisione di andare in Giappone dove, dopo lo studio della lingua, venne destinato nella diocesi di Yokohama, a Kofu. Nel 1960 fu chiamato a svolgere un servizio anche al seminario del Pime di Newark (Ohio) negli Stati Uniti. Nell'ottobre del 1961 tornò in Giappone. Dal 1972 al 1975 fu superiore regionale del Pime a Tokyo e maturò poi altre esperienze nelle città nipponiche. Pag 34 Un sondaggio sui problemi delle famiglie di Francesco Macaluso Jesolo. Il Vicariato di Jesolo e Cavallino-Treporti del Patriarcato di Venezia, in collaborazione con i servizi politiche sociali dei due comuni, ha elaborato e commissionato alla società QuestLab un sondaggio telefonico incentrato sulle dinamiche e le problematiche della famiglia che avrà come intervistati potenziali tutti i 37 mila residenti del litorale. L'indagine molto estesa e approfondita, iniziata già da giovedì scorso con le prime interviste telefoniche e sostenuta dai comuni di Jesolo e Cavallino-Treporti con un investimento complessivo di 15.000 euro, restituirà alla fine dell'analisi dei dati raccolti sul campione di riferimento, una nitida e aggiornata fotografia delle fragilità riferite alla famiglia, permettendo di studiare le migliori strategie e iniziative di incentivo, sostegno spirituale, economico e assistenziale che verranno messe in campo dalle amministrazioni comunali, dalle direzioni scolastiche e dal vicariato a sostegno dei cittadini. Si tratta infatti di 30 domande, redatte sotto la supervisione del vicario per Jesolo e Cavallino-Treporti, don Alessandro Panzanato, che indagano la situazione economica e i sistemi di sostentamento, ma anche, più in profondità, la provenienza etnica, le convinzioni etico-religiose e, soprattutto le dinamiche interne e l'intreccio di relazioni personali e parentali che compongono attualmente i nuclei famigliari del litorale. IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag VI Addio a padre Temperini, “parroco” del Giappone di a.spe. Venezia. Ha dedicato tutta la sua vita all'annuncio del Vangelo in Giappone. Nella notte tra venerdì e sabato scorsi, padre Aldo Temperini si è spento nella casa di cura Rosario No Sono Sisaikan di Saga dove si era ritirato già da qualche tempo. Aveva 91 anni, essendo nato il 3 dicembre 1926. Originario della parrocchia di San Francesco della Vigna, era entrato nel seminario patriarcale per frequentare il ginnasio e il liceo. All'inizio del 1948, la scelta di vita che poi avrebbe segnato tutti gli anni a venire: passa al Pime Pontificio Istituto Missioni Estere a Milano ed emette il suo giuramento nel 1950. Il primo luglio dell'anno successivo viene ordinato sacerdote dall'arcivescovo cardinale Schuster e nei primi anni da prete è insegnante e vicerettore del Seminario del Pime a Monza. E' nel 1955, oltre sessant'anni fa, che dopo un periodo di studio della lingua parte per il Giappone, destinato alla diocesi di Yokohama, a Kofu. Cinque anni dopo padre Temperini viene chiamato a svolgere un servizio all'istituto presso il seminario del Pime di Newark (Ohio), negli Stati uniti, dove però resta soltanto un anno. Infatti, nel 1961 torna in Giappone, prima a Saga e poi a Tosu. Dal 1972 al '75 diventa superiore regionale e si trasferisce a Tokyo. Successivamente viene di nuovo impegnato nell'attività pastorale missionaria diretta, prima a Kogu (1975), poi a Kashima (dieci anni dopo) e infine a Taku, dal 1991 per vent'anni. L'ultimo periodo della sua vita l'ha appunto trascorso nella casa di cura di Saga dove aveva l'incarico di cappellano della struttura. La comunicazione della morte è giunta in diocesi dov'era incardinato ed è stato il vicario generale monsignor Angelo Pagan ad esprimere il cordoglio anche a nome del patriarca Francesco Moraglia: «Siamo stati raggiunti dalla notizia della morte del caro sacerdote padre Aldo Temperini. Uniamoci tutti nella preghiera per questo nostro confratello che

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tanto ha fatto per annunciare il Mistero di Cristo a tutte le genti». Il sacerdote sarà sepolto in Giappone a suggellare per sempre il legame con la terra della sua missione. Torna al sommario 3 – VITA DELLA CHIESA L’OSSERVATORE ROMANO In pochi a lottare per la vita La preoccupazione espressa dal Papa all’Angelus. Indetta per il 23 febbraio una giornata di preghiera e digiuno per la pace Il Papa ha indetto per il prossimo 23 febbraio, venerdì della prima settimana di Quaresima, una «speciale giornata di preghiera e digiuno per la pace» offerta in particolare per le popolazioni della Repubblica Democratica del Congo e del Sud Sudan. A darne l’annuncio è stato lo stesso Francesco all’Angelus di domenica 4 febbraio, in piazza San Pietro, dopo la meditazione dedicata al brano evangelico di Marco (1, 21-39). Cari fratelli e sorelle, buongiorno! Il Vangelo di questa domenica prosegue la descrizione di una giornata di Gesù a Cafarnao, un sabato, festa settimanale per gli ebrei (cfr. Mc 1, 21-39). Questa volta l’evangelista Marco mette in risalto il rapporto tra l’attività taumaturgica di Gesù e il risveglio della fede nelle persone che incontra. Infatti, con i segni di guarigione che compie per i malati di ogni tipo, il Signore vuole suscitare come risposta la fede. La giornata di Gesù a Cafarnao incomincia con la scena della gente di tutta la cittadina che si accalca davanti alla casa dove Lui alloggiava, per portargli tutti i malati. La folla, segnata da sofferenze fisiche e da miserie spirituali, costituisce, per così dire, “l’ambiente vitale” in cui si attua la missione di Gesù, fatta di parole e di gesti che risanano e consolano. Gesù non è venuto a portare la salvezza in un laboratorio; non fa la predica da laboratorio, staccato dalla gente: è in mezzo alla folla! In mezzo al popolo! Pensate che la maggior parte della vita pubblica di Gesù è passata sulla strada, fra la gente, per predicare il Vangelo, per guarire le ferite fisiche e spirituali. È una umanità solcata da sofferenze, questa folla, di cui il Vangelo parla molte volte. È un’umanità solcata da sofferenze, fatiche e problemi: a tale povera umanità è diretta l’azione potente, liberatrice e rinnovatrice di Gesù. Così, in mezzo alla folla fino a tarda sera, si conclude quel sabato. E che cosa fa dopo, Gesù? Prima dell’alba del giorno seguente, Egli esce non visto dalla porta della città e si ritira in un luogo appartato a pregare. Gesù prega. In questo modo sottrae anche la sua persona e la sua missione ad una visione trionfalistica, che fraintende il senso dei miracoli e del suo potere carismatico. I miracoli infatti sono “segni”, che invitano alla risposta della fede; segni che sempre sono accompagnati dalle parole, che li illuminano; e insieme, segni e parole, provocano la fede e la conversione per la forza divina della grazia di Cristo. La conclusione del brano odierno (vv. 35-39) indica che l’annuncio del Regno di Dio da parte di Gesù ritrova il suo luogo più proprio nella strada. Ai discepoli che lo cercano per riportarlo in città - i discepoli sono andati a trovarlo dove Lui pregava e volevano riportarlo in città -, che cosa risponde Gesù? «Andiamocene altrove, nei villaggi vicini, perché io predichi anche là» (v. 38). Questo è stato il cammino del Figlio di Dio e questo sarà il cammino dei suoi discepoli. E dovrà essere il cammino di ogni cristiano. La strada, come luogo del lieto annuncio del Vangelo, pone la missione della Chiesa sotto il segno dell’“andare”, del cammino, sotto il segno del “movimento” e mai della staticità. La Vergine Maria ci aiuti ad essere aperti alla voce dello Spirito Santo, che spinge la Chiesa a porre sempre più la propria tenda in mezzo alla gente per recare a tutti la parola risanatrice di Gesù, medico delle anime e dei corpi. Al termine della preghiera mariana il Pontefice ha ricordato la beatificazione di Teresio Olivelli, svoltasi il giorno prima a Vigevano, e la giornata per la vita che si celebrava domenica in Italia. Quindi, dopo aver annunciato l’iniziativa di preghiera e di digiuno per la pace, ha salutato i diversi gruppi presenti in piazza.

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Cari fratelli e sorelle, ieri, a Vigevano, è stato proclamato Beato il giovane Teresio Olivelli, ucciso per la sua fede cristiana nel 1945, nel lager di Hersbruck. Egli ha dato testimonianza a Cristo nell’amore verso i più deboli e si unisce alla lunga schiera dei martiri del secolo scorso. Il suo eroico sacrificio sia seme di speranza e di fraternità soprattutto per i giovani. Oggi si celebra in Italia la Giornata per la Vita, che ha come tema «Il vangelo della vita, gioia per il mondo». Mi associo al Messaggio dei Vescovi ed esprimo il mio apprezzamento e incoraggiamento alle diverse realtà ecclesiali che in tanti modi promuovono e sostengono la vita, in particolare il Movimento per la Vita, di cui saluto gli esponenti qui presenti, non tanto numerosi. E questo mi preoccupa; non sono tanti quelli che lottano per la vita in un mondo dove ogni giorno si costruiscono più armi, ogni giorno si fanno più leggi contro la vita, ogni giorno va avanti questa cultura dello scarto, di scartare quello che non serve, quello che dà fastidio. Per favore preghiamo perché il nostro popolo sia più cosciente della difesa della vita in questo momento di distruzione e di scarto dell’umanità. Desidero assicurare la mia vicinanza alle popolazioni del Madagascar, recentemente colpite da un forte ciclone, che ha causato vittime, sfollati e ingenti danni. Il Signore le conforti e le sostenga. Ed ora un annuncio. Dinanzi al tragico protrarsi di situazioni di conflitto in diverse parti del mondo, invito tutti i fedeli ad una speciale Giornata di preghiera e digiuno per la pace il 23 febbraio prossimo, venerdì della Prima Settimana di Quaresima. La offriremo in particolare per le popolazioni della Repubblica Democratica del Congo e del Sud Sudan. Come in altre occasioni simili, invito anche i fratelli e le sorelle non cattolici e non cristiani ad associarsi a questa iniziativa nelle modalità che riterranno più opportune, ma tutti insieme. Il nostro Padre celeste ascolta sempre i suoi figli che gridano a Lui nel dolore e nell’angoscia, «risana i cuori affranti e fascia le loro ferite» (Sal 147, 3). Rivolgo un accorato appello perché anche noi ascoltiamo questo grido e, ciascuno nella propria coscienza, davanti a Dio, ci domandiamo: “Che cosa posso fare io per la pace?”. Sicuramente possiamo pregare; ma non solo: ognuno può dire concretamente “no” alla violenza per quanto dipende da lui o da lei. Perché le vittorie ottenute con la violenza sono false vittorie; mentre lavorare per la pace fa bene a tutti! Saluto tutti voi, fedeli di Roma e pellegrini venuti dall’Italia e da vari Paesi. Saluto il gruppo della diocesi di Cádiz e Ceuta (Spagna), gli alunni del collegio Charles Péguy di Parigi, i fedeli di Sestri Levante, Empoli, Milano e Palermo, e la rappresentanza della Città di Agrigento, a cui esprimo apprezzamento per l’impegno di accoglienza e integrazione dei migranti. Grazie! Grazie per quello che fate. Un saluto cordiale rivolgo ai volontari e ai collaboratori dell’associazione Fraterna Domus che opera da 50 anni a Roma per l’accoglienza e la solidarietà. Auguro a tutti una buona domenica. Per favore non dimenticatevi di pregare per me. Buon pranzo e arrivederci! La preghiera di adorazione Messa a Santa Marta I cristiani devono imparare la «preghiera di adorazione». E i pastori devono avere a cuore la formazione dei fedeli a questa fondamentale forma di preghiera. Lo ha sottolineato Papa Francesco lunedì 5 febbraio durante la messa celebrata a Santa Marta, alla quale ha partecipato un gruppo di parroci di recente nomina. Rivolgendosi direttamente a loro, il Pontefice li ha esortati: «insegnate al popolo ad adorare in silenzio» perché «così imparano da adesso cosa faremo tutti là, quando per la grazia di Dio arriveremo in cielo». L’adorazione come obbiettivo del «cammino» del credente è stata al centro dell’omelia di Francesco, che ha preso le mosse dalla prima lettura del giorno (1 Re, 8, 1-7.9-13), nella quale si narra di re Salomone che «convoca il suo popolo per salire verso i monti del Signore, verso la città, verso il tempio», portando in processione l’arca dell’alleanza nel Santo dei Santi. In questo cammino che prevedeva un percorso in salita, faticoso - «il cammino facile è quello in pianura» ha osservato il Papa - il popolo portava con sé «la propria storia, la memoria della elezione, la memoria della promessa e la memoria dell’alleanza». E con questo carico di memoria si avvicinava al tempio. Non solo: il popolo, ha aggiunto Francesco, portava anche «la nudità dell’alleanza», cioè semplicemente le «due tavole di pietra, nuda, così, come era stata data da Dio» e non come l’avevano imparata «dagli scribi, che l’avevano “barocchizzata” con tante prescrizioni». Era quello il loro tesoro: «l’alleanza nuda: io ti

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amo, tu mi ami. Il primo comandamento, amare Dio; secondo, amare il prossimo. Nuda, così». Quindi, ha continuato il Pontefice, «con quella memoria dell’elezione, della promessa e dell’alleanza, il popolo va su e porta l’alleanza su. Arrivati su, “quando furono giunti tutti gli anziani, levarono l’arca, introdussero l’arca nel santuario e nell’arca non c’era nulla se non le due tavole di pietra”». Ecco la «nudità dell’alleanza». E nel brano biblico si legge che «appena i sacerdoti furono usciti, la nube riempì il tempio del Signore». Era «la gloria del Signore» che prendeva dimora nel tempio. È in quel momento, ha spiegato il Papa, che il «popolo entrò in adorazione», passando «dalla memoria all’adorazione, facendo cammino in salita». Cominciò così l’adorazione «in silenzio». Ecco il percorso compiuto dagli Israeliti: «dai sacrifici che faceva nel cammino in salita, al silenzio, all’umiliazione dell’adorazione». È proprio a questo punto che il Pontefice ha collegato la parola di Dio alla realtà attuale delle comunità cristiane: «Tante volte penso che noi non insegniamo al nostro popolo ad adorare. Sì, gli insegniamo a pregare, a cantare, a lodare Dio, ma ad adorare...». La preghiera di adorazione, ha detto, «ci annienta senza annientarci: nell’annientamento dell’adorazione ci dà nobiltà e grandezza». E a quella esperienza in cui si anticipa la vita in cielo, ha aggiunto, si può arrivare soltanto «con la memoria di essere stati eletti, di avere dentro al cuore una promessa che ci spinge ad andare e con l’alleanza in mano e nel cuore». Quindi «sempre in cammino: cammino difficile, cammino in salita, ma in cammino verso l’adorazione», verso quel momento in cui «le parole spariscono davanti alla gloria di Dio: non si può parlare, non si sa cosa dire». Le uniche parole che emergono da questo brano della Scrittura verranno evidenziate nella liturgia di martedì 6 febbraio, nella quale proseguirà la lettura del passo del libro dei Re. Nel farlo presente il Papa ha anticipato che il re «Salomone soltanto osa dire due parole, in mezzo all’adorazione: “Ascolta e perdona”, soltanto quello. Non si può dire di più. Adorare in silenzio con tutta una storia addosso», e chiedere a Dio: «Ascolta e perdona». Concludendo la sua meditazione, il Papa ha quindi suggerito: «Ci farà bene, oggi, prendere un po’ di tempo di preghiera» e in esso fare «memoria del nostro cammino, la memoria delle grazie ricevute, la memoria dell’elezione, della promessa, dell’alleanza». Un percorso interiore nel quale «cercare di andare su, verso l’adorazione, e in mezzo all’adorazione con tanta umiltà dire soltanto questa piccola preghiera: “Ascolta e perdona”». LA REPUBBLICA Pag 29 Il Papa e la solitudine del Sultano di Bernardo Valli Non interrompere il dialogo senza nascondere le divergenze è la regola diplomatica da applicare con i responsabili politici scomodi ma indispensabili. Così si salva la coscienza e la faccia, oltre agli interessi. Quello di Recep Tayyip Erdogan è un caso da manuale. A conclusione della sua visita in Vaticano, da parte del Papa si è fatto sapere che con l'ospite si è parlato di Gerusalemme. E sull'argomento Francesco ed Erdogan sono d'accordo nel deplorare il riconoscimento da parte degli Stati Uniti della città tre volte santa come capitale di Israele. Separatamente, ognuno a casa propria, si era già pronunciato sull'argomento. Mai ieri si è parlato anche della situazione in Medio Oriente e del problema dei diritti umani. Ed è evidente che la questione è stata sollevata dall' ospitante. Il Papa, che a giudicare dalle immagini si è risparmiato nell'elargire sorrisi ai visitatori, ha fatto sapere di avere evocato le divergenze con Erdogan. Il leader turco tiene circa cinquantamila persone in prigione e ha destituito dai loro incarichi almeno centoquarantamila funzionari o ufficiali delle Forze armate per supposti legami con la confraternita islamista di Fetullah Gülen, accusata del mancato colpo di Stato del luglio 2016, o di avere contatti con organizzazioni sovversive curde. Il Papa non poteva ignorare durante l'incontro la repressione di massa tutt'altro che conclusa. Né ignorare le operazioni militari promosse dai turchi in Siria contro le milizie curde, in cui il governo di Ankara vede la minaccia di una futura indipendenza curda che amputerebbe l'integrità nazionale. È una non tanto nuova guerra nella guerra, insomma papa Francesco ha rispettato la regola: ha accettato il dialogo e non ha ignorato le divergenze. Non poteva che dare l'esempio, sia pure con discrezione. In occasione dell'anniversario del massacro degli armeni compiuto dai turchi un secolo fa, Francesco non aveva esitato a indicarlo come il preludio al genocidio degli ebrei durante la Seconda guerra mondiale. Ankara, che nega con ostinazione quell'interpretazione dell'eccidio, non aveva gradito le parole

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del Papa. Ma i tempi diplomatici possono essere molto veloci. E ieri Erdogan non ha certamente evocato quel fatto. Altri erano i problemi sul tappeto. Isolato sul terreno diplomatico il presidente turco deve riannodare i legami con i Paesi dell'Unione europea. Come inevitabile partner sul problema dell'emigrazione e della crisi regionale a ridosso del Vecchio continente pensa di avere l'autorità per poter riproporre, sia pure con scarsissime probabilità di successo, la questione dell'adesione turca all'Ue. Già durante la visita del 5 gennaio a Parigi, Emmanuel Macron gli aveva tolto ogni speranza proponendo un'associazione esterna della Turchia, che equivarrebbe ad assegnarle un posto sia pur privilegiato ma fuori dalla porta. In Italia non può che avere raccolto analoghe reazioni. Forse più sfumate. Al Quirinale, dove ha pranzato con Erdogan, il presidente Mattarella ha fatto sapere che nel corso del dialogo «franco e rispettoso» sono state riaffermate le posizioni di ognuno. Divergenti su molti punti, in particolare sui diritti umani. In sostanza si è ripetuto quel che era avvenuto in Vaticano. Per i Paesi europei oltre ad essere membro della Nato, quindi almeno formalmente un vecchio alleato, la Turchia frena l'ondata migratoria destinata all'Europa, e per questo è ricompensata. Inoltre occupa nell'interminabile conflitto mediorientale una posizione strategica di primo piano. Sul piano formale questa è la situazione. La realtà è diversa. I suoi rapporti con il tradizionale alleato americano sono sempre più cattivi. In particolare da quando i turchi attaccano in Siria le milizie curde che hanno funzionato come fanteria nella coalizione guidata dagli Stati Uniti nella guerra contro l'Isis. Mentre le relazioni con la Nato continuano a peggiorare. L'alleanza alternativa con Vladimir Putin, grazie alla quale la Turchia si è potuta inserire nel conflitto siriano, sta rivelando i suoi limiti. Da qui il tentativo di riavvicinamento all'Europa. La Germania, che per la massiccia presenza di immigrati turchi, per la storia spesso comune e per i cospicui interessi economici ha sempre avuto rapporti particolari con Ankara ha frenato bruscamente lo slancio. Non ha gradito l'arresto di suoi giornalisti e l'invadenza di Erdogan che esigeva di tenere comizi per gli immigrati turchi nelle città tedesche in occasione del referendum sui suoi poteri presidenziali. Angela Merkel gli ha chiuso la porta in faccia. Prima Parigi e adesso Roma sono le due capitali attraverso le quali Erdogan tenta di riagganciare l'Europa. Per incontrare Paolo Gentiloni ha portato con sé un folto gruppo di ministri. Nonostante i suoi impegni bellici e le difficoltà diplomatiche con i partner tradizionali la Turchia conosce una forte crescita economica (il 7 per cento) e quindi le numerose imprese italiane nel Paese sono interessate a intensificare le loro attività. Sulle quali non pesano le divergenze politiche. IL FOGLIO Pag 1 Il Papa in cinquanta minuti sfugge al trappolone di Erdogan di Matteo Matzuzzi Ankara voleva arruolare Francesco tra gli alleati per rafforzare la propria posizione nel vicino oriente Roma. L'intento di Recep Tayyip Erdogan, che aveva chiesto l'udienza al Papa, era quello di tornare ad Ankara brandendo l'appoggio di Francesco per le proprie politiche nel vicino e medio oriente, soprattutto in riferimento alla "battaglia" per Gerusalemme, che a suo dire non può essere capitale d'Israele perché città di tutti. L'assonanza di vedute con il Papa sul tema c'è, visto che per la Santa Sede è fondamentale rispettare lo status quo. Ma non aveva fatto i conti con l'ospite, al quale è impossibile dettare l'agenda. E infatti il comunicato - capo lavoro di cesellatura diplomatica - pubblicato dal Vaticano sottolinea sì il confronto sulla questione Gerusalemme (il Papa, come ha più volte detto, è per la soluzione dei "due stati"), ma chiarisce che i due, nella lunghissima udienza - 50 minuti, il doppio del tempo concesso solitamente ai capi di stato - hanno parlato anche di altro: dallo stato delle relazioni tra i due paesi al problema dei migranti, fino alle condizioni della piccola comunità cattolica in Turchia, che fatica a intravedere quegli spazi d' azione che a parole più volte Erdogan ha promesso nell' ambito della sua campagna sulla libertà religiosa (le comunità cristiane nel paese ponte tra Europa e Asia chiedono da anni il riconoscimento giuridico). Nessun accenno ai curdi. L'udienza era delicata, i precedenti approcci tra Francesco e il leader turco erano stati improntati alla freddezza e anche a qualcosa di più, se è vero che nel 2015, all'indomani delle parole del Papa pronunciate in San Pietro sul genocidio armeno, Ankara richiamò il proprio

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ambasciatore a Roma, convocò il nunzio apostolico e definì il Papa uomo "che distorce la storia". Francesco, secondo il ministero degli Esteri turco, aveva assunto una posizione "discutibile sotto tutti i punti di vista" e "basata sul pregiudizio". Il capo del dipartimento per gli Affari religiosi, Mehmet Görmez - che aveva peraltro ricevuto Francesco al Diyanet solo pochi mesi prima - calcava ancora di più la mano: "Se tutti dobbiamo essere considerati responsabili per le sofferenze e i dolori passati, il Vaticano ne uscirà fuori come il grande sconfitto. Trovo le parole del Papa immorali e non riesco proprio a farle stare insieme con i principali valori del cristianesimo". Il realismo politico richiede però di andare oltre le roboanti reazioni dialettiche utili a rafforzare l'orgoglio nazionalista turco. La Santa Sede conosce l'impegno di Ankara sul fronte migranti ed Erdogan sa bene quanto ampio sia il credito di Bergoglio come leader politico nelle controversie internazionali, specie in quelle che sembrano matasse impossibili da sbrogliare (Cuba Stati Uniti, Colombia, ad esempio). Tra alti e bassi, insomma, il dialogo può andare avanti. Pag 3 Brutte nuove per il Papa sul fronte abusi L’Ap trova un documento del 2015: “Francesco sapeva del vescovo Barros” Non c'è pace per il Papa sul fronte delle polemiche per le sue dichiarazioni in terra cilena a difesa del vescovo Juan Barros, neppure ora che ha inviato a Santiago l'esperto mons. Charles Scicluna con l'incarico di ascoltare le vittime e quanti hanno "evidenze" da portare. Francesco ha sempre sostenuto l'innocenza di Barros argomentando - l'ha fatto anche davanti ai giornalisti - tale fiducia con il fatto di non aver mai avuto né prove né "evidenze" sulla sua colpevolezza. Di più: il Papa ha detto che nessuna delle vittime gli aveva riferito alcunché in merito. Ora però l'Associated Press svela un documento datato 3 marzo 2015 in cui una vittima - Juan Carlos Cruz - raccontava in otto pagine "gli abusi, i baci e le carezze subite da padre Karadima alla presenza di mons. Barros". La lettera sarebbe stata consegnata da quattro membri della commissione pontificia per la Tutela dei minori al presidente dell'organismo, il cardinale Séan O' Malley, autore della dura reprimenda al Pontefice pubblicata sul sito della diocesi di Boston. Secondo Cruz, O' Malley avrebbe consegnato al Papa brevi manu il documento tre anni fa, ricevendone conferma subito dopo l'Incontro con le famiglie di Philadelphia (era il settembre del 2015). Marie Collins, altro membro della commissione che nel frattempo ha rassegnato le dimissioni in polemica con le lentezze vaticane sul fronte della trasparenza riguardo ai casi d'abuso, ha confermato tutto: "O' Malley ci assicurò che aveva consegnato la lettera". Una situazione sempre più intricata che vede il Papa al centro di uno scontro il cui vincitore è tutt' altro che scontato. Torna al sommario 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO AVVENIRE Pag 3 Cosa vuol dire amare gli allievi come figli di Ferdinando Camon L’insegnante ferita che non trema e s’interroga A proposito della professoressa che perdona lo studente che l’ha colpita in faccia con un coltello, vorrei dire: «Barbiana docet». Pochi han notato come le due 'notizie' sulla scuola circolate su media vecchi nuovi, la settimana scorsa, si richiamassero: quella della maestra licenziata perché scrive 'squola' con la 'q' e 'sciaquone' senza la 'c', e quella della professoressa aggredita con una coltellata da un suo allievo (ricevuta e lodata ieri dal premier Gentiloni) che pensa di aver sbagliato lei, e si domanda dove. «Avrà ancora il coraggio di tornare in classe?» le chiedono. E lei: «Non vedo l’ora». «Cosa sono i suoi studenti per lei?», «Sono miei figli». «Anche quello che le ha dato la coltellata?», «Anche lui». Se un figlio commette uno sbaglio, la madre non ricambia con uno sbaglio, ma cerca di guidarlo a non sbagliare più. Ci sono altre professoresse così? Tantissime. Non se ne parla mai. Di una maestra che scrive 'squola' con la 'q' tutti parlano, non per la gravità dell’errore, che non è immensa, ma per l’ottusità che mostra, perché una maestra entra tutte le mattine in un edificio sulla cui facciata sta scritto

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'Scuola elementare', non vede che 'scuola' è scritto con la 'c'? Non lo nota? Non lo ricorda? Questo è grave. Perché studiare significa leggere e ricordare, e insegnare significa insegnare la lettura e l’apprendimento. Uno non può insegnare, se prima non ha appreso. E quindi la maestra di 'squola' e 'sciaquone' non può insegnare. Per il resto, un illustre studioso di Glottologia, Carlo Tagliavini, sosteneva che scrivere 'quore' con la 'q' non è un errore imperdonabile. Certo però, se uno fa il cardiologo ed entra tutte le mattine in una clinica di Cardiologia… Si è parlato troppo della maestra che scrive 'squola' e poco della professoressa che, ricevendo una coltellata da un allievo, si domanda: «Dove ho sbagliato?». Credo sia giusto parlare di più di questa seconda notizia. Le notizie non sono mai quel che paiono a prima vista. Una ragazza tossicodipendente è stata uccisa a Macerata, uno spacciatore nigeriano è stato arrestato con l’accusa di esser l’assassino, un simpatizzante di destra ha fatto una scorribanda armata sparando alle persone di colore che incontrava, sono tre colpevoli della droga, dello spaccio, del razzismo? Il vescovo di Macerata, Nazzareno Marconi, esclama: «Povera vittima, povero assassino, povero giustiziere! E povera società nostra che li ha generati! La ragazza caduta nella droga, il ragazzo che l’ha fatta a pezzi, l’uomo che ha sparato per vendicarla, sono tre testimoni di una catena di fallimenti che ci riguarda tutti». 'Ci riguarda' vuol dire che ci siamo dentro. Per la stessa ragione la professoressa colpita con una coltellata in faccia si domanda se non sia lei che ha fallito. Noi non troviamo niente di sbagliato nel suo comportamento: ama il suo lavoro e ama i suoi alunni come figli, anzi sono i suoi figli, lei non ne ha altri. Quello che stava interrogando lo aveva avvisato, era un’interrogazione programmata, era già stata rinviata una volta, evidentemente il ragazzo voleva boicottarla. Accusando dei mal di testa. Ma aveva anche un coltello, dove se l’era procurato? «Trovato per terra». Risposta in malafede. Le ha dato una coltellata in faccia, cosa voleva farle? «Un graffio». Risposta in malafede: la ferita è lunga 11 cm ed è stata cucita con 32 punti. L’insegnante non aveva previsto nulla, credeva che l’alunno le mettesse una mano sulla spalla. Ferita e ricoverata, pensa sempre a quell’allievo: «Sento di aver fallito, è come se avessimo fallito noi come scuola». La speranza è che nessuno «si perda per strada», neanche il ragazzo col coltello. Ma se questo ragazzo verrà corretto e recuperato, il merito sarà dell’insegnante-madre e dello strumento che usa nella didattica: l’amore. Barbiana insegna. Torna al sommario 6 – SERVIZI SOCIALI / SANITÀ LA NUOVA Pag 26 L'offerta di Villa Salus per il San Camillo di Francesco Furlan La Congregazione delle Suore Mantellate ha dato la disponibilità per l'acquisto dell'ospedale religioso degli Alberoni Mestre. Villa Salus, attraverso la Congregazione delle Suore Mantellate Serve Di Maria, ha formalizzato la disponibilità ad acquistare l'altro ospedale religioso della città, il San Camillo del Lido, oggi gestito dai padri Camilliani. E' questo l'ennesimo tessello di un puzzle molto complicato, e non ancora completato, che dovrà portare alla vendita dell'Istituto degli Alberoni garantendo la tutela del titolo di Istituto di Ricovero e Cura a Carattere Scientifico (Irccs). Un puzzle intorno al quale ci sono ancora diversi giocatori, e con tasselli diversi. Poco prima della fine dell'anno infatti dalla Congregazione è stata spedita una lettera con destinatario padre Vittorio Paleari, presidente del Consiglio di amministrazione della Fondazione Opera San Camillo - proprietaria della struttura - e anche al segretario di Stato vaticano Pietro Parolin, cui fa capo la Commissione pontificia speciale voluta da Papa Francesco per aiutare e sostenere i sempre più numerosi ospedali religiosi in difficoltà, cercando di mantenerli all'interno del perimetro religioso. L'opzione di Villa Salus permetterebbe di rispettare questa indicazione, anche se resta da approfondire come possa essere finanziato l'acquisto del San Camillo - si parla di circa 20 milioni di euro - che potrebbe trovare l'avvallo della Commissione vaticana solo con l'impiego di risorse dirette dell'ordine delle Mantellate e con la garanzia della continuità nella gestione della struttura, allontanando il rischio di capitali di cliniche private. Al rientro dalle feste natalizie è iniziata la trattativa tra Villa Salus e Camilliani,

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ai primi passi, anche se Villa Salus, da parte sua, avrebbe già confermato la volontà di mantenere la struttura al Lido, rispondendo a un'esigenza della comunità locale. Contatti sono in corso in questi giorni. La volontà di Villa Salus di entrare nella partita era in parte già trapelata all'inizio di dicembre. Ed è possibile grazie al percorso di risanamento dei conti affrontato negli ultimi anni dalla struttura del Terraglio. Dopo un dimagrimento e dopo aver messo i conti in ordine l'ospedale che si affaccia sul Terraglio sembra pronto quindi all'acquisto dell'ospedale degli Alberoni, con il quale già immagina di poter sviluppare economie di scala. La vicenda della cessione del San Camillo si trascina da più di un anno. Fino a pochi mesi fa, in una partita in cui giocava anche la Regione, sembrava essere in pole position l'imprenditore veronese Giuseppe Puntin, a capo delle cliniche Pederzoli, che già aveva raggiunto un accordo preliminare con la Fondazione Opera San Camillo, sempre smentito però dai camilliani. Puntin aveva presentato un'offerta affiancato nella trattativa dall'avvocato Stefano Dindo, dello studio legale Dindo, Zorzi & Associati di Verona. Accordo che ora sembra essere stato messo nel cassetto. Un'ipotesi iniziale della Regione prevedeva anche lo spostamento della struttura riabilitativa in terraferma e tra le destinazioni c'era pure il vecchio ospedale di Noale. Ora l'unica strada, in fase di approfondimento, per la vendita dell'ospedale porta sul Terraglio, a Villa Salus. Torna al sommario 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA CORRIERE DELLA SERA Pag 21 Brugnaro e lo stadio del basket: “Conflitto d’interessi a Venezia” di Gian Antonio Stella «Su quell’area non farò nulla. Perché è giusto. Sarebbe un conflitto di interessi. Questo lo chiariamo subito. Molto chiaro». Manco il tempo che la consigliera pd Monica Sambo diffonda la registrazione del solenne giuramento fatto in campagna elettorale dal sindaco Luigi Brugnaro e si leva tra i «brugnariani» una cagnara tale da coprire un fracasso di trombe, oboe e sassofoni. Impossibile risentire quell’imbarazzante impegno. Quanto a lui, se ne è già andato. Lasciando al suo posto, sulla poltrona di primo cittadino al centro del consiglio comunale, un suo totem: la coppa del campionato di basket vinto dalla Reyer. La sua squadra. Che vorrebbe giocare nel suo palazzetto. Costruito sul suo terreno (inquinato). Col suo via libera. Lungo il ponte che porta alla sua Venezia. Un conflitto di interessi che spacca la città, invelenisce le opposizioni e pare al contrario un banale dettaglio ai tifosi locali, compatti nello spellarsi le mani a ogni passaggio del sindaco col groppo in gola («abbiamo portato qui lo scudetto dopo 74 anni!») e nel coprire di «buuuu» ogni contestazione. Resta il tema: è opportuna, ammesso sia legale, la spinta d’un sindaco a costruire sul suo terreno un palasport che dovrebbe aprire un varco per costruire poi nei dintorni, accusano i nemici del progetto, «un albergo da 700 camere, un centro commerciale, una casa di riposo di lusso per anziani, villette e il casino spostato da Tessera»? Sì, risponde lui. Non dicevano forse Vittorio Valletta e Gianni Agnelli che «quel che fa bene alla Fiat fa bene anche all’Italia» o Silvio Berlusconi che «quel che fa bene a Mediaset fa bene anche al Paese»? Lui, il figlio di un operaio di sinistra e di una maestra, laureato in architettura e capace di strappare due anni e mezzo fa la città alla sinistra, pare convinto: gli interessi suoi e quelli di Venezia, vedi coincidenza!, coincidono. Al centro della polemica, come è noto, ci sono 44 ettari di terreno abbandonato a destra del Ponte della Libertà andando verso Venezia. Un terreno che apparteneva allo Stato e che lo stesso Brugnaro comprò nel 2006, quando faceva solo l’imprenditore e pareva non avere mire politiche, per cinque milioni. Unica offerta: «Ma i soldi bisognava averli». In origine doveva essere destinata a «Verde Urbano Attrezzato», come le vicine aree del Parco San Giuliano. Poi hanno cominciato a farsi largo altre ipotesi. Più ambiziose. Come quelle esposte nello studio dell’architetto Luciano Parenti. Le cui proiezioni futuristiche hanno entusiasmato gli «sviluppisti» e gelato il sangue agli ambientalisti. Rovente già in campagna elettorale, quando il futuro sindaco spiegava d’aver comprato quegli ettari «perché non finissero in mano ai soliti speculatori milanesi o romani (li gestirò quando avrò finito di fare il sindaco») il tema è

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diventato sempre più rovente. Fino a deflagrare un mese fa quando Nicola Pellicani e Andrea Ferrazzi, del Pd, nella scia d’una dura opposizione e di una serie di «voci» sugli appetiti lagunari di Ching Chiat Kwong, chiesero in un’interrogazione se questo celebre magnate di Singapore avesse fatto davvero un’offerta per l’acquisto dell’area per una cifra esorbitante: da 150 a 200 milioni di euro. O addirittura, sospettano Giovanni Pelizzato (lista civica Casson) ed Elena La Rocca (M5S), oltre 360. Un affarone, per un terreno che ne era costati cinque. «Vergognatevi! È un modo oltraggioso e diffamatorio di affrontare le questioni!», tuona «Gigio» Brugnaro nel consiglio comunale convocato dagli oppositori (13 contro 23 a destra) raccogliendo le firme. E accusa: «Sono cose che fanno scappare gli investitori». Giura: «Bastava una telefonata! Non occorrevano le firme! Comunque è l’occasione per dare un parere pubblico e un’indicazione chiara in primis ai proprietari dell’area». Voce dal pubblico: «Ma se el paron ti xe ti!». Ah, sospira il sindaco, che bello se tutti collaborassero come ai tempi di John Adams e «i rancorosi e gli invidiosi la smettessero»! Ironie a sinistra, entusiasmo a destra: «Siiiiii! Così!». «Quali conflitti d’interessi, accidenti! Quali? Perdere soldi ogni anno per difendere il futuro, per quel che si riesce, del vetro di Murano? La Reyer? Ecco: la Reyer, il mio cuore e la mia passione, costa milioni di euro all’anno senza alcun contributo pubblico, ha fatto sognare generazioni di veneziani!» Ma come: rinuncia allo stipendio, non chiede rimborsi spese, paga i parcheggi «come i normali cittadini» e gli tirano fuori sempre i conflitti di interessi? «Ho costituito, per primo, un “blind trust” dove sono state fatte confluire tutte le azioni delle aziende che possedevo e che saranno gestite da un trustee newyorkese, l’avvocato Ivan A. Sacks». Il tutto «per distaccarmi completamente dalle mie aziende». Pensava che le «cattiverie» finissero. Macché: ancora lì, Felice Casson e i grillini e gli altri a dirgli che un «fondo cieco» può andar bene «per la gestione di azioni ma lui, il sindaco-padrone, sa benissimo che qualunque cosa faccia quei terreni sono suoi». Del resto, lo sa anche lui: «ad oggi, che mi sia dato sapere, non è stato siglato alcun accordo con investitori nazionali o internazionali». Ha saputo infatti «da notizie pubbliche» che la «società proprietaria» («cioè sempre ti!», ridono in fondo alla sala) «non ha conferito incarichi a chicchessia». Però, spiega tra i sospiri dei tifosi, la Federazione del basket ha comunicato che d’ora in avanti gli impianti sportivi devono contenere almeno 15.000 spettatori. Va fatto. Altrimenti, addio… Quindi? «Credo sia giunto il momento che il gruppo proprietario dell’area si senta libero, anzi si senta obbligato, ad agire per dare una prospettiva di rilancio dell’area in questione anche nell’interesse di tutta la comunità». Tombola! Parla proprio della terra sua». E non gli chiedano, come sindaco, di requisire l’area che possiede: «Costerebbe al Comune decine di milioni…». Conclusione: «Mi auguro che da questa discussione si confermi l’intenzione di presentare progetti e piani di valorizzazione per il recupero dell’area dei Pili, al fine di un suo disinquinamento e di un suo sviluppo all’interno del quale, io spero vogliano inserirci il nuovo palazzo dello sport, il più bello e moderno possibile». E lui, il padrone, se proprio il consiglio comunale insistesse per fare il palazzetto lì? Ma basta, non ha più tempo per ‘ste cose. Mette a sedere la coppa, si gira e se ne va. IL GAZZETTINO Pag 9 Indossa abito d’epoca. Il sacerdote rifiuta di darle la comunione di lil.ab. Venezia, inatteso divieto durante la messa domenicale a S. Moisè. Il parroco nega l’eucarestia a una signora vestita da Carnevale Venezia. Il contesto: domenica scorsa, 4 febbraio, Venezia, pieno Carnevale, con la città storica soleggiata e invasa da migliaia di turisti e curiosi provenienti da ogni parte del mondo, ma anche di tante persone che amano mascherarsi e sfoggiano, per l'occasione, preziosi e ricercati abiti d'epoca. Il luogo: la chiesa di San Moisè, nel campo omonimo, a pochi passi da Piazza San Marco, edificio sacro che ospita tra gli altri alcuni capolavori del Tintoretto e di Palma il Giovane. I protagonisti: il sacerdote celebrante la santa Messa domenicale (in sostituzione dell'assente don Roberto Donadoni, apprezzato parroco di San Moisè) e una fedele italiana che, dato il clima carnascialesco veneziano, partecipa alla celebrazione religiosa in costume. Non un banale e irriverente mascheramento, bensì un ricco e lungo abito blu d'epoca impreziosito da inserti d'oro, sobriamente accollato e corredato da mascherina, parrucca e cappellino coordinati. Nulla lasciato al caso, insomma.

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IL DIVIETO - Evidentemente ignara di divieti (veri o presunti), la signora, cattolica praticante, ha deciso di rinunciare a un'ora di passeggiata-sfilata tra le calli e i campi veneziani, per prendere parte alla Santa messa domenicale, che a San Mosè si celebra tradizionalmente alle 11.30. La signora non è sola: con lei ci sono due ragazze anch'esse agghindate con molta cura e pure loro vestite con abiti d'epoca, seppur di foggia e tonalità diverse. Tutte e tre giungono per tempo in chiesa e seguono sin dall'inizio la messa domenicale occupando una delle ultime file di banchi. Al momento della comunione, ecco però l'imprevisto. La signora di blu vestita si mette compostamente in fila, per ricevere l'eucarestia. Quando però arriva il suo momento, giunta di fronte all'altare, si vede rifiutare dal sacerdote la comunione. Le viene spiegato che non può ricevere l'eucarestia, perché è mascherata. LO STUPORE - Lei, chiaramente stupita, non si fa ragione di quel diniego, che considera inspiegabile. Insiste per qualche secondo, ma il sacerdote è irremovibile quanto sbrigativo e alla signora non resta che scuotere le testa e tornare, contrariata, al suo posto, tra lo sconcerto di alcuni dei fedeli presenti alle messa che assistono alla singolare scena. La celebrazione si conclude pochi muti dopo e la signora lascia la chiesa, accompagnata dalle due altre mascherine. Tranquillamente, senza alcuna protesta. Ma difficilmente si dimenticherà di quel singolar rifiuto e di questa particolare domenica di carnevale veneziano. IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag IV Meno turisti, stavolta va bene a tutti di Michele Fullin Carnevale, i numeri Venezia. L'invasione di visitatori c'è stata anche domenica per il volo dell'Angelo, ma la pressione è stata molto minore. In base alle stime ancora spannometriche (dovrebbe essere l'ultimo anno) sarebbero arrivate in città circa 70mila persone, ben 50mila in meno rispetto alle 120mila del 2017 e in città tutti si rallegrano del risultato raggiunto, a cominciare dal sindaco Luigi Brugnaro. MENO GENTE - «È andata bene - commenta - ma non mi lascio andare a facili entusiasmi così come di solito non mi fascio la testa. Dico solo che si è cominciato un percorso che non si era mai fatto prima. Domenica a Venezia c'era meno gente perché abbiamo comunicato per tempo che la piazza sarebbe stata a numero chiuso per il Volo e poi anche perché a Mestre e in terraferma c'erano molte iniziative. Io ci sono andato e vi assicuro che era divertente e tutto dedicato alle famiglie. Anzi, se potete, raccontate quanto bello è il carnevale di terraferma, così attiriamo anche famiglie da Treviso e Padova». Il fatto che questa volta vada bene il fatto che siano arrivati meno turisti di giornata per il Carnevale è significativo del cambio di tendenza, poiché in anni neppure tanto lontani ci si rallegrava quando l'asticella delle presenze si alzava fino a raggiungere vette inverosimili, con difficoltà sia nella gestione dell'evento che per la qualità della vita quotidiana dei veneziani, pesantemente messa a dura prova dalle grandi masse. EVENTI DA ALLEGGERIRE - La direzione presa quest'anno, come ha detto il sindaco, è solo l'inizio di un percorso, poiché l'intenzione del Comune è ripensare radicalmente il Carnevale alleggerendo gli eventi più di massa, che oggi sono difficilmente gestibili anche per l'enorme quantità di risorse in termini di persone che assorbono. Per osservare le più recenti disposizioni di sicurezza (Legge Minniti) sono stati impiegati oltre 750 uomini, tra cui 250 vigili e 100 steward oltre a volontari, soccorritori del Suem, vigili del fuoco e forze dell'ordine di Stato. Una mobilitazione enorme per un solo evento, per cui si punterà sulla massima diffusione su tutto il territorio, con modalità che saranno analizzate già alla fine di questa edizione. LA COMUNICAZIONE - Se non c'è stata la temuta invasione con le code infinite ai varchi della piazza è anche per la comunicazione delle criticità che quest'anno è stata fatta per tempo. «Mi hanno detto - commenta l'assessore al Turismo, Paola Mar - che era scritto anche sui treni di fare attenzione al numero chiuso. Abbiamo cercato di spiegare nel modo più ampio possibile per evitare che la gente si accalcasse. Il Carnevale non è solo un evento, per quanto suggestivo. È passato un messaggio però parzialmente sbagliato: Venezia non è a numero chiuso, ma solo la piazza in occasione del Volo. La comunicazione in anticipo è però riuscita». Poi c'è il ruolo sempre più ampio rivestito dalla terraferma. «In terraferma - aggiunge - ci sono cose che possono essere gestite

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meglio che a Venezia. Su Mestre abbiamo investito molto e c'è stata una grande risposta da parte della gente. Domenica sono passata alle 12.30 ed era pieno di gente. Forse per la terraferma dobbiamo comunicare ancora di più le nostre iniziative». TELECAMERE INTELLIGENTI - Come annunciato, sono state fatte alcune sperimentazioni di conteggio delle persone in arrivo e in partenza, ma il Comune non ha ancora i dati a disposizione. Lo abbiamo fatto - conclude Mar - per sperimentare varie tecnologie. Più tecnologie integrate forniranno la soluzione che cerchiamo». GLI ALBERGATORI - Abbastanza soddisfatti per l'andamento gli albergatori anche se il maltempo e il periodo basso non hanno portato al pienone. «Sento parlare dell'esigenza di modificare l'assetto dei grandi eventi per motivi di sicurezza - commenta il direttore Ava, Claudio Scarpa - e potrebbe essere l'occasione per ripensare il Carnevale di Venezia, spostandolo più sulla cultura e sulle grandi feste nei palazzi. E poi rilanciare il la festa popolare locale. Siamo aperti a ogni tipo di dialogo - conclude - ma il Carnevale va ripensato completamente, più che semplicemente trasferire eventi. E bisogna pensarci subito». Per quanto riguarda infine l'andamento dell'occupazione delle camere, questo risente del Carnevale basso. «Ci sono state diverse disdette anche per il maltempo annunciato - aggiunge Scarpa - e domenica sera era possibile trovare un po' ovunque in città camere libere ad un prezzo abbordabile. Ciò non toglie che Carnevale continui ad essere un toccasana per l'economia della città. Prima del carnevale - conclude - i contratti del personale non solo degli alberghi erano a nove mesi e per i rimanenti tre chi lavorava nel turismo doveva andare altrove per lavorare. Ora non è più così, ma se ripensando la manifestazione ritrovassimo anche una qualità maggiore sarebbe un bel risultato». Pag V Sfida alla sicurezza in Piazza, blitz no global sulla Basilica di Michele Fullin Venezia. Un blitz di protesta in piazza San Marco in pieno periodo di Carnevale non dovrebbe essere una cosa semplice da organizzare e da attuare, tante solo le misure istituite per garantire la massima sicurezza per i cittadini e i visitatori della città. Eppure, ieri mattina tra le 11.15 e mezzogiorno, una dozzina di attivisti dei Centri sociali del Nordest e l'associazione Ya Basta! sono riusciti a salire sul loggiato della Basilica di San Marco e srotolare uno striscione contro la visita del premier turco Erdogan al Papa. Non solo, perché sono stati accesi anche alcuni fumogeni di colore giallo, mentre una cinquantina di altri attivisti protestavano in piazza con un altro striscione e fumogeni di colore rosso. LE CRITICHE - «Ma cosa ci stavano a fare tutti quegli agenti in piazza se questi sono riusciti per tutto quel tempo a fare ciò che volevano?». La domanda serpeggiava tra gli operatori commerciali di San Marco, preoccupati del fatto che se ci fossero stati dei terroristi al posto degli innocui manifestanti l'attenzione sarebbe stata la stessa. In un certo senso, come accade per le puntate degli hacker nei sistemi informatici governativi per dimostrare la loro vulnerabilità, questi manifestanti hanno dimostrato come l'apparato di sicurezza, al di fuori delle giornate di punta quando la piazza è presidiata a vista, non sia stato così efficiente come si poteva pensare. ENTRATI SENZA PROBLEMI - Non si parla solamente delle forze dell'ordine dislocate in area marciana, ma anche dei controlli situati all'ingresso della Basilica, che evidentemente hanno consentito ad alcuni visitatori di entrare equipaggiati con striscione e fumogeni. Pare che in questo caso i manifestanti siano entrati indisturbati. «Nessuno ci ha controllati - hanno detto - all'ingresso in Basilica». LA PROTESTA - Ya Basta Edi Bese! e i Centri sociali del Nordest hanno protestato contro la visita del presidente turco Erdogan in Italia. La manifestazione era infatti nata un mese fa circa in seguito ad incontri con la Rete Kurdistan per denunciare la repressione del governo nazionalista e islamista di Erdogan nei confronti di quel popolo. «La Turchia - dicono - secondo paese per esercito della Nato, continua a colpire in modo indiscriminato coloro che hanno sconfitto l'Isis attaccandoli nella città di Afrin, simbolo di pace ed accoglienza. Erdogan a Roma sarà accolto con gli onori di Stato da Gentiloni e Mattarella, e incontrerà anche Papa Francesco e il Segretario di Stato Vaticano Parolin, intavolando trattative politiche ed economiche e cercando così di sdoganare la Turchia dall'isolamento politico in cui si trova. Egli non negozierà - continuano - sulla guerra ad Afrin contro i popoli del Kurdistan. Ha le mani sporche di sangue. Roma intanto è

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bloccata da qualche giorno: reparti speciali schierati e in campo per garantire la sicurezza di Erdogan, aree off limits e bonifiche a tappeto. Oltre 3500 uomini delle forze dell'ordine a disposizione - concludono - più o meno le stesse energie investite nei giorni del 60. anniversario del Trattato di Roma quando, però, i leader a Roma erano una trentina». Pag VI Appello al parroco: “Non trasformi la merceria in un’altra osteria” di Daniela Ghio Petizione dei residenti in fondamenta degli Ormesini: “Non se ne può più” Venezia. No a un nuovo bar–osteria–cicchetteria in fondamenta degli Ormesini. È l’appello di una petizione di numerose famiglie delle parrocchie di Sant’Alvise, San Marcuola e Madonna dell’Orto, preoccupate dalla imminente chiusura del negozio di merceria di proprietà della parrocchia di Sant’Alvise e affidato in gestione al suo braccio operativo Sib, Società iniziative benefiche, nel sottoportego dei Lustraferi, a Cannaregio. LA PROPRIETA’ - La parrocchia di Sant’Alvise, proprietaria dell’unità immobiliare, è anche proprietaria di altre quattro unità adiacenti, nonché dell’appartamento immediatamente sovrastante. «Da informazioni sufficientemente attendibili ci risulta che la parrocchia abbia l’intenzione di autorizzare l’apertura di un nuovo bar-osteria-cicchetteria o simile – scrivono nella lettera che accompagna la petizione Maria Elisabetta Zanini e Alessandro Gambarotto - Prima che procediate a qualsiasi decisione volevamo esprimervi, come residenti, la nostra seria preoccupazione. In questi ultimi anni, nelle contigue fondamente degli Ormesini e della Misericordia abbiamo assistito all’apertura di numerosi bar, pizzerie e cichetterie che hanno reso la zona un luogo di ritrovo per tanti giovani. In sostanza si assiste a quell’analoga trasformazione già vista per Campo Santa Margherita, che ora è diventato anche sede di spaccio e di episodi di violenza. E in sovrappiù in estate si aggiungono le imbarcazioni che con l’autoradio ad alto volume sostano davanti ai locali sulle rive della fondamenta». BOOM DI LOCALI - I residenti lamentano come anno dopo anno il continuo aumento dei bar e di conseguenza degli avventori di questi locali (a certe ore centinaia di giovani) sta rendendo la zona sempre più invivibile: numerosi assembramenti di persone sedute anche per terra che in serata ostacolano il passaggio nella fondamenta; schiamazzi, grida, fragorose risate e “orchestrine” improvvisate da parte di persone spesso alterate dal consumo di alcool, che talvolta proseguono fin nel cuore della notte. Il disturbo è continuo e diventa difficile poter riposare. «Il nostro sottoportego, in particolare – continuano Zanini e Gambarotto - con i suoi muretti e i due ponti adiacenti, offre un comodo luogo di sosta per chi desidera tirar tardi chiacchierando e bevendo. Pensate ora alle conseguenze che avrebbe l’apertura di un ulteriore bar o punto di ristorazione, il dodicesimo bar nella sola fondamenta degli Ormesini, proprio in questo sottoportego, la cui struttura oltre a far da cassa di risonanza al vociare della gente, diventerebbe un formidabile luogo pubblico di assembramento per gli avventori del bar, al riparo dal sole e dalle intemperie. Inoltre accanto al sottoportego ce n’è un altro più defilato, il sottoportego Lezze, che offrirebbe un ulteriore spazio per appartarsi e addirittura orinare. Aprire un bar o qualcosa di simile sarebbe sicuramente il colpo di grazia sia per gli inquilini dell’immobile direttamente interessato, sia per l’intero vicinato». IL PARROCO - I residenti credono che sarebbe un grave danno se la parrocchia pur animata dall’intenzione meritoria di sostenere con i proventi dell’affitto opere a favore delle persone più deboli partecipasse a questo degrado e impoverimento del tessuto cittadino, che può venir fermato solo da chi ama questa città. «È vero che il negozio di merceria sta chiudendo ma non è vero che al suo posto ci sarà un bar cicchetteria – afferma il parroco don Stefano Costantini -. Sono solo voci di quartiere che non rispondono alla realtà. Al momento non abbiamo ricevuto alcuna ipotesi o proposta di alcun genere per quell’immobile. Qualora arrivasse la valuteremo attentamente». Pag XII Interviste con i candidati al Lux Si comincia domani con Mognato e Nicoletti Mestre. Un ciclo di incontri per conoscere candidati e programmi delle prossime elezioni politiche. L'iniziativa, realizzata da Gente Veneta e l'associazione La Rotonda, promuove

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una serie di incontri e interviste con i candidati, aperti al pubblico e tutti in programma nella sala polifunzionale Lux a Carpenedo. Il primo appuntamento si terrà domani alle 18 e interverranno Michele Mognato (Liberi e Uguali) e Carlo Nicoletti (Popolo della Famiglia). Modera Giorgio Malavasi. Secondo incontro martedì 13 febbraio, alle 18, con Enrico Schenato (Movimento 5 Stelle). Modera Chiara Semenzato. Mercoledì 14 febbraio, alle ore 20.45, toccherà ad Andrea Ferrazzi (Pd coalizione di centrosinistra). Modera Alessandro Polet. Giovedì 15 febbraio, infine, alle 18, con Giorgia Andreuzza (Lega coalizione di centrodestra). Modera Maurizio Padovan. LA NUOVA Pagg 2 – 3 Scontro sui Pili. Lo show di Brugnaro, piange e lascia la coppa di Alberto Vitucci e Mitia Chiarin Il sindaco smentisce i conflitti, elenca tutto quello che ha fatto da privato e accusa: “Siete dei rancorosi”. Il Consiglio vota sì, anche i Cinque Stelle stanno con il sindaco Mestre. Quarantacinque minuti di discorso. «L'ho scritto, viste le offese, le cattiverie e la qualità degli interlocutori». Momenti di commozione, con le lacrime trattenute a fatica quando parla di Marghera, del futuro, della Reyer. Un dossier per smentire quelli che lui chiama «i rancorosi, che bloccano tutto e non propongono mai niente». E il colpo di scena finale. La Coppa tricolore dello scudetto messa al posto suo in aula. «Per rispetto al Consiglio non parteciperò alla discussione. Al posto mio lascerò un piccolo ricordo: la gente parla con quello che ha fatto». Il sindaco Luigi Brugnaro scende nel parterre e affronta a modo suo la mozione presentata dalle opposizioni sui Pili. Più che un discorso politico, un'appassionata arringa, interrotta più volte dall'emozione. «Operazione verità», la chiama, «per vedere da che parte vuole stare la comunità veneziana». La tesi è che «quella è l'area migliore per realizzare un nuovo Palasport da 15 mila posti. Il Comune non ha i soldi e lo faranno i privati».I progetti. «Oggi non ce ne sono», attacca Brugnaro, «faremo un consiglio comunale sul nulla. Ma sarà l'occasione per chiarire. Ancora una volta questa è una vicenda emblematica. Quando si è sul punto di fare qualcosa, ecco l'elenco triste degli oppositori. Bisogna sospettare, demolire, far paura. E si fanno scappare gli investitori. Io mi ribello con tutte le mie forze a questo modo oltraggioso di affrontare i problemi».Lavoro. «Il lavoro non si crea per decreto», continua. Si rivolge ai cittadini: «Quando avrete questi dati potrete discutere e scegliere. Il mio unico obiettivo è quello di ridare speranza alle nuove generazioni». La voce si incrina, Brugnaro si ferma. Brusio in aula. Lui continua, prova a recuperare il filo: «Qui c'è chi continua a fare polemiche partitiche, cioè di parte. Rancorosi e invidiosi la smettano di seminare catastrofismo».Conflitti di interesse. «Quali sarebbero questi conflitti? Aver vinto una gara pubblica e aver ristrutturato la Misericordia e averla riaperta alla città? Oppure essere stato l'unico che ha preso la gestione della Scuola del Vetro di Murano Abate Zanetti, dove metto soldi ogni anno? Ho rinunciato al mio compenso da sindaco e ai rimborsi spese. Viaggio con la mia macchina e la mia barca, pago il parcheggio come tutti i cittadini. Nonostante questo, proprio su richiesta di Scano e Casson, ho avviato il blind trust, primo caso in Italia, affidando le mie proprietà a uno studio legale di New York».La Reyer. «Il mio amore, la mia passione. Costa milioni di euro l'anno, senza alcun contributo pubblico. Abbiamo fatto grande questa squadra negli anni grazie al contributo di tanti allenatori, giocatori, tifosi. E abbiamo portato in questa città lo scudetto dopo 74 anni. Ho restaurato il Taliercio a spese mie. Vergognatevi lo dico io!».I Pili e le alternative. Brugnaro ribadisce: «In quell'area di 42 ettari, mai stata a usi industriali o portuali potremo costruire un palasport modernissimo da 15 mila posti. Svincolata anche dal punto di vista viabilistico dall'area vicina. Le alternative? Chi parla di esproprio non sa che il Comune dovrebbe farlo a prezzi di mercato, decine di milioni. Ai privati faremmo un gran favore. Nell'area del PalaExpo?». Se la prende con Ferrazzi: «Lo faranno senatore per legge, ma non sa che ci sono le colonne. Sarebbe il primo palazzetto con le colonne in mezzo».Gli oppositori. Attacca i due del gruppo misto Renzo Scarpa e Ottavio Serena. «Hanno preso poco più di cento voti, si sono fatti eleggere nella mia lista e adesso fanno l'opposizione. Non vedo l'ora che facciano la legge sul vincolo di mandato».La storia. Brugnaro ricostruisce carte alla mano la lunga storia dei Pili. Inquinati da fosfogessi della Montedison dagli anni Settanta. Il 13 marzo del 1998 la prima ordinanza formata da Cacciari per recintare l'area, «allora adibita a campo

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sportivo». Nel 2001 la transazione giudiziaria con 520 miliardi versati dalla Montedison, di cui 42 destinati al disinquinamento dei Pili. Nel 2003 comincia la bonifica d'emergenza e la conterminazione dell'area da parte del Magistrato alle Acque. Nel 2005 la società Porta di Venezia acquista all'asta (unica concorrente) i 420.530 metri quadrati dell'area dei Pili. Nel marzo 2011 il ricorso al Tar contro il decreto del Ministero. «Erano anni in cui si ricattavano le aziende. E poi si è visto. E chi ha difeso quell'area dall'inquinamento sono stato io», dice Brugnaro.La radioattività. Il sindaco ricorda la cessione gratuita dei terreni al Comune per la pista tramviaria (2012) e per la pista ciclabile (2013). «Le analisi hanno dimostrato che non ci sono pericoli. E l'area a rischio Seveso è fuori dai confini dei Pili».Il Taliercio. Legge la lettera del presidente Fip Gianni Petrucci. Se non ci sarà un progetto per un nuovo impianto da almeno 5 mila posti, la Reyer dovrà andare a giocare lontano. Un disastro».Il faro. «Obiettivo è il rilancio di Marghera. Che ha avuto più morti degli americani. Loro hanno acceso il faro a Ground zero e noi no?». Poi l'uscita fra gli applausi fucsia. Sui Pili, è il messaggio, non si torna indietro. Mestre. Alla fine il consiglio straordinario chiesto dalle opposizioni per chiarire la vicenda Pili si conclude con un colpo di scena, inatteso. I Cinque Stelle - parte dell'opposizione critica all'affaire Pili - votano a favore dell'ordine del giorno della maggioranza che dice sì al palasport a Marghera. Favorevoli 23, contrari 6 è il verdetto finale di un lungo consiglio, scandito anche dalle contestazioni del pubblico ai consiglieri di opposizione (platea di tifosi Reyer e sostenitori del sindaco, compresi consiglieri fucsia). Il documento della maggioranza di centrodestra dice un sì preventivo al palasport ai Pili «viste le destinazioni e le potenzialità urbanistiche dell'area pienamente coerenti con la possibilità di realizzare impianti sporti moderni e efficienti». In attesa di vedere svelati i progetti, che ancora non ci sono, dice il sindaco. «Non siamo ideologicamente avversi alle prospettive di sviluppo», spiega Davide Scano, motivando l'appoggio con una serie di modifiche al testo. «Il progetto verrà valutato. Abbiamo perplessità sugli aspetti viabilistici, sulla mobilità», continua Scano, «ma vogliamo andare a vedere le carte, valutando il progetto senza pregiudizi». «Non siamo contro la realizzazione di un palazzetto o di uno stadio da calcio, sia chiaro ma non ci convincono alcune parti del documento. Chiedere al consiglio un parere preventivo positivo è infondato», ribadisce il senatore Felice Casson (Leu) che il consiglio straordinario l'aveva chiesto per primo per «sapere se ci sono speculazioni ed eliminare conflitti di interesse e vorrei vedere il documento inviato a Porta di Venezia il 24 febbraio 2017, in attesa che muri di gomma e struzzi al Ministero vengano meno». Le perplessità restano, ribadisce: la mancanza di valutazione di alternative che permetterebbero una realizzazione più veloce (vedi il Petrolchimico o il Quadrante di Tessera, ndr); i tempi lunghi di modifiche urbanistiche al verde urbano attrezzato e terminal previsti da Pat e Prg e la direttiva Seveso III, che «comprende anche l'area a ridosso del ponte della Libertà, e i Pili ovviamente».Scarpa e Serena (Gruppo misto) restano pure loro contrari. «Non si parla di caratterizzazione preventiva dei terreni e non si discute su eventuali alternative. Per i Cinque Stelle questo documento può andare ma a noi no», ribadisce Scarpa. «Un palasport è una opportunità per la città per lo sport e gli spettacoli. Ma non sono convinto che i Pili siano la soluzione più veloce per dare risposta a questa necessità. Questioni ambientali, trasportistiche e urbanistiche rendono impossibile un parere preventivo», ribadisce Nicola Pellicani e pure il Pd vota contro (assente Ferrazzi, impegnato a Roma, che invia una nota sulle criticità del progetto). Alle 21.20 il voto, poi tutti a casa. Anche la Coppa della Reyer, rimasta fino all'ultimo sullo scranno del sindaco. Mestre. Il sindaco esce dall'aula e al suo posto colloca la Coppa del campionato 2017 vinto dalla Reyer. Una coppa in consiglio comunale sullo scranno del primo cittadino. Situazione decisamente insolita che ha preso in contropiede gli stessi consiglieri. Una coppa che è rimasta al suo posto senza che nessuno l'abbia spostata, nonostante gli inviti di consiglieri d'opposizione. Inizia il vicepresidente del consiglio comunale, Giovanni Pelizzato, che per primo esprime il disagio di fronte alla inconsueta situazione. «È una questione di decoro, chiedo che venga tolta da quello scranno», chiede ufficialmente senza ottenere nulla. Ci prova anche Nicola Pellicani (Pd): «Con questo gesto, si trasforma un trofeo di cui tutti andiamo orgogliosi in uno sberleffo. Così si trasforma il Consiglio comunale in una caricatura del consiglio stesso», segnala Pellicani,

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con evidente imbarazzo. Non succede nulla. La presidente del consiglio comunale Ermelinda Damiano non prende alcuna decisione a riguardo. Nel frattempo, dalle sedie del pubblico si alza Andreina Zitelli che prende il telefono in mano e corre a telefonare in prefettura per denunciare la situazione paradossale. E spiega che dalla Prefettura hanno spiegato che sarebbe in questi casi previsto un intervento del segretario comunale. A questo punto, medita la Zitelli, pare doveroso un esposto al prefetto su quanto è accaduto senza l'intervento né del presidente del consiglio comunale né della segreteria del Comune. Tifosi della Reyer nell'aula del Consiglio comunale in via Palazzo. L'anomalìa è che non erano lì per protestare contro l'amministrazione, come spesso succede. Ma per sostenere il sindaco e attaccare le opposizioni. Gli striscioni li avevano appesi nella notte a Ca' Farsetti e sul ponte di Rialto: «Vogliamo il Palazzetto Nuovo». I volantini li avevano distribuiti all'inizio della partita, al palasport Taliercio. E ieri sono stati in aula per due ore, ad ascoltare i consiglieri e il sindaco. Qualche «buu» all'indirizzo degli oppositori che provano a lanciare proposte alternative. «L'ex Ospedale di Mestre», azzarda Davide Scano dei Cinquestelle. «Come no... e la viabilità e i parcheggi? Ghe andemo col do sbarrà»? Fischi anche all'altra ipotesi alternativa lanciata da Scano, quella dell'area del Petrolchimico a Marghera. «Là invece non c'è inquinamento?». Battibecco finale con Andreina Zitelli, che prova a convincerli. «Voi non ce l'avete una fede, non capite», rispondono i Panthers. Ribadiscono quanto hanno scritto sui loro volantini. «Non abbiamo idee politiche, diciamo solo che vogliamo il palazzetto, e non ci interessa chi lo fa». Brugnaro sembra rispondergli a distanza. «Non dovrà più succedere», scandisce, «quello che è successo con Zamparini. Voleva investire per il nuovi stadio e lo hanno fatto scappare». «Bisogna farlo», dice un tifoso, «altrimenti l'anno prossimo la nostra squadra campione d'Italia dovrà giocare a Trieste o a Verona». Pag 21 Porto, traffici complessivi in lieve calo di Gianni Favarato Crocieristi in picchiata dell’11%, ma i container sono stabili. Musolino: “Lo scalo del Nordest siamo noi” Il porto di Venezia ha chiuso il 2017 con un totale di merci movimentate nei dodici mesi in modesta flessione (-0,5% rispetto al 2016), confermando i 25 milioni di tonnellate di merci in arrivo e partenza dalle banchine portuali a fronte dei 21 milioni di tonnellate del 2015, ma ancora lontano dal totale di 30 milioni di tonnellate del 2007 e 2006, quando non era ancora scoppiata la crisi finanziaria e poi economica a livello internazionale, dovuta alla bolla speculativa dei mutui negli Usa. Il traffico merci. I saldi negativi dei settori commerciali che hanno pesato sull'andamento del 2017 sono le rinfuse liquide (-2,4%), dovuto ad un -3,7% (pari a 279.347 tonnellate in meno) di combustibili già raffinati, ma sopratutto al saldo uguale a zero del traffico petrolifero che è cessato in laguna in quanto la raffineria dell'Eni è stata trasformata in una bioraffineria che lavora gasolio già raffinato in altri siti che viene miscelato con olio di palma per produrre biodiesl. Le rinfuse solide hanno segnato un saldo ancora più negativo (-3,8%) dovuto essenzialmente al costante calo delle importazione di carbone che ha fatto seguito alla chiusura di una delle due centrali termoelettriche dell'Enel (la centrale Giuseppe Volpi di Marghera attualmente in demolizione) e l'utilizzo, insieme al carbone, dei rifiuti urbani utilizzati come combustibile. In calo anche l'import di semi oleosi, derrate alimentari e foraggi (-6%). Ben diversi sono i dati relativi al traffico di traghetti ro/ro che arrivano e partono dal terminal delle Autostrade del Mare di Fusina (con una sola darsena delle due previste in funzione) che è cresciuto l'anno scorso di ben il 44,8%, ancor più dell'anno precedente (+30 % nel 2016 rispetto al 2015). Per quanto riguarda il traffico di merci su container nei terminal di Vecon-Psa e Tiv-Msc, il saldo del 2017 sul 2016 è uguale a zero, confermando il record dei 600 mila teu (l'unità di misura di standard dei contenitori con certificazione Iso) dell'anno scorso, dei quali 203.210 teu di container vuoti e 402.798 pieni. Il traffico passeggeri. I dati dell'Autorità Portuale di Sistema relativi al traffico passeggeri confermano, ancora una volta, un calo dei passeggeri delle navi da crociera (-11,1%), in particolare di quelle che iniziano o concludono la crociera proprio a Venezia (-12,8 % pari a 183.235 passeggeri in meno), mente il calo è molto più contenuto (-1,3 % pari a 2.665 mila passeggeri in meno del 2016) per le toccate. Nel

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2017, comunque, le navi da crociera hanno portato a Venezia 1.445.067 passeggeri, confermando il quarto posto nella classifica dei porti per croceristi del Mediterraneo, dopo Barcellona, Civitavecchia e Palma di Mallorca. In ulteriore e forte crescita sono, invece, i passeggeri dei traghetti (+34,4%) che sono arrivati nel 2017 ad un totale di 203.966, dei quali 104.294 su "ferry boat" per altri porti e 99.702 su traghetti locali con traghetti che non superano le 20 miglia giornaliere. «I traffici nel 2017 sono andati bene, non benissimo, ma nel vero porto del Nordest, che è Venezia, ci sono le possibilità di consolidare ulteriormente le attività nel nostro territorio». Malgrado il segno negativo del saldo dei traffici, il presidente dell'Autorità Portuale di Sistema, Pino Musolino, resta ottimista e invita tutti ad analizzare bene i dati prima di esprimere un giudizio. Il saldo del 2017 è, comunque, negativo per Venezia. Il vicino porto di Trieste ha chiuso il 2017 con un + 4,5 % e più del doppio di merci. «I porti si valutano in base al rapporto economico con il territorio circostante e alla loro specifica vocazione. Da questo punto di vista va detto che delle quasi 62 milioni di tonnellate di merci movimentate, ben 42 milioni di tonnellate son odi petrolio che viene scaricato e inviato così com'è, via tubo, in Austria e Germania senza pagare Iva o accise in Italia e nessuna ricaduta economica sul territorio circostante. Stesso discorso va fatto per le rinfuse solide che da noi sono in diretto rapporto con le attività industriali del Nordest che le utilizzano come materia, a Venezia i l calo è stato del 3,8 % e a Trieste del 16,81 %. Infine, sui container va detto che i nostri arrivano e partono in funzione al mercato locale, mentre a Trieste c'è un traffico di passaggio con 616 mila teu contro i nostri 606».Però Trieste vi batte sul trasbordi di merci suoi treni.«È vero, ma bisogna dire che il traffico ferroviario portuale ha raggiunto quote record a Venezia negli ultimi anni e crescerà ancora dopo la firma, oramai imminente, di una accordo del Porto di Venezia con la rete ferroviaria italiana».Del calo dei crocieristi che dice?«Siamo riusciti a contenerlo all'11% malgrado le note difficoltà dovute alle grandi navi che non arrivano più a Venezia. A pesare è anche il calo della crocieristica nei porti di tutto il Mediterraneo a causa dell'instabilità di Turchia e il Medio Oriente. Nel 2017 sono però cresciuti i crocieristi in transito, grazie al vicino aeroporto di Tessera e del sistema ferroviario che converge su Venezia. Stiamo lavorando sul piano definito dal Comitatone per far arrivare le grandi navi dalla bocca di Malamocco a Marghera e a S. Marta via canale Vittorio Emanuele». Torna al sommario 8 – VENETO / NORDEST LA NUOVA Pag 1 La Patreve, una fuga dal realismo di Maurizio Mistri Alcuni giorni addietro si è svolta al Parco Vega di Marghera una convention delle cosiddette Città Metropolitane (CM) italiane. In tale convention magna pars l'ha avuta il padrone di casa e sindaco di Venezia, Luigi Brugnaro, che ha posto una forte enfasi sulla esigenza di rendere concrete le città metropolitane, a testimonianza del fatto che finora tali enti territoriali intermedi non hanno espresso nulla di significativo.Si tratta di una constatazione che il sindaco Brugnaro ha onestamente fatto rispetto a difficoltà che era prevedibile si sarebbero manifestate, stante una normativa che qualunque studioso di economia urbana avrebbe bocciato. Con quella normativa le cosiddette CM all'italiana non potevano funzionare e non potranno funzionare. Le ragioni sono molte e si basano su errori fatti dal legislatore, il quale volendo abolire le Province lo ha fatto molto parzialmente chiamando CM alcune di esse. In merito agli errori del legislatore va detto che questi non ha definito il concetto di CM e quindi non ha individuato i parametri mediante i quali decidere se un'area urbana è metropolitana oppure no. Tra tali parametri, insegnano le scienze regionali, vanno evidenziati la popolazione, l'ampiezza delle attività economica, la densità delle relazioni tra i soggetti che in tale area vivono, il livello delle funzioni di tipo avanzato che l'area è in grado di attivare. Il legislatore ha ignorato i numerosi e pregevoli studi che in Italia si sono fatti sulle aree urbane di tipo metropolitano, studi dai quali, ad esempio, si evince che l'area urbana di Padova e quella

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di Verona sono a tutti gli effetti aree metropolitane, mentre non lo sono le aree di Trieste, di Messina e di Reggio Calabria. Il caso di Reggio Calabria dimostra come certe decisioni istituzionali in Italia vengano prese in ubbidienza a criteri clientelari, in spregio ad ogni principio di razionalità. Inoltre, il nostro legislatore non ha preso in considerazione i numerosi studi che negli Usa e in Europa si sono fatti con particolare attenzione alle ragioni per cui molti esperimenti di CM sono falliti, a seguito di profondi contrasti tra le varie municipalità chiamate in causa. Se avessero avuto una minima conoscenza della teoria matematica dei giochi avrebbero capito subito perché certe formule giuridico-amministrative erano destinate a crollare miseramente. Le forme di cooperazione fra municipalità diverse sono numerose e il legislatore avrebbe, ad esempio, potuto leggere il bel libro di Vittorio Ferri, Governare le città metropolitane (Carocci editore). In tal modo avrebbe potuto comprendere che le formule giuridico-amministrative per assicurare una positiva governance delle CM sono molteplici, a seconda delle caratteristiche di tali aree. Purtroppo la formula scelta dal legislatore, e cioè di chiamare CM delle province, alcune delle quali non hanno caratteri metropolitani, ha trascurato un modello di governance nel quale si dia valore al consenso degli abitanti sulle strategie da adottare. Grave è stato l'errore di escludere le popolazioni di ciascuna CM dal processo decisionale, semmai attraverso l'elezione diretta dei propri rappresentanti nell'organo decisionale delle CM. L'elaborazione di progetti. Il confronto politico sui programmi spinge i cittadini ad avere la coscienza di appartenere ad una realtà condivisa nella quale identificarsi. Il sistema adottato, per contro, favorisce la formazione di quella che nella teoria matematica dei giochi si definisce una coalizione e cioè la formazione di un gruppo di comando formato da una maggioranza, semmai minima (51%), di sindaci che puntano a dividersi le risorse finanziarie che la CM potrebbe amministrare. La minoranza dei sindaci, per caso il 49% , rimarrebbe fuori dai processi decisionali e dalla ripartizione delle risorse. Anche su questo in varie parti del mondo sono fallite le CM, soprattutto quando le popolazioni non sentono di avere una comune identità nei luoghi. Allora, se si vuole parlare di CM occorre prendere in considerazione, secondo i molti studi in materia, aree urbane sufficientemente ristrette, formate da municipalità tra le quali non esista soluzione di continuità nell'abitato e nelle quali siano dense le relazioni fra gli abitanti. In un simile contesto urbano e sociale si forma uno spirito identitario che trascende i confini amministrativi di municipalità che pur sono contigue. Quanto più largo è il territorio di una CM tanto più debole è il livello di identificazione in essa delle popolazioni che vivono nella sua periferia. Proprio per tale motivo mi pare che la cosiddetta Patreve sia una fuga dal realismo ed una proposta pericolosa per gli attuali assetti amministrativi. Sono d'accordo con Brugnaro quando dice che se "piccolo è bello più grande è meglio". Sono d'accordo contraddicendolo perché il rischio di certe fughe in avanti è che si lavori per la creazione di una micro-regione del Veneto orientale. Per contro, penso che sarebbe meglio aggregare le regioni e non certo disaggregarle con il cavallo di troia di CM che a volte non sono per nulla delle vere aree metropolitane. In sintesi, non resta che attendere l'ineluttabile implosione delle attuali CM per poi lavorare su formule istituzionali che favoriscano l'aggregazione di municipalità le cui popolazioni condividano un comune spirito identitario. Torna al sommario … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Le regole sbagliate di Ernesto Galli della Loggia Sarebbe interessante sapere chi, quale Paese, si riprenderà mai i seicentomila immigrati che Berlusconi ha promesso, se vince le elezioni, di cacciare via dall’Italia. Nessuno lo sa, e naturalmente non ne ha una minima idea neppure Berlusconi stesso. Basterebbe questo a indicare l’incosciente superficialità con cui la classe politica italiana è abituata a trattare il tema dell’immigrazione. È la stessa superficialità, del resto, che l’ha portata a lasciare in vigore a tutt’oggi la legge Bossi-Fini. In base alla quale, è bene ricordarlo, l’unico modo legale per immigrare per ragioni economiche in Italia consiste nell’ipotesi

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che un imprenditore italiano, bisognoso di assumere un lavoratore, e sapendo che c’è un cittadino, mettiamo senegalese, desideroso di venire a lavorare nella Penisola, gli faccia pervenire la richiesta di assumerlo con regolare contratto di lavoro. Un’ipotesi assolutamente realistica, nessuno vorrà negarlo: più o meno come lo sbarco di un’astronave domattina su Marte. Se tanto mi dà tanto non stupisce che in queste ore la reazione della nostra classe politica ai fatti di Macerata non sappia andare oltre lo sdegno virtuoso dei buoni sentimenti, da un lato, e il losco calcolo politico dall’altro. Sempre accompagnati però da nessun’idea, da nessuna proposta, da nessuna capacità di trarre qualche lezione non retorica da quanto è successo. Che invece di lezioni e indicazioni importanti ne contiene parecchie. Ne accennerò qualcuna in ordine sparso, non necessariamente secondo l’ordine della loro importanza. 1) Chi ha ascoltato ieri mattina su Radio 24 i balbettii del sindaco di Macerata Carancini (centrosinistra), indeciso tra il dire e il non dire, tra la denuncia del degrado e la volontà di spalmare vaselina, incapace di dare un quadro vero e preciso della situazione, ha potuto, diciamo così, toccare con mano un dato preoccupante dell’Italia di oggi, che spiega molte cose. Il fatto cioè che grazie alle nefande leggi elettorali succedutesi negli ultimi vent’anni le città e i territori della Penisola sono ormai privi di un’autentica rappresentanza politica e quindi privi di voce presso il potere centrale. Oggi come oggi, se vuole illustrare il disagio e i bisogni della sua città (per esempio riguardo la sicurezza), il sindaco di Macerata può al massimo (spero non balbettando come ha fatto alla radio) rivolgersi al prefetto. Un tempo, invece, il deputato e il senatore eletti localmente fungevano da naturali raccordi e collettori dei problemi locali verso il governo nazionale. Essi informavano, chiedevano, insistevano: non da ultimo perché ne andava della loro rielezione: che oggi invece dipende solo da una segreteria di partito a Roma o a Milano. L’attuale solitudine politica di città e territori produce una disarticolazione complessiva del Paese e nelle collettività un sentimento di abbandono e di frustrazione dagli esiti imprevedibili; oltre naturalmente a far dipendere il governo solo dal canale informativo rappresentato dalle prefetture. Un canale inevitabilmente portato più a una valutazione dei problemi di tipo burocratico-amministrativo e di tono rassicurante piutto-sto che, quando è necessario, drammaticamente politico. 2. Come mostrano le evidenze statistiche, che non sono né di destra né di sinistra, certi reati sono commessi dagli immigrati in una percentuale enormemente superiore agli italiani (si arriva al 60 per cento). Si tratta specialmente dei reati connessi alla prostituzione, allo spaccio e di quelli contro il patrimonio (furti in appartamento, borseggio, ecc.): reati suscettibili in tutti e tre i casi di diffondere degrado nelle zone più povere dei centri urbani e allarme, spesso anche un senso di rivolta, negli strati più deboli della popolazione. Mi chiedo: è possibile che non ci sia nulla da fare per arginare simili fenomeni? Perché non pensare ad esempio, data l’alta incidenza di recidività che esiste in questo tipo di reati, a cancellare ogni tipo di attenuante, di arresti domiciliari, di patteggiamento, di libertà vigilata et similia, che insieme a percorsi giudiziari accelerati sia in grado di dar luogo a un’alta probabilità di sicura e immediata detenzione carceraria per i colpevoli? Conosco l’obiezione: la capienza delle carceri italiane è al limite. Bene: ma è proprio impossibile, pagando profumatamente (come del resto già facciamo per cercare di tamponare l’afflusso di nuovi venuti), stipulare degli accordi con almeno alcuni dei Paesi di provenienza degli immigrati affinché le pene inflitte ai loro cittadini dai nostri tribunali vengano scontate nelle loro rispettive patrie? Almeno ci si provi, il ministro Minniti ci provi. Il fatto assolutamente devastante che la classe politica sembra non capire è che oggi come oggi nessun italiano è in grado di ricordare neppure un solo provvedimento, adottato diciamo negli ultimi dieci anni, volto a contrastare all’interno del territorio nazionale uno dei mille aspetti negativi legati al fenomeno immigratorio. Neppure uno solo. Ci si rende conto che razza di delegittimazione ciò significa? 3. E infine l’integrazione. Anche qui un mare di chiacchiere da parte dei pubblici poteri e di tutti i partiti ma pochissimi fatti. Il primo e più ovvio percorso d’integrazione per gli immigrati dovrebbe consistere ovviamente in un lavoro. Ma non in un lavoro purchessia: in un inquadramento lavorativo legale. Qui comincia però la demenza burocratico-amministrativa italiana: essendo clandestini gli immigrati, infatti, non possono essere assunti legalmente se non dopo procedure assai complesse. Dunque anche il loro lavoro resta in un gran numero di casi un lavoro «clandestino», in nero e sottopagato. In verità clandestino spesso per modo di dire: tanto è vero che da anni, ad esempio, le campagne

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dell’Italia meridionale rigurgitano di decine di migliaia e migliaia di giovani, in stragrande maggioranza africani, dediti ai lavori agricoli, sottoposti a uno sfruttamento infame e in condizioni di vita ancora più infami. Il tutto a vantaggio dei proprietari e delle organizzazioni malavitose di «caporalato», mentre il ministro del Lavoro, il placido Giuliano Poletti, con i suoi ispettori sta placidamente a guardare. E con le conseguenze nell’animo di quei miserabili che è facile immaginare: odio, disprezzo, e un sentimento di rivalsa aggressiva verso il Paese in cui si trovano: un Paese che parla in continuazione di accoglienza per poi trattarli in quel modo. Pag 5 Un tema serio declassato a polemica elettorale di Massimo Franco Per capire quanto l’Italia stia pericolosamente giocando col fuoco del razzismo basta registrare le reazioni delle istituzioni europee. Inserire il cecchinaggio xenofobo a Macerata nella campagna elettorale si sta rivelando un’operazione spregiudicata e pericolosa. Si soffia sull’orrore seguito all’omicidio di una ragazza romana, del quale il presunto responsabile è un nigeriano. E si approfitta dell’intera vicenda per far venire a galla i peggiori istinti del Paese; con un supplemento di emotività e di strumentalismo che gonfia le paure. Il fatto che quanto avviene in Italia non sia isolato, spiega la durezza della Commissione Ue. Il timore è che una considerata più tollerante di altre, si riveli più razzista di quanto pensasse; e che la sparatoria nelle Marche contro alcuni immigrati di colore possa segnare l’inizio di una deriva violenta destinata a propagarsi. A Macerata c’è stato «un attacco volontario ai nostri valori fondamentali, un tentativo di distruggere il tessuto che ci lega come europei», ha dichiarato il vicepresidente della Commissione, Frans Timmermans. Si tratta di «un attacco a vittime innocenti». È l’altolà di un’istituzione preoccupata, e forse imbarazzata per avere aiutato poco l’Italia. E accompagna le parole accorate del capo dello Stato, Sergio Mattarella, sull’esigenza di «sentirsi una comunità in cui si vive insieme agli altri: il contrario dell’egoismo che porta alla diffidenza, all’ostilità, all’intolleranza e, qualche volta, alla violenza». È il tentativo di recuperare un’analisi meno istintiva di quanto è successo; e di non fomentare l’allarme su una presunta «invasione» degli immigrati proprio mentre i numeri dicono il contrario. Operazione non facile. Quelli che il presidente della Cei, Gualtiero Bassetti, bolla come «imprenditori della paura», pensano di incassare alti profitti elettorali. E sicuramente sconcerta vedere che il centrodestra ritrova un simulacro di unità solo nei proclami contro l’immigrazione «colpa della sinistra»: sebbene il leader di FI, Silvio Berlusconi, abbia poi corretto un po’ il tiro, preoccupato di perdere voti moderati ricorrendo la Lega. Ma anche gli altri tendono a vedere solo colpe altrui. Il M5S rinfaccia le responsabilità al sistema; il Pd a Berlusconi. Tutto è schiacciato dalla propaganda per il 4 marzo. E la domanda è a quale costo, e con quale regressione, i partiti si accapigliano sull’immigrazione. Che esista un allarme è evidente. Il rischio è di trattarlo con parole d’ordine ideologiche e ipocrite. È il riflesso di un problema strutturale affrontato come un’emergenza; e aggravato dalla solitudine dell’Italia in Europa. Lo spettacolo di questi giorni, tuttavia, rischia di isolarla ancora di più; e, di nuovo, di favorire gli estremismi. Pag 6 Arrivi, reati, rimpatri. I migranti in numeri di Fiorenza Sarzanini È Milano la città che ospita il maggior numero di richiedenti asilo, la Lombardia guida la classifica delle Regioni con 23.880 stranieri assistiti. Segue il Piemonte con 13.232 persone. In tutto - secondo i dati ufficiali aggiornati a ieri - sono 153.700 gli uomini e le donne in attesa di «verdetto». Si tratta di una minima parte rispetto ai regolari che vivono ormai da anni nel nostro Paese e hanno superato quota 5 milioni. Persone che lavorano, studiano, pagano le tasse. La comunità più numerosa è quella dei romeni con circa 1 milione e 200 mila persone, seguita da circa 450 mila albanesi e 420mila marocchini. La situazione dei migranti nel nostro Paese viene ben fotografata dalle associazioni e dal Viminale e mostra la doppia faccia di un fenomeno che dopo la tentata strage di Macerata è diventato prioritario nella campagna elettorale. Irregolari e «scaduti» - Oltre 500 mila (pari a circa l’8 per cento) sono invece gli irregolari. Molti di loro non sono riusciti a ottenere lo status di rifugiato, ma sfuggono all’espulsione perché gli Stati di origine non accettano il rimpatrio. Altri decidono di non andare via alla scadenza del permesso di soggiorno. Per avere un’idea c’è un numero

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relativo al 2016 quando ne sono stati concessi quasi 4 milioni di permessi, di cui oltre un milione e 600mila a durata limitata. Ma nessuno è in grado di sapere quanti stranieri siano effettivamente usciti dall’Italia. Occupati e inattivi - È il rapporto annuale della Fondazione Ismu a puntare l’attenzione sulle possibilità legate all’occupazione. E dimostra una crescita del numero dei lavoratori, anche se rimane alto quello delle donne «inattive». Il 2016 fa registrare ben 2 milioni e 400 mila occupati, vale a dire il 10% del totale: l’86,6% degli stranieri sono dipendenti, oltre il 70% svolgono mansioni di operaio, più del doppio degli italiani. Il tasso di disoccupazione nel 2016 è in diminuzione (15,4% contro il 16,2 del 2015), ma rimane comunque molto alto rispetto ai livelli pre crisi (nel 2008 era l’8,5%). Ben «1 milione e 181mila sono gli stranieri inattivi in età lavorativa (ovvero tra i 15 e i 64 anni) e tra loro ben il 72% per cento sono donne». Un dato che gli analisti ritengono preoccupante soprattutto se si tiene conto che «tra le 15 e le 24enni la componente inattiva (ovvero volontariamente esclusa dal mercato del lavoro, non perché disoccupata) è per le immigrate oltre il doppio di quella registrata tra le coetanee italiane». Sbarchi e reati - Il numero dei migranti approdati via mare continua a diminuire, ma questo non rassicura perché la situazione in Libia non è affatto pacificata. Finora sono giunti sulle nostre coste 4.723 stranieri, poco meno della metà di quelli arrivati nello stesso periodo dello scorso anno. Gli eritrei sono 1.184, i tunisini 754. La maggior parte di chi viene accolto negli hotspot richiede asilo, ma non più del 40 per cento riesce a ottenere lo status. Gli altri sono destinati al rimpatrio, ma la politica delle espulsioni continua a mostrare gravi carenze perché soltanto pochissimi Stati accettano i rimpatri. Rimane pressoché stabile il numero degli stranieri che delinquono. Secondo gli ultimi dati del Viminale sull’andamento della criminalità, aggiornati ad agosto 2017, «su 839.496 segnalazioni su denunce e arresti, quelle che riguardano stranieri sono 241.723, vale a dire il 28,8 per cento». Il numero dei reati registra un generale calo, in realtà a incidere è il rapporto rispetto alla popolazione residente perché «nel caso degli stranieri è pari al 4,78 per cento contro l’1,07 per cento degli italiani». Ci sono particolari reati in cui si registra la responsabilità degli stranieri: il 55 per cento dei furti «con destrezza», il 51,7 per cento dello sfruttamento della prostituzione e della pornografia minorile, il 45,7 per cento delle estorsioni, il 45 per cento dei furti in abitazione e il 41,3 per cento di ricettazioni. Minori soli e studenti - Dei 202 mila stranieri che sono diventati italiani nel 2016 «4 su 10 sono minori che - si legge nel rapporto Ismu - hanno acquisito la cittadinanza per trasmissione dai genitori, oppure quando sono divenuti maggiorenni». Gravissimo rimane il fenomeno dei minori non accompagnati: nel 2017 su 18.491 «under 18» arrivati, ben 14.579 erano soli. È invece positivo il bilancio relativo agli studenti. Secondo i dati Caritas-Migrantes «nell’anno scolastico 2015/2016, gli alunni stranieri in Italia erano 814.851, pari al 9,2 per cento del totale della popolazione scolastica. La scuola primaria accoglie da sempre il maggior numero di iscritti con cittadinanza non italiana (297.285), seguita dalla secondaria di secondo grado (187.525), dalle scuole dell’infanzia (166.428) e dalle scuole secondarie di primo grado (163.613)». I più numerosi sono i romeni, seguiti da albanesi e marocchini. Pag 19 “Chiedo la sedazione”, l’addio di Patrizia di Elvira Serra e Margherita De Bac Nuoro, la 49enne malata di Sla è la prima paziente a sfruttare la nuova legge sul biotestamento. La differenza con eutanasia e suicidio assistito Quando ha chiuso gli occhi per sempre, nel suo letto, intorno a lei c’erano la madre e il fratello; il padre lo aveva salutato prima. L’ultimo sguardo lo ha dedicato alla mamma, Salvatora, che ha pronunciato le parole più innaturali per un genitore - «Adesso vai, amore mio» - tenendo la sua mano stretta strettissima, perché non si sentisse sola e non avesse paura. Ma Patrizia Cocco, cinquant’anni da compiere il prossimo giugno, non aveva paura. Aveva deciso lei quando andarsene, nella sua casa di Nuoro, circondata dagli zii, dai cugini, dagli amici più stretti che le volevano bene e ai quali ha dato il tempo di raggiungerla da Roma, da Milano, da Firenze, da tutta la Sardegna, scegliendo proprio un sabato per ripetere quattro volte davanti ai medici che rinunciava alla ventilazione meccanica e chiedeva la sedazione palliativa profonda, in applicazione della legge sul testamento biologico. Sempre lei aveva deciso come farsi vestire, con un

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elegante abito nero e un cappellino con la veletta. Era bellissima. Patrizia era diventata prigioniera di un corpo ormai estraneo e non poteva accettarlo, lei che la vita l’aveva presa a morsi fino a sei anni prima, quando viaggiava, usciva con le amiche, si prendeva cura di Bach, il suo barboncino bianco, guardava film romantici e si appassionava alle cause civili. Si era ammalata di Sla nel 2012 e sapeva a cosa sarebbe andata incontro, perché già due zii paterni erano stati sconfitti dalla sclerosi laterale amiotrofica. Tre anni fa, però, la malattia ha cominciato a galoppare: prima le mani che non si chiudevano più, poi la difficoltà a deglutire e a formulare frasi compiute, quindi la tracheotomia. Da lì in avanti, un anno e mezzo fa, è cominciata la non vita per una che aveva sempre visto il bicchiere mezzo pieno. Giovedì 14 dicembre 2017, quando il Senato ha approvato in via definitiva la legge sul testamento biologico con 180 voti a favore, 71 contrari e 6 astensioni, Patrizia, che ormai da più di un anno comunicava solo grazie a un puntatore oculare, ha chiesto a Sebastian Cocco, cugino e avvocato, di aiutarla a fare quello che per lei non si poteva più rimandare. «Ci siamo attivati subito con il personale di rianimazione dell’ospedale di Nuoro, abbiamo parlato con anestesisti, palliativisti e medici. Sapevamo che la scelta di rifiutare le cure non poteva essere in alcun modo dettata da una forma depressiva», racconta Sebastian. Ma Patrizia non era depressa. «Era stanca, perché non era più vita quella, nonostante l’amore dei genitori e del fratello Pasquale, che si era dedicato totalmente a lei negli ultimi due anni lasciando pure il lavoro, e di tutti noi che le volevamo bene, e nonostante la dedizione delle infermiere che si sono alternate per accudirla. Si sentiva intrappolata», ricorda la cugina del cuore Alessandra Podda, che era con lei in casa sabato, assieme agli altri parenti, per quell’ultimo saluto condiviso. Patrizia non sa di aver conquistato, suo malgrado, un primato: è la prima italiana ad aver sfruttato l’entrata in vigore della legge che dà legittimità alle «disposizioni anticipate di trattamento» e riconosce a «ogni persona capace di agire» il diritto di rifiutare qualsiasi trattamento sanitario indicato dal medico. Lo scorso giugno aveva scritto anche a Marco Cappato, dell’Associazione Luca Coscioni, per capire gli scenari nelle sue condizioni. Sebastian chiarisce: «Non ha mai messo in conto di andare in Svizzera, l’alternativa era ricorrere al tribunale, come Walter Piludu (l’ex presidente della Provincia di Cagliari che si era rivolto ai giudici per morire con dignità, il 3 novembre 2016; ndr). Ma già si stava parlando in Parlamento di testamento biologico e potevamo aspettare. Sabato, quando sono entrato nella sua stanza, prima che la sedassero, Patrizia mi ha ringraziato: un ringraziamento che non avrei mai voluto ricevere». Al termine della processione amorevole di cugini e zii più stretti, mamma Salvatora ha onorato l’impegno preso con sua figlia da tempo. «Ti ricordi? Noi ci siamo fatte una promessa: di salutarci con il sorriso». Ha cercato dentro di sé il sorriso più difficile e bello e poi l’ha lasciata andare: «Adesso vai, amore mio». 1 Cos’è la sedazione palliativa profonda, utilizzata da Patrizia Cocco? È una pratica medica che fa addormentare il paziente senza che si risvegli. Vengono usate le benzodiazepine, una classe di farmaci capaci di indurre perdita di coscienza. Per la prima volta la legge italiana sulle disposizioni anticipate di trattamento (Dat) fa diretto riferimento alla sedazione all’articolo due che riguarda la terapia del dolore, il divieto di ostinazione irragionevole nelle cure e la dignità nella fase finale della vita: «Può essere usata dal medico in presenza di sofferenze refrattarie ai trattamenti sanitari, con il consenso del paziente con prognosi infausta e in imminenza di morte». Ma anche prima del testo sulle Dat la sedazione era praticata nei reparti ospedalieri. 2 C’è attinenza con l’eutanasia? No, sedazione profonda e eutanasia si differenziano in modo sostanziale oltreché tecnico. La prima ha lo scopo di addormentare, la seconda quella di uccidere. Nel primo caso si induce una perdita di coscienza profonda, nel secondo il medico esegue un’iniezione letale. C’è poi il suicidio assistito che consiste nel mettere un individuo nelle condizioni di togliersi la vita autonomamente con un farmaco letale che gli viene consegnato. Eutanasia e suicidio assistito in Italia sono vietate. 3 Quali erano le posizioni sulla seda-zione profonda prima della legge? Nel 1956 Pio XII si pronunciò a favore della sedazione: è lecito l’uso di tecniche che tolgano dolore e coscienza se anche dovessero abbreviare la vita. La Chiesa ha

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considerato inalienabile il diritto dell’individuo a non soffrire. Nel gennaio del 2017 il Comitato Nazionale di Bioetica è intervenuto sul tema con un documento che ha chiarito la posizione favorevole purché ricorrano certe condizioni. 4 Quali sono? Imminenza di morte (in termini di ore o giorni), patologia non curabile, presenza di un sintomo che non può essere trattato con i normali farmaci. Nel caso della Sla il sintomo che diventa insostenibile è la fame d’aria. Con queste premesse il comitato conclude che è legittimo adottare un protocollo di sedazione profonda e continua in quanto è un diritto fondamentale dell’uomo ricevere un adeguato supporto finalizzato al controllo della sofferenza. LA STAMPA Se il Colle parla a nome dell’Europa di Stefano Stefanini L’incontro di ieri di Sergio Mattarella con Recep Tayyip Erdogan dimostra che l’Italia è ancora capace di far politica estera. E che, nel magma dei compromessi e del piccolo cabotaggio che ci vede spesso al rimorchio di altri, questa politica estera ha ancora un’anima e un ancoraggio ai valori fondanti della Costituzione e della nostra società civile. E quando questi sono sul tappeto il Presidente della Repubblica non esita a intervenire. Chi scrive ne è stato testimone per sette anni e con due Presidenti. Il colloquio di ieri è stato «franco» - in gergo diplomatico che è stato duro; i due interlocutori si sono parlati fuori dai denti. Non c’è il minimo dubbio che lo abbiano fatto con rispetto reciproco, ma questo non ha impedito che misurassero la distanza che oggi separa Roma da Ankara. O meglio: fra la piega autoritaria e insofferente del dissenso, presa dalla Turchia di Erdogan specie dopo il fallito colpo di Stato del 2016, e il sentire comune dell’Europa e della comunità atlantica. Il presidente turco è arrivato in Italia con un messaggio articolato all’Europa. Nella sua intervista su queste colonne ha toccato corde sensibili. Non ha certo tutti i torti nel lamentare le tattiche dilatorie dell’Unione Europea. Oltre all’incapacità di Bruxelles di offrire alla Turchia una via credibile e realistica verso l’adesione - o di metter in chiaro onestamente che nell’Ue non c’è posto per Ankara. Bruxelles ha invece prolungato l’equivoco a tempo indeterminato frustrando le aspettative turche e spingendo Ankara in altre direzioni, verso altre alternative. Oggi l’Ue ha a che fare con un Erdogan non più plasmabile. Il presidente turco è diventato transattivo: il rapporto è diventato un «do ut des» in cui il presidente turco ha spesso il coltello dalla parte del manico, vedi flussi migratori. Bruxelles paga la conseguenza dei propri errori. Il presidente Mattarella avrà simpatizzato con Recep Tayyip Erdogan sulle indecisioni e contraddizioni dell’Ue. Avrà ribadito che l’Italia vede il futuro della Turchia in Europa, una linea mantenuta coerentemente nel succedersi di governi a Palazzo Chigi. Il presidente Napolitano la confermò in visita di Stato ad Ankara. Ma ha anche tracciato la linea rossa. L’Ue non è un’associazione fondata solo sulle reciproche convenienze politiche, economiche o di sicurezza. Lo stesso dicasi per la Nato di cui la Turchia fa parte. Il Trattato di Washington fa riferimento alla comunità di valori, fra cui fondamentali sono democrazia, diritti umani, stato di diritto. In Europa, come nella Nato, abbiamo bisogno della Turchia come partner e come alleato. Le porte, tutte le porte devono restare aperte. Ma Ankara deve sapere che se sceglie Europa e Atlantico anche il suo comportamento, tanto all’interno quanto all’esterno deve essere coerente. Se questo è stato il messaggio di Mattarella a Erdogan - e credo lo sia stato - il Quirinale ha fatto ancora una volta politica estera. Che è fatta sì d’interessi nazionali, ma d’interessi che poggiano sulle fondamenta delle idee e dei valori in cui ci riconosciamo. E questo va detto anche a amici come il presidente turco. La «franchezza» di ieri è tutta lì. Dal 1500 il Quirinale è stata la casa di papi, re e presidenti. Ha i cromosomi dell’autorevolezza. Quando fa politica estera non scherza. AVVENIRE Pag 1 Che pesi l’unione di Leonardo Becchetti La verità sul debito e un piano utile

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Sul debito pubblico italiano bisogna innanzitutto fare un’operazione di verità. La coperta è corta e non ci sono ricette magiche. Abbiamo negli anni speso più di quanto abbiamo incassato (coprendo sprechi purtroppo, ma anche un welfare generoso). E per finanziare quei disavanzi del passato abbiamo dovuto e dobbiamo continuare a chiedere al mercato (una miriade di piccoli e grandi creditori) di coprire la differenza. Lo Stato in questo non è diverso da una famiglia che vive sopra le sue possibilità e per questo continua a indebitarsi. Quei piccoli e grandi creditori (tra cui ci siamo anche noi, con i nostri risparmi e le nostre pensioni) ci consentono di farlo a tassi tutto sommato generosi (il costo medio del debito è attorno al 3,5% nel complesso ma il quantitative easing ci consente di finanziarci oggi a tassi molto più bassi). Una parte consistente del debito (quasi tre quarti) è finanziata di fatto dentro i confini nazionali, ovvero da piccoli e grandi creditori italiani, il resto da creditori esteri. La differenza è enorme. I primi sono potenzialmente più indulgenti perché sanno che dietro la spesa ci sono beni e servizi che li riguardano. I secondi molto meno. A loro interessa solo sapere se potranno rientrare dei soldi prestati e quanto potranno guadagnarci. Riduzioni spettacolari del debito sono praticamente impossibili o associate in realtà a fatti dolorosi come le fiammate di iperinflazione postbelliche o rivoluzioni e cambi di regime. Un rarissimo caso di condono parziale di successo è stato quello dell’Ecuador che, a differenza dell’Argentina, ha indetto un auditing pubblico del debito, individuato partite considerate inique sulle quali la reputazione dei creditori è stata indebolita. E ha ottenuto per quelle partite dai creditori il riacquisto del debito a prezzi stracciati. In Italia l’unica partita veramente scandalosa è quella con i 'furbetti della globalizzazione' che ci hanno venduto derivati sul debito assai rischiosi contrabbandati come assicurazioni. Si tratta in realtà di contratti che le banche d’affari possono liquidare a loro piacimento mettendoci sul conto decine di miliardi. La partita è nelle mani della Corte dei Conti e non si vede perché, se il Comune di Milano è riuscito a costringere le controparti a patteggiare per chiudere il giudizio su partite simili, non debba riuscirci anche lo Stato italiano. Restano nel frattempo le promesse elettorali, tutte potenzialmente pericolosissime per i conti che, non le generazioni future ma subito noi con la ricrescita dello spread, potremmo essere costretti a saldare. La flat tax (su cui il dibattito viene tenuto aperto) apre un buco che oscilla tra i 15 e i 60 miliardi (a seconda delle visioni più o meno ottimistiche). È probabilmente irrealizzabile dal punto di vista sociale perché la cancellazione di deduzioni e detrazioni genererebbe le rivolte di molti gruppi sociali. È iniqua perché eliminerebbe molte tutele che oggi esistono per i ceti più deboli. Dall’Europa potremmo avere notizie migliori. Il problema non è tecnico, perché idee per sfruttare la massa critica dell’Unione e ridurre il debito ce ne sono molte e alcune non richiedono nemmeno la mutualizzazione dei debiti nazionali. Uno di questi progetti – il piano P.A.D.R.E. (Politically Acceptable Debt Restructuring for the Eurozone, cioè l’ipotesi di una ristrutturazione politicamente sostenibile del debito dell’Eurozona), elaborato da Charles Wyplosz – ha dato corpo a uno dei punti dell’appello lanciato su 'Avvenire' da più di 350 economisti per 'salvare la Ue' prima dell’avvento del quantitative easing. Esso prevede che la Bce possa riacquistare il debito sopra il 60% del Pil dei Paesi membri, trasformandolo in titoli perpetui a tasso zero ripagati nel tempo con le risorse da 'signoraggio' da ciascun Stato. La saggezza proverbiale ci ha insegnato che l’unione fa la forza, ma allora a che serve un Unione che non ha intenzione di farla? La speranza di superbond europei (vari e competenti i progetti sul tappeto) è l’ultima a morire, ma per ora all’orizzonte non si vede Godot. In mancanza di buone notizie su quel fronte, resta la via molto meno poetica (a sua volta indicata anche su queste colonne) della riqualificazione della spesa (dando priorità alle spese ad alto moltiplicatore, che si ripagano e riducono il debito) e della lotta agli sprechi. Il sentiero è stretto ma non strettissimo. Con dati vicini a quelli attuali (inflazione all’1,2%, costo medio del debito al 3,7%, avanzo primario dell’1,5%, crescita reale dell’1,7%) il rapporto debito/Pil scenderebbe lievissimamente di quasi un punto percentuale. Con uno sforzo in più, crescita nominale (crescita reale più inflazione) del 4% e un avanzo primario al 3% scenderebbe di più di 3 punti percentuali. Scenari tecnicamente e razionalmente plausibili, ma lontanissimi da sogni, fatine e ricette magiche che piacciono tantissimo a parecchi elettori italiani. Che in scienza, medicina ed economia amano i miraggi e poco si appassionano ai 'miracoli' che il progresso umano ci ha comunque portato migliorando enormemente le nostre condizioni di vita rispetto a quelle delle generazioni passate. Gli

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studi recenti delle neuroscienze sembrano dimostrare che i 'vincitori' delle opinioni politiche non sono coloro che fanno appello alla razionalità, ma chi stimola la componente più antica: fatta di emozioni, rabbie e paure. Finirà ancora una volta così? E con quali conseguenze per il debito e i conti da pagare per le generazioni presenti e future? Pag 3 Il ritorno dei taleban a Kabul e il miraggio di pace svanito di Francesco Palmas A chi interessa far salire la tensione È un labirinto inestricabile il dedalo afghano. I talebani sono all’offensiva un po’ ovunque. Stanno seminando il terrore nei grandi centri urbani, rivaleggiando in efferatezza con gli scherani dello Stato islamico del Khorasan. Sono i signori incontrastati delle zone rurali. Vi hanno installato un’amministrazione parallela, fondata sulla sharia e sulle corruttele clientelari di molti funzionari governativi. Godono della connivenza dei capi tribali e sono divenuti meno settari, ampliandosi a combattenti non pashtun. Un modo per neutralizzare le fratture etniche di sempre e scongiurare la riedizione futura di una sorta di Alleanza del Nord, a loro fatale nel 2001. Sembra stiano gettando le basi per passare alla seconda fase della riconquista del potere: puntare sulle città e i loro ecosistemi. Si preparano forse a ghermire Kabul prima che gli Usa completino la mini-escalation di forze annunciata da Trump con molte fanfare? Una cosa è certa. Nella capitale il governo centrale che fa capo al presidente Ashraf Ghani è sempre più in difficoltà. Perde consensi, soprattutto dopo aver cooptato fra le sue fila l’ex 'macellaio di Kabul', il signore della guerra Gulbuddin Hekmaytar. È sotto il fuoco incrociato del presidente di un tempo, Hamid Karzai, ancora molto influente, e del 'premier' Abdullah Abdullah. Ha fallito nel trovare un’intesa con Islamabad. Ciascuna delle parti continua ad accusare l’altra di ospitare combattenti nemici sul proprio territorio. Ad onor del vero, il Pakistan è il vero deus ex machina dell’insorgenza talebana. Non perdonerà mai al governo afghano l’intesa cordiale appena raggiunta con l’India. E sta muovendo le sue pedine destabilizzanti, su molteplici piani, per svuotare un’alleanza che reputa massimamente ostile. Islamabad teme che insinuando la propria autorità a Kabul, il nemico storico indiano faccia pesare una duplice minaccia al confine, sul fianco occidentale e su quello orientale. Una prospettiva di accerchiamento inaccettabile. Le sanzioni di Trump, testé decise, non la fermeranno, come testimoniano gli attentati all’hotel Intercontinental di Kabul e l’inumana ambulanza bomba. Una vendetta antiamericana commissionata dai piani alti pachistani. Ma oltre a fomentare la guerra, il Pakistan sta tessendo anche una fitta tela diplomatica. I l 15 gennaio ha organizzato una riunione ad altissimo livello fra i rappresentati qatarioti dei talebani e il leader del fronte islamico afghano, Pir Syed Gilani. Si è inserita nella partita a scacchi afgana anche la Cina, con investimenti minerari e una base militare in fieri. Era prevedibile. Da 17 anni tutto scorre fra mille rivoli inconciliabili, in una partita tragica, giocata su tre scacchiere, fra loro interdipendenti, ma scarsamente dialoganti. La prima mano si tiene a livello internazionale, la seconda è tutta nella prossimità regionale e l’ultima è interna al teatro, ognuna fitta di incognite e di spinte centrifughe. Come spesso nel suo passato millenario, l’Afghanistan è più che mai un crocevia di interessi confliggenti, alimentati da fattori esogeni, pachistani e iraniani in primis. Per l’Iran e il Pakistan, il teatro afghano è una sorta di cortile di casa, da plasmare a piacimento. A lungo sotto l’impero persiano, l’ovest dell’Afghanistan racconta di legami storici, linguistici e umani indissolubili. L’oasi di Herat e la sua provincia, calcate tuttora dai militari italiani, sono un microcosmo delle città afghane di confine, con le tipiche locande e le case da té, dove gli uomini usano incontrarsi per sorseggiare la bevanda, scambiare opinioni e fumare la pipa. Herat è qualcosa di più, molto affine a Teheran per etnia e cultura, facilmente influenzabile e manipolabile d’oltreconfine. Dall’Iran sono arrivati aiuti finanziari superiori a mezzo miliardo di dollari, insieme a scuole, ospedali e forniture elettriche. Una sorta di neo-imperialismo 'umanitario' in salsa persiana, per comprare sicurezza ai confini, bloccare il traffico di oppiacei transfrontaliero e ampliare la sfera d’influenza iraniana. Quando si sono ritrovati a corto di uomini in Siria, i pasdaran, iraniani, hanno reclutato a man bassa fra gli sciiti hazara afghani, promettendo loro denari e la nazionalità persiana al termine del conflitto. L’Iran ha molto

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interesse a tenere aperto il fronte afghano, in chiave anti-statunitense, ma in posizione defilata e sorniona, tanto a fare il lavoro sporco sta pensando il potentissimo Inter-service intelligence (Isi) pachistano. Nel gioco di sponde a cavallo dell’imprendibile Linea Durand, fra Afghanistan e Pakistan, l’Isi si preoccupa di formare i neofiti talebani nelle madrase pachistane. Alcuni analisti e il Bnd tedesco lo accusano apertamente di fornire armi e rifugio ai combattenti afghani e di offrire ospitalità a tante reclute del jihad centro-asiatico e uiguro. Pochi giorni fa, Washington e Kabul hanno alzato il tiro, imputandogli apertamente di essere il mandante degli ultimi attacchi dei talebani-Haqqani a Kabul: «Il network Haqqani agisce come il braccio armato dell’Isi pachistano. È una guerra per procura». Dal 2001 le forze della coalizione prima e il governo afghano poi fronteggiano l’infiltrazione di combattenti provenienti dai santuari pachistani. La rete Haqqani è uno dei serbatoi principali, insieme alla shura di Quetta, il consiglio supremo dei talebani del mullah Haibatullah Akhundzada. Si finanzia col narcotraffico, i rapimenti, le estorsioni e le donazioni. Attiva nelle province di Khost, Paktia e Paktika, ha la sua roccaforte a Miramshah. In Waziristan, ha costruito un’amministrazione parallela, che impone la giustizia shariatica, recluta combattenti, riscuote tasse e garantisce un livello di sicurezza minimo alla popolazione locale. Si è macchiata di azioni terroristiche spettacolari, attaccando obiettivi importanti, dagli hotel, alle basi militari, alle ambasciate, senza dimenticare il quasi assassinio dell’ex presidente Karzai. Ha un nucleo di diverse centinaia di fedelissimi, cui si aggiungono fra i 10 e i 15mila combattenti, sui 60mila circa che conta oggi l’insorgenza talebana. È il trait d’union con al Qaeda. Ayman al-Zawahiri ha giurato fedeltà al 'comandante dei credenti' Akhundzada, come a suo tempo fece Bin Laden con il mullah Omar. E i talebani si sono riorganizzati. Hanno ora due vice-presidenti: Sirajuddin Haqqani, capo militare del movimento, e il mullah Yakub, figlio maggiore del mullah Omar, che apporta il fascino e la legittimità del lignaggio paterno. Sirajuddin è l’uomo del Pakistan, considerato da Washington più radicale ed efferato del padre Jalahuddin, a lungo epigono della Cia, ricevuto da eroe di guerra alla Casa Bianca, presidente Ronald Reagan. Sulla sua testa pende una taglia di 5 milioni di dollari. Dal momento in cui è assurto al vertice militare dell’organizzazione, Sirajuddin si è sforzato di estendere la sua sfera d’influenza a molte province dell’est afghano. Ha colpito Kabul, destabilizzato il governo centrale e sabotato i timidi negoziati di pace. Ha dotato il network di un apparato d’intelligence, addestrato gli uomini al combattimento urbano e dato loro strumenti adeguati al conflitto, forniti dall’Isi e dai santuari pachistani: mortai, lanciagranate, munizioni, razzi e fucili mitragliatori. Molti indizi inducono a ritenere che inasprirà la strategia della tensione nelle settimane a venire. La pace, in questo scenario, appare proprio come un miraggio. Pag 7 “Se negli altri non si vede umanità è la fine dell’empatia, che genera odio” di Marina Corradi La filosofa Boella: siamo tornati alle “non persone” di Arendt Dopo Macerata, mentre la destra grida ai «migranti bomba sociale», e si percepisce in Italia l’ombra di un razzismo avanzante. La senatrice Liliana Segre, sopravvissuta ad Auschwitz, in un’intervista ha detto una frase densa di significato: «L’indifferenza è peggio della violenza». Abbiamo chiesto di commentarla a Laura Boella, docente di Filosofia morale all’Università Statale di Milano. «Liliana Segre – osserva Boella – ricorda l’epoca della persecuzione antiebraica, quando da un giorno all’altro intere famiglie ebree scomparivano e i vicini di casa voltavano la testa dall’altra parte, e non dicevano nulla. C’è un voltare la testa, un non voler vedere che riguarda ancora oggi molti italiani: i migranti che li circondano vengono visti come una massa anonima, non riconosciuta come pluralità di individui che hanno invece nome, un volto e una storia. Questo è un vizio di fondo nel rapporto con la realtà, e incide nell’etica quotidiana: le persone diventano numeri, categorie, 'clandestini', 'vù cumprà'. È un disimpegno dal livello elementare di incontro con l’altro. Livello elementare che non va confuso con solidarietà o accoglienza, ma è almeno l’inizio di un possibile cammino. È un non mettere l’altro nel mucchio, non relegarlo nel mondo delle 'non persone', espressione questa di Hannah Arendt. È significativo che oggi per i migranti si usi l’espressione displaced persons, la stessa che indicava le masse di ebrei rifiutati da Paesi 'democratici', privati di ogni diritto

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fino a diventare un niente, nei lager. Questo processo di 'anonimizzazione' dell’altro è un’ombra che si proietta anche sul nostro presente'. Lei ha appena pubblicato un saggio ('Empatia', Raffaello Cortina editore) in cui definisce appunto l’empatia come «l’ingresso nel nostro orizzonte vitale, emotivo e cognitivo di ciò che è vissuto dall’altro». Ma come si pratica l’empatia? La prima cosa è esercitarci a guardare chi ci sfiora per strada ricordandoci che è un uomo unico, e che ha un infinito valore. Non è nemmeno solo una vittima, è di più: è un uomo, nella sua totalità. Per Edith Stein empatia era «essere presi dentro» dall’altro... Un aprirsi concreto alla presenza dell’altro nella vita quotidiana. Perché fenomeni come quello di Macerata non nascono da pura follia, ma dal fatto che quegli 'altri' non vengono riconosciuti come uomini. C’è quindi come un guasto collettivo della nostra capacità di empatia di fronte al fenomeno migratorio? Sì, ribadendo che empatia non è solidarietà, ma la pura presa d’atto che l’altro esiste e ha valore. Questo riconoscimento viene a mancare perché prevale la paura dell’altro, straniero. Poi la politica e i media agiscono come un moltiplicatore, e allora «gli stranieri ci rubano il lavoro», e allora «America first'»... Non ci può essere, nell’evitare di guardare i migranti, anche una paura della sofferenza che incontreremmo, se conoscessimo le loro storie, se ci lasciassimo coinvolgere? Certo, ci può essere anche una incapacità di reggere il coinvolgimento emotivo. Ma bisogna sapere che è possibile passare attraverso questa difficoltà, senza chiudere del tutto la porta. È un lavoro da fare sulle proprie emozioni. Lei è una studiosa di Etty Hillesum, giovane ebrea olandese morta ad Auschwitz. La Hillesum scriveva che ogni grammo di odio introdotto nel mondo fa del male a tutti, mentre un solo grammo di bene si estende e si propaga. Etty Hillesum aveva fatto una profonda esperienza su se stessa e conosceva bene l’irrigidimento e anche la depressione che gravano su chi si lascia andare all’odio. Aveva capito su di sé che per quella strada non si va da nessuna parte. Invece aveva scelto un ampliamento del cuore, un accogliere nel cuore tante persone, così che anche la sua fragilità e insicurezza cambiarono totalmente di segno. Che cosa possiamo fare dunque davanti a questo malessere crescente in Italia, esploso a Macerata? Lo sguardo che posiamo sull’altro è fondamentale. È un’affermazione della nostra stessa dignità e del nostro senso di umanità saper guardare, sentire, leggere l’altro nello sguardo, nel volto. In modo da non cadere negli stereotipi, negli slogan, nelle categorie che dividono 'noi' da una moltitudine di estranei senza nome e senza storia. IL GAZZETTINO Pag 1 Il dialogo con Erdogan frena il ruolo di Macron di Alessandro Orsini La visita di Erdogan a Roma può essere utilizzata per una riflessione diversa. Ci si interroga su quale potrebbe essere il governo migliore per i turchi. Può essere utile invece interrogarsi sul governo migliore per gli italiani. Il governo migliore per i turchi è quello che tutela al meglio gli interessi dei turchi: un'impresa in cui Erdogan sembra riuscire molto bene. È interesse dei turchi che i curdi non creino uno Stato acquisendo porzioni del territorio nazionale al confine con la Siria; è interesse dei turchi avere un governo forte e stabile perché sono circondati da ogni tipo di guerra e di catastrofe geopolitica, Isis incluso; è interesse dei turchi che Erdogan chiuda accordi vantaggiosi con l'Unione Europea in materia di immigrazione e che abbia buoni rapporti con Putin. Allo stesso modo, il governo migliore per gli italiani è quello che tutela al meglio gli interessi nazionali. Posta una simile premessa, andiamo al cuore dei problemi. La visita di Erdogan avviene in una fase di grande debolezza della politica estera italiana: una fase in cui l'Italia prova a levarsi in volo per poi precipitare al suolo con una regolarità che si avvicina alla perfezione. Siccome questo decollare per precipitare è preoccupante, dev'essere spiegato, ma abbiamo bisogno di ampliare la nostra prospettiva perché la prima questione da affrontare non è ciò che l'Italia dovrebbe fare con Erdogan, bensì ciò che Macron sta facendo con l'Italia. l presidente francese è dotato di un forte spirito di conquista che lo spinge ad avanzare. Il problema è che sta avanzando dove l'Italia sta

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arretrando e questo impone ai governi italiani di elaborare una strategia per bilanciare. A parlar chiaro si fa prima: l'Italia deve sostituire Gheddafi, che era il suo più stretto alleato extraeuropeo nel Mediterraneo, con Erdogan, che dovrebbe diventarlo. Crollata la Libia, che la Francia cerca di riunificare sotto la propria egida, l'Italia è drasticamente arretrata nel Mediterraneo, dove ha urgente bisogno di trovare un nuovo partner. Orientarsi non è difficile. Occorre osservare i venti Paesi che circondano il Mediterraneo e individuare lo Stato extraeuropeo più potente, che è la Turchia. Chiarito che l'Italia ha bisogno di Erdogan per bilanciare Macron nel Mediterraneo, così come Macron ha avuto bisogno del presidente dell'Egitto, al-Sisi, per bilanciare l'Italia, cerchiamo di capire quale sia la regola aurea per costruire un'alleanza strategica con uno Stato straniero. È semplice: non bisogna chiedere ciò che non è possibile ottenere. Detto più semplicemente, non bisogna chiedere a Erdogan di arrestare la sua avanzata contro i curdi ad Afrin, nel nord della Siria, perché non lo farà. La questione è di vitale importanza per la Turchia. A tal punto che Erdogan, come ha lasciato intendere chiaramente nelle sue dichiarazioni ufficiali, sarebbe disposto addirittura a scontrarsi con i soldati americani a Manbij. L'ostinazione di Erdogan contro il progetto di Trump di costituire una sorta di Stato curdo nel nord della Siria non ha niente a che vedere con la sua personalità. È stupefacente che qualcuno lo pensi. Ha a che vedere con il fatto che nessuno Stato del mondo consentirebbe a un altro Stato di mettere in pericolo i propri confini nazionali, nemmeno come possibilità teorica. La causa curda merita la massima considerazione e il massimo rispetto, ma deve trovare una soluzione diversa rispetto a quella ipotizzata da Trump, che non è percorribile, come dimostrano i bombardamenti turchi ancora in corso. Spiegare la politica internazionale in base alle personalità individuali significa condannarsi a una conoscenza epidermica dei problemi. Il punto non sono i desideri personali di Erdogan, ma gli interessi nazionali dei turchi. Erdogan è venuto in Italia sapendo esattamente ciò che vuole, così come Macron si è appena recato a Tunisi annunciando un piano per raddoppiare gli investimenti francesi in Tunisia nei prossimi cinque anni. La visita di Erdogan a Roma è utile perché ci aiuta a comprendere che una classe politica è matura quando ha una visione chiara dei propri interessi strategici e di quelli altrui. Erdogan è un leader politico maturo. Proprio come Macron. LA NUOVA Pag 1 L’autonomia è diventata un pasticcio di Mariano Maugeri Quer pasticciaccio brutto de via della Stamperia (sede del ministero Affari regionali e autonomie): così, parafrasando Carlo Emilio Gadda, potrebbe intitolarsi la trattativa aggrovigliata in corso a Roma tra un sottosegretario itinerante e candidato alle politiche che fa la spola incessante tra Bolzano e la Capitale, e i governatori di Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna, ai quali si sono aggiunti da qualche mese Piemonte e Liguria. Una seggiola, in via della Stamperia, non si nega a nessuno. Ricordate lo Zaia del dopo referendum del 22 ottobre, quando inneggiava alla legge inoppugnabile della proprietà transitiva? («Se il governo dovesse concederci le 23 competenze previste dalla Costituzione, la conseguenza sarebbe di fatto il trasferimento al Veneto dei 9/10 del gettito fiscale»), disse sornione in una intervista rilasciata il 25 ottobre a Mattia Feltri della Stampa. Due mesi dopo, all'alba del 10 gennaio, delle 23 materie ne erano sopravvissute cinque (Sanità, Istruzione, Lavoro, Ambiente e i rapporti con l'Europa) alle quali, prometteva uno Zaia fiducioso, si sarebbe aggiunto un "nuovo pacchetto" non meglio identificato. A essere di manica larga, non più di cinque materie, un totale lontanissimo dalle 23 competenze rivendicate durante la campagna elettorale. Una retromarcia alla quale si sommano altri dietrofront. Uno è relativo alla natura dell'accordo stesso. Non un'intesa tra governo e regione immediatamente suscettibile di generare conseguenze, come tutti i contratti degni di questo nome, ma una "pre-intesa quadro" che Zaia, rispolverando il suo passato di uomo pr, definisce una «pietra miliare nella storia della repubblica». Se la lingua italiana ha un senso, quel "pre" e quel "quadro" significano che abbiamo scherzato. Tanto che subito dopo aver pronunciato queste infauste parole, il governatore veneto ha preteso "una clausola di salvaguardia" che nessun esponente dell'attuale compagine governativa è in grado di firmargli. Zaia tende la mano e Gianclaudio Bressa risponde con parole che sono un raffinato distillato

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del pensiero democristiano della prima, della seconda e di tutte le repubbliche che verranno: «Ritengo che la pre-intesa che ci proponiamo di raggiungere sia da considerare un patrimonio da consegnare al prossimo Parlamento e al prossimo Governo». Patrimonio in questo caso non è sinonimo di quattrini, o schei che dir si voglia, ma di idee, progetti, intenzioni. Dopo la solenne firma a via della Stamperia, non un solo centesimo si posterà da Roma verso Venezia. E Bressa lo dice con il solito ricamo di politichese, l'arte del non dire nulla infilando parole che valgono come monete di legno: «Sarà un passaggio di testimone importante rispetto al lavoro e allo spirito collaborativo di reciproca lealtà, che hanno sinora impegnato l'esecutivo e cinque governi regionali». Scacco al leader del Veneto in una sola mossa. Perché il governo come lo Stato per il re Sole c'est moi, lascia intendere Bressa (il ministro per gli affari Regionali, Enrico Costa, è dimissionario da un anno, mentre il premier Gentiloni è stritolato dagli impegni di governo e dalla campagna elettorale). Ma il colpo da maestro è annegare Zaia in una miscellanea di quattro governatori per i quali l'opzione sudtirolese e quella autenticamente federalista sono l'equivalente del drappo rosso per un toro da corrida. Si gioca con le parole, si chiamano i governatori amici, Maroni compreso, e si rimanda tutto in blocco al prossimo governo che con questa legge elettorale potrebbe non vedere mai la luce. Zitti e mosca e ci rivediamo il cinque di marzo. I 2,4 milioni di veneti che hanno votato al referendum dovrebbero porsi qualche domanda. Invece a parlare sono gli uomini della Cgia di Mestre, che sconsigliano vivamente il governatore di firmare alcunché: «Il governo non ha ancora definito la metodologia con la quale erogherà i fondi per le materie in questione» suggerisce Renato Mason, segretario della Cgia. E fosse solo la metodologia a mancare dalla "pre-intesa quadro". Il governatore veneto, che da neolaureato ha impartito lezioni private di chimica, conoscerà di sicuro la legge di Lavoisier: «Nel corso di una reazione chimica la massa non si crea e non si distrugge». Basta sostituire trattativa governo-regioni a reazione chimica e competenze a massa per ottenere la legge di Zaia sull'autonomia. Pure questo, a suo modo, un sottile esercizio retorico di scuola dorotea. Pag 4 Costa caro cavalcare la pantera identitaria di Claudio Giua Luca Traini non ha idea di cosa sia la pantera identitaria, ma presto scoprirà che ha anche la sua faccia oltre a quelle, ben più note, di Matteo Salvini e di Roberto Fiore, il neofascista che guida Forza Nuova. Perché la pantera identitaria usa tutti loro, solo talvolta senza che ne siano consapevoli, per aggredire e dividere i popoli, le comunità, le famiglie, gli stati.Domenica sera il leader della Lega è corso a La7 da Massimo Giletti a giurare che lui non c'entra con il suo candidato di un anno fa alle comunali, diventato giustiziere in odio ai neri. E a spiegare che se ogni anno centoventimila italiani sono costretti a emigrare perché qui non trovano un lavoro adeguato, non è comunque una ragione sufficiente per sostituirli con altrettanti immigrati troppo scuri di carnagione: fossero polacchi o macedoni (non rom, per carità) passi, ma maghrebini o subsahariani proprio no. Il partito di Fiore ha addirittura diffuso un comunicato nel quale si schiera con l'autore della strage perché "il popolo vive nel terrore e i cittadini si sentono soli e traditi" per colpa di chi - lo Stato - "pensa solo a reprimere i patrioti e a difendere gli interessi dell'immigrazione". Quasi che le pallottole del 3 febbraio nelle vie e nelle piazze di Macerata non abbiano spaventato nessuno. Un patriota, Traini, come Anders Behring Breivik, il neonazista norvegese che a Oslo e Utoya nel luglio 2011 uccise oltre settanta giovanissimi iscritti al partito laburista, giudicati corresponsabili della mancata chiusura delle frontiere ai profughi mussulmani da Africa e Asia. O come Gianluca Casseri, l'attivista di CasaPound che sette anni fa a Firenze uccise a pistolettate due senegalesi e ne ferì gravemente altri. La pantera identitaria è folle eppure lucida, feroce quanto vorace. Traini, Breivik, Casseri colpiscono alla cieca tra la folla credendo di agire in nome e per conto di quanti non sopportano che la società venga inquinata da culture percepite come estranee e, dunque, pericolose. In quel contesto, conta poco la provocazione che li trasforma in assassini: l'omicidio di una ragazza sconosciuta, il chiasso notturno in una strada, la mercanzia che ingombra un marciapiede. Perché se Pamela fosse stata uccisa e fatta a pezzi da uno di Civitanova anziché da un nigeriano (per ora non formalmente accusato dell'omicidio), Traini non sarebbe corso a sparare sui passanti indigeni (Che nessuno dica che a massacrare le ragazze sono solo gli stranieri). In un saggio di

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vent'anni fa, dunque prima dell'attacco alle Torri Gemelle, il saggista e romanziere libanese Amin Maalouf affrontò con coraggio il tema delle diversità culturali e religiose in un saggio preveggente intitolato "L'identità". Nella prefazione alla ristampa del 2005 scrisse: "Non dubito che per molti anni ancora il problema dell'identità avvelenerà la Storia, indebolirà il dibattito intellettuale, diffondendo ovunque l'odio, la violenza e la distruzione. Ma non basta deplorare un'evoluzione così inquietante né basta scaricare la colpa sull'Altro, chiunque egli sia. Dobbiamo cercare di domare la pantera identitaria prima che ci divori. E, per iniziare, è essenziale che la osserviamo con attenzione". L'osservatore attento deve tenere conto, oggi, della crescente convergenza nei paesi dell'Ue tra i populismi e gli estremismi reazionari e xenofobi, che diventano maggioranza in paesi come Austria, Ungheria, Polonia e Bulgaria e spaventano Francia, Slovacchia, Svezia, Lettonia, Danimarca. Per individuare la portata del fenomeno, bisogna scorrere l'inchiesta di questa settimana dell'Economist, che fa il quadro della situazione paese per paese. L'Italia sta vivendo, secondo l'anonimo autore del servizio, una situazione anomala dovuta al ruolo di cuscinetto svolto dal Movimento 5 Stelle, non classificabile di destra o di sinistra. Prendiamola per buona, con cautela però. A preoccupare sono la Lega "nazionale", alla ricerca di voti costi-quel-che-costi, e le destre estreme di Forza Nuova e CasaPound, con le quali nulla voleva avere a che fare il partito dichiaratamente antifascista di Bossi e Maroni. Ma poiché al peggio non c'è argine, dalla deificazione del Po si è passati alla caccia al nero. Pag 5 Fascismo o unità europea, il bivio passa per l’urna di Roberto Castaldi L'Italia non ha mai fatto i conti con il fascismo, né ha applicato le norme contro il neo-fascismo: già nel 1948 il Msi partecipò alle elezioni ed entrò in Parlamento. Le attuali pulsioni fasciste in Italia non vanno dunque sottovalutate. Il fascismo è stato una delle tre risposte date all'industrializzazione: mercato-democrazia, redistribuzione-comunismo, autarchia-fascismo. La prima offre il miglior rapporto costi/benefici complessivo. La seconda e la terza quello relativo ad alcune categorie, il proletariato e la piccola borghesia, ma a costo della libertà. Il fascismo è stato scelto dalla piccola borghesia presa in mezzo tra il proletariato in ascesa e la grande borghesia industriale. Negli Stati più deboli, come l'Italia, si affermò poco dopo la Prima Guerra Mondiale. In Germania la miccia fu la grande crisi iniziata nel 1929. Oggi vi sono varie forze politiche sostanzialmente neo-fasciste in Europa. Hanno già preso il potere negli Stati più deboli, di recente democrazia e vera indipendenza - dopo esser state sotto il giogo sovietico - come Ungheria e Polonia, dove stanno smantellando lo Stato di diritto e il regime liberal-democratico. La formazione neo-fascista storicamente più forte in Europa, il Fronte nazionale, è arrivato al secondo turno delle presidenziali francesi come primo partito. Il loro alleato italiano nel Parlamento Europeo è la Lega di Salvini, secondo cui il Paese governato meglio in Europa è l'Ungheria, che ha imposto la censura, mette sotto controllo le Ong e la società civile e cerca di chiudere la prestigiosa Central European University. Ora è a rischio l'Italia, dove il candidato leghista alla presidenza della Lombardia parla di "difesa della razza bianca" e un candidato leghista alle amministrative del 2017 spara alle persone di colore. Se fosse stato un musulmano a sparare contro degli italiani parleremmo di terrorismo: è stato un atto terrorista di matrice fascista. Per Salvini la colpa è di chi apre le porte ai migranti - un po' come dire che la colpa del razzismo è delle persone di colore. In Italia nessun governo ha mai aperto le porte ai migranti. Al più ha osservato il diritto internazionale e le Convenzioni sui rifugiati che abbiamo ratificato e cui siamo vincolati. Inoltre i flussi stanno stabilmente calando e non c'è nessuna "invasione". Il sovranismo e il populismo anti-europeo sono i tratti comuni dei neo-fascisti e di quelli che inconsapevolmente fanno il loro gioco. Il neo-fascismo offre una risposta identitaria e psicologia, completamente inefficace, a problemi reali: una globalizzazione non governata che aumenta le diseguaglianze; l'insicurezza legata alle trasformazioni geopolitiche con il declino relativo dell'Europa; la destabilizzazione di Africa e Medio Oriente e i conseguenti flussi migratori. Può affermarsi solo se i problemi restano senza risposte efficaci, che nessuno Stato nazionale può dare. Solo a livello europeo si può regolamentare il mercato e la finanza, costringere le multinazionali a pagare le tasse - l'Ue ha già stangato Apple, Google, Qualcomm, ecc. - rilanciare investimenti e occupazione. Solo una politica estera,

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di difesa, dello sviluppo e delle migrazioni europea può stabilizzare Africa e Medio Oriente e garantire una gestione ordinata delle migrazioni. Ecco perché il loro nemico è l'Ue. La crisi degli Stati nazionali è palese dal 1945, quando sono stati spartiti tra Usa e Urss. Il cadavere dello Stato nazionale era stato ibernato grazie all'integrazione europea e all'ombrello militare americano, che garantivano sviluppo economico e sicurezza. La crisi del 2008 ha mostrato che senza un governo federale dell'economia la moneta unica da sola non garantisce lo sviluppo. La difesa americana dell'Europa è un ricordo. Il cadavere si è scongelato e si sta putrefacendo: ne emergono le pulsioni più malsane, che mettono a rischio i valori fondamentali della civiltà europea moderna. Unità politica dell'Europa o fascismo: questa è la scelta. Pag 12 Raccolte per beneficenza, via libera alle parrocchie di Andrea Passerini Roma. Il decreto 14/2018 del Ministero dell'Ambiente è firmato dal direttore generale per i rifiuti e l'inquinamento, Mariano Grillo, e porta la data di giovedì 1º febbraio. Introduce nuove norme che consentiranno d'ora in poi a gruppi parrocchiali, e ad associazioni di volontariato di poter continuare le tradizionali raccolte di ferro e di altri materiali di scarto per sostenere campagne di solidarietà a favore di Terzo Mondo, o di altre iniziative sul territorio di carattere benefico, o di gemellaggi avviati dai gruppi missionari. Una correzione molto attesa dal mondo cattolico veneto, in particolare dalle parrocchie di Treviso e Venezia che per prime avevano sollevato il problema, quando la scorsa estate si erano viste impossibilitate a promuovere raccolte di ferro per le norme, interpretate molto restrittivamente, sulla titolarità della raccolta nel quadro della gestione ambientale, che prevede un albo nazionale degli stessi gestori. Il decreto, ora, cancella ogni dubbio: l'articolo 65 stabilisce che «enti religiosi e associazioni di volontariato possono svolgere l'attività occasionale di raccolta, purché non superi i 4 giorni annui complessivi, anche non consecutivi, e le 100 tonnellate di materiale raccolto». E ancora, che tale attività va svolta in collaborazione con i comuni territorialmente competenti», previa «iscrizione all'albo nazionale dei gestori ambientali, con procedura ad hoc che autorizza temporaneamente i veicoli che trasporteranno esclusivamente materiali ferrosi non pericolosi».Al decreto ha lavorato, nella capitale, Matteo Favero, braccio destro di Ermete Realacci da 10 anni, e capo segreteria della commissione antimafia, ora candidato dal Pd nel collegio Castelfranco-Vedelago, Martellago-Noale-Scorze della Camera. «È finalmente risolto il problema della raccolta del ferro per i gruppi missionari e le associazioni di solidarietà delle Diocesi venete», commenta Favero, «il ministro Galletti lo aveva promesso, in occasione della sua visita agli impianti della Contarina, a maggio scorso, ed è stato di parola: non ci sono più problemi di interpretazione normativa o altri ostacoli, sarà possibile a gruppi ed associazioni iscriversi nella modalità semplificata all'Albo nazionale gestori ambientali per raccogliere ferro a fine benefico».Al decreto hanno collaborato fattivamente anche lo stesso Realacci, presidente uscente della commissione Ambiente della Camera, e il mondo dell'associazionismo cattolico veneto, in particolare Sergio Criveller della Diocesi di Treviso: il passaggio decisivo, sul piano legislativo, è stata l'approvazione degli articoli 123 e 124 del decreto legge Concorrenza, alla base della di semplificazione consentita oggi a chi promuove queste iniziative di solidarietà con raccolta di materiali su sul territorio.«È stato un lavoro concreto e di successo a favore del territorio e chi si impegna nella solidarietà», conclude Favero. «Il volontariato è un elemento essenziale della convivenza e della coesione sociale soprattutto nel mio collegio, che soffre di un grave calo demografico e che non può più permettersi di lasciare solo nessuno. Mettersi in gioco per gli altri è uno degli elementi che, a dispetto di chi fa politica solo per urlare e risolvere poco o fare dossieraggio da quattro soldi, più profondamente caratterizza la nostra società». CORRIERE DEL VENETO Pag 1 Quelle anomalie del voto di Umberto Curi Verso le elezioni E’ difficile immaginare un turno elettorale più anomalo di quello che si celebrerà il prossimo 4 marzo. Per convincersene, basta mettere in fila le «stranezze» connesse a

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questa scadenza. La prima. É ormai pacificamente acquisito che dalle urne non uscirà alcun vincitore, e che quindi il principale obbiettivo di ogni consultazione politica, vale a dire stabilire a chi spetti il compito di governare, non sarà raggiunto. Non si tratta di un dettaglio di poco conto. Mettere in piedi tutta la farraginosa e complessa macchina elettorale, già sapendo in partenza che il tutto si concluderà con un nulla di fatto, è di per sé un fatto non solo insolito, ma anche potenzialmente dirompente. E’ come mandare al massimo i giri di un motore, tenendo tirato il freno a mano. Lo scenario diventa ancora più allarmante se si considera che le elezioni sono rimaste – e per giunta a stento – l’unico aspetto ancora funzionante dei sistemi democratico-rappresentativi, in evidente crisi di legittimità in tutto il mondo. Depotenziare la pratica del suffragio popolare, accettando passivamente che esso si riveli del tutto inefficace, vuol dire infliggere indirettamente un ulteriore colpo alla credibilità del sistema politico. E davvero non si può dire che ce ne fosse bisogno. Un’ulteriore anomalia può essere individuata nel rapporto che emergerà la sera delle elezioni fra i voti espressi e le delegazioni parlamentari che risulteranno elette. Assodato che non vi sarà alcun vincitore assoluto, il perverso meccanismo elettorale porterà all’indicazione di ben tre vincitori parziali, quasi certamente diversi l’uno dall’altro: il partito più votato, la coalizione vittoriosa, la delegazione parlamentare più numerosa. Tanto per capirsi, ciò che si profila come molto probabile è che il partito più votato sia il M 5 stelle, la coalizione prevalente sia il centrodestra e il maggior numero di parlamentari eletti appartenga al Pd. Tre poli, tre vincitori, nessun governo. Con una conseguenza seria e perfino destabilizzante. In mancanza di regole chiare al proposito, e non essendo rintracciabili precedenti paragonabili alla situazione ora descritta, il presidente della Repubblica non saprà letteralmente che pesci pigliare. Qualunque scelta dovesse compiere fra i tre «vincitori» virtuali, non potrà che essere criticato dai due esclusi. Se privilegia la coalizione più votata, susciterà le protese del partito con la più alta percentuale e del partito col maggior numero di parlamentari, e via dicendo. Un vero guazzabuglio. Ma le anomalie non si esauriscono qui. A differenza di ciò che accade e dovrebbe accadere in condizioni normali, la consultazione non deciderà un bel nulla per quanto riguarda l’individuazione delle forze che dovranno comporre il governo, e servirà invece ad uno scopo obliquo, quale è quello di risolvere problemi di competizione interna ai singoli schieramenti. La sera del 4 marzo non sapremo chi sarà chiamato a governare. Ma invece sapremo se, all’interno del centrodestra, ha vinto Berlusconi o ha vinto Salvini; se Renzi sarà confermato segretario del partito o sarà avvicendato al Nazareno; se Di Maio ha avuto la meglio sulla fronda interna ai 5 stelle. Ne consegue che il prossimo appuntamento elettorale, anziché corrispondere alle finalità previste dalla Costituzione (esprimere un governo per il paese), funzionerà come occasione per lo svolgimento di elezioni primarie generalizzate, come palcoscenico in cui si rappresentano le faide interne ai diversi partiti. Quest’ultimo punto merita un supplemento di riflessione, con particolare riferimento al Veneto. Anche nella nostra regione infatti, e con toni forse anche più drammatici, la composizione delle liste elettorali obbedisce ad istanze reali molto lontane da quelle strettamente pertinenti alla formazione della rappresentanza. Giocando sui meccanismi previsti dal Rosatellum, si stanno componendo delle liste di proscrizione, cogliendo l’opportunità per dirimere antiche controversie e regolamenti di conti. Soprattutto nel Veneto, la Lega sta formulando scelte che tendono di fatto a cancellare margini di dissenso, rispetto alla linea dettata da Salvini, con qualche frangia di resistenza di esponenti fedeli a Luca Zaia. Si manifesta con ciò un vero e proprio paradosso: proprio nella regione che, attraverso il referendum, ha espresso la massima spinta verso l’autonomia, si verifica un tentativo di utilizzare le elezioni per omologare il Veneto alla Lombardia, riconducendo il leone di San Marco sotto l’egemonia del salvinismo. Insomma, c’è il rischio concreto che, nella massima confusione di obbiettivi, ruoli, prerogative, le prossime elezioni, anziché agire come un salutare bagno di democrazia (come tanta stucchevole retorica tende a sostenere), possano dare un colpo ulteriore a ciò che resta della democrazia rappresentativa. Torna al sommario