Rassegna stampa 13 ottobre 2016 - patriarcatovenezia.it fileAnche il Patriarca Francesco Moraglia...

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RASSEGNA STAMPA di giovedì 13 ottobre 2016 SOMMARIO E’ una data da fissare già in agenda, per la particolarità assoluta dell’evento: il Patriarca e il Procuratore aggiunto della Repubblica di Venezia a confronto e in dialogo su giustizia e misericordia : confini e intrecci, contenuti, esigenze e modalità di… esercizio nelle rispettive esperienze di vescovo e di magistrato. Venerdì 28 ottobre, alle ore 17.30, la Scuola Grande di S. Rocco a Venezia ospiterà l’incontro, ispirato evidentemente alle tematiche dell’attuale Giubileo, su “Misericordia e giustizia s’incontreranno?” tra il Patriarca Francesco Moraglia e il Procuratore aggiunto della Repubblica Adelchi d’Ippolito . L’iniziativa è, naturalmente, aperta al pubblico e ad ingresso libero. “Il percorso che abbiamo compiuto, come Chiesa che è in Venezia in quest’Anno giubilare della Misericordia - ha dichiarato in queste ore il Patriarca Francesco -, ci ha portato spesso a toccare con mano l’intreccio fra misericordia e giustizia. Lo stesso percorso giubilare è stato, e deve essere per il futuro, un cammino di conversione verso il Dio della misericordia e della giustizia che chiede di andare oltre le strette misure degli uomini e spinge a comprendere che la misericordia è il nome ultimo della giustizia e che la giustizia – nella Chiesa e nel mondo, in ambito canonico come nel versante civile e penale – è veramente tale solo se non smarrisce se stessa e fa entrare nel suo cammino la realtà profondamente umanizzante della misericordia. Come, concretamente, e attraverso quali modalità e strade è possibile tutto questo? Nel dialogo del prossimo 28 ottobre si tenterà di mettere a fuoco le varie sfumature di questo intreccio, si cercherà di approfondire i confini, i legami e le esigenze di una giustizia vera e di una vera misericordia. Il tutto a partire dalle nostre differenti ma, ritengo, in molti punti, convergenti esperienze. Le prospettive del Vescovo e del Magistrato sono ovviamente diverse, ma confido che il colloquio costituisca un reciproco arricchimento ed offra spunti di riflessione a quanti vorranno partecipare. Il dialogo arriverà, certamente, a toccare aspetti significativi della vita ecclesiale e civile, che interessano tutti, suscitando così una sana e stimolante provocazione e aiutando a crescere nel bene comune”. Sarà di fatto la prima iniziativa promossa dal nuovo consiglio , insediatosi nel corso dell’estate, della Fondazione Studium Generale Marcianum . S’intitola “Per conoscere il referendum costituzionale 2016” e si svolgerà nel pomeriggio di giovedì 20 ottobre p.v., dalle ore 17.00 alle 19.45 circa, presso l’aula magna dell’Istituto di Cultura Laurentianum in Piazza Ferretto a Mestre (sulla destra del Duomo di S. Lorenzo); si tratta, quindi, di un’occasione privilegiata per entrare, attraverso il contributo di esperti, dentro le questioni più rilevanti della grande riforma costituzionale che il 4 dicembre prossimo sarà posta alla valutazione degli elettori italiani. L’incontro, aperto alla partecipazione di tutte le persone interessate, prevede le relazioni di alcuni illustri docenti provenienti da diversi atenei italiani: Marco Mancini (docente di Istituzioni di Diritto pubblico all’Università Ca’ Foscari di Venezia), Andrea Pisaneschi (docente di Diritto costituzionale all’Università di Siena) e Lorenza Violini (docente di Diritto costituzionale all’Università Statale di Milano). Anche il Patriarca Francesco Moraglia parteciperà ai lavori del convegno e interverrà all’inizio con un indirizzo di saluto. Le conclusioni dell’incontro - che sarà moderato dal prof. Roberto Senigaglia , docente di Diritto privato a Ca’ Foscari e consigliere del Marcianum - saranno affidate a Roberto Crosta , segretario generale della Camera di Commercio di Venezia Rovigo Delta Lagunare e neopresidente della Fondazione Studium Generale Marcianum, che presenta così l’iniziativa: “E’ il primo evento che viene organizzato dal nuovo consiglio di amministrazione del Marcianum ed abbiamo voluto offrire una occasione di riflessione seria, su un tema delicatissimo, a chi vorrà partecipare: il nostro obiettivo è quello di presentare con la massima trasparenza la riforma costituzionale, lasciando poi alla coscienza di ciascuno la valutazione della stessa”.

Transcript of Rassegna stampa 13 ottobre 2016 - patriarcatovenezia.it fileAnche il Patriarca Francesco Moraglia...

RASSEGNA STAMPA di giovedì 13 ottobre 2016

SOMMARIO

E’ una data da fissare già in agenda, per la particolarità assoluta dell’evento: il Patriarca e il Procuratore aggiunto della Repubblica di Venezia a confronto e in

dialogo su giustizia e misericordia: confini e intrecci, contenuti, esigenze e modalità di… esercizio nelle rispettive esperienze di vescovo e di magistrato. Venerdì 28

ottobre, alle ore 17.30, la Scuola Grande di S. Rocco a Venezia ospiterà l’incontro, ispirato evidentemente alle tematiche dell’attuale Giubileo, su “Misericordia e giustizia s’incontreranno?” tra il Patriarca Francesco Moraglia e il Procuratore

aggiunto della Repubblica Adelchi d’Ippolito. L’iniziativa è, naturalmente, aperta al pubblico e ad ingresso libero. “Il percorso che abbiamo compiuto, come Chiesa che è in Venezia in quest’Anno giubilare della Misericordia - ha dichiarato in queste ore il

Patriarca Francesco -, ci ha portato spesso a toccare con mano l’intreccio fra misericordia e giustizia. Lo stesso percorso giubilare è stato, e deve essere per il

futuro, un cammino di conversione verso il Dio della misericordia e della giustizia che chiede di andare oltre le strette misure degli uomini e spinge a comprendere che la

misericordia è il nome ultimo della giustizia e che la giustizia – nella Chiesa e nel mondo, in ambito canonico come nel versante civile e penale – è veramente tale solo

se non smarrisce se stessa e fa entrare nel suo cammino la realtà profondamente umanizzante della misericordia. Come, concretamente, e attraverso quali modalità e

strade è possibile tutto questo? Nel dialogo del prossimo 28 ottobre si tenterà di mettere a fuoco le varie sfumature di questo intreccio, si cercherà di approfondire i confini, i legami e le esigenze di una giustizia vera e di una vera misericordia. Il tutto a partire dalle nostre differenti ma, ritengo, in molti punti, convergenti esperienze.

Le prospettive del Vescovo e del Magistrato sono ovviamente diverse, ma confido che il colloquio costituisca un reciproco arricchimento ed offra spunti di riflessione a quanti vorranno partecipare. Il dialogo arriverà, certamente, a toccare aspetti

significativi della vita ecclesiale e civile, che interessano tutti, suscitando così una sana e stimolante provocazione e aiutando a crescere nel bene comune”.

Sarà di fatto la prima iniziativa promossa dal nuovo consiglio, insediatosi nel corso

dell’estate, della Fondazione Studium Generale Marcianum. S’intitola “Per conoscere il referendum costituzionale 2016” e si svolgerà nel pomeriggio di giovedì 20 ottobre

p.v., dalle ore 17.00 alle 19.45 circa, presso l’aula magna dell’Istituto di Cultura Laurentianum in Piazza Ferretto a Mestre (sulla destra del Duomo di S. Lorenzo); si tratta, quindi, di un’occasione privilegiata per entrare, attraverso il contributo di

esperti, dentro le questioni più rilevanti della grande riforma costituzionale che il 4 dicembre prossimo sarà posta alla valutazione degli elettori italiani. L’incontro,

aperto alla partecipazione di tutte le persone interessate, prevede le relazioni di alcuni illustri docenti provenienti da diversi atenei italiani: Marco Mancini (docente di Istituzioni di Diritto pubblico all’Università Ca’ Foscari di Venezia), Andrea Pisaneschi (docente di Diritto costituzionale all’Università di Siena) e Lorenza Violini (docente di

Diritto costituzionale all’Università Statale di Milano). Anche il Patriarca Francesco Moraglia parteciperà ai lavori del convegno e interverrà all’inizio con un indirizzo di saluto. Le conclusioni dell’incontro - che sarà moderato dal prof. Roberto Senigaglia, docente di Diritto privato a Ca’ Foscari e consigliere del Marcianum - saranno affidate a Roberto Crosta, segretario generale della Camera di Commercio di Venezia Rovigo Delta Lagunare e neopresidente della Fondazione Studium Generale Marcianum, che

presenta così l’iniziativa: “E’ il primo evento che viene organizzato dal nuovo consiglio di amministrazione del Marcianum ed abbiamo voluto offrire una occasione

di riflessione seria, su un tema delicatissimo, a chi vorrà partecipare: il nostro obiettivo è quello di presentare con la massima trasparenza la riforma costituzionale,

lasciando poi alla coscienza di ciascuno la valutazione della stessa”.

1 – IL PATRIARCA CORRIERE DEL VENETO Pag 3 Giustizia o misericordia? Procura e Chiesa a confronto di Alberto Zorzi Venezia, D'Ippolito e il Patriarca affrontano il rapporto tra Legge e perdono in un dialogo serrato LA NUOVA Pag 20 Giustizia e misericordia, inedito confronto di Roberta De Rossi Il Patriarca e il procuratore aggiunto D'Ippolito protagonisti il 28 ottobre di un dialogo alla Scuola grande di San Rocco Pag 20 Moraglia: “Non vantatevi per le vostre conoscenze” di Nadia De Lazzari Messa per il nuovo anno accademico IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag VI Patriarca a confronto con il procuratore su giustizia e misericordia 3 – VITA DELLA CHIESA L’OSSERVATORE ROMANO Pag 4 Cammino comune In un libro l’omaggio a Bartolomeo per il venticinquesimo anniversario dell’elezione alla sede patriarcale di Costantinopoli. La prefazione del Papa Pag 4 Compagni di viaggio La riflessione di Benedetto XVI Pag 8 La rivoluzione dei piccoli gesti All’udienza generale il Pontefice parla delle opere di misericordia e ricorda santa Teresa di Calcutta AVVENIRE Pag 5 “Imploro il cessate il fuoco per la Siria” di Luca Geronico L’appello di Francesco: consentite la fuga dei bimbi intrappolati sotto le bombe IL FOGLIO Pag 2 Un rito in chiesa per le nozze gay. L’ultima idea del vescovo di Anversa di Matteo Matzuzzi Mons. Bonny: “Aprirsi all’evoluzione, no a modelli unici” 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO CORRIERE DELLA SERA Pag 1 I giovani (ancora) trascurati di Sergio Rizzo Le pensioni e i conti AVVENIRE Pag 2 Perché diventano nodo i “compiti per casa” di Roberto Carnero Sempre più fragile l’alleanza scuola-famiglia Pag 3 La misericordia fa miracoli. E lo si può anche misurare di Mario A. Maggioni Amore e perdono trasformano le persone. Ecco come Pag 3 La leva dei bonus per sviluppo e ambiente di Leonardo Becchetti Legge di bilancio alla luce della “Laudato si’” Pag 23 Ma la vera libertà ci vuole solidali

Zygmunt Bauman: “Cari top manager, siate più giusti”. Chiara Giaccardi e Mauro Magatti: “La Rete può favorire l’economia della cura” Pag 24 L’altruismo? Biologia (e cultura) di Andrea Lavazza Intervista al neuro scienziato britannico Ray Dolan 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA LA NUOVA Pagg 2 – 3 Cinque Stelle ai raggi X con il laboratorio Mira di Giulio De Polo I giudizi dei cittadini dopo quasi cinque anni di amministrazione Maniero. Il sindaco: “Sono utile, non indispensabile. Devo laurearmi”. Il Pd: “Una giunta senza progetti” 8 – VENETO / NORDEST CORRIERE DEL VENETO Pag 1 Il fattore Pil degli immigrati di Vittorio Filippi I numeri in Veneto Pag 6 Veneto, terra di emigranti: 10mila in fuga di Michela Nicolussi Moro Il rapporto Migrantes LA NUOVA Pag 1 L’impegno a difesa del Veneto di Luca Zaia Pag 6 La crisi spinge i ragazzi all’estero di Silvia Quaranta Generazione “Y” in fuga dall’Italia: sono 371 mila i veneti partiti in cerca di lavoro IL GAZZETTINO Pag 12 Sindaci e nozze gay: dopo Oderzo, Musile. E’ bufera nella Lega di Fabrizio Cibin e Paolo Calia Il primo cittadino di Montebelluna getta acqua sul fuoco delle polemiche interne: “Non sono matrimoni, va usato buonsenso” 10 – GENTE VENETA Gli articoli segnalati di seguito sono pubblicati sul n. 39 di Gente Veneta in uscita venerdì 14 ottobre 2016: Pagg 1, 8 Collaborazioni, ecco i moderatori di Giorgio Malavasi Un altro passo avanti per i nuovi soggetti pastorali. Don Danilo Barlese: «Centrale il coinvolgimento». Nominati 34 sacerdoti: a loro compiti di coordinamento Pag 1 Tutto il buono che c’è nei gruppi su whatsapp di Giorgio Malavasi Pag 1 Accoglienza o muri? Ma se i profughi siamo noi... di Serena Spinazzi Lucchesi Pag 3 «Fuggiti dalle bombe, ora ci ospita la parrocchia» di Francesca Catalano Il racconto di Abdullah e Xanzad, giovani sposi curdi-iracheni in fuga dall’Isis, con un bimbo di 4 mesi. Dopo un lungo e pericoloso viaggio a piedi, hanno trovato ospitalità a Venezia, grazie alle comunità di San Silvestro e San Cassiano. I volontari: «Loro sono un dono per noi. Ma ci servirebbe un referente» Pag 9 Domenica in S. Marco Giubileo degli operatori sanitari. Mons. Pistolato: «Al centro l’essenziale: la prossimità» di Giorgio Malavasi e Gino Cintolo Alle ore 16 il passaggio della Porta Santa, poi la celebrazione della messa. Il responsabile della pastorale della salute: «Mettere al centro la persona». Fatebenefratelli, Villa Salus e San Camillo: «Sono una risorsa di tutti, la Regione ne

tenga conto». Medici e infermieri, si accelera affinché al centro ci sia la persona Pag 12 Fronte comune alla crisi ambientale: due Chiese cristiane in dialogo di Giulia Busetto Domenica 9 ottobre si è festeggiato l’avvio del percorso del creato. Il Patriarca e la Pastora evangelica di Venezia e Treviso fanno il punto sul destino delle risorse naturali della Terra Pag 18 Sant’Antonio recupera il battistero e tutti i suoi simboli di Giorgio Malavasi Il locale ridipinto di giallo che rimanda alla luce, con un controsoffitto celeste. I bambini vengono battezzati e poi portati in processione verso l’altare. Il delegato patriarcale per i beni culturali, don Gianmatteo Caputo: «Un lungimirante intervento controcorrente, che permette di sottolineare meglio i segni del sacramento» … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Napoletani e siciliani schedati, Londra si scusa ma non è il punto di Beppe Severgnini Le liste degli stranieri Pag 5 Il falso mito dell’anno zero di Pierluigi Battista Instabilità e paralisi del passato evocate da Renzi (e Berlusconi). Ma l’Italia è cresciuta Pag 5 Il monito presidenziale su una campagna che si estremizza di Massimo Franco Pag 29 Maestri di felicità di Luigi Accattoli Dalai Lama e Desmond Tutu, storia di un incontro di religioni: “La gioia può essere contagiosa” Pag 31 Il cambio di passo sui migranti, sfida di una sinistra riformista di Goffredo Buccini LA REPUBBLICA Pag 1 L’ombra dell’Apocalisse di Massimo Giannini LA STAMPA Il boomerang della sterlina sulla Brexit di Francesco Guerrera AVVENIRE Pag 1 Chi piaga un popolo di Fulvio Scaglione La feroce “guerra per procura” in Siria Pag 22 Samir. L’islam recuperi il dialogo con l’attualità di Giorgio Paolucci IL GAZZETTINO Pag 1 I cattivi esempi che nutrono l’antipolitica di Sebastiano Maffettone Pag 1 Italiani del Sud, da Londra arrivano le scuse di Mario Ajello

Torna al sommario 1 – IL PATRIARCA CORRIERE DEL VENETO Pag 3 Giustizia o misericordia? Procura e Chiesa a confronto di Alberto Zorzi

Venezia, D'Ippolito e il Patriarca affrontano il rapporto tra Legge e perdono in un dialogo serrato Venezia. «La misericordia in sé e per sé non appartiene al sistema giustizia. Il giudice ha una soggezione assoluta nei confronti della legge». «Il cammino di conversione chiede di andare oltre le strette misure degli uomini e spinge a comprendere che la misericordia è il nome ultimo della giustizia». Da un lato il procuratore aggiunto di Venezia Adelchi d'Ippolito, dall'altro il Patriarca Francesco Moraglia. Posizioni in apparenza inconciliabili quelle del magistrato e dell'alto prelato, ma entrambi, quasi come in un libro giallo, rimandano al 28 ottobre per la soluzione di un dilemma etico-filosofico. Quel giorno, alle 17.30 alla Scuola Grande di San Rocco a Venezia, tra d'Ippolito e Moraglia ci sarà un faccia a faccia, la cui ispirazione viene dal tema portante dell'anno giubilare lanciato da Papa Francesco. Le domande sono chiare, ma anche complesse: dal magistrato mi aspetto che sia giusto o misericordioso? La giustizia terrena è una necessità per tutti, cristiani compresi, oppure no? Chi commette un reato può essere perdonato o deve comunque pagare il proprio debito nei confronti della società? Domande che, viste con l'occhio laico di un mondo come quello giudiziario, sembrano scontate, tanto più in un'epoca storica in cui, anzi, l'0pinione pubblica - al di là dei colori politici, anche se ovviamente questo approccio è più sentito dalle parti del leghismo - chiede alla magistratura di essere più severa con chi delinque e di emettere pene certe e, nei casi estremi, mette alla berlina i magistrati accusati di scarcerare o assolvere (oppure, come nel caso Stacchio, di condannare chi, dal loro punto di vista, si è solo difeso). Ovviamente l'approccio cristiano è diverso. «La giustizia, nella Chiesa e nel mondo, in ambito canonico come nel versante civile e penale, è veramente tale solo se non smarrisce se stessa e fa entrare nel suo cammino la realtà profondamente umanizzante della misericordia», afferma Moraglia. Il procuratore d'Ippolito su questo punto non è così distante dal Patriarca: «L'azione del magistrato implica una continua e faticosa riflessione che non deve mai trascurare la persona umana che si ha di fronte», afferma. Non facile laddove il sistema-giustizia, con migliaia di fascicoli aperti e udienze in cui un magistrato ne affronta a decine, sembra più una fabbrica taylorista, una catena di montaggio delle sentenze. «Rifiuto questa impostazione - dice però d'Ippolito - il magistrato deve saper ripercorrere il percorso compiuto dall'individuo per arrivare a commettere un reato». «Per un giurista il problema è semplice: la giustizia, come affermazione della legalità, è prioritaria nell'ordine logico - aggiunge l'altro procuratore aggiunto lagunare, Carlo Nordio - La misericordia, intesa come perdono e riduzione o estinzione della pena è una scelta politica». Secondo Nordio, però, neppure la Chiesa può promuovere il perdono tout court: «Non può prescindere dall'ammissione della colpa, dal pentimento, dalla penitenza e dal fermo proposito di non peccare più - conclude - Una misericordia gratuita confliggerebbe con l'affermazione di un Dio giusto». LA NUOVA Pag 20 Giustizia e misericordia, inedito confronto di Roberta De Rossi Il Patriarca e il procuratore aggiunto D'Ippolito protagonisti il 28 ottobre di un dialogo alla Scuola grande di San Rocco Giustizia e misericordia: due termini apparentemente lontani nell'immediato, comune sentire. La giustizia può essere misericordiosa o dev'essere rigorosamente "altra" dalle umane categorie del sentire? Il codice, la norma sono la sola guida di un magistrato o l'empatia può avere uno spazio nelle decisioni di legge? L'invito di papa Francesco a essere più clementi verso i detenuti come s'incontra con i diritti delle vittime e della società ad essere tutelati? "Misericordia e giustizia" è il titolo dell'inedito confronto pubblico che il 28 ottobre, nella scuola grande San Rocco, vedrà dialogare tra loro il patriarca Francesco Moraglia e il procuratore aggiunto Adelchi d'Ippolito. Temi alti, che investono il vivere quotidiano e che invitano a non fermarsi all'apparenza. «Il percorso che abbiamo compiuto, come chiesa in Venezia, in quest'anno giubilare della Misericordia ci ha portato spesso a toccare con mano l'intreccio fra misericordia e giustizia», osserva il patriarca Moraglia, «in un cammino per andare oltre le strette misure degli uomini e comprendere che la misericordia è il nome ultimo della giustizia e che la giustizia - nella Chiesa e nel mondo - è veramente tale solo se non smarrisce se

stessa e fa entrare nel suo cammino la realtà umanizzante della misericordia. Nel dialogo del 28 ottobre tenteremo di mettere a fuoco le varie sfumature di questo intreccio, partendo dalle nostre esperienze». Prospettive di partenza diverse per il vescovo e il magistrato: la fede non dovrebbe essere questione avulsa dall'amministrazione della legge? «La misericordia in sé e per sé non appartiene al sistema giustizia, che è amministrato in nome del popolo italiano», osserva il procuratore aggiunto D'Ippolito, «la giustizia ha una soggezione assoluta nei confronti della legge e non posso in alcun modo eludere la legge, ma è sicuro anche che l'azione del magistrato implica una costante e faticosa riflessione che non deve mai trascendere le persone che si trova di fronte: il magistrato deve saper ripercorrere il percorso che ha compiuto un individuo per arrivare a commettere un reato, comprendere le ragioni che lo hanno portato a delinquere». Sono tempi di incertezza, di tensione, paura, in cui spesso la società chiede più carcere: che margine c'è, oggi, per la misericordia? «Una giustizia equilibrata è al servizio della comunità», conclude il magistrato, «non è giustizia se si piega a favore di una istanza particolare: il magistrato deve operare con una grande libertà interiore e capacità di conservare la sua unica soggezione alla legge». Su questo tema carico di suggestioni, implicazioni intime e al contempo pubbliche, interviene anche il procuratore aggiunto Carlo Nordio: «Per un giurista il problema è semplice: la giustizia intesa come affermazione della legalità è prioritaria nell'ordine logico; la misericordia intesa come perdono e riduzione o estinzione della pena è una scelta politica, per il reinserimento sociale del condannato. Ma per un cristiano la misericordia è indissolubilmente coniugata alla giustizia: tuttavia anche per la chiesa il perdono non può prescindere dai tradizionali requisiti dell'ammissione di colpa, del pentimento, della penitenza e del fermo proposito di non peccare più. Il giudice vive la perenne tensione tra l'imperativo della legge morale e il vincolo delle norme positive». Pag 20 Moraglia: “Non vantatevi per le vostre conoscenze” di Nadia De Lazzari Messa per il nuovo anno accademico Il Patriarca Moraglia alle centinaia di universitari riuniti ieri in Basilica per la messa giubilare e per l'inizio dell'anno accademico, ha posto in evidenza l'impegno intellettuale quale servizio per umanizzare il mondo e ha distinto la sapienza di Dio da quella del mondo. Queste le sue parole: «Ciò che fa male all'uomo non è la conoscenza in quanto tale, ma il vantarsi di essa, come l'uso peccaminoso che l'uomo può fare delle sue conoscenze». Il Patriarca ha proseguito: «Di fronte a questa celebrazione giubilare, offerta a chi opera nell'ambito universitario, dove i molteplici saperi umani sono chiamati a comporsi in una sinfonia» ecco l'Universitas «per un nuovo umanesimo, chiedo con forza che si rifletta sulla sapienza che precede questi saperi umani». Prima della messa gli universitari si sono ritrovati nella chiesa di San Moisè per un momento di catechesi curata da don Gilberto Sabbadin, direttore della Pastorale universitaria, insieme all'Istituto universitario salesiano. Poi il pellegrinaggio con il passaggio alla Porta Santa. Alla messa ha partecipato anche personale amministrativo e tecnico. Tra i professori di Ca' Foscari c'erano: Luisa Bienati (letteratura giapponese), Giuseppe Goisis (filosofia politica), Roberto Senigaglia (diritto privato). Presente anche l'ex rettore dello Iuav Amerigo Restucci. In diocesi intanto si avvicinano altri appuntamenti. Per l'apertura della Scuola di Teologia, intitolata a San Marco Evangelista e diretta da don Valter Perini, il Patriarca terrà tre incontri per la lectio magistralis in distinte zone: a Mestre oggi alle 20.45 al Centro pastorale cardinal Urbani di Zelarino; lunedì 17 alle 20.45 nel patronato di Santa Maria Concetta ad Eraclea; lunedì 24, ore 18, nel Seminario alla Salute a Venezia. IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag VI Patriarca a confronto con il procuratore su giustizia e misericordia «Sono d'accordo con il Governatore del Veneto: è necessario dare risposta giudiziaria nei tempi più rapidi possibili nel caso di inchieste che coinvolgono esponenti politici. Ma i magistrati devono essere messi nelle condizioni di farlo, con strutture adeguate e personale sufficiente. Non concordo invece sulla proposta di creare strutture speciali». Il procuratore aggiunto di Venezia, Adelchi d'Ippolito, replica così a Luca Zaia che, sulla

questione giustizia, l'altro giorno ha espresso l'esigenza di far sapere con rapidità ai cittadini «se i politici che hanno eletto sono disonesti oppure no». D'Ippolito ieri ha illustrato un'iniziativa in cui sarà protagonista il prossimo 28 ottobre, alle 17.30, alla Scuola Grande di San Rocco: un dialogo assieme al Patriarca di Venezia, Francesco Moraglia, sul tema "Misericordia e giustizia s'incontreranno?" «Si tratta di un argomento che stimola profonde riflessioni - ha spiegato ieri il procuratore aggiunto - Cercheremo di dare risposte ai molti interrogativi: dal ruolo del magistrato, al senso della giustizia terrena, al concetto di perdono». «Le prospettive di un vescovo e di un magistrato sono ovviamente diverse - ha aggiunto il Patriarca in una nota diramata in serata - Il dialogo toccherà aspetti significativi della vita ecclesiale e civile, suscitando una sana e stimolante provocazione e aiutando a crescere nel bene comune». Torna al sommario 3 – VITA DELLA CHIESA L’OSSERVATORE ROMANO Pag 4 Cammino comune In un libro l’omaggio a Bartolomeo per il venticinquesimo anniversario dell’elezione alla sede patriarcale di Costantinopoli. La prefazione del Papa È con sentimenti di cordiale vicinanza che mi unisco a tutti coloro che quest’anno celebrano, con gioia e giubilo, il venticinquesimo anniversario dell’elezione di Sua Santità Bartolomeo I a patriarca ecumenico. Il mio primo incontro con il mio amato fratello Bartolomeo è avvenuto il giorno stesso in cui ho iniziato il mio ministero papale, quando mi ha onorato della sua presenza a Roma. Ho sentito che stavo incontrando un uomo che cammina nella fede (cfr. 2 Corinzi, 5, 7), che nella sua persona e nei suoi modi esprime tutta la profonda esperienza umana e spirituale della tradizione ortodossa. In quella occasione ci siamo abbracciati con affetto sincero e reciproca comprensione. I nostri successivi incontri a Gerusalemme, Roma e Costantinopoli hanno non soltanto rafforzato la nostra affinità spirituale, ma soprattutto reso più profonda la nostra consapevolezza condivisa della responsabilità pastorale comune che abbiamo in questo momento della storia, dinanzi alle sfide urgenti che i cristiani e l’intera famiglia umana devono affrontare oggi. In particolare tengo caro nel cuore la splendida memoria del caloroso e fraterno benvenuto che il patriarca Bartolomeo mi ha riservato durante la mia visita al Fanar per la festa dell’apostolo Andrea, santo patrono del patriarcato ecumenico, il 30 novembre 2014. La Chiesa di Roma e la Chiesa di Costantinopoli sono unite da un profondo e antico vincolo, che neanche secoli di silenzio e di malintesi sono riusciti a spezzare. Questo vincolo è esemplificato dalla relazione tra coloro a cui la tradizione attribuisce la fondazione delle nostre rispettive Chiese, ovvero i santi apostoli Pietro e Andrea, due fratelli nella carne, ma soprattutto due discepoli del Signore Gesù, che insieme hanno creduto in lui, lo hanno seguito e infine hanno condiviso il suo destino sulla croce, nell’unica e identica speranza di servire la venuta del suo regno. I nostri predecessori, l’illustre Atenagora I e il beato Paolo VI, ci hanno lasciato il sacro compito di percorrere a ritroso il cammino che ha portato alla separazione delle nostre Chiese, sanando le fonti del nostro reciproco allontanamento, e di procedere verso il ripristino della piena comunione nella fede e nell’amore, consci delle nostre legittime differenze, così com’era nel primo millennio. Oggi, noi fratelli nella fede e nella speranza che non delude, siamo profondamente uniti nel desiderio che i cristiani d’oriente e d’occidente si possano sentire parte dell’una e unica Chiesa, affinché possano proclamare al mondo intero che «è apparsa infatti la grazia di Dio, apportatrice di salvezza per tutti gli uomini, che ci insegna a rinnegare l’empietà e i desideri mondani e a vivere con sobrietà, giustizia e pietà in questo mondo, nell’attesa della beata speranza e della manifestazione della gloria del nostro grande Dio e salvatore Gesù Cristo» (Tito, 2, 11-13). Nelle due dichiarazioni comuni che abbiamo firmato a Gerusalemme e al Fanar abbiamo affermato con fermezza e determinazione il nostro impegno condiviso, che deriva dalla nostra fedeltà al Vangelo, a costruire un mondo più giusto e più rispettoso della dignità e delle libertà fondamentali, la più importante delle quali è la libertà di religione. Siamo anche fondamentalmente uniti nel nostro comune impegno di far crescere ulteriormente la

consapevolezza delle persone e della società in generale rispetto alla questione della salvaguardia del creato, lo scenario cosmico nel quale l’infinita misericordia di Dio - donata, rifiutata e ripristinata - viene manifestata e glorificata in ogni momento. Sono profondamente grato per la guida del patriarca ecumenico in questo campo e per le sue riflessioni su tale questione, da cui ho imparato e continuo a imparare tanto. Ho trovato una profonda sensibilità spirituale nel patriarca Bartolomeo per la dolorosa condizione dell’umanità attuale, così profondamente ferita da indicibile violenza, ingiustizia e discriminazione. Siamo entrambi grandemente turbati da quel grave peccato contro Dio, che sembra crescere di giorno in giorno, che è la globalizzazione dell’indifferenza dinanzi alla deturpazione dell’immagine di Dio nell’uomo. È nostra convinzione che siamo chiamati a operare per la costruzione di una nuova civiltà dell’amore e della solidarietà. Entrambi siamo consapevoli che le voci dei nostri fratelli e delle nostre sorelle, ora al punto di estrema angoscia, ci obbligano a procedere più rapidamente sul cammino della riconciliazione e della comunione tra cattolici e ortodossi, in modo che possano proclamare in maniera credibile il Vangelo di pace che viene da Cristo. Per queste molteplici ragioni sono molto lieto che il venticinquesimo anniversario dell’elezione del mio amico e fratello Bartolomeo a patriarca dell’antica e gloriosa sede di Costantinopoli venga celebrato da così tante persone che rendono grazie al Signore per la sua vita e il suo ministero. Considero una grazia e un privilegio camminare insieme al patriarca Bartolomeo nella speranza di servire il nostro unico Signore Gesù Cristo, contando non sulle nostre esigue forze, bensì sulla fedeltà di Dio, e sostenuti dall’intercessione dei fratelli santi, gli apostoli Andrea e Pietro. È con questa certezza e nel costante ricordo nella preghiera che esprimo a Sua Santità il patriarca Bartolomeo i miei cordiali e fraterni buoni auspici per una lunga vita nell’amore e nella consolazione del Dio uno e trino. Papa Francesco Dal Vaticano, 4 aprile 2016 Pag 4 Compagni di viaggio La riflessione di Benedetto XVI Il mio primo stretto contatto personale con il patriarca ecumenico Bartolomeo è stato nell’anno 2002, durante il viaggio verso l’incontro internazionale di preghiera ad Assisi. Era stata del papa san Giovanni Paolo II l’idea di recarci insieme in treno ad Assisi per esprimere il nostro percorso interiore oltre al viaggio esteriore. Per me fu una gioia apprendere che il patriarca mi aveva invitato a sedere per un po’ accanto a lui, nello stesso scompartimento, e, in tal modo, conoscerci meglio. Per me tale incontro - lungo il cammino - è più di un’espressione accidentale dello stato della fede. Fui anche subito commosso dall’apertura e dal calore personale del patriarca. Non ci volle un grande sforzo per avvicinarci di più l’uno all’altro. La sua apertura interiore e la sua semplicità ispiravano subito una piacevole intimità. A contribuire a questa sensazione fu naturalmente anche il fatto che parla tutte le principali lingue europee, non soltanto francese e inglese, ma anche italiano e tedesco. Ancor più sorprendente fu per me il fatto che padroneggia il latino e sa esprimersi in tale lingua. Se si può conversare con qualcuno nella propria lingua, c’è immediatezza nel parlare cuore a cuore e pensiero a pensiero. Il patriarca non ha studiato solo nell’ambito della Chiesa ortodossa, ma anche a Monaco e a Roma. Alla diversità di lingue corrisponde, di conseguenza, anche una diversità di culture nelle quali egli si muove. Così, il suo pensiero è, dal profondo, un viaggio con gli altri e verso gli altri, che certamente non degenera in una mancanza di direzione, dove l’“essere in cammino” semplicemente non porterebbe da nessuna parte. Essere profondamente radicati nella fede in Gesù Cristo, figlio del Dio vivente e nostro redentore, non ostacola l’apertura verso l’altro perché Gesù Cristo porta in sé tutta la verità. Al tempo stesso, però, questo radicamento ci protegge dallo scivolare nella futilità e da un vuoto gioco di vanità, poiché ci mantiene nella verità, che appartiene a tutti e vuole essere la via per tutti. Così, in qualche modo vedo in questo nostro primo incontro un ritratto dell’intera personalità del patriarca ecumenico: vivere in cammino verso una meta; vivere nelle molte dimensioni delle grandi culture; vivere nell’incontro,

sostenuto dall’incontro fondamentale con la verità che è Gesù Cristo. Alla fine, la meta di tutti questi incontri è l’unità in Gesù Cristo. Anche se, naturalmente, il fine di questa breve riflessione non può essere quello di delineare in qualche modo il ministero del patriarca nella sua interezza, vorrei almeno sottolineare un aspetto che è importante per descrivere questo grande uomo della Chiesa di Dio: il suo amore per il creato e il suo impegno perché venga trattato conformemente a questo amore, nelle questioni grandi e piccole. Un pastore del gregge di Gesù Cristo non è mai orientato soltanto alla cerchia dei propri fedeli. La comunità della Chiesa è universale anche nel senso che include tutta la realtà. Ciò appare evidente, per esempio, nella liturgia, che non indica soltanto la commemorazione e il compimento degli atti salvifici di Gesù Cristo. È in cammino verso la redenzione dell’intera creazione. Nell’orientamento della liturgia verso oriente, vediamo che i cristiani, insieme al Signore, desiderano procedere verso la salvezza del creato nella sua interezza. Cristo, il Signore crocifisso e risorto, è al tempo stesso anche il “sole” che illumina il mondo. Anche la fede è sempre diretta verso la totalità del creato. Pertanto, il patriarca Bartolomeo realizza un aspetto essenziale della sua missione sacerdotale proprio con questo suo impegno verso il creato. La mia elezione a successore di Pietro ha naturalmente conferito una nuova dimensione al nostro incontro personale. La responsabilità per la fede nel mondo e, al tempo stesso, la responsabilità per l’unità del cristianesimo diviso fanno parte del ministero che ci è stato dato, ma sono anche un dovere personale. Considero particolarmente bello il fatto che, dopo la mia rinuncia, il patriarca mi sia rimasto sempre vicino personalmente e che sia perfino venuto a trovarmi nel mio piccolo convento. In molti angoli del mio appartamento si possono trovare ricordi ricevuti da lui. Questi oggetti non sono soltanto segni affettuosi della nostra amicizia personale, ma anche indicazioni verso l’unità tra Costantinopoli e Roma, segni di speranza che ci stiamo dirigendo verso l’unità. Sua Santità Bartolomeo è un patriarca davvero ecumenico, in tutti i sensi del termine. In solidarietà fraterna con Papa Francesco sta compiendo ulteriori importanti passi sul cammino dell’unità. Caro fratello in Cristo, possa il Signore garantirle ancora molti anni di ministero benedetto come pastore nella Chiesa di Dio. La saluto en philèmati haghìo [“con il bacio santo”, Romani, 16, 16 e 1 Corinzi, 16, 20]. Pag 8 La rivoluzione dei piccoli gesti All’udienza generale il Pontefice parla delle opere di misericordia e ricorda santa Teresa di Calcutta Per compiere le opere di misericordia non servono «grandi sforzi sovraumani»; al contrario bastano piccoli semplici gesti quotidiani per realizzare una vera rivoluzione culturale. Come ha fatto santa Teresa di Calcutta chinandosi «su ogni persona che trovava in mezzo alla strada per restituirle dignità». È quanto ha auspicato Papa Francesco all’udienza generale di mercoledì 12 ottobre in piazza San Pietro, inaugurando un nuovo ciclo di riflessioni dedicate alle opere di misericordia spirituali e corporali. Cari fratelli e sorelle, buongiorno! Nelle catechesi precedenti ci siamo addentrati poco alla volta nel grande mistero della misericordia di Dio. Abbiamo meditato sull’agire del Padre nell’Antico Testamento e poi, attraverso i racconti evangelici, abbiamo visto come Gesù, nelle sue parole e nei suoi gesti, sia l’incarnazione della Misericordia. Egli, a sua volta, ha insegnato ai suoi discepoli: «Siate misericordiosi come il Padre» (Lc 6, 36). È un impegno che interpella la coscienza e l’azione di ogni cristiano. Infatti, non basta fare esperienza della misericordia di Dio nella propria vita; bisogna che chiunque la riceve ne diventi anche segno e strumento per gli altri. La misericordia, inoltre, non è riservata solo a dei momenti particolari, ma abbraccia tutta la nostra esistenza quotidiana. Come, dunque, possiamo essere testimoni di misericordia? Non pensiamo che si tratti di compiere grandi sforzi o gesti sovraumani. No, non è così. Il Signore ci indica una strada molto più semplice, fatta di piccoli gesti che hanno però ai suoi occhi un grande valore, a tal punto che ci ha detto che su questi saremo giudicati. Infatti, una pagina tra le più belle del Vangelo di Matteo ci riporta l’insegnamento che potremmo ritenere in qualche modo come il “testamento di Gesù” da parte dell’evangelista, che sperimentò direttamente su di sé l’azione della Misericordia. Gesù dice che ogni volta che diamo da mangiare a chi ha fame e da bere a chi ha sete, che vestiamo una persona nuda e

accogliamo un forestiero, che visitiamo un ammalato o un carcerato, lo facciamo a Lui (cfr. Mt 25, 31-46). La Chiesa ha chiamato questi gesti “opere di misericordia corporale”, perché soccorrono le persone nelle loro necessità materiali. Ci sono però anche altre sette opere di misericordia dette “spirituali”, che riguardano altre esigenze ugualmente importanti, soprattutto oggi, perché toccano l’intimo delle persone e spesso fanno soffrire di più. Tutti certamente ne ricordiamo una che è entrata nel linguaggio comune: “Sopportare pazientemente le persone moleste”. E ci sono; ce ne sono di persone moleste! Potrebbe sembrare una cosa poco importante, che ci fa sorridere, invece contiene un sentimento di profonda carità; e così è anche per le altre sei, che è bene ricordare: consigliare i dubbiosi, insegnare agli ignoranti, ammonire i peccatori, consolare gli afflitti, perdonare le offese, pregare Dio per i vivi e per i morti. Sono cose di tutti i giorni! “Ma io sono afflitto...” - “Ma Dio ti aiuterà, non ho tempo...”. No! Mi fermo, lo ascolto, perdo il tempo e consolo lui, quello è un gesto di misericordia e quello è fatto non solo a lui, è fatto a Gesù! Nelle prossime Catechesi ci soffermeremo su queste opere, che la Chiesa ci presenta come il modo concreto di vivere la misericordia. Nel corso dei secoli, tante persone semplici le hanno messe in pratica, dando così genuina testimonianza della fede. La Chiesa d’altronde, fedele al suo Signore, nutre un amore preferenziale per i più deboli. Spesso sono le persone più vicine a noi che hanno bisogno del nostro aiuto. Non dobbiamo andare alla ricerca di chissà quali imprese da realizzare. È meglio iniziare da quelle più semplici, che il Signore ci indica come le più urgenti. In un mondo purtroppo colpito dal virus dell’indifferenza, le opere di misericordia sono il miglior antidoto. Ci educano, infatti, all’attenzione verso le esigenze più elementari dei nostri «fratelli più piccoli» (Mt 25, 40), nei quali è presente Gesù. Sempre Gesù è presente lì. Dove c’è un bisogno, una persona che ha un bisogno, sia materiale che spirituale, Gesù è lì. Riconoscere il suo volto in quello di chi è nel bisogno è una vera sfida contro l’indifferenza. Ci permette di essere sempre vigilanti, evitando che Cristo ci passi accanto senza che lo riconosciamo. Torna alla mente la frase di Sant’Agostino: «Timeo Iesum transeuntem» (Serm., 88, 14, 13), “Ho paura che il Signore passi” e non lo riconosca, che il Signore passi davanti a me in una di queste persone piccole, bisognose e io non me ne accorga che è Gesù. Ho paura che il Signore passi e non lo riconosca! Mi sono domandato perché Sant’Agostino ha detto di temere il passaggio di Gesù. La risposta, purtroppo, è nei nostri comportamenti: perché spesso siamo distratti, indifferenti, e quando il Signore ci passa vicino noi perdiamo l’occasione dell’incontro con Lui. Le opere di misericordia risvegliano in noi l’esigenza e la capacità di rendere viva e operosa la fede con la carità. Sono convinto che attraverso questi semplici gesti quotidiani possiamo compiere una vera rivoluzione culturale, come è stato in passato. Se ognuno di noi, ogni giorno, ne fa una di queste, questa sarà una rivoluzione nel mondo! Ma tutti, ognuno di noi. Quanti Santi sono ancora oggi ricordati non per le grandi opere che hanno realizzato ma per la carità che hanno saputo trasmettere! Pensiamo a Madre Teresa, da poco canonizzata: non la ricordiamo per le tante case che ha aperto nel mondo, ma perché si chinava su ogni persona che trovava in mezzo alla strada per restituirle la dignità. Quanti bambini abbandonati ha stretto tra le sue braccia; quanti moribondi ha accompagnato sulla soglia dell’eternità tenendoli per mano! Queste opere di misericordia sono i tratti del Volto di Gesù Cristo che si prende cura dei suoi fratelli più piccoli per portare a ciascuno la tenerezza e la vicinanza di Dio. Che lo Spirito Santo ci aiuti, che lo Spirito Santo accenda in noi il desiderio di vivere con questo stile di vita: almeno farne una ogni giorno, almeno! Impariamo di nuovo a memoria le opere di misericordia corporale e spirituale e chiediamo al Signore di aiutarci a metterle in pratica ogni giorno e nel momento nel quale vediamo Gesù in una persona che è nel bisogno. AVVENIRE Pag 5 “Imploro il cessate il fuoco per la Siria” di Luca Geronico L’appello di Francesco: consentite la fuga dei bimbi intrappolati sotto le bombe Come in ginocchio, pur di ottenere la pace in Siria. Ieri un nuovo appello di Francesco, «implorando, con tutta la mia forza, i responsabili, affinché si provveda a un immediato cessate il fuoco». Un altro fortissimo richiamo di papa Bergoglio fatto «con senso di urgenza», al termine dell’udienza generale davanti a una piazza San Pietro gremita di

folla, e per «sottolineare e ribadire» la vicinanza «a tutte le vittime del disumano conflitto in Siria». Il cessate il fuoco, ha chiesto alla comunità internazionale il vescovo di Roma, «sia imposto e rispettato almeno per il tempo necessario a consentire l’evacuazione dei civili, soprattutto dei bambini, che sono ancora intrappolati sotto i bombardamenti cruenti». Una conferma che «il cuore del Papa è con noi» per l’arcivescovo armeno cattolico di Aleppo, Boutros Marayati, che ieri denunciava due lanci di artiglieria anche sul suo quartiere ad Aleppo ovest. Ieri, infatti, è stata l’ennesima giornata di raid aerei e morte, soprattutto sui quartieri orientali di Aleppo. Un raid aereo, non è chiaro se dei caccia russi o governativo – denuncia l’Aleppo media center – ha colpito un mercato ortofrutticolo del quartiere di Firdaws: almeno 15 i morti. Altri raid, denunciano sempre fonti vicine all’opposizione, hanno colpito pure i distretti di al-Kalasa e al-Maadi. Secondo i caschi bianchi, il corpo di soccorritori attivi nei quartieri orientali, le vittime sono state in tutto 25. Un bilancio simile a quello di martedì. Uno stillicidio di violenza che tiene sempre, inesorabilmente, in ostaggio circa 250mila civili in un assedio sempre più barbaro. I pochi ospedali rimasti ad Aleppo Est, denuncia Medici senza frontiere, già sovraffollati da numerosi feriti, non hanno più ambulanze per prestare soccorso alle vittime. «Non solo gli ospedali sono stati colpiti almeno 23 volte dall’inizio dell’assedio a luglio. Anche le ambulanze che trasportano i feriti vengono colpite», ha detto Carlos Francisco capo missione di Msf in Siria. Tra il 23 settembre e l`8 ottobre gli ospedali di Aleppo Est hanno ricevuto almeno 1.384 feriti, in media 86 al giorno secondo la Direzione della Sanità mentre solo 11 ambulanze sono funzionanti: in settembre cinque ambulanze sono state colpite e altre due completamente distrutte mentre due autisti sono stati feriti in modo grave. Ieri pure la dura condanna dell’Unicef per l’attacco avvenuto martedì alla scuola di That al-Netaqeen, nella città di Daraa, in cui sono morti 5 bambini, di età compresa tra i 4 e i 16 anni, mentre altri 15 sono rimasti feriti. «Il cortile della scuola è stato colpito al termine di un’attività di educazione fisica a poche settimane dall’inizio dell’anno scolastico», ha dichiarato Hanaa Singer, rappresentante Unicef in Siria. Un episodio che, colpendo il «diritto all’istruzione e al gioco», è un simbolo dell’escalation delle violenze. Ma ieri si è combattuto anche nel Nord della Siria, dove – riferiscono fonti militari di Ankara – almeno 47 jihadisti del Daesh sono stati uccisi da bombardamenti dell’esercito turco e da raid aerei della Coalizione internazionale a guida Usa. Negli scontri con i combattenti del Califfato sono pure rimasti uccisi 8 miliziani dell’Esercito siriano libero (Esl), sostenuti dalla Turchia. Sul fronte diplomatico ancora scambi di accuse fra Francia e Russia, mentre una schiarita potrebbe venire dal vertice di sabato a Losanna fra il ministro degli Esteri russo Lavrov e il segretario di Stato Usa Kerry. Ieri, nel tentativo di ricucire i rapporti dopo aver annullato la sua visita a Parigi, Putin ha avuto un colloquio telefonico con il presidente francese Hollande e la cancelliera tedesca Merkel sulla Siria. Francia e Germania hanno ribadito la richiesta di un cessate il fuoco in Siria anche per favorire l’arrivo di aiuti umanitari. Putin ha auspicato che i colloqui di Losanna di sabato «possano essere fruttuosi». Dopo un vertice a Roma con il collega francese Jean-Marc Ayrault e quello tedesco Frank-Walter Steinmeier, il ministro degli Esteri italiano Paolo Gentiloni ha definito «inaccettabile» il sostegno dato dalla Russia al regime di Assad nell’assedio ad Aleppo Est. In mattinata Putin, che martedì ha annullato la visita a Parigi prevista per il 19 ottobre, ha accusato la Francia di aver presentato la sua risoluzione in Consiglio di sicurezza per «incitare a opporre il veto» e «alimentare l’isteria contro la Russia». Sempre ieri il Senato russo ha approvato la trasformazione della base aerea a Latakia in «base militare permanente». Mosca potrà così inviare in Siria un «contingente di terra permanente». Infine è giunto ieri in Giordania, in visita al campo profughi di Zaatari, il segretario della Cei, monsignor Nunzio Galantino, per «ribadire la vicinanza della Chiesa italiana a quanti fuggono dalla violenza della guerra e della persecuzione». Nel campo dell’Onu vivono oltre 80mila rifugiati siriani. IL FOGLIO Pag 2 Un rito in chiesa per le nozze gay. L’ultima idea del vescovo di Anversa di Matteo Matzuzzi Mons. Bonny: “Aprirsi all’evoluzione, no a modelli unici”

Roma. A un anno dalla conclusione del Sinodo ordinario sulla famiglia e a pochi mesi dal documento che ne ha tirato le conclusioni - l'esortazione Amoris laetitia - nella variegata chiesa europea c'è chi propone una propria interpretazione - che va ben al di là delle determinazioni sinodali - della nuova prassi che si dovrebbe applicare a quelle "situazioni nuove" (per usare una formulazione assai udita tra i padri nell'ultimo biennio di confronto voluto dal Papa) presenti nella società. Il vescovo di Anversa, mons. Johan Bonny, ha proposto di creare "un rito alternativo" che consenta la benedizione delle coppie omosessuali, dei divorziati risposati e dei conviventi. Nel suo ultimo libro, Puis-je? Merci. Désolé (Posso? Grazie. Mi spiace), pubblicato in Belgio martedì scorso, il presule sostiene la necessità di uscire dagli schemi consueti, di smetterla di "applicare a tutti lo stesso modello" e di aprirsi alla "evoluzione in una varietà di rituali in cui si possa riconoscere il rapporto d'amore tra omosessuali, anche dal punto di vista della chiesa e della fede". Il volume è pensato come una serie di interrogativi posti ragionando sullo stato della fede nel mondo contemporaneo. Domande che però già contengono le risposte e ribadiscono la linea che il vescovo di Anversa aveva già esplicitato più volte. In un'intervista concessa al quotidiano De Morgen, alla fine del 2014 e cioè poco dopo la conclusione del primo Sinodo, Bonny era netto: "La chiesa deve riconoscere la relazionalità presente nelle coppie formate da persone dello stesso sesso", aggiungendo che "troppe persone sono state escluse per troppo tempo". Basta, insomma, con "i traumi" dovuti alla "discriminazione". Da abbattere, sosteneva, era "il dogma della chiesa" che conferisce l' esclusività alla relazione tra uomo e donna, e questo perché "i valori intrinseci sono per me più importanti della mera questione istituzionale. L'etica cristiana si basa su relazioni durature dove esclusività, fedeltà e cura per l'altro sono centrali". Nel libro, mons. Bonny conversa con il teologo Roger Burggraeve e con il giornalista Ilse Van Halst, ribadendo che "non possiamo continuare a dire che non ci sono altre forme di amore diverse dal matrimonio omosessuale. Lo stesso amore che troviamo in un uomo e una donna che vivono insieme lo troviamo in gay e lesbiche". Quanto ai divorziati risposati, e nonostante quanto esplicitato in Amoris laetitia, Bonny è favorevole alla benedizione della seconda relazione anche perché "la chiesa ortodossa già da molto tempo ha la pratica di confermare una nuova relazione per ragioni di misericordia, che consente di ritrovare un posto nella comunità". Soluzione, quella orotodossa, che il Sinodo ha però negato, osservando che - disse il relatore generale, il cardinale Péter Erdo - "non può essere valutata giustamente usando solo l'apparato concettuale sviluppatosi in occidente nel secondo millennio". Il vescovo di Anversa, poche settimane prima dell'apertura dell'assemblea straordinaria sulla famiglia (ottobre 2014) aveva mandato in stampa un documento plurilingue da lui redatto in qualità di vescovo dell'Europa occidentale in cui domandava di superare il contenuto della Humanae vitae di Paolo VI dal momento che il Papa "andò contro il parere della commissione di esperti da lui stesso nominata, della commissione di cardinali e vescovi che avevano lavorato su questo tema, della grande maggioranza dei teologi morali, dei medici e degli scienziati, delle famiglie cattoliche". Una posizione che va oltre anche le parole del Papa che, solo una settimana fa, ribadiva che un conto è l'accoglienza di tutti nella chiesa e un altro è l'avallare la teoria del gender. Inoltre, diceva lo scorso gennaio nel discorso alla Rota Romana, "non può esserci confusione tra la famiglia voluta da Dio e ogni altro tipo di unione". La famiglia "fondata sul matrimonio indissolubile, unitivo e procreativo - aggiungeva - appartiene al sogno di Dio e della sua chiesa per la salvezza dell'umanità". Torna al sommario 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO CORRIERE DELLA SERA Pag 1 I giovani (ancora) trascurati di Sergio Rizzo Le pensioni e i conti Ormai da mesi, se si esclude il referendum di dicembre, le pensioni sono tornate a occupare il pensiero della politica. L’opinione pubblica è stata bombardata prima da messaggi sulla possibilità per certe categorie di lasciare il lavoro in anticipo, ricorrendo

alla singolare stampella del prestito bancario, poi dalla proposta di aumentare del 30 per cento la quattordicesima alle pensioni sotto i mille euro. Per settimane è stato il tema più dibattuto sui giornali e in televisione. Sono problemi tragicamente reali. I pensionati italiani, almeno nella media delle statistiche, non sono nababbi. E c’è chi (giustamente) ritiene che prolungare troppo l’età pensionabile rappresenti un tappo per i giovani, in un Paese nel quale il tasso di disoccupazione di chi ha meno di 30 anni tocca il 40 per cento, con punte letteralmente mostruose nelle regioni meridionali. Anche se pensare di risolvere così questa faccenda anziché creando nuovo lavoro pare una strategia piuttosto di retroguardia. E per l’ex ministra del Lavoro, Elsa Fornero, autrice della più controversa riforma pensionistica, quello sulla quattordicesima altro non è che «un intervento per aumentare il consenso». Da che in Italia esiste la democrazia questa è sempre stata la scelta obbligata. Di fronte alla necessità di ottenere consenso si attinge sempre al serbatoio più capiente. E siccome i pensionati meno abbienti sono sei milioni, il triplo dei giovani disoccupati, e a differenza di questi vanno ancora a votare... Silvio Berlusconi ha vinto la campagna elettorale del 2001 anche promettendo di aumentare le pensioni minime a un milione di lire al mese. E il 20 dicembre scorso ha annunciato che se dovesse rivincere le prossime elezioni, le porterebbe a mille euro al mese. Ma pure governi di centrosinistra non si sono sottratti a tentazioni simili: l’Unione di Prodi demolì lo «scalone» per le pensioni di anzianità introdotto da Maroni, con un impatto micidiale sui conti pubblici. Ecco anche perché le riforme più dure sono state fatte da governi tecnici (Dini e Monti) o da esecutivi alle prese con problemi finanziari drammatici (Amato). Mentre non c’è governo che abbia affrontato seriamente il problema generazionale. Renzi ha buon gioco a dire che nessuno ha fatto per i giovani quanto lui. Magari è anche vero. Ma ciò la dice lunga su quanto non sia stato fatto in passato. Dal 1990 all’inizio del 2012, quando il governo Monti è intervenuto con decisione sulla dinamica previdenziale, la spesa per il capitolo «Protezione sociale» costituito soprattutto dalle pensioni, è salita di 118 miliardi con una crescita reale del 58,1%. Al tempo stesso l’investimento pubblico nell’istruzione scendeva di 2,8 miliardi in termini reali, con un calo del 3,4%. Se il peso della «Protezione sociale» lievitava dal 30,2 al 40,4% della spesa pubblica, quello dell’istruzione diminuiva dal 10,1 all’8,3%. Per ogni euro investito nel 2011 in istruzione ne spendevamo quasi 5 per quella voce, contro meno di 3 vent’anni prima. Certo, in quel periodo la popolazione è invecchiata, i bisogni sanitari e di sostentamento delle fasce più deboli si sono incrementati e la crisi del 2008 ha fatto il resto. Ma il succo è che per almeno due decenni il Paese ha investito negli anziani e privato di risorse i giovani. Mostrando una clamorosa incapacità di guardare al futuro. E si è radicato nel mondo delle professioni come in quello accademico un clima ostile ai giovani estranei ai meccanismi di cooptazione corporativa o familiare. Il presidente dell’Anticorruzione Cantone è subissato dalle segnalazioni di concorsi universitari truccati: un fenomeno devastante che contribuisce a impoverire l’Italia spingendo i ragazzi più bravi e meritevoli a scappare all’estero. Renzi dice che «bisogna fare molto di più». Ha ragione, se è vero che il Jobs act ha finito per favorire gli anziani più dei giovani. Quanto al bonus da 500 euro ai diciottenni, quella è una discreta mancia. Che forse però poteva essere investita meglio. Bisogna fare molto di più, eccome. Ma si dovrebbe rimettere al centro della discussione pubblica il futuro, piuttosto che il passato. E il fatto che l’ossessione della quattordicesima ai pensionati continui a sovrastare anche nella narrazione dei media l’attenzione per i problemi drammatici delle giovani generazioni, a partire dal lavoro e dall’università, dimostra purtroppo quanto siamo ancora lontani dal cambiare registro. Speriamo solo che quando ci decideremo a farlo non sia troppo tardi . AVVENIRE Pag 2 Perché diventano nodo i “compiti per casa” di Roberto Carnero Sempre più fragile l’alleanza scuola-famiglia I compiti scolastici sembrano essere diventati una questione di Stato. Tant’è che anche su queste colonne se ne è dibattuto a più riprese .Una cosa che si è sempre data per scontata – il fatto cioè che gli insegnanti diano dei lavori da svolgere a casa – oggi è diventata una realtà problematica, al punto da spingere nei giorni scorsi lo stesso ministro dell’Istruzione Stefania Giannini a intervenire per placare gli animi, assicurando

che con la messa in pratica delle disposizioni contenute nella legge sulla 'buona scuola' il problema dovrebbe risolversi. Ma qual è il problema? Da una parte gli insegnanti che assegnano, come hanno sempre fatto, i compiti per casa; dall’altra i genitori che sopportano sempre meno questa prassi. Il tema dei compiti per casa viene oggi vissuto come un affare di famiglia. , Significativo in tal senso il titolo di un articolo sulla 'Stampa' del 7 ottobre: «Se il papà non riesce a fare i compiti della figlia». Alla ripresa delle scuole aveva destato scalpore il padre di un ragazzo che aveva condiviso sui social una lettera indirizzata ai docenti del figlio, alunno in una scuola media, in cui spiegava perché aveva deciso di non fargli svolgere i compiti per le vacanze. L’uomo affermava di aver voluto sfruttare l’estate per insegnare al figlio «a vivere», facendo con lui diverse cose: «Lunghe gite in bici, vita di campeggio, gestione della casa e della cucina». Tutto – insomma – tranne i compiti estivi, come se questi ultimi potessero ostacolare una vita piena, come se le attività scolastiche impedissero di coltivare adeguatamente il rapporto tra genitori e figli. Le proteste del resto non sono soltanto nostrane: dopo un’analoga mobilitazione che aveva avuto luogo in Francia nel 2012, ora anche in Spagna si moltiplicano i genitori che scrivono sul diario dei loro ragazzi frasi come questa: «Mio figlio non ha svolto i compiti per una decisione familiare». E sempre in Spagna è stato addirittura indetto per il prossimo novembre, da parte della più grande associazione dei genitori degli alunni delle scuole statali, un boicottaggio ufficiale dei compiti per casa. Il fenomeno indica un’inedita alleanza tra gli alunni e i genitori contro gli insegnanti. Anche se a problematizzare la questione sembrano più gli adulti che i minori: questi ultimi non si sognerebbero mai di mettere in discussione quanto la scuola chiede loro di fare, se non fossero spalleggiati da mamma e papà. Mi sembra che la querelle denunci due grossi problemi. Innanzitutto è un’ulteriore prova di come l’alleanza educativa tra scuola e famiglia sia sempre più fragile: tante famiglie non riconoscono all’istituzione scolastica la necessaria autorevolezza. È un po’ – per intenderci – come se il paziente di fronte al medico che stabilisce una terapia gli dicesse: «No, grazie, questi farmaci non intendo prenderli». Liberissimo di farlo, certo, ma poi se la patologia peggiora non si può incolpare il medico (mentre oggi è purtroppo frequente che se un ragazzo viene bocciato, i genitori se la prendano prima di tutto con i docenti che hanno deciso in tal senso). C’è poi però un altro aspetto: il rifiuto dei compiti per casa è il sintomo di una concezione dell’apprendimento come gioco o intrattenimento, da cui siano escluse il lavoro e la fatica. Eppure tutti sappiamo che certe cose non si possono imparare se non al prezzo di uno sforzo. Siamo tutti d’accordo che vanno evitati gli eccessi, e sarebbe bene che i docenti di una classe si confrontassero tra loro per distribuire in maniera razionale il carico del lavoro per casa. Ma eliminarlo del tutto significherebbe impoverire la qualità dell’offerta formativa. Se è vero che la lezione è la fase centrale della didattica, è altrettanto vero che serve un tempo di assimilazione, senza il quale ciò che si è appreso non potrebbe sedimentare. Inoltre nella scuola delle competenze non basta 'ascoltare', ma serve 'fare', vale a dire sperimentare le proprie conoscenze, applicandole alle situazioni concrete. E poi i compiti per casa hanno anche un altro fine: quello di abituare il bambino e il ragazzo a una certa autonomia organizzativa. Per questo va bene che ci possa essere un confronto con i familiari durante lo svolgimento, ma genitori e parenti non devono sostituirsi agli alunni, e neanche costituire una presenza indispensabile affinché i compiti vengano fatti. Si cresce anche così, dalle elementari in su. Pag 3 La misericordia fa miracoli. E lo si può anche misurare di Mario A. Maggioni Amore e perdono trasformano le persone. Ecco come L’amore, il perdono e la misericordia fanno miracoli. Cambiano in meglio le persone e il mondo. Lo sappiamo da tempo, ma ora è stato anche misurato e dimostrato scientificamente. A metterlo in luce è uno studio del Cscc (Centro di ricerca in Scienze Cognitive e della Comunicazione), dell’Università Cattolica che ha misurato, con gli strumenti metodologici dell’economia comportamentale, l’effetto trasformativo del perdono e della misericordia sulla vita delle persone. Essere oggetto di cura e di relazione cambia il proprio atteggiamento verso la realtà anche nelle situazioni più marginali: lo si è visto su tossicodipendenti in comunità di recupero; pluriomicidi nei carceri di massima sicurezza in California che frequentano il programma riabilitativo

'Grip' di Insight-Out; bambini della Repubblica Democratica del Congo con accesso difficoltoso all’istruzione primaria, aiutati dal programma 'Sostegno a Distanza' di Avsi. Sono questi i tre casi di cui si è occupata la ricerca, che è partita grazie a un finanziamento ottenuto cinque anni fa da una fondazione americana, il Fetzer Institute, ed è proseguita grazie ad un finanziamento competitivo Universitario (Progetti di Ricerca di Interesse di Ateno, D.3.2). Se da un lato amore e perdono sono due termini di cui gli economisti non si occupano (una ricerca bibliografica su Econlit – il più ampio database accademico in materia – evidenzia che su oltre un milione di articoli economici solo 242 contengono la parola 'amore' e ancor meno, 46, la parola 'perdono') dall’altro è evidente come non sia possibile intraprendere alcuna azione economica senza tenerli presenti e metterli in pratica. Se una persona non ha passione per quello che sta facendo non potrebbe mai avviare un’impresa. E una volta che si sta facendo qualcosa con altri, se non si è capaci di perdonare e di chiedere di essere perdonati, anche l’iniziativa più bella non partirà, e se partirà sarà destinata al naufragio. Non è infatti possibile mantenere una relazione con altre persone se non si è capaci di perdono. Questo non è vero solo nel caso di un’impresa, ma vale anche per la famiglia, per un gruppo di amici o in molti altri contesti. Lo strumento utilizzato nella ricerca del Cscc consiste in una serie di giochi interattivi economicocomportamentali. Ai soggetti è stato chiesto di operare delle scelte che hanno delle conseguenze reali. Spesso si tratta di operare una divisione di una certa quantità di un bene tra sé e un altro partner anonimo a cui si è stati 'associati'. Di solito in questi giochi la remunerazione delle scelte è costituita da denaro. Questo però non è stato possibile in nessuno dei casi sopra indicati: nelle comunità di recupero, in prigione e con i bambini che frequentano le scuole elementari non si possono usare i soldi per evidenti ragioni. I ricercatori hanno così fatto ricorso a tre beni alternativi, ciascuno concordato con la relativa Ong: sigarette per i tossicodipendenti, zuppe liofilizzate pronte per i detenuti californiani, biscotti per i bambini congolesi. Le tre 'popolazioni' oggetto dell’indagine sono state scelte perché si tratta di soggetti in condizioni di difficoltà e di bisogno che stanno ricevendo cura, attenzione e sostegno da persone che innanzitutto vogliono il loro bene e poi credono che facendo del bene si possano attivare dei circuiti virtuosi che in seguito avranno effetti positivi a beneficio di tutta la società. E cco dunque come funziona uno dei giochi, per esempio nel caso dei bambini. Il direttore dà 10 pacchetti di biscotti a un bambino e gli dice che può tenerseli tutti o può decidere di darne o meno una quantità di sua scelta a una altra persona (di cui non viene rivelata alcuna caratteristica personale), che sarà il suo partner in questo gioco. Il numero di pacchetti di biscotti inviato al partner verrà moltiplicato per due e quindi il partner riceve il doppio di quanto è stato donato. Il partner è libero di reciprocare la liberalità scegliendo (se vuole) di inviare un numero a sua scelta di pacchetti di biscotti al bambino. Quanto descritto, nella letteratura economica (detta 'teoria dei giochi') viene chiamato 'gioco di fiducia'. Se uno non si fida, decide di tenere tutto per sé e il gioco finisce lì. Ma una persona può invece decidere di inviare una parte di ciò che possiede perché spera di sollecitare nell’altro un sentimento di gratitudine o di reciprocità. Il fatto di introdurre un moltiplicatore serve a far sì che l’altro risponda positivamente senza privarsi del bene in questione (più precisamente trasforma la situazione in un gioco non 'a somma zero'). I primi risultati relativi ai detenuti californiani mostrano che, grazie al programma riabilitativo Grip, i detenuti divengono più generosi (+10%), più fiduciosi negli altri (+16%), e meno impazienti, cioè valutano maggiormente il futuro in relazione al presente rispetto a quanto facevano prima del percorso (-25%). Gli ex tossicodipendenti che vivono l’esperienza della riabilitazione in comunità hanno mostrato una significativa crescita del senso di equità a 9 mesi dal momento dell’ingresso (+18%). Insieme ai giochi economico sperimentali sono stati inseriti anche due test psicologici in cui si chiedeva a detenuti e tossicodipendenti di dare una propria valutazione sia della propria attitudine al perdono degli altri sia della propensione al perdono di sé. Quello che la ricerca ha dimostrato è che una persona, anche nella situazione più disastrata, per poter cambiare e avere una relazione positiva con gli altri deve per prima cosa sperimentarla su di sé. Se uno non si sente amato non riuscirà mai ad amare nessuno e se non si sente perdonato non riuscirà mai a perdonare nessuno. I carcerati californiani che hanno partecipato al progetto Grip hanno mostrato una crescita dell’autostima (+13%) una maggiore capacità sia di concedere (+33%) che di richiedere (+15%) il perdono ad altre persone. L a ricerca ha anche dimostrato 'statisticamente'

quello che qualsiasi operatore di una comunità di recupero conosceva per esperienza, ma che non poteva che descrivere in modo aneddotico: che il passaggio cruciale del cambiamento di un tossicodipendente avviene quando comincia a perdonare se stesso (cioè ad andare oltre l’idea che «non sono degno di...», «l’ho fatta troppo grossa...»). Dopo 9 mesi di permanenza in comunità la capacita di perdonarsi era crescita di circa il 20% e l’autostima dell’8%. La cosa più interessante è che nessuno dei programmi analizzati mette esplicitamente a tema il perdono: nel caso dei detenuti, ad esempio, quello che si cerca di favorire è un aumento della consapevolezza e del senso di responsabilità per quello che si è fatto (e da questo nasce la richiesta di chiedere perdono alle proprie vittime e/o ai parenti delle vittime, in caso di omicidio); nel caso dei tossicodipendenti non è tematizzato il perdono di sé, ma quello che si cerca di trasmettere, attraverso la vita della comunità e le interazioni con gli operatori, è che la propria vita vale, a prescindere dagli errori che uno può aver commesso. È da questa accresciuta autostima e dalla sicurezza che deriva dal sapere che c’è qualcuno che ti vuole bene, nonostante tutto, che nasce la capacità di perdonarsi. Per quanto riguarda i bambini congolesi, un primo confronto tra il campione di coloro che hanno goduto anche di soli 5 mesi di sostegno tramite il programma Sad di Avsi ha mostrato come i bambini 'sostenuti' tendono a 'mentire' di meno (15% contro 25%) e a operare scelte più egalitarie (60% contro 52%) rispetto al campione di controllo, composto da altri bambini che frequentano la stessa classe e che condividono situazioni socio-economiche molto simili. I primi risultati di queste tre ricerche saranno presentati venerdì pomeriggio in Cattolica, insieme ai protagonisti delle Ong coinvolte. Il mondo di chi fa il bene e quello di chi studia si devono incontrare più spesso. È un’esperienza di incontro che arricchisce tutti: chi fa il bene, impara a fare anche meglio; chi studia, impara che dietro i parametri, i dati e i modelli c’è l’uomo con il suo desiderio, i suoi bisogni, la sua libertà. Pag 3 La leva dei bonus per sviluppo e ambiente di Leonardo Becchetti Legge di bilancio alla luce della “Laudato si’” Con la Laudato si’ papa Francesco evidenzia l’urgenza di passare da un approccio nel quale la sbornia tecnologica ci fa credere utile e possibile manipolare ambiente e persone a nostro piacimento ad una rinnovata ecologia delle relazioni che è la nostra reale vocazione e il segreto della nostra pienezza di vita. La prevalenza del primo approccio ci ha portato a livelli di insostenibilità sociale e ambientale che stanno mettendo a rischio la nostra vita nel pianeta e la pace sociale. Una volta fissata la linea di marcia sta a noi coniugare concretamente i principi in proposte e spiegare come si può procedere nella direzione auspicata. Per questo l’esercizio di Legambiente con le sue 15 proposte a saldo zero per i conti pubblici lanciate in vista della nuova legge di bilancio è particolarmente interessante. La logica delle proposte è sintetizzabile in modo semplice: tassando alcune rendite e rimodulando il prelievo fiscale sui consumi è possibile incentivare a saldo zero i comportamenti virtuosi di cittadini e imprese in direzione di una maggiore responsabilità ambientale. Sul fronte della rimodulazione fiscale uno dei capitoli più interessanti è quello dell’ecobonus, ovvero della detrazione fiscale al 50% spalmata in 10 anni delle ristrutturazioni edilizie (65% quando includono l’efficientamento energetico). Con questo strumento negli ultimi 18 anni si è assecondata la transizione del settore edilizio verso le ristrutturazioni piuttosto che il consumo di nuovo suolo ed è stato creato valore economico per 237 miliardi con 14 milioni di domande in 18 anni. Secondo uno studio del Cresme l’ecobonus ha migliorato il rapporto debito/Pil da entrambi i lati. Il valore economico netto creato (investimenti in ristrutturazione meno spesa delle famiglie) è stato di circa 18 miliardi mentre il saldo per le casse dello Stato si è rivelato positivo per circa 300 milioni (ovvero la raccolta fiscale dal reddito prodotto dai nuovi investimenti ha più che compensato l’esborso per la detrazione). Uno dei vantaggi e obiettivi dell’ecobonus è stato quello di favorire l’emersione rendendo meno conveniente per i committenti ristrutturazioni 'scontate' e fatte in nero con evasione dell’Iva. La proposta è di rinforzare questo strumento elevando la percentuale di detrazione per ristrutturazioni 'virtuose' che includono efficientamento energetico e antismico. Il pacchetto fiscale include la questione più generale e strategica della rimodulazione dell’Iva da ridurre per le produzioni di beni e servizi più sostenibili aumentando le altre. I casi più classici sono quelli del riuso e del

riciclo con un’Iva fortemente ridotta per favorire lo sviluppo dell’economia circolare e quello delle energie rinnovabili contro il petrolio. Su questo fronte c’è sicuramente da fare molto di più perché non possiamo continuare nella contraddizione di voler favorire il passaggio alle rinnovabili continuando a mantenere sussidi alle fonti fossili. È possibile abolirli continuando, se si vuole, ad incentivare l’autotrasporto ma favorendo il passaggio a motori ibridi o elettrici. La seconda parte dei provvedimenti riguarda l’aumento della tassazione su alcuni settori di rendita che godono di condizioni di vantaggio eccessive. Si va dall’estrazione di materiale dalle cave, alle autostrade, alle concessioni balneari, ai produttori di acque minerali. Aumentare il prelievo su questi settori darebbe un segnale importante alla direzione da prendere. La sfida del futuro in tutto il mondo è quella di creare valore economico in modo ambientalmente sostenibile per mitigare i problemi di inquinamento e riscaldamento globale che minacciano la nostra salute, danneggiano soprattutto i più poveri che hanno meno risorse per proteggersi dai disastri ambientali e producono conflitti per la contesa delle risorse naturali che divengono progressivamente più scarsi. E il nostro compito in questo momento è di essere ambiziosi utilizzando la leva della politica economica per mettere in moto nuovi circoli virtuosi in grado di coniugare sviluppo, ambiente e giustizia sociale. Pag 23 Ma la vera libertà ci vuole solidali Zygmunt Bauman: “Cari top manager, siate più giusti”. Chiara Giaccardi e Mauro Magatti: “La Rete può favorire l’economia della cura” Esce in questi giorni da Città nuova il libro Il destino della modernitàcon testi del sociologi Zygmunt Bauman, Chiara Giaccardi e Mauro Magatti a partire dalla domanda «quale società dopo la crisi economica?» (pagine 100, euro 12,00). Ne anticipiamo alcuni brani. L’anelito di libertà ha attraversato tutta la storia dell’umanità, dando vita a movimenti politici, ordinamenti giuridici e sistemi economici. Oggi la società occidentale è autenticamente libera? Partendo da tale interrogativo, Zygmunt Bauman, il teorico della società liquida, e i sociologi Mauro Magatti e Chiara Giaccardi indagano sull’esito paradossale del poderoso sviluppo economico degli ultimi 40 anni. Il progresso ha aumentato le potenzialità di scelta dell’uomo, ma lo ha ingabbiato in una concezione radicalmente individualista dell’esistenza umana, prigioniero del consumismo, degli apparati tecno-economici e della volontà di affermare se stesso. (Zygmunt Bauman) Ritengo che la questione centrale che investe la libertà nel mondo contemporaneo sia rappresentata dall’alternativa tra il concetto di competizione e quello di solidarietà. La competizione è, di fatto, una concorrenza che spinge ogni essere umano a portare avanti la propria posizione e che porta a sostenere: «Io voglio che le cose siano come io le desidero ». La solidarietà, invece, presuppone l’idea che tutti gli uomini e le donne possano vivere insieme in modo collaborativo e possano cercare di diventare, tutti, più felici. Nella società odierna, mi sembra di poter rilevare che ci sono alcuni elementi della libertà umana che sono quanto meno in discussione se non addirittura in pericolo. Le capacità di scelta che sono nella disponibilità degli uomini si stanno, infatti, progressivamente restringendo; la responsabilità decisionale, inoltre, viene negata a molte persone; e la speranza, infine, per molti giovani, di poter realizzare e mettere in pratica ciò che è stato insegnato loro dalla scuola, dalla famiglia e dalla società sembra venir meno. Una percentuale molto alta di questi giovani, infatti, dopo aver completato la loro istruzione – anche solo quella superiore – è molto felice della formazione che ha ricevuto e dell’impegno che ha profuso per raggiungere determinate competenze. Tuttavia, una volta concluso il ciclo scolastico, essi si trovano a entrare in un mercato del lavoro estremamente difficile, dove è molto complicato trovare un’occupazione. Molto spesso non riescono a trovare il tipo di lavoro per cui si sono preparati, per cui hanno investito il loro tempo, che rispecchi i loro desideri e che dia un senso alla propria vita, rendendo la propria esistenza più gratificante possibile. La società attuale, infatti, sta lentamente e costantemente diventando una società oligarchica in cui la classe politica – sempre più autoreferenziale – invece di farsi carico dei problemi della società e di interessarsi di coloro che hanno più bisogno di aiuto e di assistenza, continua a garantire la possibilità che la ricchezza si accumuli nelle mani di poche persone. E questo non solo è da condannare a livello morale ed etico, ma è anche

pericoloso per i valori della democrazia e della meritocrazia. Cosa significa meritocrazia? I principi della meritocrazia sono stati definiti già nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789, il cui primo articolo afferma che «le distinzioni socia- li non possono fondarsi che sull’utilità comune». Cioè su quanto una singola persona può dare allo sviluppo del benessere di tutta la società. Oggi, però, sta accadendo esattamente il contrario. Thomas Piketty, a questo proposito, ha messo bene in evidenza come l’aumento delle disuguaglianze rifletta ampiamente una esplosione 'senza precedenti' dei più alti redditi da lavoro e la separazione sociale che esiste, di fatto, tra la vita dei top manager delle grandi aziende e il resto della popolazione. I più importanti dirigenti aziendali, infatti, avendo il potere di stabilire i propri compensi, si sono attribuiti delle retribuzioni che in moltissimi casi – e 'senza alcun contegno', scrive sempre l’economista francese – non hanno un evidente rapporto con la loro 'produttività individuale'. Se siamo d’accordo con la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, ovvero che la distinzione sociale può essere basata soltanto sull’utilità alla comunità, allora dovremmo declinare il criterio di utilità con quello di solidarietà: ovvero con il proposito di condividere il miglioramento della vita umana con tutti gli altri membri della comunità. (Chiara Giaccardi e Mauro Magatti) Anziché pensare la Rete solo come il luogo di virtualizzazione delle esistenze di milioni di individui, di perdita del saper fare e del saper vivere, di indebolimento dei legami comunitari, possiamo forse immaginarla come un’occasione di rilocalizzazione di territori 'contributivi', sciolti dalle risorgenti tentazioni del localismo, in virtù delle nuove possibili riarticolazioni tra locale e globale, situato e delocalizzato, individuale e collettivo. La Rete costituisce infatti un’infrastruttura capace di favorire nuovi e più avanzati equilibri; preziosa per far nascere, sostenere e interconnettere le tante potenzialità di libertà presenti nelle 'società dei liberi'. In primo luogo, la rete va messa in rapporto allo sviluppo di una società della conoscenza. Con questo termine non si intende solo l’aspetto cognitivo astratto, ma la combinazione tra sapere teorico, saper fare e saper vivere. Il problema della 'società dei liberi' oggi non è più avere accesso alla conoscenza. Casomai, sapersi orientare in un contesto troppo grande e instabile, acquisendo competenze e punti di vista originali. Questo tema certamente rinvia alla scuola e ai processi formativi, ma riguarda anche la responsabilità di riempire questo nuovo ambiente di indicazioni, riferimenti, stimoli positivi e costruttivi. La gran parte dei paesaggi di questo nuovo territorio rimane ancora da tracciare. E spetta ai liberi prendersene cura. Una seconda pista riguarda i processi di 'formazione in relazione': quei processi, cioè, capaci di abilitare la creazione di significati condivisi e la strutturazione di una pluralità di ambienti sociali e culturali, materiali e digitali. Da questo punto di vista, è interessante osservare che, anche se in forma molto rudimentale, in realtà i social network permettono di esperire le potenzialità enormi della Rete dal punto di vista cooperativo. È il movimento associativo, non quello dissociativo (che pure un certo modo di stare in rete tende a sostenere), che serve alla società generativa. La Rete può poi essere l’occasione per rafforzare la prospettiva di un’economia della cura, a partire dal ripensamento della rigida distinzione tra produzione e consumo. Esempi di queste nuove opportunità sono i modelli dell’open source, che risultano dalla collaborazione di persone che allo stesso tempo creano i contenuti e ne fruiscono, producono e condividono, generando valore che è non solo economico ma anche sociale e culturale. Rafforzando le dinamiche di interazione, la Rete può essere uno strumento prezioso per rendere concretamente possibile un atteggiamento di corresponsabilità nella soluzione dei problemi. Infine, la Rete consente di immaginare nuove forme di relazione tra il particolare-locale e l’universale-globale, permettendo così di sanare quel destino di chiusura che ha storicamente sempre ridotto l’impatto delle iniziative che si sviluppano al microlivello: rendendo possibili forme di interazione, scambio e collaborazione tra luoghi lontani, essa potenzialmente permette di cambiare la natura e la portata di ciò che, come persone e come gruppi, possiamo realizzare negli ambiti di vita quotidiana in cui siamo inseriti. Ma tutto questo sarà possibile solo se davvero riusciamo a ridefinire il nostro immaginario della libertà. Pag 24 L’altruismo? Biologia (e cultura) di Andrea Lavazza Intervista al neuroscienziato britannico Ray Dolan

Qualche lettore di Ian McEwan ricorderà il neurochirurgo protagonista di Sabato. Lo scrittore britannico durante la stesura probabilmente ricevette consigli anche dall’amico e compagno di escursioni Ray Dolan, docente di neuropsichiatria all’University College di Londra e nome di spicco delle neuroscienze cognitive, in arrivo in Italia per una conferenza. Come nel romanzo, malgrado tutta la scienza di cui si narra, è una poesia a evitare un delitto, così Dolan, impegnato a svelare le basi biologiche del comportamento, riconosce che nella grande letteratura troviamo tanta sapienza sull’essere umano. Professor Dolan, a Bergamo-Scienza lei spiegherà che la nostra tendenza comportamentale di base è altruistica. I pessimisti sulla natura umana non sarebbero d’accordo. Che cosa ci dicono oggi le neuroscienze cognitive? «Il tema di come si sviluppano empatia e altruismo è molto complesso. Attualmente, la nostra ipotesi migliore dice che almeno una componente è mediata dalla nostra biologia. A molti può sembrare un’affermazione azzardata, dato che tante persone ritengono che l’altruismo sia legato a una fede religiosa. Tuttavia, le prove a sostegno di questa idea vengono da un’ampia serie di osservazioni. In primo luogo, vediamo un comportamento altruistico nelle formiche, nei ratti e, meno sorprendentemente, nei cani. È difficile sostenere che la cultura svolga un ruolo nell’orientare il comportamento di queste specie. Processi simili sono all’opera anche negli esseri umani, benché, senza dubbio, come specie siamo molto più sensibili all’influenza della cultura. È quindi probabile che le nostre disposizioni morali, tra cui quelle all’altruismo e all’empatia, abbiano un fondamento nella nostra biologia, un fondamento però fortemente plasmato dal nostro ambiente culturale, che comprende il modo in cui la famiglia media l’influenza della cultura». Considerando i risultati neuroscientifici, ci si può chiedere se istruzione, cultura e regole morali abbiano un ruolo nello sviluppo di empatia e altruismo? «Si potrebbe anche ribaltare la domanda e chiedersi se la neurobiologia limiti l’espressione individuale di questi tratti. Ciò è senz’altro vero ed è vero per tutti i tratti umani. Non sappiamo con precisione come la cultura, l’istruzione e le regole morali incidano sul comportamento altruistico. Quello che sappiamo è che se alcune precise aree del cervello subiscono un danno, questo incide sulla capacità di esprimere altruismo ed empatia. Sappiamo pure che la nostra bussola morale viene facilmente orientata dal contesto in cui viviamo, come hanno mostrato i famigerati esperimenti di Milgram, in cui le persone erano portate a ferire i propri compagni indifesi seguendo gli ordini di uno scienziato». Lei studia le emozioni da molti anni: come condizionano il nostro comportamento? Le persone tendono a pensare che le emozioni siano opposte alla ragione e che spesso possano indurci in errore. «La preoccupazione per gli altri può nascere da una riflessione razionale. Ma nei termini delle teorie oggi più influenti, come la teoria della selezione parentale, si può pensare all’altruismo come parte di un strategia evolutiva, la quale assicura che i nostri geni vengano trasmessi alla generazione successiva. Nei miei studi sull’altruismo, tuttavia, emerge che coloro i quali esprimono il più alto grado di altruismo hanno anche la maggiore preoccupazione empatica verso gli altri, hanno cioè una più ricca rappresentazione degli stati emotivi del loro prossimo. L’idea che l’emozione ed il ragionamento siano opposti è certamente vera in alcuni casi, ma altrettanto spesso emozione e ragionamento servono gli stessi fini». Tra i suoi temi di ricerca, c’è anche l’integrazione delle informazioni sensoriali con le conoscenze pregresse quale fattore determinante per il nostro comportamento. «Una delle questioni più ampie nelle neuroscienze è ovviamente quella fondamentale su come funziona il nostro cervello. È possibile avvicinarsi a questo obiettivo di conoscenza su più livelli. A livello della persona che ha esperienze sensoriali, questa è l’ipotesi di come vadano le cose. Siamo continuamente bombardati da stimoli (suoni, odori...) e vi facciamo fronte ricorrendo alla conoscenza che già abbiamo, è in base a ciò che già sappiamo che tentiamo di discriminare gli stimoli e di capire che cosa li ha provocati (che cosa abbia provocato il rumore, da dove venga l’odore...). Questa conoscenza ci viene dall’esperienza. Il cervello fa tutto questo come uno scienziato mette alla prova diverse ipotesi. Dobbiamo poi sapere chi siamo nel mondo. Il nostro ambiente, in particolare l’ambiente dell’infanzia, è fondamentale nel plasmare la nostra identità. All’interno di questo primo ambiente di vita, impariamo una serie di valori, e tali valori ci

guidano nelle interazioni con il mondo e, nello specifico, con i nostri simili. La conoscenza che già abbiamo qui è particolarmente importante; di recente, abbiamo mostrato che coloro che sono meno certi dei propri valori sono esposti all’influenza dei valori delle persone con cui interagiscono. Se non sono sicuro su me stesso, posso aumentare la mia conoscenza di me osservando gli altri e, per così dire, aggiornare poi le mie opinioni. Questa ipotesi, vale a dire l’incertezza su quali siano i propri valori, potrebbe spiegare in parte perché alcune persone sono più suscettibili all’influenza dell’estremismo». Lei si interessa anche dell’espressione distorta delle emozioni, come avviene nel caso degli psicopatici. A volte si dice che siamo circondati da psicopatici... «Siamo circondati da persone tra le quali qualcuno ha tratti da psicopatico e pochi sono veri psicopatici. Qualcuno ipotizza però che tali tratti siano più diffusi in alcuni gruppi, per esempio i politici. Lo lascio dire a chi conosce i politici da vicino. Ma, avendo visto la serie tv House of cards, temo che possa essere vero». Siamo destinati a vivere in una “neurocultura”, in cui ogni caratteristica del comportamento umano sarà spiegata dalle conoscenze neuroscientifiche? «Non vi è dubbio che le neuroscienze abbiano colonizzato l’immaginario pubblico nel corso degli ultimi due decenni e che la “neurocultura” sarà sempre più diffusa. Credo tuttavia che sia meglio rimanere umili rispetto alla capacità delle neuroscienze di conoscere la condizione umana. Siamo ancora ai piedi della montagna e le nostre intuizioni scientifiche non reggono minimamente il confronto con le intuizioni che hanno avuto giganti come William Shakespeare». Torna al sommario 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA LA NUOVA Pagg 2 – 3 Cinque Stelle ai raggi X con il laboratorio Mira di Giulio De Polo I giudizi dei cittadini dopo quasi cinque anni di amministrazione Maniero. Il sindaco: “Sono utile, non indispensabile. Devo laurearmi”. Il Pd: “Una giunta senza progetti” Mira. Tempi difficili per i sindaci a Cinque Stelle. A Roma Virginia Raggi è sotto pressione per il caso dell’assessore Paola Muraro, indagata per traffico illecito di rifiuti e abuso d’ufficio. Nei guai anche il primo cittadino di Livorno, Filippo Nogarin impigliato nell’inchiesta sulla municipalizzata dei rifiuti mentre a Parma, il sindaco Federico Pizzarotti ha lasciato il Movimento 5 Stelle, in polemica con i vertici, perché si è sentito abbandonato in merito all’avviso di garanzia per abuso d’ufficio sulla questione delle nomine al Teatro Regio di Parma. Come Pizzarotti anche a Mira il sindaco Alvise Maniero va verso la fine del primo mandato dopo le elezioni a maggio del 2012. Anche per lui è tempo di bilanci e anche la sua giunta finisce nel mirino delle critiche per il nuovo sistema di raccolta differenziata dei rifiuti con il porta a porta. Il dato ufficiale comunicato da Veritas pone Mira ai vertici della raccolta differenziata nel Veneziano con una percentuale del 74% registrata in agosto. Ma la realtà percepita è differente. Jessica, casalinga cinquantenne, parla di «spazzatura sulle strade a tutte le ore» e di difficoltà «nel rispettare le consegne del porta a porta con la raccolta dell’umido solo poche volte al mese». Per Eleonora Zacchetti, anche lei casalinga, la situazione è ancora peggiore: «C’è troppa spazzatura in giro, montagne di immondizie. Non è cambiato niente. Sono delusa». Patrizia e Federica, titolari del frequentato bar “Ai Cerchi” nell’ex Mira Lanza invece la situazione non è negativa. «Certo ci vorrebbe più manutenzione del verde pubblico, ma il sistema della raccolta differenziata funziona». Soddisfatti dell’era Maniero sono Maria Frezza con il marito Alex Dell’Armi che parlano di «programma elettorale rispettato» e danno un giudizio più che positivo all’attività degli uffici comunali «dove è sempre possibile trovare interlocutori attenti e interessati». «Devo dire che il sindaco si è dato da fare», dice Giuseppe Caiazzo, collaboratore scolastico originario di Salerno, da dieci anni residente a Mira.Nel settore scolastico, che conosco da vicino, ho notato un forte impegno nella manutenzione degli istituti. In generale poi», spiega, «so che ha tagliato le spese comunali rifacendo tutti gli appalti in scadenza. Inoltre dopo il tornado ha saputo affrontare con serietà la gravissima situazione che si era creata».

Pollice verso invece per il collega di Giuseppe Caiazzo, Luigi Cagliando, originario di Napoli e lui pure salito a Mira per lavorare nel settore scolastico. «Anche noi siamo dei migranti», dice Cagliando, «Ma dobbiamo pagarci tutto, dall’affitto alle bollette. Il Comune aiuta solo gli extracomunitari e non noi che lavoriamo per lo Stato». Parla di «gente rassegnata» e di un Comune in «stato di abbandono», Giovanna Carrarini, ex dipendente comunale in pensione, per 30 anni addetta alla mensa scolastica e poi passata nell’ufficio Servizi Sociali. «Sono delusa perché pensavo che Maniero portasse delle novità. Manca la manutenzione del verde pubblico e per me la raccolta differenziata con il porta a porta è un disastro». Particolare, infine, il caso di Moreno Zagolin, titolare del bar “Da Renè” di Oriago che mostra il locale di fronte, affittato e ristrutturato per aprire una sala slot che invece è sempre rimasta chiusa. «Ho speso settemila euro per mettere a norma il locale ma poi il Comune mi ha negato il permesso di aprire», racconta sconsolato il barista, «Pochi mesi dopo a cento metri i cinesi hanno aperto una sala slot molto più grande della mia perché hanno detto di aver chiesto il permesso direttamente in prefettura bypassando il Comune. Inoltre», spiega ancora il barista, «con la nuova raccolta differenziata hanno posizionato i cassonetti proprio vicino al mio locale. E pensare, «conclude il titolare del bar, «che io Maniero l’ho pure votato». Mira. Ha ancora gli occhi arrossati per la notte passata ad accudire con la moglie il piccolo Leo di nove mesi, Alvise Maniero, 31 anni, da quattro alla guida del primo Comune del Veneziano governato dal Movimento 5 Stelle, e che si accinge a terminare il primo mandato con le prossime amministrative in programma nella primavera del 2017. Allora sindaco, ci ha fatto un pensierino per il prossimo anno, si ricandida ? «Io sono utile, ma non indispensabile: la dimostrazione che chiunque può fare il sindaco, se motivato e con buone proposte. È importante che la gente capisca di non deve chiedere al sindaco di fare qualcosa, ma di cercare di attivarsi per raggiungere un determinato obiettivo. Questa è la democrazia partecipativa che contraddistingue il mio operato ed è il messaggio che voglio lasciare. Inoltre vorrei terminare finalmente gli esami per laurearmi in Scienze Politiche». In questi quattro anni di mandato cosa è cambiato all’interno del Movimento 5 Stelle? «Abbiamo raggiunto un ottimo livello organizzativo attraverso lo scambio di informazioni tra noi sindaci 5 Stelle ma anche con i nostri deputati a Roma. Siamo tutti collegati con WhatsApp dove possiamo chiedere in tempo reale pareri sulle nuove normative e quindi poterle usare nel modo migliore. Inoltre come amministrazione qui a Mira cerco di studiare le soluzioni create da altri comuni e proprio l’esperienza di Camponogara mi ha portato a cambiare il sistema della raccolta differenziata dei rifiuti». Il porta a porta non sembra però essere stato accettato con entusiasmo dai residenti che non risparmiano critiche al nuovo sistema. «Me lo aspettavo perché so di aver portato delle modifiche nella vita personale dei cittadini. Sono critiche comprensibili. Ci vorrà del tempo ma durante il mio mandato sono state eliminate 1900 tonnellate di rifiuti all’anno, portando la raccolta differenziata da gennaio ad agosto dal 60 al 74% con proiezioni che danno Mira al 90% entro breve. Un traguardo che porterà nel tempo ad un taglio della bolletta per tutti i residenti». Emergenza tornado. Lei ha criticato il governo che ha disposto i rimborsi. Perché? «I soldi ci sono e questo deve essere chiaro. Ho criticato il sistema del credito d’imposta che è stato spiegato in un modo incomprensibile anche per gli addetti ai lavori. Però, ripeto, la gente deve sapere che i soldi sono stati stanziati». Come vanno i rapporti con gli altri sindaci 5 Stelle ? «Molto bene. Con Danielettto a Vigonovo abbiamo concluso un accordo per dividere il segretario generale tra i due comuni. Con Ferro a Chioggia stiamo lavorando insieme per migliorare la sicurezza in Romea. Io ho scritto all’Anas, senza ricevere risposta mentre Ferro ha invitato il ministro Delrio a Chioggia. Intanto entrano in questi giorni in funzione i primi due autovelox sul territorio di Mira e gli incassi delle multe saranno tutti utilizzati per migliorare la sicurezza sulla statale. Deve essere chiaro che correre in Romea è sbagliato e adesso scattano le multe. Sono in programma altri quattro autovelox e due Targa system, che servono a verificare il pagamento dell’assicurazione». Appare forte in Riviera anche il fronte comune contro le Grandi navi a Dogaletto? «Qualcuno già sente l’aria di un cambiamento politico se tornano queste idee di stravolgere la laguna e l’ambiente con l’assurdo progetto di creare qui il terminal per le Grandi navi. Noi abbiamo già presentato il nostro con dei pontoni galleggianti legati alla struttura del Mose». Lei si avvia a concludere il mandato la prossima

primavera. Ha qualche rimpianto ? «Certamente ci sono dei progetti che non riuscirò a concludere non certo per mancanza di iniziativa ma soprattutto per i vincoli di bilancio che ci legano le mani e ci impediscono di agire. C’è bisogno, ad esempio, di un ecocentro comunale perché quello di Mirano è troppo lontano. Ma un progetto molto importante è quello legato all’illuminazione pubblica che deve essere riconvertita a led. Tutti gli impianti sono nel degrado e non possiamo intervenire a causa del patto di stabilità. In tutto il territorio comunale ci sono seimila punti luce da sostituire, i pali sono degradati e anche i cavi elettrici sono ormai vecchi. Mira. Coro di critiche delle opposizioni in consiglio comunale sull’operato della giunta Maniero. «In questi cinque anni l’amministrazione grillina ha lasciato un territorio in uno stato di totale abbandono», spiega per il Pd l’ex assessore ora consigliere di opposizione Maurizio Barberini, «ripetendo continuamente che la colpa non era loro ma di chi aveva governato precedentemente e che i soldi non c’erano. Ritengo che ci sia invece l’incapacità di non avere avuto un progetto o un programma vero per la città di Mira gestendo solo emergenze giornaliere. Hanno seminato un preoccupante isolamento con tutti gli enti che garantivano interventi sul territorio escludendo così la possibilità di avere fondi a disposizione. Abbiamo avanzato proposte migliorative, puntualmente inascoltate». Pesanti anche le critiche che arrivano da Forza Italia con il consigliere Paolo Lucarda «Questa giunta», spiega Lucarda, «ha fatto perfino peggio di quelle precedenti. Non c’è un piano che porti occupazione e sviluppo. Questi dicono solo di no a tutto e a tutti. Le scuse che i soldi non bastano sono puerili». Più che negativo anche il giudizio di Fabio Zaccarin, consigliere del gruppo misto che ha già presentato la sua candidatura a sindaco con la lista “Noi Domani”. Zaccarin vede Mira «sprofondata in un degrado senza precedenti». Più mordida è stata in questi anni l’opposizione della lista “Mira Fuori dal Comune” cappeggiata da Mattia Donadel che con i grillini sul no alle grandi opere ha trovato punti di convergenza. Puntigliosa infine l’opposizione dell’ex sindaco Roberto Marcato e della sua civica “Noi per Mira”. È cauto invece, seppur velato di qualche critica, il giudizio delle categorie economiche. «Come Associazione Artigiani della Riviera del Bretta», spiega il segretario Franco Scantamburlo, «chiediamo un confronto più efficace sui temi della piccola e media impresa, e una politica di sviluppo del territorio e dell’impresa ben definita. Recentemente il Comune ha annunciato l’istituzione di una Consulta del Turismo e del Commercio, senza citare il ruolo dell’impresa artigiana. Per questo motivo ho inviato all’assessore competente una lettera in cui ho chiesto delucidazioni sulle funzioni di questa nuova consulta. Il ruolo dell’impresa artigiana è sempre dimostrato in questi ultimi anni importante, ed è quello che forse ha retto meglio in alcuni settori il peso della crisi». Infine per l’Ascom commercianti parla il presidente Ennio Materazzo: «La giunta Maniero», spiega, «si è trovata a lavorare nel pieno della crisi economica. Per il commercio si doveva fare di più ma le risorse economiche erano scarse. È importante puntare su commercio e turismo legato anche Venezia per rilanciare l’economia e l’occupazione. Le manifestazione per promuovere il territorio devono essere potenziate». Torna al sommario 8 – VENETO / NORDEST CORRIERE DEL VENETO Pag 1 Il fattore Pil degli immigrati di Vittorio Filippi I numeri in Veneto Mettiamoci l’animo in pace. Di migranti, di profughi, di stranieri e di sbarchi ne sentiremo parlare a lungo. Diventeranno – anzi sono già divenuti – una categoria solida del nostro tempo. Per (almeno) due semplici motivi. Il primo è che il nostro è un mondo in movimento, affollato e «stretto», come dice il demografo Livi Bacci. Con un problemino connesso: e cioè che fra una sola generazione il mondo avrà due miliardi e mezzo in più di abitanti e le popolazioni dei paesi poveri raddoppieranno mentre addirittura triplicheranno quelle delle aree più deprivate, come l’Africa subsahariana. Il secondo motivo sta nella geografia: l’Italia, com’è noto, è distesa sul Mediterraneo,

ponte naturale tra Africa ed Europa, tra il mondo demograficamente ricco ed economicamente povero ed il mondo economicamente opulento e demograficamente invecchiato ed in via di spopolamento (un piccolo esempio? Il Veneto è calato di 6.300 abitanti nei primi cinque mesi dell’anno). A questo punto possiamo adottare tre approcci, tre atteggiamenti. Il primo, quello forse più di moda, di sicuro più facile e perfino istintivo, è quello della pancia. Che brontola sonoramente la propria insofferenza, teme l’invasione, lo stravolgimento culturale e religioso, la criminalità, il terrorismo (islamico), la concorrenza per i posti di lavoro e chi più ne ha più ne metta. Un mal di pancia la cui diagnosi, in sintesi, si chiama xenofobia. Poi c’è l’approccio morbido e pietoso del cuore, pronto a commuoversi alla visione degli sbarchi, al sapere degli oltre 3 mila disperati annegati nel Mediterraneo solo quest’anno, alla situazione dei tanti bambini arrivati senza genitori. Un cuore che batte per questi «dannati della terra», pronto all’elemosina ed alla solidarietà. E c’è poi il terzo approccio, quello razionale della testa. Che cerca di capire prima di tutto, non disdegnando qualche numero, qualche statistica. Non occorre scomodare Pitagora per sapere infatti che i numeri comprendono meglio la realtà di quanto sappiano fare la paura, la xenofobia o la commozione. Ecco perché è importante l’annuale ricerca della Fondazione Moressa sul contributo economico dell’immigrazione – e di lavori analoghi – che, al di là della gran massa di dati presentati, quantifica in modo incontrovertibile una realtà. E cioè che gli stranieri producono: producono Pil, producono imprese, producono occupazione, producono (perfino) tasse per il fisco e contributi per il nostro affamato sistema pensionistico. Solo tre numeri che parlano da soli: in Veneto gli immigrati sono il 10,1 per cento della popolazione ma rappresentano il 10,8 per cento dei contribuenti e producono il 10,4 per cento della ricchezza regionale. Tre numeri che ci potrebbero ricordare come talvolta negli stessi problemi si trovi la loro (inattesa) soluzione. Pag 6 Veneto, terra di emigranti: 10mila in fuga di Michela Nicolussi Moro Il rapporto Migrantes Padova. Proprio nel momento in cui il Veneto ribolle di rabbia per i continui invii di rifugiati da parte del Viminale, tra il «basta» dei sindaci, le rivolte degli stessi profughi e le manifestazioni di piazza dei residenti, si scopre che non è più terra di immigrazione ma di emigrazione. Il dato a sorpresa salta fuori dal «Rapporto italiani nel mondo 2016» elaborato da «Migrantes», fondazione della Cei, che rivela: nel 2015 per la prima volta il territorio ha registrato una flessione seppur minima dei richiedenti asilo (-0,6%) e un notevole aumento (+5,7%) di cittadini fuggiti all’estero. «Il Veneto è la seconda regione, dopo la Lombardia, per numero di partenze - spiega monsignor Giancarlo Perego, direttore generale di Migrantes - l’anno scorso sono state 10.374, a fronte di 8mila profughi accolti. Ad andarsene sono soprattutto i giovani tra 18 e 34 anni, poiché solo due su dieci riescono a sfruttare in Italia il titolo di studio conseguito, seguiti dai 35-49enni, per lo più disoccupati. Sta poi emergendo un significativo 6% di over 65enni che non emigrano più nei Paesi caldi come un tempo, ma scelgono Ucraina, Romania e Bulgaria, spesso al seguito delle badanti ma soprattutto per motivi economici. Qui con la pensione non arrivano alla fine del mese, nei Paesi dell’Est possono permettersi un buon tenore di vita». Sono Treviso e Vicenza le città da cui si «scappa» con più frequenza (80 famiglie con bambini hanno lasciato Montecchio per Londra, per esempio) e finora cento sacerdoti hanno accompagnato gli emigranti. E 12 appartamenti sono stati messi a disposizione dalla Chiesa a Francoforte, dove ogni giorno una-due famiglie di italiani chiedono aiuto per trovare alloggio. «Sono dati da fine anni ‘60 - commenta don Elia Ferro, coordinatore della commissione Migrantes del Triveneto - l’Italia, per la crisi economica e sociale, è tornata ad essere un Paese di emigranti. Veneto e Lombardia, in particolare, hanno smesso di essere realtà attrattive, anche per gli stranieri. Se ne vanno all’estero tanti immigrati che hanno ottenuto la cittadinanza. E non si tratta di un’emigrazione individuale ma di gruppo». La mobilità nel giro di dieci anni è aumentata del 54%, soprattutto verso Germania, Inghilterra, Svizzera e Francia. «Il mondo ci sta cambiando tra le mani - nota monsignor Luigi Bressan, delegato Cei Triveneto - ormai siamo tutti viaggiatori». LA NUOVA

Pag 1 L’impegno a difesa del Veneto di Luca Zaia Egregio Direttore, ho letto con interesse l'articolo di Francesco Jori che riporta alcune lamentele delle imprese rispetto a presunti ritardi nella colossale (mi consenta di definirla tale, considerato che i cantieri aperti sono 925 e i milioni di euro già stanziati quasi 400) opera di sistemazione idrogeologica del Veneto, il primo intervento organico dal Dopoguerra ad oggi. Nel ringraziare chi, nell’articolo, ha voluto evidenziare la rapidità con cui si è preceduto fino ad ora (cosa inusuale in questo Paese) vorrei correggere alcuni dati sbagliati o forse letti in modo parziale o, ma non voglio pensarlo, strumentale. Innanzitutto va precisato che la Regione Veneto in questi ultimi dodici mesi mai è stata ferma in tema di difesa idrogeologica, anzi, laddove possibile, ha accelerato l’iter di molti interventi oltre ad aver dedicato anche maggiori risorse economiche rispetto agli anni precedenti. Con l’inizio della nuova legislatura, infatti, dalla seconda metà del 2015 la Regione del Veneto non solo ha dato nuovo impulso allo sforzo realizzativo attraverso l’attuazione di quanto programmato e finanziato, ma ha anche destinato nuove risorse del bilancio regionale oltre ad aver ricercato e ottenuto, grazie alla prontezza nel presentare i progetti, diverse risorse statali destinate al finanziamento di interventi urgenti e prioritari per la mitigazione del rischio idrogeologico. Tra gli interventi in corso per quanto riguarda i bacini di laminazione va quindi evidenziato che quelli lungo il torrente Timonchio in Comune di Caldogno, sul torrente Agno Guà in comune di Trissino e il bacino di Colombaretta, in comune di Montecchia di Crosara, sono addirittura in anticipo rispetto al cronoprogramma previsto. Per quanto riguarda questi interventi va anche detto che molte delle imprese che hanno operato sono state regolarmente liquidate. Nel corso dell’anno sono state anche avviati decine di ulteriori interventi con nuovi importanti cantieri tra cui il bacino di Viale Diaz in Comune di Vicenza. Sia per quanto riguarda il primo stralcio dei lavori sull’Astico, tra Sandrigo e Breganze, sia per il bacino di laminazione sul Livenza a Pra dei Gai è stata questa amministrazione a completare l’iter amministrativo accelerando su dei procedimenti che erano ancora in sospeso; in particolare nel primo caso non era stata nemmeno stata ancora compiuta la procedura di Via. Nel caso invece del bacino di Muson dei Sassi i lavori effettivamente non sono ancora partiti, ma ciò è dovuto a un ricorso ad Anac da parte di un partecipante alla gara. I lavori erano stati aggiudicati, ma sospesi per un ricorso conseguente alla gara fatta nel maggio 2015, per cause quindi non imputabili all’attuale amministrazione. Si tratta comunque di interventi dall’iter amministrativo certamente complesso che necessitano di molteplici passaggi, anche visto l’importante investimento economico in gioco, su cui non è il “timore reverenziale nei confronti delle procure” che ci rallenta, ma il doveroso rispetto delle leggi che ci impone di mettere in primo piano le procedure anche al prezzo di qualche possibile ritardo. Parallelamente ai lavori più importanti abbiamo peraltro avviato decine di cantieri minori sia lungo i corsi d’acqua principali, per garantire la sicurezza idraulica di ampi territori, che lungo le coste mediante ripascimenti che hanno assicurato il regolare svolgimento della stagione turistica 2016 delle aree balneari. In relazione invece alle risorse nel 2016 sono stati inseriti ben 20 milioni di euro per interventi di difesa del suolo che nel bilancio 2015 della vecchia legislatura non c’erano. A questi vanno aggiunti i 21 milioni dedicati agli interventi di difesa idraulico forestale compiuti dagli uffici sul territorio; anche in questo caso in aumento rispetto allo stanziamento iniziale dell’anno precedente, che pareva insufficiente e che infatti con variazione di bilancio nell’autunno 2015 avevamo provveduto ad aumentare di ben tre milioni rispetto alla dotazione iniziale. Ma i nostri sforzi non si sono fermati qui: abbiamo battagliato con lo stato per avere maggiori risorse ottenendo, con un accordo di programma firmato a novembre 2015, 104 milioni di euro , che abbiamo potuto dedicare alle progettualità relative ai bacini del Lusore a Mestre Venezia, sul torrente Orolo in Comune di Costabissara e sul torrente Astico nei Comuni di Sandrigo e Breganze. Una Regione, va sottolineato, che sempre in questi ultimi mesi è subito intervenuta anche laddove il governo nazionale si è dimostrato assente, dedicando milioni di euro di risorse per le frane del Cadore e per il tornado sulla riviera del Brenta, nonostante si trattasse di interventi la cui competenza è precipuamente statale. Una Regione, in definiva, che sta lavorando alacremente e come non mai in un settore strategico qual è la difesa del suolo, ma che intende farlo e continuerà a farlo nel massimo rispetto delle normative e dei tempi da esse stabiliti, che

non si possono interpretare ma si devono applicare. Una linea e un metodo, insieme al rigore scientifico delle scelte, che il nuovo assessore ha fin da subito voluto dettare agli uffici e per il quale ha ricevuto anche un ampio riconoscimento da parte del mondo accademico; appare pertanto ingeneroso e inopportuno, per non dire del tutto ingiustificato, un raffronto tra il suo operato e quello del predecessore. (f.j.) Ringrazio il presidente Zaia per la tempestiva e ampia risposta, che tuttavia non affronta la sostanza dell’articolo. L’elenco dei lavori in esso elencati è stato pubblicato dalla Regione il 4 gennaio scorso, mentre si sapeva già che il nuovo decreto in materia di appalti sarebbe stato emanato il 18 aprile. C’era dunque tutto il tempo per mettere mano immediatamente ai relativi bandi di gara (come hanno fatto molte altre amministrazioni), e pubblicarli prima di quella scadenza, perché con tutta evidenza le carte erano pronte. In tal modo la Regione dovrà comunque pagare le progettazioni precedenti, ma dovrà ricominciare da capo l’iter secondo le nuove norme. Perché questo ritardo? Perché l’assessorato ha messo mano a una drastica revisione dell’intera catena tecnica di comando culminata a fine giugno, sostituendo tutti i funzionari principali e adottando decisioni che hanno innescato una reazione a catena tale da mettere in pesante crisi la struttura: come ad esempio le dimissioni da tutti gli incarichi di uno dei tre responsabili delle commissioni di collaudo, il quale ha scelto di tornare a fare il funzionario negli uffici del genio civile della sua provincia. Che tutto questo abbia finito per creare della confusione, lo testimonia un caso specifico: la struttura regionale aveva predisposto tutti i passaggi necessari per far entrare in funzione l’impianto di Sandrigo, mentre lo stesso presidente è andato a Sandrigo ad annunciare che l’opera non si farà più. Semplice difetto di comunicazione, o che altro? Un ultimo punto sui soldi: indubbiamente la Regione ne ha spesi tanti, ma in Bankitalia ce ne sono ancora molti. Perché non si procede con la celerità del passato? Nessuno vuole farne materia di polemiche spicciole: si tratta di riserve e critiche sul funzionamento dell’intero dipartimento di difesa del suolo, diffuse nel mondo delle imprese come lo stesso Zaia sottolinea (che lo sapesse già?), e che sono condivise dalla stessa struttura regionale (vedi diminuzione del 30 per cento degli stipendi a fronte di aumentate responsabilità), e da chi ha la responsabilità della progettazione. Come spiegato nell’articolo, in cui si dà atto al presidente che la sua precedente amministrazione aveva in ben altro conto l’importanza della catena di comando. Pag 6 La crisi spinge i ragazzi all’estero di Silvia Quaranta Generazione “Y” in fuga dall’Italia: sono 371 mila i veneti partiti in cerca di lavoro Padova. Li hanno chiamati in molti modi: nativi digitali, generazione “Y”, echo boomers. Ma la definizione più adatta, senza ricorrere ad anglismi, è forse quella di generazione “altrove”. Lo dicono le statistiche, e lo coglie con sensibilità il rapporto della Fondazione Migrantes, che parla non solo di espatriati ma di viaggiatori: gli italiani all'estero (dati Aire al 1 gennaio 2016) sono quasi 5 milioni e la fetta più rappresentativa (36.7%) è composta dai ragazzi tra i 18 e i 34 anni. Gli ultimi figli dell'analogico e primi veri “nati con il cellulare”: quelli che partono in cerca di lavoro, di una vita diversa, di nuove scoperte, o per ricongiungersi alla metà della mela conosciuta in Erasmus. Segue a ruota la fascia d'età 35-49 anni, 25.8% del totale: sono i tanti che, mentre in Italia ci si lamenta della natalità quasi nulla, hanno già messo su famiglia all’estero. I minori sono il 20% degli “expats” e si parla di bambini e ragazzi nati fuori dall'Italia. «Frutto degli incontri durante i progetti universitari» suggerisce monsignor Giancarlo Perego, direttore Fondazione Migrantes, ma di tante coppie partite «in cerca di lavoro», che hanno trovato all'estero una situazione più favorevole. I numeri descrivono un paese di migranti: dal 2006 al 2016, la mobilità è aumentata del 54.9% e il Veneto è la seconda regione con più partenze (preceduto dalla Lombardia). Il numero complessivo di emigrati è di 371.348: 109.479 dalla provincia di Treviso, 73.534 da Vicenza, 48.534 da Belluno, 45.571 da Padova, 45.131 da Venezia, 37.013 da Verona e 12.086 da Rovigo. Il 42% sceglie l'Europa ( Germania, Francia, Svizzera e Regno Unito), il 50.6% preferisce l'America. Il bilancio tra chi parte e chi arriva, dice monsignor Perego, si avvicina al saldo: «gli stranieri in Veneto, oggi, sono 511mila, gli espatriati erano 371mila alla fine dello scorso anno». Numeri che invogliano la semplificazione: esportiamo laureati ed

importiamo manodopera non specializzata. Ma non è sempre così: «una metà degli italiani all'estero» dice Perego «sono altamente formati, persone con un titolo di studio dalla laurea in su. Ma l'altra metà è composta da persone con la terza media, disoccupati, anche molti pensionati». Quello degli anziani in fuga non è un fenomeno del tutto nuovo, ma in evoluzione: «Le prime destinazioni sono ancora i paesi caldi» spiega monsignor Perego «prima tra tutte la Tunisia (45%). Ma accanto alle destinazioni più note se ne stanno aggiungendo altre, che ricevono flussi in crescita: penso all'est Europa, che si sta facendo strada (si parla di un 15% tra Romania, Ucraina, Polonia, Croazia e Slovenia). A sceglierla sono pensionati che qui non arrivano alla quarta settimana del mese, mentre lì possono permettersi uno standard di vita migliore. Sul fenomeno ha inciso l'arrivo dall'Est di molte badanti, che poi ripartono e gli anziani con loro». L'universo è molto vario e sul futuro, tra chi arriva e chi parte, non è facile fare previsioni. «Dal parlare di migrazioni» conclude don Elia Ferro, coordinatore della commissione Migrantes del Triveneto, «siamo passati a sentirci tutti un po' viaggiatori. C'è una generazione in cammino, e come chiesa siamo chiamati a stare accanto a queste persone, a seguire le relazioni, i punti di attracco e di riferimento».di Fiammetta Cupellaro wROMA Alla fine sono arrivate le scuse formali del Foreign Office all’ambasciatore italiano. Il caso del questionario distribuito nelle scuole di Inghilterra e Galles in cui si chiede ai genitori che devono iscrivere i propri figli se siano “italiani-napoletani”, oppure “italiani-siciliani” o semplicemente italiani, stava ormai prendendo i contorni di una gaffe diplomatica, provocando proteste e sdegno internazionale. Il messaggio inviato dal ministero degli Esteri inglese al capo della diplomazia italiana Pasquale Terracino in cui viene «deplorato l’accaduto» rassicurando la «rimozione immediata» dell’opzione pseudo-etnica ha per il momento smorzato i toni. Annunciata anche un’ispezione al ministero dell’Istruzione per «verificare per quale motivo, in pochi e isolati distretti scolastici siano state introdotte queste categorizzazioni, che peraltro non avevano volontà discriminatoria – assicurano – ma miravano all’accertamento di qualche difficoltà linguistica per i bambini da inserire nel sistema scolastico». Tutto risolto dunque? Niente affatto, visto che ieri sui moduli di iscrizione pubblicati online da alcune circoscrizioni del Regno Unito si leggevano ancora le tre opzioni per la lingua italiana: “Napoletan”; “Sicilian” e “Italian any other”. Fase delicata dopo-Brexit. L’ambasciatore Terracino che nella nota inviata al Foreign Office aveva ricordato ironicamente che «l’Italia è unita dal 1861», si è detto comunque soddisfatto per le scuse. «Si è evitato che montasse una polemica su quello che è stato un errore dovuto a ignoranza e superficialità più che di una vera volontà discriminatoria. È importante evitare – ha sottolineato – l’insorgere di equivoci nella fase delicata del post-Brexit. In Europa dobbiamo fare uno sforzo per ricercare i punti che uniscono e ci accomunano». Perché è questo il vero problema per gli stranieri oggi nel Regno Unito: capire quale sarà il clima nel paese che ha chiesto di uscire dall’Europa. Su questo punto l’ambasciatore Terracino non ha dubbi. E se definisce l’episodio dei moduli differenti per gli italiani-napoletani e gli italiani-siciliani «minore», dall’altra lo reputa comunque «preoccupante perché l’ignoranza può essere il brodo dell’intolleranza». Germania: sussidio disoccupazione dopo 5 anni. Intanto in Germania sta per essere approvato il disegno di legge con cui vengono tagliati l’indennità disoccupazione e gli altri aiuti sociali erogati anche ai cittadini degli altri paesi dell’Unione europea. Il famoso pacchetto “Hartz-IV” che secondo l’Agenzia federale per il lavoro viene percepito da quasi 440mila persone residenti fuori la Germania. I più numerosi (92 mila) sono i polacchi; seguiti da italiani (71mila); bulgari, (70mila); romeni (57mila) e greci (46mila). Secondo la nuova normativa, da adesso per accedere ai generosi sussidi di disoccupazione previsti anche gli stranieri, bisognerà provare di vivere in Germania da almeno cinque anni. Oggi è un anno. Il disegno di legge è basato su pronunciamenti della Corte di Giustizia europea che concedono alla Germania di rifiutare o ridurre le indennità di disoccupazione a immigrati Ue che non fanno abbastanza per trovare un posto di lavoro. IL GAZZETTINO Pag 12 Sindaci e nozze gay: dopo Oderzo, Musile. E’ bufera nella Lega di Fabrizio Cibin e Paolo Calia Il primo cittadino di Montebelluna getta acqua sul fuoco delle polemiche interne: “Non sono matrimoni, va usato buonsenso”

Dopo Oderzo, Musile: nella Lega sembra aprirsi il fronte delle unioni civili. Già, perché dopo il comune della Marca trevigiana, anche nel Basso Piave c'è un sindaco, anzi una sindaca, che non ha seguito il diktat dei «capi», celebrando una unione civile tra due lesbiche. E non un Comune qualsiasi: si tratta di Musile di Piave, da anni fortino del Carroccio, tanto da trainare Gianluca Forcolin (anch’egli già sindaco) alla volata prima in Parlamento, per due mandati, e poi in Regione, dov'è vice governatore. E così alla gogna, dopo Maria Scardellato, primo cittadino di Oderzo, che nei giorni scorsi ha unito in matrimonio due uomini, ora potrebbe finire Silvia Susanna: entrambe appunto leghiste, entrambe elette la scorsa primavera. Dalla sua parte la sindaca di Musile ha comunque il via libera ottenuto dalla segreteria della sezione, che a sua volta aveva ricevuto il beneplacito del direttivo: insomma, al suo dichiarato senso di responsabilità va unita anche l'investitura ufficiale dei leghisti di casa. L’unione civile in questione risale allo scorso primo ottobre. «Non è mai stata pubblicizzata solo per rispetto delle due persone», precisa Susanna. Il tutto si celebra in municipio: davanti al sindaco ci sono Lucia e Beatrice, talmente contente che, ironia della sorte, qualche giorno dopo si sono pure tesserate con la Lega. «Dalle segreterie non è arrivata nessuna indicazione ufficiale - spiega la sindaca di Musile - ma si è solo appreso dai giornali dell'obiezione di coscienza». Poi Susanna si schiera sulla stessa linea della collega di Oderzo: «C’è una legge e va applicata e rispettata, distinguendo il ruolo di politico e di sindaco. E come sindaco lo rifarei». «In ogni caso - precisa - mi sono confrontata con il segretario, che ha riunito il direttivo e l'indicazione che mi è stata data è che la legge va rispettata». Da parte sua Forcolin fa sapere che lui non avrebbe celebrato, anche per coerenza con quanto da sempre sostenuto sull'argomento. E ricorda che un sindaco va giudicato per tutto il suo operato. «Un conto è il palco da comizio elettorale - aggiunge - un conto quando giuri di essere fedele alla Costituzione e alle sue Leggi. Personalmente avrei delegato l’atto un funzionario». Il segretario provinciale Luca Tollon prima dice che «queste sono posizioni a titolo personale», poi ricorda che «la Lega non va giù tenera su questi argomenti e quindi gli organismi preposti potrebbero prendere dei provvedimenti disciplinari. Forse un confronto con i vertici provinciali e nazionali del movimento sarebbe servito ad evitare situazioni di questo tipo». Ma proprio il segretario nazionale (e cioè regionale) della Lega, Antonio Da Re, tiene un basso profilo: «Che facciano quello che vogliono, la linea del partito è un'altra. Cosa volete che facciamo? La loro posizione non è quella di Matteo Salvini e della Lega, se ne prendano le responsabilità, ma facciano quello che vogliono fare». L'impressione è che alla fine la cosa si potrebbe chiudere con una ramanzina e una tirata d'orecchie. Fino alla prossima unione. Marzio Favero, sindaco di Montebelluna, nella Lega è conosciuto come «il filosofo», avendo insegnato a lungo filosofia al liceo prima di dedicarsi alla vita politica. È un militante storico, dal cervello fino, e non facile a farsi trasportare dall'emozione. Ed è lui che, in un momento particolarmente delicato, tenta di portare un po’ di sangue freddo all'interno di un Carroccio in fibrillazione. I casi dei sindaci leghisti che rompono il fronte del «no» ai matrimoni gay hanno alzato le tensioni e armato i falchi dall'espulsione facile. Favaro tenta di disinnescare un conflitto interno dalle conseguenze imprevedibili. Sindaco, nella Lega cresce l'ala di chi vorrebbe espellere i sindaci che celebrano i matrimoni gay. «Invito tutti a un attimo di riflessione. Per prima cosa facciamo chiarezza sui termini, che molte volte vengono utilizzati anche dai media per sollevare polveroni. Il matrimonio è una cosa, l'unione un'altra». La Lega difende il matrimonio tra uomo e donna. «Appunto. Anch’io. Da questo punto di vista sono tradizionalista anche se non mi considero tale. Il matrimonio è una cerimonia che racchiude una tradizione, un simbolo e che nella sua stessa radice ha la promessa della procreazione. Cosa, ovviamente, impossibile tra persone dello stesso sesso. E questo principio va difeso. Le unioni invece sono solo contratti civili e burocratici. E poi per difendere il matrimonio servirebbe altro». Cosa servirebbe?

«Per prima cosa ammettere che le coppie che divorziano sono ormai più di quelle che si sposano. Allora bisognerebbe pensare a come sostenere queste famiglie più che a combattere le unioni. Che, comunque, non sono matrimoni». Ma oggi vengono messi in discussione i sindaci che celebrano queste «unioni», che comunque anche i leghisti definiscono «matrimoni». «In quanto contratti, queste unioni dovrebbero essere firmate solo da tecnici e funzionari». E se qualche sindaco invece ci tiene a celebrare questa unione, ormai diventata un rito civile a tutti gli effetti? «La Lega difende un valore, quello del matrimonio. Poi la realtà che i sindaci si trovano ad affrontare è complessa, vanno capiti». In molti invece vorrebbero espellerli. «Non penso che sia questo il modo. Conosco bene Da Re, è una persona di buon senso e so che saprà affrontare la situazione senza enfatizzare troppo questi episodi». Nel trevigiano il primo cittadino a rompere il fronte del «no» è stata Maria Scardellato di Oderzo, una militante di lunga data. «Papa Francesco dice "chi sono io per giudicare?". Quindi figurarsi se posso giudicare io quello che fanno altri. Ha compiuto una scelta discutibile, non in linea con il partito: è vero. Ma va capita. Direi invece che dovremmo concentrarci su altre battaglie come il no al referendum». Torna al sommario … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Napoletani e siciliani schedati, Londra si scusa ma non è il punto di Beppe Severgnini Le liste degli stranieri Scuse (inevitabili) del governo inglese dopo un (evitabilissimo) passo falso. La schedatura degli studenti italiani in base all’origine regionale - ITAN i napoletani, ITAS i siciliani, ITA gli altri connazionali - pare avesse «lo scopo di fornire una migliore assistenza nell’apprendimento dell’inglese». Il Foreign Office, dopo l’ironica protesta della nostra Ambasciata a Londra («L’Italia è dal 17 marzo 1861 un Paese unificato»), esprime «rammarico» per il malinteso, e lo definisce «un errore storico». Il problema, qual è? Che di errori storici, ben più gravi di questo, gli inglesi ne stanno commettendo parecchi, ultimamente. La decisione di uscire dall’Unione Europea, lo scorso 23 giugno, è uno di questi: il più pericoloso. Certo è stata presa in modo democratico, e va rispettata. Da quel momento, però, il nuovo governo britannico di Theresa May ha fatto di tutto per mostrare una crescente antipatia per gli altri europei. Questo - possiamo dirlo? - è sgradevole. E non rappresenta lo stile nella nazione. Né la sua opinione prevalente, con ogni probabilità. Perché confondere gli studenti europei in Gran Bretagna, lasciando intendere che perderanno le agevolazioni di cui hanno goduto finora (salvo poi fare marcia indietro)? Perché escludere i ricercatori non britannici da un progetto sulla Brexit alla London School of Economics, un faro della globalizzazione intelligente? Perché spaventare i londinesi e il loro sindaco? Perché irritare un medico su tre - tanti sono i professionisti stranieri negli ospedali del Regno Unito - dicendo che il sistema sanitario dovrà fare da solo? Perché contrapporre «cittadini del mondo» a «cittadini britannici» - il primo ministro, chiudendo il congresso del partito - quando la forza degli inglesi è, da secoli, la capacità di essere una cosa e l’altra? Degli inglesi abbiamo ammirato tutti, da sempre, lo stile. Uno stile riassunto in un idioma di origine militare: «grace under fire», la capacità di mantenere la compostezza sotto il fuoco nemico. Oggi nessun europeo spara, nessuno minaccia il Regno Unito, nessuno fugge: ma quella compostezza sembra perduta nell’ansiosa ricerca di un’impossibile autosufficienza. Il tonfo della sterlina, la preoccupazione dell’industria dei servizi e l’ansia dell’agricoltura lo dimostrano. «I politici propongono, i mercati dispongono» ha commentato Martin Wolf sul Financial Times , aggiungendo asciutto: il governo britannico si è lasciato andare a «dichiarazioni

scriteriate». Il Regno Unito è un grande Paese, ma non è più una grande potenza. Prima lo capisce - evitando passi falsi e inutili provocazioni - meglio è. Per tutti. Pag 5 Il falso mito dell’anno zero di Pierluigi Battista Instabilità e paralisi del passato evocate da Renzi (e Berlusconi). Ma l’Italia è cresciuta La retorica, anzi la mistica della «discontinuità» che domina da un po’ la politica italiana, prevede una logica temporale rigorosamente binaria: prima e dopo, la palude di prima e l’aria fresca di adesso, l’immobilismo di prima e il movimento di oggi, la conservazione di ieri e il dinamismo riformatore di oggi, l’Italia che era ferma e l’Italia che riparte. Una sindrome da anno zero, il passato schiacciato nella pigrizia e nella non-storia. Ma è una retorica che ha il minimo appiglio nella realtà storica? Il tormentone sulla paralizzante instabilità dei governi del Dopoguerra, per esempio. Un asso nella manica del premier Matteo Renzi, ma prima di lui molto usato da Silvio Berlusconi, che anche lui voleva presentarsi come l’incarnazione del nuovo assoluto. L’asso è questo: supereremo l’impasse di «67 governi in 70 anni». Che in effetti, detta così, fa un po’ impressione. Poi si va a vedere che in realtà tutti i governi della Prima Repubblica, hanno avuto come perno la Democrazia cristiana la quale, se si eccettua la parentesi «laica» di Spadolini prima e di Craxi dopo, è sempre stata stabilmente a Palazzo Chigi con un’alleanza di partiti che variava, i liberali o i socialisti alternativamente o tutt’e due insieme, ma non in modo tale da prefigurare governi instabili con maggioranze alternative. Politicamente l’Italia è stato un Paese ultrastabile, decisamente più stabile di tutti gli altri Paesi che hanno conosciuto la democrazia dell’alternanza. I governi cambiavano per tortuose geometrie di potere tra le correnti, per i rimpasti, per i bis e i tris, per tutte le formule acrobatiche e misteriose che hanno fatto speciale il lessico democristiano. Ma la storia italiana repubblicana non ha mai cambiato partito di riferimento, nella Prima Repubblica. «Moriremo democristiani», imprecava Luigi Pintor quando nel ’76 il Pci non riuscì a scavalcare i voti della Democrazia cristiana (e Indro Montanelli suggeriva di votare Dc «turandosi il naso» per arginare il pericolo comunista). Era il grido di dolore di un uomo di sinistra turbato dalla permanenza che sembrava inamovibile, stabilissima, inattaccabile della Dc. Poi cambiavano inquilino a Palazzo Chigi, ma la continuità era garantita. Sull’immobilismo, poi, è difficile liquidare come immobile un’Italia che con quei governi passò in una manciata di anni da Paese sconfitto, povero, agricolo in Paese industriale moderno fino a raggiungere il rango di quinta potenza economica nel mondo. Un Paese dove si impiegavano pochi anni per completare l’Autostrada del Sole da Milano a Napoli cambiando la geografia dell’Italia e che in pochi anni si trasformò in un Paese consumista. Che cambiò verso con una profondità e radicalità che avremmo dimenticato nel corso della Seconda Repubblica, quella sì instabile, con mille partiti che nascono e muoiono, con ribaltoni, cambi di casacca, fino a oggi tutto compreso. E anche sui numeri, poi, bisognerebbe essere un po’ precisi, al limite della pignoleria. Per esempio si dice ogni giorno «finalmente si fa qualcosa dopo trent’anni». «Trent’anni» in che senso? Chi? Dove? Come? A partire da cosa? Qualche volta si dice «dopo vent’anni», e cioè? Cosa è accaduto trent’anni fa? O vent’anni? E allora perché non trentadue, quarantaquattro, cinquantadue? E soprattutto, perché la sindrome dell’anno zero deve sentirsi in dovere di ricostruire un passato da operetta, tutti immobili e impaludati mentre all’improvviso si presenta il grande innovatore, quello che cambia tutto e promette una stabilità mai vista nel nostro Paese? Ultimo modo di dire da anno zero: «il ventennio berlusconiano». Sarà, ma Berlusconi non ha governato vent’anni. Dal marzo del 1994 all’ottobre del 2016 ha governato da Palazzo Chigi nove anni e mezzo su ventidue, partecipando anche a governi tecnici o simili, in posizione non precisamente dominante, per tre anni, mentre la sinistra ha governato a Palazzo Chigi per dieci anni (comprendendo ovviamente i governi di Enrico Letta e dello stesso Renzi). Ma «ventennio» fa più effetto. Come fa più effetto negare la stabilità dei numerosi governi democristiani. Tanti numeri. Ma la realtà? Pag 5 Il monito presidenziale su una campagna che si estremizza di Massimo Franco

Si potrebbe intitolare: come dovrebbe essere la campagna referendaria. E come invece non è. Le parole dette ieri dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, a Bari, all’assemblea dell’Anci, sono un monito vellutato ma inequivocabile ai fronti del Sì e del No. Con una neutralità coerente col ruolo di arbitro e di garante che si è assegnato, il capo dello Stato ha cercato di riequilibrare dinamiche distorte dalla polemica e dalla paura di perdere. Il suo è sembrato un appello finale a non sprecare le settimane di qui al 4 dicembre in uno scontro sguaiato e controproducente. Mattarella non guarda tanto alla consultazione, ma al dopo. Ed è preoccupato di ritrovare un’Italia lacerata da mesi di rissa. Senza citarli, lo dice sia a Matteo Renzi, sia ai suoi avversari: «È necessario, nell’avvicinarsi al giorno del referendum, e sarà necessario, dopo il suo risultato, il contributo di tutti, sereno e vicendevolmente rispettoso». E, di qui al voto, il confronto si dimostrerà «tanto più efficace quanto più composto». Si tratta di un suggerimento a cambiare metodo e toni; e a permettere agli elettori di esprimersi senza un sovraccarico di propaganda e di veleni. C’è solo da sperare che il richiamo faccia breccia. Per ora, cala su una platea di partiti intenti a azzuffarsi. C’è da scommettere che i più si sentiranno spiazzati dalle parole presidenziali; e che, invece di farle proprie, additeranno gli altri come responsabili di una campagna scomposta. Eppure, il discorso non è di maniera. Riflette il tentativo di sradicare i semi di una guerra civile verbale, alimentata in modo artificioso. Basta registrare quanto ha detto ieri un esponente del No come Massimo D’Alema, pure del Pd. D’Alema descrive lo schieramento del Sì come «un blocco politico minaccioso». E parla di «clima intimidatorio». Fioccano le prese di distanza anche dalla minoranza Dem. Ma tra premier e avversari l’aria è questa, da tempo. Il ministro dell’Interno, Angelino Alfano, fa subito sue le parole di Mattarella e dichiara: «Credo sia pacato e composto dire che riteniamo questo referendum l’ultima occasione per cambiare»: sebbene in democrazia di occasioni ce ne siano sempre altre. E nelle file renziane la tentazione di presentare l’appuntamento del 4 dicembre come un plebiscito sul premier è durata a lungo e riaffiora a intermittenza. In questa fase, tuttavia, Renzi subisce una fronda in bilico tra Sì e No. Vuole evitare che la riforma elettorale si intrecci col referendum e compatti gli avversari. In più, ha un Beppe Grillo che lo martella sulla politica economica. E sta per concludere una trattativa difficile con la Commissione europea per ottenere margini di spesa tali da legittimare stime sulla ripresa sulle quali perfino il ministero dell’Economia è prudente. L’appello di Mattarella rimane dunque sullo sfondo, in attesa di qualcuno in grado di interpretarlo in modo credibile. Pag 29 Maestri di felicità di Luigi Accattoli Dalai Lama e Desmond Tutu, storia di un incontro di religioni: “La gioia può essere contagiosa” In questo libro ci sono emozioni narrate con semplicità: «Era il momento della comunione. L’arcivescovo ha sollevato un pezzo di pane bianco tibetano e l’ha deposto nella bocca del Dalai Lama». Capita infatti che una mattina il Dalai Lama inviti l’arcivescovo Desmond Tutu alla sua meditazione privata e capita che l’arcivescovo ricambi dando la comunione all’ospite. I due sono riuniti nell’aprile 2015 a Dharamsala, in India, per gli 80 anni del monaco (l’arcivescovo ne ha quattro di più), e passano una settimana a discutere sulla gioia «che è più della felicità» e che «viene da dentro». Il titolo «Il libro della gioia» va inteso come il «manuale» della gioia. La seconda parte propone pratiche per guadagnarla, rafforzarla, comunicarla. Perché la gioia è «contagiosa», dicono, come l’amore. Il trattatello accosta buddismo e cristianesimo e l’accostatore - il curatore del volume Douglas Abrams - è ebreo. L’accostamento è innanzitutto linguistico e si profila già ad apertura del volume: «Possa questo libro essere una benedizione per tutti gli esseri senzienti, per tutti i figli di Dio, per tutti voi. Tenzin Gyatso, Sua Santità il Dalai Lama / Desmond Tutu, arcivescovo emerito dell’Africa meridionale». Il pensiero del lettore va a Gandhi che così rispose a chi gli chiedeva se fosse indù: «Sì. Ma sono anche cristiano, musulmano, buddista ed ebreo». Forse il Dalai Lama sta avvicinando il buddismo al cristianesimo, come Gandhi aveva fatto con l’induismo. Come Gandhi anche il Dalai Lama ammira i Vangeli: «Quando guardo questa statua di Gesù Cristo, mi commuovo veramente. Penso che questo maestro sia stato fonte di immensa ispirazione per milioni di persone». Della discussione con l’arcivescovo dice: «Un buddista e un cristiano, due fratelli. Vado spesso a trovare i

rappresentanti di altre tradizioni religiose. A volte ci vuole una calamità per unire i seguaci di tutte le fedi e far capire loro che siamo tutti fratelli e sorelle». Il buddismo non è un teismo, ripete il Dalai Lama in queste pagine e l’arcivescovo scherzosamente lo ammonisce: «Sei bravo, peccato che tu non sia cristiano: devi andare all’inferno». Nelle conferenze sulla leggenda del Budda il poeta Borges, che ne era innamorato, affermava che «il buddismo è una dottrina atea nella quale non ci sono la colpa, il pentimento e il perdono». Colpa e pentimento infatti non ricorrono sulla bocca del Dalai Lama, ma perdono sì che ricorre: in esso il dialogante Dalai Lama vede una forma della «compassione» con cui trattare ogni essere senziente. Arriva persino a parlare di «perdono che non è dimenticanza» per la Cina che lo costringe all’esilio. L’arcivescovo propone la speranza nel paradiso, il Dalai Lama la fede nella reincarnazione. L’arcivescovo racconta di Gesù che affronta la morte e riscatta da essa con la risurrezione, il Dalai Lama si impegna nel descrivere «l’illuminazione che produce la meditazione sulla morte» e invita ad «allenare la nostra mente in preparazione a essa». I due appaiono pronti alla gioia avendo, entrambi, molto sofferto: l’uno con la fuga dal Tibet e un esilio interminabile, l’altro con la lotta all’apartheid e con il tumore alla prostata ormai incurabile. Ambedue hanno ricevuto il Nobel per la pace. In queste pagine i due amici «appartenenti a mondi del tutto diversi» raccontano quello che hanno appreso nella battaglia della vita. Il dibattito è godibile. Ognuno dei due considera l’altro «il suo dispettoso fratello spirituale». Concordano che avremmo bisogno di un «amore incondizionato per l’intera umanità, quale che sia l’atteggiamento altrui verso di noi». Affermano a una voce che «i nostri nemici sono pur sempre fratelli e sorelle e meritano anche loro il nostro affetto: dovrai resistere alle azioni dei tuoi nemici, ma puoi amarli come fratelli e sorelle». Per conseguire la gioia - ammonisce il monaco - non basta «allenare la mente» ma occorre renderla immune: «l’immunità mentale rende meno suscettibili a pensieri e sentimenti negativi». L’arcivescovo invita a «confidare nell’amore di Dio che ti avvolge e ti vuole pieno di gioia». La ricerca a due sbocca nella presentazione degli «otto pilastri della gioia», svolti in distinti capitoletti: prospettiva, umiltà, umorismo e accettazione, indulgenza, gratitudine, compassione, generosità. «Vedere le tragedie come un’opportunità» sintetizza il buddista. Guardare con «l’occhio di Dio» gli fa eco il cristiano. Il libretto è didascalico. Se leggiamo lentamente qualcosa apprenderemo da chi ha molto visto e gioito. Pag 31 Il cambio di passo sui migranti, sfida di una sinistra riformista di Goffredo Buccini L’ultima viene da Calizzano, Liguria. Il sindaco di centrodestra del paesino ha invitato quaranta migranti, collocati dalla prefettura in un hotel del posto, a non usare i bus negli orari in cui gli studenti vanno a scuola. E certo l’«invito» ha un brutto retrogusto segregazionista, come dice il Pd regionale. Ma è anche vero che Calizzano è stato un Comune virtuoso nell’accoglienza, i migranti dovevano essere la metà, tensioni soprattutto con le studentesse ce n’erano: forse il problema non si risolve negandolo, ma magari con bus più frequenti, e meno affollati, e/o full immersion di educazione civica. C’è insomma una questione ben più grave del referendum del 4 dicembre a mettere in discussione la tenuta stessa della nostra democrazia: un’ondata migratoria da 150 mila persone l’anno, mille e mille Calizzano in arrivo. Per la sinistra riformista girarsi dall’altra parte significa lasciare, da un lato, al benaltrismo della sinistra massimalista (il vero problema non è il bus tra calca e imprecazioni ma l’eredità del colonialismo...) e, dall’altro, alla xenofobia della destra identitaria la gestione della sicurezza, vera o percepita, tema centrale della convivenza. Non si tratta di «copiare un po’» gli xenofobi, la gente alla fine sceglierebbe l’originale. Ma di prosciugare l’acqua dove nuotano: la paura, che ha contagiato l’Inghilterra della Brexit, l’Ungheria di Orbán, l’Austria appesa a un filo, la Francia e la Germania che s’accostano a un 2017 elettorale dove, inutile illuderci, i partner europei, alle prese con le loro grane, ci lasceranno soli. La mitica redistribuzione dei profughi s’è rivelata una fola per bambini. I migranti ci servono. Pagano già le nostre pensioni e, senza di loro, da adesso alla metà del secolo, la popolazione italiana calerebbe di alcuni milioni e sarebbe composta soprattutto di vecchi. Ma bisogna trovare il modo di farli stare con noi, non contro di noi. Il punto è stato colto a sinistra soprattutto dai sindaci, che vivono certi attriti sulla pelle. Giuseppe Sala a

Milano ha strappato il velo chiedendo al governo «un cambio di passo». Prima di lui, ma da un palco meno visibile, Vicenza, lo aveva fatto Achille Variati («stiamo trasformando un popolo di disperati in un popolo di clandestini»). Piero Fassino ha parlato di «superamento della soglia governabile»: «Rischiamo di essere travolti». A Genova un autocandidato sindaco, il pd Simone Regazzoni, teme che, lasciando i vicoli del centro fuori controllo, la prossima tornata elettorale sarà un’ecatombe e s’è messo a incalzare il sindaco Doria perché affronti il «tabù». Pagine Face book come «Di sinistra e antirazzista ma contro l’invasione straniera» fanno capire quanto il sentimento popolare rischi di sterzare anche la base democratica verso parole d’ordine e semplificazioni salviniane. Come per il bus di Calizzano, la sinistra riformista ha davanti un ventaglio di interventi razionali, e due bussole: legalità e integrazione. Anzitutto, l’adesione al sistema Sprar, l’accoglienza diffusa, non può essere più solo su base volontaria: è deflagrante che duemila Comuni virtuosi si facciano carico dei restanti seimila, pericoloso il contenzioso prefetto-sindaco che spesso ne deriva. Insediamenti minimi, parametrati alla popolazione residente ma a carico di tutti (Alfano ha ragione sul punto), possono essere facilitati portando i migranti al lavoro: allentando il patto di Stabilità (come per il terremoto) per quei Comuni che li inseriscano in occupazioni socialmente utili creando senso di comunità con i residenti. Va snellito l’iter di accettazione-espulsione, magari limitando la possibilità di appello. Ora il limbo può durare anni, troppi fuggono o diventano braccia per la malavita (l’Ismu stimava in 400 mila gli irregolari nel 2015): un sistema amministrativo efficiente è la base di una politica migratoria seria, che ovviamente passi anche attraverso gli accordi bilaterali. «Rimandiamoli indietro» (ineffabile slogan leghista) non vuol dire nulla, a meno che non si voglia abbandonarli in mare o ricacciarli nel deserto libico da cui sono scappati a rischio della vita. Abbiamo accordi bilaterali con quattro Paesi al momento, Tunisia, Nigeria, Egitto, Marocco. Dobbiamo averne con una dozzina, incentivando le intese economicamente. È il Migration compact renziano, che s’è perso per strada. I rimpatri devono essere più veloci e sicuri, l’apprendimento della nostra lingua e della nostra educazione civica condizione di permanenza. E tuttavia uno Stato lungimirante deve dare un segnale al futuro, varando subito la legge sulla cittadinanza delle cosiddette seconde generazioni (i figli dei migranti), bloccata da un anno in Senato a causa di ottomila emendamenti leghisti. Sono questi nuovi italiani, che qui studiano, lavorano e mediano tra culture, il bus da non perdere: perché avanti c’è posto. LA REPUBBLICA Pag 1 L’ombra dell’Apocalisse di Massimo Giannini Io sono l'ultima barriera tra voi e l'Apocalisse", dice Hillary Clinton agli americani a un mese dalle elezioni presidenziali. Fatte le debite proporzioni, è la stessa cosa che Matteo Renzi dice agli italiani a meno di due mesi dal referendum costituzionale. Nulla a che vedere con quel "potere minaccioso" di cui, con imperdonabile e quasi grottesca esagerazione, parla Massimo D'Alema. Manca solo l'accusa al "Pinochet del Venezuela" evocato da Di Maio, e poi lo sciocchezzaio del nuovo, tragicomico "tripolarismo" all'italiana è completo. La verità è che la campagna elettorale del presidente del Consiglio, in vista del voto del 4 dicembre, è un paradosso nel paradosso. Ha commesso un peccato originale, ri-politicizzando un quesito anti-politico e trasformando una riscrittura della Carta in un'ordalia su se stesso. Ha riconosciuto l'errore, annunciando "basta personalizzazioni, torniamo al merito". Ma ora l'intera macchina della propaganda referendaria gira intorno alla sua persona, tra maratone televisive, pellegrinaggi aziendali e convegni promozionali. Il premier è il messaggio, al di là o a dispetto delle intenzioni. Era inevitabile che accadesse, per come la battaglia è cominciata prima dell'estate e per come sta evolvendo in questo autunno. Renzi ha solo due armi per convincere quel 30 per cento di italiani che ancora non sanno come votare sul nuovo "Senato dei 100", e che secondo i sondaggisti decideranno solo nelle ultime due settimane prima del voto. La prima arma è se stesso: il suo governo come "unico argine contro i populismi" (la moderna Apocalisse, appunto, dove le élite in cerca di rilegittimazione scaricano giustamente, ma a volte troppo frettolosamente, tutti i nemici: da Trump a Orban, da Grillo a Salvini). Questo "cadornismo" referendario riposa su un assunto altrettanto populista, ma di presa sicura: votate sì, per mandare a casa i

senatori fannulloni e per tagliare i "costi della casta". Un'offerta che non si può rifiutare. Da proporre a un Paese stressato ("Se non cambiamo adesso non cambieremo mai più") e da opporre alla minoranza di un Pd lacerato ("Non si può tenere ferma l'Italia per tenere unito il partito"). Assiomi forti, politicamente e mediaticamente. Ma indimostrabile l'uno (chi ha detto che "dopo" non si possa cambiare?) e insostenibile l'altro (chi ha detto che correggendo l'Italicum si ferma l'Italia?). Poco importa. La narrazione renziana, oggi più che mai, non contempla il dubbio, ma solo una cieca fiducia nel narratore, che riassume in sé tutto quello che serve (la falce della rottamazione, il martello della modernizzazione) e tutto quello che non serve più (l'identità della sinistra novecentesca, la ritualità della democrazia "bicamerale"). Questa arma di Renzi (Renzi medesimo) è tagliente. Affonda facilmente nella carne tremula della minoranza Pd (che non ha saputo pronunciare al momento opportuno i "no che aiutano a crescere", e che oggi fatica a spiegare non alla mitica casalinga di Voghera, ma a qualunque italiano medio di buon senso, il suo no al famoso "combinato disposto"). Forse persino nella carne inerte della destra berlusconiana, alla quale punta platealmente a succhiare "sangue" elettorale. Ma rischia di non incidere abbastanza sulla carne viva del Paese. Perché Renzi stesso, vero e unico frontman del sì per i prossimi due mesi, è quello che può spostare i voti a favore, ma anche quello che rischia di polarizzarli contro. Perché i popoli, dalla Costituzione europea fino a Brexit (senza arrivare alla Colombia sulle Farc) hanno preso questa pessima abitudine di usare i referendum per votare contro qualunque forma di establishment, quasi "a prescindere". E perché soprattutto, al di là dei cambiamenti della Costituzione formale, quella che purtroppo non accenna a cambiare è la condizione materiale del Paese. Per questo Renzi deve usare la seconda arma, forse per lui più importante e decisiva: la prossima manovra economica. Questo spiega lo strappo consumato dal ministro Padoan con l'Ufficio parlamentare di bilancio sui numeri del Def. E forse anche quello minacciato dal premier in persona con la Commissione europea sul deficit del prossimo anno. L'esigenza redistributiva coincide con l'urgenza referendaria. Questo vuol dire che ci saranno non molte risorse, ma sparse a pioggia su molte categorie. Ci aspetta una legge di stabilità da 25 miliardi, di cui 13,3 in deficit e 8,5 di nuove entrate. Poco ai pensionati, poco ai dipendenti pubblici, poco alle famiglie, poco alle imprese. Un'occasione mancata. La settimana scorsa la Germania di Angela Merkel ha annunciato un piano di abbattimento delle imposte per 6-7 miliardi. Handesblatt, il quotidiano della comunità finanziaria tedesca, non ha fatto sconti alla Cancelliera, e ha titolato "Zwei Cappuccino In Monat": due cappuccini al mese. Da noi non saranno due cappuccini, ma magari tre pizze margherite. Forse bastano a vincere il referendum. Ma non certo a far ripartire l'economia. LA STAMPA Il boomerang della sterlina sulla Brexit di Francesco Guerrera «Le possibilità di sconfitta non ci interessano affatto. Per noi, non esistono». Servirebbero le parole della Regina Vittoria per aiutare la povera sterlina durante il divorzio in corso tra Regno Unito ed Europa. Era dai tempi proprio della vecchia regina che la moneta inglese non era caduta così in basso nei confronti delle valute dei partner commerciali britannici. Dal 1848, per essere precisi. E ci vorrà tutto la «stiff upper lip», il labbro rigido simboleggiato dalle parole di Vittoria, per superare la bufera economica scatenata dall’addio britannico all’Unione Europea. Le monete sono un po’ come le linee aeree nazionali. Non è obbligatorio che siano forti ma quando lo sono, l’orgoglio nazionale ci guadagna. E in questo momento, la sterlina è in caduta libera. È già ai livelli più bassi in più di trent’anni nei confronti del dollaro, vale meno di un euro in molti sportelli di cambio della Gran Bretagna (anche se il cambio ufficiale è ancora intorno a un euro e undici centesimi), e i trader continuano a dire che la valuta britannica continuerà a scendere. Il motivo è chiaro. Le parole dure della prima ministra Theresa May («La Brexit vuol dire Brexit», dice sempre la nuova dama di ferro) fanno pensare ai mercati che la rottura con l’Ue sarà netta, senza accesso al famoso mercato unico e con conseguenze pesanti per l’economia britannica. A dire il vero, c’è a chi un po’ di svalutazione non dispiace. Le società che esportano per esempio - ed è per questo che l’indice azionario-guida Ftse 100 sta andando bene - quelle che si fanno pagare in euro e

dollari e, ovviamente, i turisti europei, asiatici e americani. Sono stato ad Harrods di recente e il lussuoso grande magazzino di Londra sembrava il Maracanà quando gioca il Brasile. Ma invece dei tifosi un po’ trasandati carioca, nello stadio dello shopping c’erano le signore francesi stile Catherine Deneuve, le ragazze giapponesi che non riescono a non ridere, e le mogli di petrolieri arabi nascoste dietro a veli impenetrabili. Tutte pronte a usare le loro potenti divise per comprare vestiti, profumi e gioielli quotati in tartassati pound. I fautori del Brexit amano sentire storie di shopping e di stranieri e hanno ragione: le spese dei turisti, i loro pasti e notti alberghiere aiuteranno l’economia britannica. Ed è senz’altro vero che le esportazioni saliranno grazie alla sterlina debole. Ma non sarà abbastanza. I numeri non mentono: il Regno Unito ha un disavanzo commerciale notevole, ovverosia, importa più di quello che esporta. Una moneta debole non è una buona cosa in queste condizioni perché aumenta i prezzi delle importazioni, gonfia l’inflazione e riduce il potere di acquisto dei consumatori. E le esportazioni non possono colmare il margine perché sono meno di un terzo del prodotto interno lordo inglese, il resto è consumo, investimenti e altre attività che non sono aiutate da una moneta debole. Mark Carney il capo della Banca d’Inghilterra ha più volte ammonito, con una bella citazione di Tennesse Williams, che un’economia che dipende dalla «gentilezza degli altri» è sempre a rischio. Per ora, i rischi sono contenuti perché i flussi di capitale verso il Regno Unito sono molto forti, grazie al fatto che Londra è un centro mondiale della finanza. Ma cosa succederà dopo la Brexit, soprattutto se sarà una «Hard Brexit», la Brexit dura preferita dalla May? La banca centrale e il Tesoro britannico sono molto preoccupati anche perché non hanno lo strumento fondamentale per combattere speculatori e fautori della sterlina debole: i tassi d’interesse devono rimanere bassi per stimolare l’economia britannica. Si dice che Winston Churchill avesse scritto le parole immortali della Regina Vittoria su un pezzo di carta che consultava spesso nelle ore più buie della Seconda guerra mondiale. Carney e May si dovrebbero far portare carta e penna. AVVENIRE Pag 1 Chi piaga un popolo di Fulvio Scaglione La feroce “guerra per procura” in Siria Durante l’udienza generale in piazza San Pietro papa Francesco è voluto intervenire anche sulla tragedia della Siria. L’attenzione del Papa per la guerra che sta massacrando un Paese e un popolo è costante da anni. Mai, però, i toni erano stati tanto accorati, mai prima Francesco aveva manifestato la vicinanza ai siriani «implorando con tutta la mia forza» un cessate il fuoco che consenta «l’evacuazione dei civili, soprattutto dei bambini, che sono ancora intrappolati sotto i bombardamenti cruenti». Che sia successo ieri, durante un’udienza dedicata alle opere di misericordia quali antidoto ideale al «virus dell’indifferenza», è tutt’altro che un caso. Quella della Siria è esattamente e completamente una tragedia dell’indifferenza. Il problema politico esploso nel 2011 era reale ma non insuperabile, le contestazioni alla gestione del potere di Bashar al-Assad giustificate ma non irrisolvibili. Altrove, come in Giordania, Marocco, Tunisia, in circostanze simili o comunque paragonabili non si è arrivati a un tale massacro. La Siria, però, per una serie di ragioni politiche, economiche e geografiche, ha attirato attenzioni perverse che ad altri Paesi sono state risparmiate. Le speculazioni delle piccole potenze regionali (dalla Turchia all’Iran, all’Arabia Saudita) si sono incrociate con le strategie delle grandi potenze globali (Usa, Russia) che combattono quella «terza guerra mondiale a pezzetti» che proprio papa Francesco portò per primo all’attenzione di tutti. Il risultato è quello che abbiamo sotto gli occhi. Una sanguinosissima guerra per procura. Una tipica guerra contemporanea, in cui i contendenti più pericolosi sono quelli esterni, quelli che appunto hanno scelto di combattersi in casa d’altri e sulla pelle di altri, e in cui i civili sono le vere vittime, mentre i combattenti sono le «vittime collaterali ». Basta dare un’occhiata alle statistiche: nella prima guerra mondiale (1915-1918), le vittime civili sul totale furono circa il 16%; nell’invasione dell’Iraq (2003- 2008) sono state invece circa il il 90%. Ed è uno scenario che si ripete ovunque: i dati disponibili su quanto accade nello Yemen dipingono, infatti, un quadro anche peggiore. Nessuna crudeltà, nessun sacrificio in vite umane innocenti risulta però troppo grande per la partita del potere in cui sono impegnate così tante nazioni. È, appunto, il virus dell’indifferenza, quell’atteggiamento

per cui le persone sfumano in numeri, le tragedie in statistiche e le vittime vengono ricordate quasi solo se servono alle funzioni della propaganda. Uno o due bambini fanno il giro di Internet, ma centinaia e centinaia e centinaia di altri bambini caduti senza colpa sull’uno come sull’altro lato della barricata non vengono neppure citati. Il Papa è rimasto l’unico a preoccuparsi degli innocenti in quanto tali, l’unico ad avere davvero a cuore la sorte dei siriani. Nelle parole che Francesco ha usato per implorare un cessate il fuoco che dovrebbe consentire «l’evacuazione dei civili, soprattutto dei bambini », è inevitabile leggere una preoccupazione speciale e urgente per Aleppo, la città martire della Siria, da più di quattro anni campo di battaglia per scontri di rara ferocia. Anche in questo caso, l’indifferenza miete le sue vittime. Per tre anni la città ha subito l’offensiva dei ribelli e delle milizie islamiste senza che alcuno parlasse di «assedio». Da qualche mese, cioè da quando i governativi appoggiati dai russi sono passati all’offensiva, e soprattutto da quando hanno chiuso nella sacca dei quartieri Est i ribelli, gli islamisti e 250 mila persone, l’attenzione si è fatta vivissima. Intanto governativi e russi, che sentono vicina la riconquista della città intera, bombardano senza pietà, mentre ribelli e islamisti non si fanno scrupoli nell’usare i civili come uno scudo e un quadro pietoso da offrire ai media. L’inviato speciale Onu, Staffan de Mistura, aveva offerto alle truppe di al-Nusra un salvacondotto per uscire dai quartieri assediati, e quindi risparmiare sofferenze alla popolazione: i miliziani hanno rifiutato. Quindi le bombe continuano a cadere e ogni giorno uccidono siriani disarmati. È la politica. Quella però che ha perso il senno, quella che non è più per l’uomo, ma contro l’uomo. Quella che ogni giorno papa Francesco incalza, lui sì, in Siria e ovunque. Pag 22 Samir. L’islam recuperi il dialogo con l’attualità di Giorgio Paolucci Gesuita, filosofo, teologo, orientalista, islamista, studioso di lingue semitiche. Al suo attivo ha esperienze accademiche negli Stati Uniti, in Libano, Inghilterra, Germania, Francia, Austria, Belgio, Olanda e Italia, dove da oltre quarant’anni insegna al Pontificio Istituto Orientale. È autore di oltre 60 libri e di 1.500 articoli. Dietro l’impressionante curriculum di Samir Khalil Samir, 78 anni portati con leggerezza e grande dinamismo, sta un uomo affabile, curioso, gran tessitore di rapporti umani. Nella sua biografia la dimensione accademica e culturale si è spesso incrociata con incontri che hanno segnato la sua vita. In questa intervista, alla vigilia della consegna del Premio internazionale della cultura cattolica, ne scopriamo alcuni aspetti inediti, sorprendenti ed eloquenti. Come nasce la sua vocazione religiosa? «Sono il secondo di tre fratelli, tutti abbiamo frequentato il collegio Sacra Famiglia del Cairo, la mia città natale. Avevo otto anni quando ho sentito la chiamata al sacerdozio, ne ho parlato con i miei genitori che, vista la mia età, non hanno dato pe- so a quello che dicevo. Al termine del liceo sono tornato 'alla carica' dicendo che volevo entrare nella Compagnia di Gesù, ma mio padre rispose che ero troppo giovane e mi consigliò un’esperienza in Europa per ampliare i miei orizzonti: 'Se la vocazione viene da Dio non si spegnerà, in caso contrario significa che Dio non ti chiama'. Ho invitato a cena il padre rettore del collegio dei gesuiti e lui ha detto ai miei genitori: 'Certo l’appello di Dio non cambia, ma l’uomo può smettere di sentirlo'. Alla fine della conversazione mio padre si è arreso: 'Samir, segui l’appello di Dio'». Però in un certo senso lei ha ascoltato il consiglio di suo padre: in Europa c’è andato, entrando nel seminario gesuitico di Aix-en-Provence in Francia. «Già, era il 1955, avevo appena compiuto 17 anni. Mi sono buttato a capofitto negli studi, sono una persona curiosa e in quegli anni ho cominciato a scoprire mondi affascinanti, e ho capito che avrei dovuto conoscere bene l’islam, visto che provenivo da un Paese dove il 90 per cento della popolazione è musulmana. Ho approfondito la conoscenza del Corano, poi, dato che alcuni dei migliori studiosi europei erano tedeschi, sono andato in Germania e ho imparato da solo la lingua tedesca, il lasciapassare necessario per addentrarmi in quel mondo. E lì accadde un fatto che ha segnato per sempre la mia vita». Cosa accadde esattamente? «Nell’agosto 1962 mi trovavo nella biblioteca statale di Monaco di Baviera per approfondire lo studio di Al-Ghazali, grande pensatore musulmano, su cui stavo preparando la tesi di dottorato. Un benedettino siriacista mi disse: 'Perché lei che viene

dall’Egitto non studia il cristianesimo arabo? È un mondo tanto sconosciuto quanto ricco, le assicuro che sarà un’avventura affascinante...'. E per incoraggiarmi mi portò un’opera in 2400 pagine sulla letteratura araba cristiana. Fu una scoperta inattesa. Mano a mano che approfondivo l’argomento mi sentivo erede di una tradizione ricchissima, che aveva fecondato l’Egitto e tanta parte del Medio Oriente». In effetti nella mentalità corrente c’è un’equivalenza tra mondo arabo e islam, anche se gli arabi cristiani sono valutati in 13-15 milioni... «I cristiani erano presenti in Nordafrica e Medio Oriente prima dell’avvento dell’islam, hanno conservato le loro radici identitarie e insieme hanno saputo trovare forme di convivenza con i musulmani pur diventando minoranza, hanno conosciuto la profonda religiosità di tanti seguaci di Maometto e insieme i limiti del Corano e della civiltà islamica. Ma soprattutto hanno trasmesso al mondo arabo- islamico l’ellenismo (la filosofia, la medicina, le matematiche) oltre al pensiero patristico. Quando nel 1968 sono tornato dalla Francia in Egitto ho avviato un centro di ricerche e una biblioteca in cui raccoglievo libri sul patrimonio arabo cristiano, che però nel 1972 è andato distrutto in un incendio, a causa di alcune sigarette di studenti rimaste accese. In pochi minuti ho perso tutto: libri, manoscritti, e soprattutto molti appunti. In quegli anni ho creato centri di alfabetizzazione per giovani e donne, insegnando pure la teologia arabo-cristiana al Cairo e in 3 università libanesi. Nel 1973 sono stato invitato a insegnare al Pontificio Istituto Orientale di Roma e sono venuto nel 74 per 4 mesi, che sono diventati 42 anni». Poi nel 1986 ha fondato in Libano il Cedrac (Centro di Documentazione e Ricerche Arabo-Cristiane), grazie all’aiuto di molti benefattori, che è ancora l’unico centro al mondo per il patrimonio arabo- cristiano. «Oggi la biblioteca del Cedrac ha 36 mila volumi e circa mille microfilm di mano-scritti. Soprattutto dall’ottavo al tredicesimo secolo i cristiani hanno dato un contributo di prim’ordine alla cultura araba, anche se, nel pensiero dominante, arabo è sinonimo di musulmano. Più tardi, nel 1800, il contributo dei cristiani è stato determinante nella costruzione del nuovo rinascimento arabo». Lei è un grande conoscitore dell’islam e coltiva molte amicizie tra i musulmani. Come giudica l’attuale momento del mondo islamico? «L’islam è una grande civiltà che sta attraversando la sua crisi più grave, dovuta alla crescita delle correnti radicali ispirate al wahhabismo e al salafismo, sostenute finanziariamente e politicamente dall’Arabia Saudita e dal Qatar e che sono la radice profonda a cui si ispirano le organizzazioni fondamentaliste nate negli ultimi novant’anni, a partire dai Fratelli musulmani fino ad al-Qaeda e all’Is. Le cause di questa crisi sono l’interpretazione letterale del Corano, l’applicazione meccanica dei principi introdotti da Maometto nel settimo secolo, ma soprattutto l’emarginazione della ragione che ha portato alla degenerazione della fede e al decadimento dell’esperienza religiosa in una ideologia di sopraffazione e di violenza». Come si può superare questa crisi? «Si deve riconciliare la fede con la ragione, favorire l’interpretazione del Corano e opporsi alla sua applicazione letterale, considerare la modernità come un’opportunità con cui misurarsi e non come una minaccia, valorizzare la dimensione religiosa spurgandola dalle contaminazioni politiche e ideologiche. È un lavoro che deve partire dalle scuole, dalle università e dagli imam; molti lo stanno già facendo, anche se sono una componente ancora minoritaria». La presenza di milioni di musulmani emigrati in Europa può rappresentare una chance? «Molti di coloro che sono arrivati da voi in anni recenti erano imbevuti di pregiudizi antioccidentali. Il vostro mondo viene visto come qualcosa di corrotto e impuro, come la negazione della dimensione religiosa (e spesso non hanno tutti i torti!). Anche per questo in tanti rifiutano di integrarsi. Ma il rispetto della diversità non può diventare un alibi per sottrarsi all’obbedienza dovuta alle leggi, che è un principio imprescindibile, alla base di qualsiasi patto di convivenza. Ciò tuttavia non basta: sono convinto che questa epoca sia una grande opportunità per i cristiani d’Occidente, per offrire a tutti il tesoro ricevuto, il Vangelo, per testimoniare che l’altro è un bene e non una minaccia, che la cultura dell’incontro, continuamente evocata da Papa Francesco, è la risorsa a cui attingere per imparare a vivere insieme, nel rispetto reciproco e nell’emulazione. Tutti siamo chiamati a una contaminazione virtuosa, che non potrà lasciarci indenni. Del resto, Gesù Cristo è stato... un grande contaminatore».

IL GAZZETTINO Pag 1 I cattivi esempi che nutrono l’antipolitica di Sebastiano Maffettone Nella serie televisiva West-World, tratta da uno script di Michael Crichton, i protagonisti sono rigidamente divisi in due categorie: i residenti e gli ospiti. Solo contatti superficiali sono possibili tra i membri delle due categorie. Più o meno la stessa divisione netta e incomunicabilità profonda divide agli occhi dei fautori dell’antipolitica il ceto politico dalla società civile. Per costoro, che criticano tutte le forme rituali della politica condivisa, la classe politica è infatti corrotta e incapace, se non addirittura spregevole. La società civile è invece efficiente e austera, forse anche ammirevole. Personalmente, nutro una convinta sfiducia in una distinzione così netta. Mi sembra impossibile che, nello stesso Paese - diciamo l’Italia - vivano fianco a fianco due razze e tipologie tanto diverse tra loro. Corrisponde forse al desiderio di vedere tutto in bianco o nero come in una favola, ma di certo non alla realtà. Se poi si aggiunge che in democrazia bene o male è la società civile che elegge il ceto politico, il moralismo populista dell’antipolitica militante appare ancora più assurdo. Concesso quanto si deve alla verità, ci si dovrà pur chiedere come mai tante persone, spesso di buon senso e con rette intenzioni, diano il loro consenso all’antipolitica. Lo si può constatare in tutto l’Occidente come mostra l’attualità di Paesi leader, dall’Inghilterra del dopo-Brexit agli Stati Uniti di Donald Trump. Scontato che il motivo principale del successo sia l’inefficienza della politica tradizionale, bisogna domandarsi se sotto l’antipolitica - al di là dei difetti evidenti, di cui si è in parte detto - ci sia qualcosa di utile per la comunità. Non è facile sapere dove si cela tale utilità sociale, ma se dovessi dirlo in una sola frase direi nella richiesta di “un parziale ritiro della politica in nome delle competenze settoriali”. Così presentata, la tesi rischia di confondere ancora di più le idee invece di chiarirle. Per evitare un esito del genere, parto dall’assunto che la complessità crescente della società attuale rende difficile se non impossibile al ceto politico comprendere a fondo molti dei problemi specifici sui quali pure deve legiferare. Con quali strumenti il malcapitato deputato potrà capire le esigenze che derivano dall’operato di Marchionne, dallo stato attuale del cinema italiano o dai bisogni urgenti del sistema sanitario? Eppure, capendo o non capendo, dovrà alla fine di un processo più o meno virtuoso legiferare in proposito. Sto sostenendo che gli effetti non prevedibili dell’antipolitica possano dare risposta a domande di questo tipo. Da notare, che la risposta in questione non può consistere nel diffondersi della deliberazione via web. Quest’ultima ha, come è evidente, un effetto positivo in termini di partecipazione, nel senso che più persone e più società civile si accostano al problema politico su cui di volta in volta occorre decidere; ma questa partecipazione è essenzialmente quantitativa, non qualitativa. Il web, come abbiamo già avuto modo di scrivere sulle pagine di questo giornale, orizzontalizza tutto e nel suo spazio l’opinione dell’uomo della strada sulla relatività generale vale quanto quella di un professore di fisica teorica. In questo modo, la deliberazione via web - nonostante il vantaggio in termini di aumentata partecipazione - non è che una ripetizione up to date della retorica tradizionale dell’antipolitica contro ogni forma di autorevolezza, e come tale non serve a molto. Servirebbe piuttosto un intervento di qualità, una sorta di inserimento progressivo delle competenze della società civile nel processo di formazione della volontà politica. Se ci si riflette, ciò che spesso infastidisce l’opinione pubblica è l’ignoranza sullo specifico del ceto politico congiunta alla sua pretesa di occupare posizioni rilevanti in ambiti significativi. Per tornare agli esempi già fatti, un serio intervento legislativo nella finanza, nella sanità e nella cultura presuppone uno sforzo del ceto politico. Tale sforzo consiste essenzialmente nella volontà e nella capacità di intercettare competenze rilevanti - che non vuol dire ricorrere a governi “dei professori” ma solo difendere lo spazio della politica - negli ambiti in cui si opera. Quello che spesso sconcerta il pubblico è il disinteresse della politica per il contenuto specifico dei settori di volta in volta toccati cui spesso si unisce una certa arroganza. Per essere meno sotto accusa, il ceto politico dovrà dismettere invece l’ignoranza e l’arroganza. L’antipolitica per la verità non è particolarmente incline a prendere sul serio il ruolo delle élites professionali e tecniche. Anzi spesso e volentieri indulge nel qualunquismo populistico che è all’opposto di ciò. Ma può avere il risultato che auspichiamo come un effetto indiretto, costringendo il ceto politico sulla difensiva e obbligandolo a essere più sensibile

alle istanze della società civile. Qualora così non fosse, temo dovremmo arrenderci all’idea che il ceto politico attuale scomparirà. Pag 1 Italiani del Sud, da Londra arrivano le scuse di Mario Ajello Gli inglesi non sopportavano i Borbone: «Negazione di Dio», li definì Gladstone. E la Gran Bretagna, come si studia nelle nostre scuole, fu assai favorevole all’Unità d’Italia del 1861. Dunque, adesso, oltre che penoso e vergognoso per l’Inghilterra, è anche paradossale che proprio laggiù venga restaurato, in chiave anti-italiana, il Regno delle Due Sicilie. Non c’è nulla di più anti-storico, con in più una buona dose di ignoranza e di razzismo, nella vicenda del modulo per l’iscrizione scolastica in cui le autorità inglesi chiedono ai nostri emigrati di che tipo di etnia siano i loro figli: «Italian», «Italian Any Others», «Italian Napolitan» (ed evidentemente gli inglesi non sanno che in inglese si dice «neapolitan» con la «e») e «Italian Sicilian»? Come se gli italiani del Sud fossero i nuovi paria agli occhi degli inglesi e il nostro Mezzogiorno, che i britannici erano soliti invidiare per la sua centralità nel Mar Mediterraneo, fosse la terra dell’«hic sunt leones». Poi il governo di Londra si è scusato con noi ma il caso resta. Verrebbe da dire che dietro questo episodio pazzesco ci sia quel 52 per cento di inglesi che hanno scelto l’uscita dall’Europa nel giugno scorso e sono per lo più anziani che, come prima pulsione isolazionista, se la prendono con i bambini. Di sicuro questa trovata, che dovrebbe suscitare l’indignazione non solo dell’ambasciatore italiano ma dell’intero governo a cominciare dal presidente del Consiglio, svela quanto il voto sulla Brexit sia stato motivato da umori profondi che agitano la pancia dell’Inghilterra e che l’ex premier Cameron, accecato da personali ragioni politiciste, non ha saputo vedere. Prendersela con i figli dei nostri emigrati, con gli studenti, con quelle generazioni già di fatto globalizzate, e applicare a loro il rigurgito isolazionista, il mito vetero-conservatore e in fondo nichilista della piccola patria, e proprio da parte di chi è stato un grande impero multirazziale, rappresenta una vergogna nella vergogna. E contiene tutto l’abisso in cui sembra precipitato il Regno Unito. Dove la calma è scarsa. La politica sta implodendo. L’economia è incerta. Così come lo è il futuro degli inglesi fuori dalla Ue. Che nel voto della Brexit è stata rifiutata in blocco ma certe aree geografiche del continente e i popoli che le abitano sono evidentemente più detestabili di altre secondo i nuovi paladini Britain First. Di questa sorta di apartheid applicato a se stessi e inflitto in questo caso ai napoletani e ai siciliani del tutto immeritevoli di questo trattamento. Che viene da vicino ma si porta dietro i più vieti pregiudizi tradizionali del tipo: italian spaghetti, italian mafia, italian corruption, italian dishonesty. Quando fu scelta la Brexit, gli italiani si sentirono traditi nel loro amore per l’Inghilterra. E alla luce di questo episodio, non da Great Britain ma da Little Britain, avevano ragione. Ora le giustificazioni del governo londinese hanno il sapore del posticcio. E sostenere che i vari marchi etnico-territoriali applicati agli italiani riguardino solo gli aspetti linguistici e non quelli razziali non va bene lo stesso. Perché gli inglesi dovrebbero sapere che anche la lingua in Italia è unitaria, dopo i tanti sforzi di alfabetizzazione compiuti in 150 anni e più, e se il napoletano e il siciliano siano veri e propri idiomi e non semplici dialetti non può certo stabilirlo una preside del Galles. C’è da dire però che, indirettamente, anche noi italiani abbiamo qualche responsabilità nel fatto che veniamo dipinti come un Paese disomogeneo e troppo pieno di differenze tra il Nord e il Sud. Il divario economico-sociale tra le due parti della Penisola, in questi anni, non è diminuito ma aumentato. La questione meridionale non è più da tempo in cima all’agenda della politica, se non per iniziative episodiche. E il leghismo e la propaganda devoluzionaria hanno contribuito a dare dell’Italia all’estero un’immagine di disunità che comunque, al di là dei limiti appena notati, non corrisponde affatto alla realtà. Se non nello sguardo annebbiato degli inglesi che, incerti e spaesati ormai rispetto alla propria identità, fanno orrende schedature su quella degli altri. Torna al sommario