Rassegna stampa 10 ottobre 2016...2016/10/10  · Pag 23 Una messa in memoria di tutte le vittime....

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RASSEGNA STAMPA di lunedì 10 ottobre 2016 SOMMARIO “La Chiesa del Papa: 17 nuovi cardinali fautori del dialogo”: così Andrea Tornielli e Giacomo Galeazzi commentano sulla Stampa l’annuncio dei nuovi cardinali. “Diciassette nuovi cardinali – osservano -, tredici con meno di ottant'anni e dunque elettori in un eventuale conclave, più quattro ultraottantenni. È la nuova «infornata» di porpore annunciata ieri all'Angelus dal Papa per il 19 novembre. Riceve la berretta rossa, con una scelta inedita, il nunzio apostolico Mario Zenari, che vive a Damasco e non ha voluto abbandonare la popolazione siriana sotto le bombe. Insieme con lui anche il «leone di Bangui», il coraggioso arcivescovo della capitale del Centrafrica, che ha sfidato la guerriglia guidando una processione oltre i check-point del quartiere Km5 controllato dalle milizie islamiste. E riceve la porpora anche don Ernest Simoni, un prete albanese quasi novantenne, rinchiuso per 27 anni nei campi di prigionia del regime comunista. Tra le sorprese, l'assenza di vescovi residenziali italiani in carica: Francesco ha inserito nell'elenco soltanto il vescovo emerito di Novara Renato Corti, ultraottantenne. Cinque dei nuovi cardinali sono europei, quattro dell' America del Nord (tre statunitensi e uno del Messico), due dell'America del Sud, tre dell'Africa, due dell'Asia e uno dell'Oceania. Confermata ancora una volta l'attenzione di Francesco per le periferie: 7 le nazioni che non avevano cardinali, di queste 4 avranno porporati elettori (Centrafrica, Bangladesh, Mauritius e Papua Nuova Guinea), 3 con non elettori (Malaysia, Lesotho e Albania). Con la scelta senza precedenti negli ultimi decenni di creare cardinale un nunzio apostolico lasciandolo nella sua sede, Francesco intende premiare Mario Zenari per non aver voluto abbandonare la popolazione siriana, riuscendo a dialogare sia con Assad che con i suoi oppositori. Colpisce poi l'assenza di porporati residenziali italiani: non ottengono la berretta i titolati delle diocesi un tempo considerate cardinalizie come Torino, Venezia, Bologna o Palermo. Ma neppure altre diocesi, come invece era accaduto nel 2014, con la nomina dell'arcivescovo Gualtiero Bassetti (Perugia); e nel 2015 con la berretta all'arcivescovo Edoardo Menichelli (Ancona). Il Papa ritiene che, nonostante la sua storia importante, il nostro Paese abbia avuto finora troppi cardinali: un numero così alto di diocesi guidate da porporati era un retaggio degli Stati precedenti all'unità d'Italia. Un altro dato significativo sono le tre porpore statunitensi, dopo che per due concistori gli States non avevano visto loro rappresentanti creati in concistoro. La berretta per Farrell, Prefetto del nuovo dicastero curiale, era la più prevedibile, a motivo dell'incarico appena affidatogli. Farrell, un moderato, da arcivescovo di Dallas, in un'intervista con «La Stampa» aveva usato parole dure sul candidato repubblicano Donald Trump: «È oltraggioso, quando dice che i messicani sono tutti stupratori e trafficanti di droga». Insieme con lui diventano cardinali Blase Cupich e Joseph William Tobin. Nel primo caso si tratta del vescovo di una delle più importanti diocesi nordamericane, Chicago. Un prelato che è in totale sintonia con il Pontefice e che non era mai entrato nella rosa dei candidati per la grande metropoli del Midwest, dove Bergoglio lo ha designato due anni fa. Nel secondo caso, la porpora ha quasi il sapore di una riabilitazione: Tobin venne infatti allontanato da Roma e nominato a Indianapolis dopo essere stato per appena due anni segretario della Congregazione per i religiosi. Era considerato troppo dialogante con le suore progressiste statunitensi. È evidente dunque la volontà del Papa di promuovere vescovi capaci di dialogo, che non corrispondono all'identikit dei «cultural warriors», capaci di impegnarsi non soltanto nelle pubbliche battaglie pro-life o contro le nozze gay ma anche di alzare la voce di fronte ai problemi della giustizia sociale e dell'immigrazione. Nel settembre 2015, durante il viaggio negli Usa, Francesco disse ai vescovi di non usare un «linguaggio bellicoso» né di limitarsi solo ai «proclami», cercando invece di «conquistare spazio nel cuore degli uomini» senza mai fare della croce «un vessillo di lotte mondane»”.

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RASSEGNA STAMPA di lunedì 10 ottobre 2016

SOMMARIO

“La Chiesa del Papa: 17 nuovi cardinali fautori del dialogo”: così Andrea Tornielli e Giacomo Galeazzi commentano sulla Stampa l’annuncio dei nuovi cardinali.

“Diciassette nuovi cardinali – osservano -, tredici con meno di ottant'anni e dunque elettori in un eventuale conclave, più quattro ultraottantenni. È la nuova «infornata» di porpore annunciata ieri all'Angelus dal Papa per il 19 novembre. Riceve la berretta rossa, con una scelta inedita, il nunzio apostolico Mario Zenari, che vive a Damasco e

non ha voluto abbandonare la popolazione siriana sotto le bombe. Insieme con lui anche il «leone di Bangui», il coraggioso arcivescovo della capitale del Centrafrica,

che ha sfidato la guerriglia guidando una processione oltre i check-point del quartiere Km5 controllato dalle milizie islamiste. E riceve la porpora anche don Ernest Simoni, un prete albanese quasi novantenne, rinchiuso per 27 anni nei campi di prigionia del regime comunista. Tra le sorprese, l'assenza di vescovi residenziali italiani in carica: Francesco ha inserito nell'elenco soltanto il vescovo emerito di Novara Renato Corti, ultraottantenne. Cinque dei nuovi cardinali sono europei, quattro dell' America del Nord (tre statunitensi e uno del Messico), due dell'America del Sud, tre dell'Africa,

due dell'Asia e uno dell'Oceania. Confermata ancora una volta l'attenzione di Francesco per le periferie: 7 le nazioni che non avevano cardinali, di queste 4

avranno porporati elettori (Centrafrica, Bangladesh, Mauritius e Papua Nuova Guinea), 3 con non elettori (Malaysia, Lesotho e Albania). Con la scelta senza precedenti negli ultimi decenni di creare cardinale un nunzio apostolico lasciandolo nella sua sede,

Francesco intende premiare Mario Zenari per non aver voluto abbandonare la popolazione siriana, riuscendo a dialogare sia con Assad che con i suoi oppositori. Colpisce poi l'assenza di porporati residenziali italiani: non ottengono la berretta i

titolati delle diocesi un tempo considerate cardinalizie come Torino, Venezia, Bologna o Palermo. Ma neppure altre diocesi, come invece era accaduto nel 2014, con la nomina dell'arcivescovo Gualtiero Bassetti (Perugia); e nel 2015 con la berretta

all'arcivescovo Edoardo Menichelli (Ancona). Il Papa ritiene che, nonostante la sua storia importante, il nostro Paese abbia avuto finora troppi cardinali: un numero così

alto di diocesi guidate da porporati era un retaggio degli Stati precedenti all'unità d'Italia. Un altro dato significativo sono le tre porpore statunitensi, dopo che per due

concistori gli States non avevano visto loro rappresentanti creati in concistoro. La berretta per Farrell, Prefetto del nuovo dicastero curiale, era la più prevedibile, a

motivo dell'incarico appena affidatogli. Farrell, un moderato, da arcivescovo di Dallas, in un'intervista con «La Stampa» aveva usato parole dure sul candidato repubblicano

Donald Trump: «È oltraggioso, quando dice che i messicani sono tutti stupratori e trafficanti di droga». Insieme con lui diventano cardinali Blase Cupich e Joseph

William Tobin. Nel primo caso si tratta del vescovo di una delle più importanti diocesi nordamericane, Chicago. Un prelato che è in totale sintonia con il Pontefice e che non

era mai entrato nella rosa dei candidati per la grande metropoli del Midwest, dove Bergoglio lo ha designato due anni fa. Nel secondo caso, la porpora ha quasi il sapore

di una riabilitazione: Tobin venne infatti allontanato da Roma e nominato a Indianapolis dopo essere stato per appena due anni segretario della Congregazione per i religiosi. Era considerato troppo dialogante con le suore progressiste statunitensi. È

evidente dunque la volontà del Papa di promuovere vescovi capaci di dialogo, che non corrispondono all'identikit dei «cultural warriors», capaci di impegnarsi non soltanto nelle pubbliche battaglie pro-life o contro le nozze gay ma anche di alzare la voce di fronte ai problemi della giustizia sociale e dell'immigrazione. Nel settembre 2015, durante il viaggio negli Usa, Francesco disse ai vescovi di non usare un «linguaggio

bellicoso» né di limitarsi solo ai «proclami», cercando invece di «conquistare spazio nel cuore degli uomini» senza mai fare della croce «un vessillo di lotte mondane»”.

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“Un piccolo dettaglio svela qualcosa sulla creazione cardinalizia di ieri – commenta Alberto Melloni sulla Repubblica di oggi -. Dopo un'ora dall'annuncio dato all'Angelus, i

siti del Vaticano e molti media non davano ancora l'elenco delle nuove berrette. Berrette che saranno imposte ai prescelti nel concistoro del 19 novembre. Segno che la lista letta da Francesco non aveva circolato molto e che un annuncio a sorpresa ha messo in imbarazzo la macchina dell'informazione che la domenica mattina si aspetta il ricordo dei migranti e dei poveracci del mondo che il Papa non può dismettere e il mondo non sa ascoltare. La cosa non deve sorprendere. Ogni Papa - Francesco non fa eccezione - usa la prerogativa di scegliere i cardinali come uno strumento di governo, di obbedienza alle norme canoniche sul conclave che eleggerà il suo successore e di

comunicazione. Fare i cardinali - entrare cioè in quella parte del clero dell'urbe a cui spetta da dieci secoli il compito di eleggere il vescovo di Roma quando la sede rimane vacante e che ha il diritto/ dovere di parlargli come fossero fratelli - è una prerogativa tale per cui viene definita tecnicamente "creazione". Nessuno può dire al Papa chi o

quando o come creare, e sul quanto le vigenti regole che fanno decadere dal diritto di votare in conclave gli ultra-ottuagenari consenta di prevedere e giostrare. Una prassi secolare aveva però individuato alcune diocesi (dette "sedi cardinalizie") in cui il Papa nominava vescovo chi voleva far cardinale. E aveva introdotto il principio che le più alte funzioni di curia davano la "berretta" (il simbolo del cardinale è il loro cappello). Francesco non ha innovato nulla in curia. I capi dei grandi organi curiali sono cardinali (anche il prefetto della dottrina della fede che Ratzinger scelse e castigò negandogli la porpora e che Francesco ha "creato", pur essendo in molti ambiti su posizioni opposte

a quelle del papa): anche l'ultimo prefetto, nominato con la mini-riforma che ha sommato vari uffici in una congregazione dei laici, diventerà cardinale al prossimo concistoro. Papa Bergoglio non ha molto innovato nelle grandi sedi cardinalizie del

mondo, dove ha se mai introdotto qualche attesa: fatto sta che da ieri Brasilia, Bruxelles, Chicago e Madrid hanno un cardinale arcivescovo. Invece (e l'Italia è fra due

fuochi), se sospetta che qualche sede prestigiosa sia stata ottenuta in una logica di cordata o che un Paese abbia troppi cardinali, non dà altri cappelli. Francesco salta

invece ogni usanza quando vuole che diano voce alle realtà dimenticate e alle "periferie" della chiesa. Come ha fatto anche ieri, con otto porpore ad elettori che

sono come bandierine della sua geografia interiore: il nunzio in Siria, unico elettore italiano; l'arcivescovo di Bangui dove aprì il giubileo un anno fa; e poi gli arcivescovi di

Dhaka in Bangladesh, Merida del Venezuela, Port Louis nella Isola Maurizio, Tlalnepantla in Messico, Port Moresby in Papua e Indianapolis negli Usa. E anche il

cardinalato onorario a quattro vescovi emeriti di Malesia, Lesotho, Albania e all'italiano Corti (uno degli ausiliari milanesi che non diventò mai successore di

Martini) dà la stessa impressione. Dire che cambiano le proporzioni geografiche del collegio elettorale è ovvio. Ma non sono mai stati i continenti o i subcontinenti che hanno deciso del conclave: che si regge su altre aggregazioni, e che, come dice un

saggio adagio, inizia solo quando un papa anziano manda a Milano un arcivescovo più giovane di lui. Ciò che decide della chiesa - e in futuro del conclave - è se la sinodalità (la capacità di affidare i problemi difficili alla comunione) e la collegialità (la dottrina che riconosce nella totalità dei vescovi con e sotto Pietro il successore del collegio apostolico) sapranno essere l'agenda e il governo della cattolicità. Il che richiede da

parte di tutti, senza sognare o temere rivincite, uno sforzo per guardare a un cristianesimo a cui la carica evangelica di Francesco offre stimoli commoventi, ma

anche l'occasione per guardarlo in tv, come una specie di eroe per cui si tifa, finché non si cambia canale”.

1 – IL PATRIARCA LA NUOVA Pag 7 Messa di Moraglia: “Senza sicurezza non c’è la dignità” di n.de l. LA NUOVA di domenica 9 ottobre 2016

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Pag 23 Una messa in memoria di tutte le vittime. La celebra Moraglia a San Salvador di n.d.l. 2 – DIOCESI E PARROCCHIE IL GAZZETTINO DI VENEZIA di domenica 9 ottobre 2016 Pag XII Nuovi stili di vita e ambiente. Torna la “Festa del Creato” di M.Fus. Nella parrocchia di don Fazzini LA NUOVA di sabato 8 ottobre 2016 Pag 29 Domenica “Festa del Creato” con il patriarca Moraglia di m.a. Quarto, dalle 15 alle 19 3 – VITA DELLA CHIESA CORRIERE DELLA SERA Pag 23 La geografia dei cardinali di Gian Guido Vecchi Bergoglio ne crea altri 17 dal Centrafrica all’Albania: “La Chiesa sia universale”. Il nunzio a Damasco: “La porpora non è per me ma per la Siria” LA REPUBBLICA Pag 1 Francesco e i cardinali che spiazzano la Curia di Alberto Melloni Nomine a sorpresa Pag 18 Dal nunzio al prete torturato, i nuovi cardinali di Francesco di Paolo Rodari LA STAMPA La Chiesa del Papa: 17 nuovi cardinali fautori del dialogo di Andrea Tornielli e Giacomo Galeazzi LIBERO Ho vissuto con le monache. Ecco i segreti della clausura di Lucia Esposito IL GAZZETTINO Pag 8 Tredici nuovi cardinali, un solo italiano di Franca Giansoldati e Alvise Sperandio Roma e l’Europa perdono peso a vantaggio delle periferie del mondo. San Marco, 5 anni senza porpora IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag V Concistoro, Moraglia fuori dai nuovi cardinali di Alvise Sperandio Delusione tra i fedeli veneziani per la mancata nomina del Patriarca da parte di Papa Francesco LA NUOVA Pag 4 Annuncio a sorpresa di papa Francesco: in arrivo 13 cardinali di Mariaelena Finessi e Filippo Tosatto Il nuovo Concistoro convocato per il prossimo 19 novembre. La porpora negata al Patriarca di Venezia WWW.CHIESA.ESPRESSONLINE.IT Tredici nuovi cardinali più quattro. Vincitori e vinti del prossimo concistoro di Sandro Magister AVVENIRE di domenica 9 ottobre 2016 Pag 3 Un padre tra noi (lo stile di Francesco) di Giovanni D’Ercole Semplice e storica visita nell’Ascolano terremotato Pag 17 Ccee, Bagnasco presidente dei vescovi europei di Mimmo Muolo

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Subentra a Erdö. Nichols e Gadecki i due vice Pag 17 “Noi diaconi permanenti, sposi e ministri” di Sara Melchiori Incontro della comunità diaconale del Triveneto LA NUOVA di domenica 9 ottobre 2016 Pag 20 La nipote di Papa Luciani: “Non faceva uso di sonniferi” di f.d.m. La nuova ipotesi sulla morte L’OSSERVATORE ROMANO di sabato 8 ottobre 2016 Pag 1 La giovinezza del Vangelo di Lorenzo Baldisseri Nel prossimo sinodo Pag 6 Sinodalità e primato Per il dialogo teologico fra cattolici e ortodossi AVVENIRE di sabato 8 ottobre 2016 Pag 2 Una foto e una scelta che valgono un mondo di Angelo Scelzo Riflessioni sulla visita del papa nei luoghi del sisma LA REPUBBLICA di sabato 8 ottobre 2016 Pag 22 La tristezza del Papa per le nozze delle ex suore di Paolo Rodari Il vicesegretario di Stato Becciu su Twitter: “Quando ha letto la storia si è rabbuiato” IL FOGLIO di sabato 8 ottobre 2016 Pag I Il silenzio di Dio di Matteo Matzuzzi L’uomo postmoderno non comprende più la misteriosa eternità divina. Senza rumore cade in un’inquietudine sorda e lancinante. Il nuovo libro del cardinale Robert Sarah LA NUOVA di sabato 8 ottobre 2016 Pag 11 ”Papa Luciani vittima di una dose eccessiva di sonniferi” di Silvia Quaranta La nuova ipotesi del teologo e giornalista Gennari sulla morte del pontefice bellunese 4 – ISTITUZIONI, ASSOCIAZIONI, MOVIMENTI E GRUPPI IL GAZZETTINO DI VENEZIA di domenica 9 ottobre 2016 Pag VII Misericordia Day. Dimostrazioni e informazione a San Giacometo di Giorgia Pradolin Pag VIII Forte Mazzorbo, la gestione andrà all’Agesci IL GAZZETTINO DI VENEZIA di sabato 8 ottobre 2016 Pag VI Misericordia, in campo San Giacometo la festa del volontariato con i test medici gratuiti 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO CORRIERE DELLA SERA Pag 10 Case, auto e cibo: così il ceto medio si sta salvando con l’economia condivisa di Dario Di Vico L’affitto degli appartamenti con le piattaforme Internet integra il redito e fa nascere piccole imprese LA NUOVA Pag 1 A mancare è l’ingresso di cervelli di Francesco Jori CORRIERE DELLA SERA di sabato 8 ottobre 2016 Pag 1 Gli studenti e la protesta come un rito di Sabino Cassese

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Le ragioni, gli eccessi LA NUOVA di sabato 8 ottobre 2016 Pag 1 I lavoratori, salvezza delle imprese di Franco A. Grassini 6 – SERVIZI SOCIALI / SANITÀ LA NUOVA di sabato 8 ottobre 2016 Pag 22 Ospedale San Camillo verso la cessione, Regione in prima fila di Francesco Furlan I Camilliani hanno offerto una sorta di diritto di prelazione. Palazzo Balbi interessato 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA IL GAZZETTINO Pag 11 Le 10 cose da vedere nella galleria del lusso di Alda Vanzan T Fondaco, 7mila metri quadrati nell’ex Palazzo delle Poste a Venezia, a due passi dal ponte di Rialto Pag 16 La fondazione di Venezia, dalla contestazione dei miti al confronto dei dati storici di Giovanni Distefano Pag 18 Le icone raccontano la Madonna del Don di Melody Fusaro La mostra a Mestre. E’ stata il simbolo della fede degli alpini IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag I La rivoluzione culturale di Tiziano Graziottin LA NUOVA Pag 20 Valeria e le donne che erediteranno questa nostra terra di Nicolò Menniti-Ippolito Il racconto della mamma della giovane Solesin diventa il cuore del nuovo libro di Cazzullo IL GAZZETTINO DI VENEZIA di domenica 9 ottobre 2016 Pag I Crociere a Marghera di Antonio Foscari 8 – VENETO / NORDEST IL GAZZETTINO di domenica 9 ottobre 2016 Pag 13 Migranti, tribunale invaso dai ricorsi di Gianluca Amadori Pendenti quasi tremila richieste di silo, in un anno ne sono state definite soltanto 400 CORRIERE DEL VENETO di domenica 9 ottobre 2016 Pag 1 Emigrare nel mondo “largo” di Stefano Allievi Fuga e opportunità CORRIERE DEL VENETO di sabato 8 ottobre 2016 Pag 1 Le radici della nuova emigrazione di Gabriella Imperatori Fuga dal Veneto … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Un ponte che mai si farà di Angelo Panebianco Pag 3 La grande fuga dei repubblicani di Massimo Gaggi IL GAZZETTINO

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Pag 1 Giustizia e politica, come evitare gli effetti collaterali di Cesare Mirabelli CORRIERE DELLA SERA di domenica 9 ottobre 2016 Pag 1 La bellezza perduta nelle città di Ernesto Galli della Loggia Democrazia e follie Pag 1 Il populismo è già in crisi ma ha contagiato i vecchi partiti di Federico Fubini In Europa Pag 1 Trump, la caduta di ottobre di Massimo Gaggi AVVENIRE di domenica 9 ottobre 2016 Pag 1 La compagnia dimenticata di Vittorio A.Sironi I limiti della medicina e della morte IL GAZZETTINO di domenica 9 ottobre 2016 Pag 1 La fiducia necessaria per la ripresa di Romano Prodi LA NUOVA di domenica 9 ottobre 2016 Pag 1 Democrazia diretta più diffusa di Fabio Bordignon Pag 4 The Donald è vicino al disastro di Alberto Flores d’Arcais Pag 8 La povertà e le colpe dei ricchi di Giancesare Flesca CORRIERE DELLA SERA di sabato 8 ottobre 2016 Pag 1 Il rapporto (ancora) malato tra partiti e magistratura di Marco Imarisio Pag 1 Legge elettorale, la difficile partita per un accordo di Francesco Verderami Pag 6 I 5 Stelle restano il primo partito. Al ballottaggio il Pd perderebbe di Nando Pagnoncelli Dopo un calo di consensi in settembre per il caso Roma, M5S stabile al 30,3% Pag 12 Scelte ambigue e controproducenti. Il riconoscimento ha ancora senso? di Pierluigi Battista Il Nobel all’accordo di pace in Colombia Pag 15 L’arcivescovo Tutu e l’eutanasia: lasciatemi la scelta di Michele Farina La richiesta del prelato amico di Mandela Pag 28 Il consenso da ricostruire sulla pace in Colombia di Andrea Riccardi AVVENIRE di sabato 8 ottobre 2016 Pag 1 Promessa da onorare di Fabio Carminati Le luci evidenziate dal Nobel 2016 Pag 1 Una lunga, lunga strada di Marco Olivetti Le ombre non fugate dal Nobel 2016 Pag 3 La Malaysia, una polveriera. Così cresce il pericolo jihad di Federica Zoja Tra tensioni etniche e lotta al radicalismo islamista IL GAZZETTINO di sabato 8 ottobre 2016 Pag 1 La politica punita dal giustizialismo di Carlo Nordio Pag 1 Italiani in fuga, il governo aiuti i giovani geni di Bruno Vespa

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LA NUOVA di sabato 8 ottobre 2016 Pag 1 Travolto dal ciclone giudiziario di Bruno Manfellotto

Torna al sommario 1 – IL PATRIARCA LA NUOVA Pag 7 Messa di Moraglia: “Senza sicurezza non c’è la dignità” di n.de l. Nella Giornata nazionale sugli infortuni sul lavoro il Patriarca di Venezia Francesco Moraglia ha celebrato una messa nell'affollata chiesa di San Salvador: «Il lavoro è un diritto ma non basta – ha detto – la dignità del lavoro è un diritto e non si può parlare di lavoro dignitoso se manca la sicurezza nei luoghi di lavoro». Il presule ha proseguito ricordando che «i diritti del lavoratore devono essere più garantiti nei momenti di fragilità: quando si entra e si esce dal mondo del lavoro, quando si è subito un danno lavorando. Il presule ha poi sottolineato l'importanza del far crescere la cultura del lavoro: «È il modo vero di chiedere giustizia. Siamo grati ad associazioni come l'Anmil che fa crescere la cultura sociale del nostro Paese che non è solo produrre più reddito ma è chiedersi sul come lo si produce». LA NUOVA di domenica 9 ottobre 2016 Pag 23 Una messa in memoria di tutte le vittime. La celebra Moraglia a San Salvador di n.d.l. In apertura della Giornata, alle 8.30. è prevista una messa in memoria di tutte le vittime del lavoro. A celebrarla è il Patriarca Francesco Moraglia (nella foto) nella chiesa di San Salvador (il parroco è don Massimiliano D’Antiga). Alla cerimonia religiosa sono presenti numerose autorità a livello locale e nazionale: la presidente del Consiglio comunale Ermenlinda Damiano; il presidente dell'Anmil nazionale Franco Bettoni e quello territoriale Paolo Veclani; il commissario straordinario dell’Inail Massimo De Felice; il presidente del Civ (Consiglio di indirizzo e vigilanza) Inail Francesco Rampi; il presidente della Commissione Lavoro del Senato Maurizio Sacconi. Successivamente - dalle 10 alle 13 - l’evento prosegue nel vicino Teatro Goldoni dove la Giornata è aperta con i saluti della presidente Damiano, dall'assessore regionale ai servizi sociali Manuela Lanzarin e dal presidente dell'Anmil Venezia Paolo Veclani. La prima manifestazione risale al 1951. Torna al sommario 2 – DIOCESI E PARROCCHIE IL GAZZETTINO DI VENEZIA di domenica 9 ottobre 2016 Pag XII Nuovi stili di vita e ambiente. Torna la “Festa del Creato” di M.Fus. Nella parrocchia di don Fazzini Quarto d’Altino - Prendersi cura della terra, partendo dalle piccole cose. L'edizione 2016 della festa del Creato, in programma oggi pomeriggio nella parrocchia di Altino, raccoglie l'invito lanciato da papa Francesco nella sua Enciclica "Laudato Sì". Con il patriarca Francesco Moraglia e i rappresentanti di altre confessioni cristiane, sarà aperto un dialogo sulla "conversione ecologica", tema che sarà al centro di un percorso di iniziative e dibattiti proposto dal gruppo diocesano "Stili di vita" coordinato da don Gianni Fazzini. La Festa del Creato 2016 si aprirà ad Altino alle 15 con una meditazione del Patriarca, poi, fino alle 19, sarà possibile assistere a video e alle presentazioni delle iniziative in favore dell'ambiente. Dopo la preghiera ecumenica nello stile della comunità di Taizé, con la meditazione della pastora della Chiesa Valdese di Venezia Caterina Griffante (alle 17.30), la giornata si concluderà poi con un "aperitivo ecologico equo solidale". Nel corso del pomeriggio, inoltre, il "Paracadute di Portegrandi" sarà a disposizione per far

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divertire i bambini. L'evento darà così il via al percorso itinerante nella Diocesi veneziana: una volta al mese alcune parrocchie e collaborazioni pastorali discuteranno un tema legato alla salvaguardia dell'ambiente. LA NUOVA di sabato 8 ottobre 2016 Pag 29 Domenica “Festa del Creato” con il patriarca Moraglia di m.a. Quarto, dalle 15 alle 19 Quarto. «Misericordia per la terra» ritorna domani ad Altino la Festa del Creato. Come avere, concretamente, misericordia verso la terra, casa comune: è questo il tema, caldeggiato espressamente e anche di recente da Papa Francesco che ne ha parlato come un’ulteriore e specifica opera di misericordia per i cristiani, attorno al quale si svilupperà l’edizione 2016 della “Festa del Creato” in programma nel pomeriggio di domani nella parrocchia di Altino. L’intento è quello di «ascoltare il grido e i gemiti della terra. Un modo per raccogliere, nel nostro territorio e nella quotidianità, l’invito alla cura della casa comune che ci viene dall’Enciclica Laudato si’». L’iniziativa, proposta dal gruppo diocesano Stili di vita coordinato da don Gianni Fazzini e aperto alle differenti confessioni cristiani, vedrà la partecipazione e l’intervento del patriarca Francesco Moraglia. La Festa del Creato 2016 si aprirà ad Altino alle 15 per concludersi intorno alle 19. Nella prima parte ci sarà una meditazione del patriarca Francesco e un successivo dialogo con presentazione in anteprima di un percorso a tappe di "conversione ecologica". Saranno, inoltre, allestiti stand e proiettati video su iniziative e attività in favore dell’ambiente; verranno poi aperti anche i tavoli di confronto e la “bacheca delle idee”. Alle 17.30 sarà la volta della preghiera ecumenica, nello stile della comunità di Taizé, con la meditazione della pastora della Chiesa Valdese di Venezia Caterina Griffante. Il tutto si concluderà poi con un “aperitivo ecologico equo solidale”. Nel corso del pomeriggio, inoltre, il “Paracadute di Portegrandi” sarà a disposizione per intrattenere i bambini presenti. Torna al sommario 3 – VITA DELLA CHIESA CORRIERE DELLA SERA Pag 23 La geografia dei cardinali di Gian Guido Vecchi Bergoglio ne crea altri 17 dal Centrafrica all’Albania: “La Chiesa sia universale”. Il nunzio a Damasco: “La porpora non è per me ma per la Siria” Città del Vaticano. Diciassette nuovi cardinali, tredici «elettori» più quattro ultraottantenni che saranno «creati» nel concistoro del 19 novembre, prima della fine del Giubileo della Misericordia. Papa Francesco ama le sorprese. Ad esempio don Ernest Simoni, 88 anni, ne ha passati quasi ventotto tra galere, torture e lavori forzati sotto il regime comunista albanese di Enver Hoxha: doppia condanna a morte commutata a 25 anni, 18 anni di lavori forzati di cui 12 in miniera, e dopo la scarcerazione nell’81 al lavoro nelle fogne di Scutari come «nemico del popolo». Francesco ne ascoltò il racconto in Albania nel 2014 e lo abbracciò in lacrime; nell’incontro interreligioso organizzato da Sant’Egidio ad Assisi, il 20 settembre, ha pranzato accanto a lui. Quando ieri ha saputo «da Radio Maria» che il Papa lo avrebbe fatto cardinale, don Ernest ha pensato a uno scherzo, stava dal nipote a Firenze e insieme hanno chiamato la Santa Sede, «sì, è vero, il Santo Padre ha deciso così». Poi è andato a dare l’unzione a un amico morente, «io sto dove sono i miei fedeli», racconta, lo ha fatto tutta la vita: «È una notizia inaspettata ma non mi cambierà, resto un piccolo soldato di Gesù indegno di questo titolo, ringrazio di cuore Papa Francesco e prego per lui». Ma se i nomi, tra elettori e non, possono sorprendere, ciò che si conferma è il criterio che aveva guidato Francesco anche nei due concistori precedenti: «Sceglierò i cardinali un po’ dappertutto, perché la Chiesa è in tutto il mondo. La lista è lunga, ma ci sono soltanto tredici posti. E si deve pensare a fare un equilibrio», spiegava ai giornalisti di ritorno dall’Azerbaigian. «A me piace che si veda, nel Collegio cardinalizio, l’universalità della Chiesa: non solo il centro “europeo” ma i cinque continenti». La tendenza avviata dai predecessori si fa sempre più evidente,

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con il Papa venuto «quasi dalla fine del mondo»: i tredici elettori provengono da undici nazioni diverse di tutti i continenti. Di sette nazioni che non avevano porporati, quattro avranno elettori (Repubblica Centrafricana, Bangladesh, Isole Mauritius e Papua Nuova Guinea) e tre non elettori (Malaysia, Lesotho e Albania). Esemplari la porpora al nunzio in Siria, Mario Zenari, o all’arcivescovo Dieudonné Nzapalainga di Bangui, dove Francesco aprì la prima porta santa del Giubileo. Non ci sono più «diocesi cardinalizie» sicure: restano ancora fuori, ad esempio, Venezia e Torino; negli Stati Uniti ricevono la porpora arcivescovi nominati da Francesco come Tobin (Indianapolis) e Cupich (Chicago) ma non c’è Los Angeles. Americano è anche l’unico curiale, Kevin Joseph Farrell. Un altro italiano è l’arcivescovo emerito di Novara Renato Corti, che fu molto vicino al cardinale Martini. Come tutti i Papi, Francesco sta modellando a sua immagine il Collegio che eleggerà il successore ed è arrivato finora a nominare 44 elettori. Tenuto conto del limite di 120 stabilito da Paolo VI: ora sono 121, ma uno andrà in pensione a fine novembre. Città del Vaticano. «Il gesto del Papa è molto importante, mentre il conflitto in Siria è arrivato ad atrocità fuori da ogni limite». Monsignor Mario Zenari, 70 anni e 36 di servizio di-plomatico, spesso in zone di guerra, è nunzio a Damasco dal 2008. Il suo è stato il primo nome annunciato ieri all’Angelus, Francesco ha precisato «che rimane nunzio apostolico nell’amata e martoriata Siria». Almeno nell’ultimo secolo, non era mai successo che un nunzio fosse cardinale. Che cosa ha pensato? «Ci ho messo un po’ a capacitarmene. Ma ho capito che il Papa, attraverso di me, ha dato la porpora alla Siria: un segno di predilezione e un sostegno alla sua gente, ai bambini… Sangue innocente, dolore. Di tutti, cristiani e non». È arduo distinguere ragioni e torti. Che succede? «Una guerra per procura di alcune potenze regionali, dall’Arabia Saudita all’Iran, cui si sono aggiunte le superpotenze, Usa, Russia e altri. Ciascuno secondo i propri interessi e strategie geopolitiche. Il denominatore comune è sofferenza enorme e la violazione di qualsiasi regola dei diritti umanitari internazionali. E questo da parte di tutti: colpiscono scuole, ospedali, mercati. Anche la guerra ha le sue regole, sono saltate». Cercare una soluzione politica? «È l’unica via, la comunità internazionale deve riprovarci. Far cessare la violenza, permettere gli aiuti umanitari». LA REPUBBLICA Pag 1 Francesco e i cardinali che spiazzano la Curia di Alberto Melloni Nomine a sorpresa Un piccolo dettaglio svela qualcosa sulla creazione cardinalizia di ieri. Dopo un'ora dall'annuncio dato all'Angelus, i siti del Vaticano e molti media non davano ancora l'elenco delle nuove berrette. Berrette che saranno imposte ai prescelti nel concistoro del 19 novembre. Segno che la lista letta da Francesco non aveva circolato molto e che un annuncio a sorpresa ha messo in imbarazzo la macchina dell'informazione che la domenica mattina si aspetta il ricordo dei migranti e dei poveracci del mondo che il Papa non può dismettere e il mondo non sa ascoltare. La cosa non deve sorprendere. Ogni Papa - Francesco non fa eccezione - usa la prerogativa di scegliere i cardinali come uno strumento di governo, di obbedienza alle norme canoniche sul conclave che eleggerà il suo successore e di comunicazione. Fare i cardinali - entrare cioè in quella parte del clero dell'urbe a cui spetta da dieci secoli il compito di eleggere il vescovo di Roma quando la sede rimane vacante e che ha il diritto/ dovere di parlargli come fossero fratelli - è una prerogativa tale per cui viene definita tecnicamente "creazione". Nessuno può dire al Papa chi o quando o come creare, e sul quanto le vigenti regole che fanno decadere dal diritto di votare in conclave gli ultra-ottuagenari consenta di prevedere e giostrare. Una prassi secolare aveva però individuato alcune diocesi (dette "sedi cardinalizie") in cui il Papa nominava vescovo chi voleva far cardinale. E aveva introdotto il principio che le più alte funzioni di curia davano la "berretta" (il simbolo del cardinale è il loro cappello). Francesco non ha innovato nulla in curia. I capi dei grandi organi curiali sono cardinali (anche il prefetto della dottrina della fede che Ratzinger scelse e castigò negandogli la porpora e che Francesco ha "creato", pur essendo in molti ambiti su

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posizioni opposte a quelle del papa): anche l'ultimo prefetto, nominato con la mini-riforma che ha sommato vari uffici in una congregazione dei laici, diventerà cardinale al prossimo concistoro. Papa Bergoglio non ha molto innovato nelle grandi sedi cardinalizie del mondo, dove ha se mai introdotto qualche attesa: fatto sta che da ieri Brasilia, Bruxelles, Chicago e Madrid hanno un cardinale arcivescovo. Invece (e l'Italia è fra due fuochi), se sospetta che qualche sede prestigiosa sia stata ottenuta in una logica di cordata o che un Paese abbia troppi cardinali, non dà altri cappelli. Francesco salta invece ogni usanza quando vuole che diano voce alle realtà dimenticate e alle "periferie" della chiesa. Come ha fatto anche ieri, con otto porpore ad elettori che sono come bandierine della sua geografia interiore: il nunzio in Siria, unico elettore italiano; l'arcivescovo di Bangui dove aprì il giubileo un anno fa; e poi gli arcivescovi di Dhaka in Bangladesh, Merida del Venezuela, Port Louis nella Isola Maurizio, Tlalnepantla in Messico, Port Moresby in Papua e Indianapolis negli Usa. E anche il cardinalato onorario a quattro vescovi emeriti di Malesia, Lesotho, Albania e all'italiano Corti (uno degli ausiliari milanesi che non diventò mai successore di Martini) dà la stessa impressione. Dire che cambiano le proporzioni geografiche del collegio elettorale è ovvio. Ma non sono mai stati i continenti o i subcontinenti che hanno deciso del conclave: che si regge su altre aggregazioni, e che, come dice un saggio adagio, inizia solo quando un papa anziano manda a Milano un arcivescovo più giovane di lui. Ciò che decide della chiesa - e in futuro del conclave - è se la sinodalità (la capacità di affidare i problemi difficili alla comunione) e la collegialità (la dottrina che riconosce nella totalità dei vescovi con e sotto Pietro il successore del collegio apostolico) sapranno essere l'agenda e il governo della cattolicità. Il che richiede da parte di tutti, senza sognare o temere rivincite, uno sforzo per guardare a un cristianesimo a cui la carica evangelica di Francesco offre stimoli commoventi, ma anche l'occasione per guardarlo in tv, come una specie di eroe per cui si tifa, finché non si cambia canale. Pag 18 Dal nunzio al prete torturato, i nuovi cardinali di Francesco di Paolo Rodari Città del Vaticano. C'è la volontà precisa di allargare il numero dei Paesi rappresentati all' interno del collegio cardinalizio nel nuovo concistoro annunciato ieri a sorpresa da Francesco e previsto per il 13 novembre. Quasi la metà dei nuovi cardinali, 7 su 17, infatti, arrivano da Paesi che non erano rappresentati. Tra questi, 4 avranno cardinali elettori (sono 13 i nuovi nomi destinati ad entrare in Conclave): Repubblica Centrafricana, Bangladesh, Isola Mauritius e Papua Nuova Guinea. E 3 non elettori: Malaysia, Lesotho e Albania. Certo, anche in questo concistoro la maggioranza dei nuovi cardinali resta di origine europea: 5 su 17, mentre 4 arrivano dall' America settentrionale, 2 dall'America meridionale, 3 dall'Africa, 2 dall'Asia e 1 dall'Oceania. E le proporzioni non cambiano anche all'interno dell'intero collegio: su 121 cardinali, 54 sono europei (l'Italia dimagrisce seppure resta ancora il Paese più rappresentato con 25 elettori). Ma, in ogni caso, la rappresentatività si allarga e corrisponde alla visione di Chiesa di Francesco: il centro è ovunque, anche in periferia. Aumentano i cardinali creati da Bergoglio: 44, contro i 56 di Ratzinger e i 21 di Wojtyla. L'affresco che Francesco offre è chiaro: non sono premiate le diocesi considerate "cardinalizie" (in Italia, ad esempio, Torino e Venezia) né le nomine corrispondono a logiche di potere, mentre sono valorizzati i pastori più vicini alla gente, agli ultimi. Su tutti spiccano i nomi del nunzio a Damasco Mario Zenari e dell'albanese don Ernest Simoni Troshani. La creazione di Zenari rompe la prassi che nell' ultimo secolo prevedeva che i diplomatici pontifici fossero insigniti della dignità vescovile ma non della porpora. Zenari, infatti, a differenza di altri nunzi divenuti cardinali, rimarrà a Damasco. Il Papa l'ha premiato anche per il suo coraggio di rimanere in Siria sotto le bombe, vicino alla popolazione martoriata. Don Simoni è un semplice prete, 88 anni fra qualche giorno. Nel 2014, a Tirana, Francesco ascoltò la sua testimonianza e ne rimase colpito fino alle lacrime. Abbracciò il sacerdote e gli baciò le mani. Don Simoni aveva raccontato della persecuzione subita sotto il regime comunista di Enver Hoxha, che aveva proclamato l'Albania il «primo Stato ateo al mondo». Venne arrestato nel '63 e condannato a morte due volte. Fu liberato nel '90, dopo 25 anni ai lavori forzati. In Europa ricevono la berretta il vescovo di Bruxelles Jozef De Kesel (il suo predecessore, su posizioni tradizionaliste, non l'ha mai ricevuta), Carlos Osoro Sierra di Madrid, e l'ultraottantenne Renato Corti, arcivescovo emerito di Novara e

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molto vicino, in passato, al cardinale Martini. Negli Stati Uniti la scelta è caduta su tre vescovi lontani dalla linea dura dell' episcopato sulle battaglie pro-life: Blase J. Cupic di Chicago, Kevin J. Farrel, prefetto del dicastero per laici, vita e famiglia, e Joseph W. Tobin, arcivescovo di Indianapolis. Quest' ultimo, nel 2012, lasciò il Vaticano dove era il numero due del dicastero dei religiosi, anche per un appoggio non gradito alle suore americane progressiste. LA STAMPA La Chiesa del Papa: 17 nuovi cardinali fautori del dialogo di Andrea Tornielli e Giacomo Galeazzi Diciassette nuovi cardinali, tredici con meno di ottant'anni e dunque elettori in un eventuale conclave, più quattro ultraottantenni. È la nuova «infornata» di porpore annunciata ieri all'Angelus dal Papa per il 19 novembre. Riceve la berretta rossa, con una scelta inedita, il nunzio apostolico Mario Zenari, che vive a Damasco e non ha voluto abbandonare la popolazione siriana sotto le bombe. Insieme con lui anche il «leone di Bangui», il coraggioso arcivescovo della capitale del Centrafrica, che ha sfidato la guerriglia guidando una processione oltre i check-point del quartiere Km5 controllato dalle milizie islamiste. E riceve la porpora anche don Ernest Simoni, un prete albanese quasi novantenne, rinchiuso per 27 anni nei campi di prigionia del regime comunista. Tra le sorprese, l'assenza di vescovi residenziali italiani in carica: Francesco ha inserito nell'elenco soltanto il vescovo emerito di Novara Renato Corti, ultraottantenne. Cinque dei nuovi cardinali sono europei, quattro dell' America del Nord (tre statunitensi e uno del Messico), due dell'America del Sud, tre dell'Africa, due dell'Asia e uno dell'Oceania. Confermata ancora una volta l'attenzione di Francesco per le periferie: 7 le nazioni che non avevano cardinali, di queste 4 avranno porporati elettori (Centrafrica, Bangladesh, Mauritius e Papua Nuova Guinea), 3 con non elettori (Malaysia, Lesotho e Albania). Con la scelta senza precedenti negli ultimi decenni di creare cardinale un nunzio apostolico lasciandolo nella sua sede, Francesco intende premiare Mario Zenari per non aver voluto abbandonare la popolazione siriana, riuscendo a dialogare sia con Assad che con i suoi oppositori. Colpisce poi l'assenza di porporati residenziali italiani: non ottengono la berretta i titolati delle diocesi un tempo considerate cardinalizie come Torino, Venezia, Bologna o Palermo. Ma neppure altre diocesi, come invece era accaduto nel 2014, con la nomina dell'arcivescovo Gualtiero Bassetti (Perugia); e nel 2015 con la berretta all'arcivescovo Edoardo Menichelli (Ancona). Il Papa ritiene che, nonostante la sua storia importante, il nostro Paese abbia avuto finora troppi cardinali: un numero così alto di diocesi guidate da porporati era un retaggio degli Stati precedenti all'unità d'Italia. Un altro dato significativo sono le tre porpore statunitensi, dopo che per due concistori gli States non avevano visto loro rappresentanti creati in concistoro. La berretta per Farrell, Prefetto del nuovo dicastero curiale, era la più prevedibile, a motivo dell'incarico appena affidatogli. Farrell, un moderato, da arcivescovo di Dallas, in un'intervista con «La Stampa» aveva usato parole dure sul candidato repubblicano Donald Trump: «È oltraggioso, quando dice che i messicani sono tutti stupratori e trafficanti di droga». Insieme con lui diventano cardinali Blase Cupich e Joseph William Tobin. Nel primo caso si tratta del vescovo di una delle più importanti diocesi nordamericane, Chicago. Un prelato che è in totale sintonia con il Pontefice e che non era mai entrato nella rosa dei candidati per la grande metropoli del Midwest, dove Bergoglio lo ha designato due anni fa. Nel secondo caso, la porpora ha quasi il sapore di una riabilitazione: Tobin venne infatti allontanato da Roma e nominato a Indianapolis dopo essere stato per appena due anni segretario della Congregazione per i religiosi. Era considerato troppo dialogante con le suore progressiste statunitensi. È evidente dunque la volontà del Papa di promuovere vescovi capaci di dialogo, che non corrispondono all'identikit dei «cultural warriors», capaci di impegnarsi non soltanto nelle pubbliche battaglie pro-life o contro le nozze gay ma anche di alzare la voce di fronte ai problemi della giustizia sociale e dell'immigrazione. Nel settembre 2015, durante il viaggio negli Usa, Francesco disse ai vescovi di non usare un «linguaggio bellicoso» né di limitarsi solo ai «proclami», cercando invece di «conquistare spazio nel cuore degli uomini» senza mai fare della croce «un vessillo di lotte mondane».

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LIBERO Ho vissuto con le monache. Ecco i segreti della clausura di Lucia Esposito Di solito una donna che entra in un monastero di clausura non ne esce più. È come se venisse inghiottita da un buco nero, in un mondo di cui si sa troppo poco. Un mondo dove conta sparire e non apparire, pensare e non parlare. Francesca Sbardella è entrata in due monasteri francesi di Carmelitane scalze, ha vissuto come una monaca di clausura e, quando ne è uscita, ha raccontato tutto nel libro "Abitare il silenzio" (pubblicato da Viella con foto di Franco Zecchin). Sbardella, antropologa e storica delle religioni all'Università di Bologna, ci fa entrare in punta di piedi nei monasteri, ci porta per mano nel silenzio del refettorio e nelle celle spoglie, riferisce i discorsi che le monache tessono durante i pochi minuti di ricreazione. Attenta ai gesti, ai riti e agli sguardi che pesano come o forse più delle parole. Come è riuscita a entrare in un monastero? «Come postulante, come chi intende muovere i primi passi che portano alla clausura. La priora sapeva che sono una ricercatrice, ma molte monache no». Com'è la vita in clausura? «La cosa che mi ha più colpito è il silenzio. Un silenzio che non è naturale e che a tratti è quasi fastidioso. L'unica forma di espressione verbale è la preghiera. Le monache comunicano molto attraverso i gesti e gli occhi. Il quotidiano è scandito da una sequenza ordinata di silenzi e di momenti di preghiera, in cui è permessa solo la parola di devozione. Ho trovato una struttura fissa e vincolante. Il tempo è organizzato sulla base della cosiddetta liturgia delle ore, cioè il complesso di salmi, inni, preghiere e letture che ecclesiastici, monaci e religiosi di ambo di sessi devono recitare durante la giornata». Cosa l'ha colpita oltre al silenzio? «La capacità di controllo del proprio corpo. Stanno ore e ore in ginocchio immobili, come se fosse una posizione naturale. Il silenzio si esprime anche attraverso i gesti. Quando camminano nei corridoi è come se volassero, io invece sentivo il mio corpo pesante avanzare nelle stanze, percepivo ogni minimo rumore che l'incedere dei miei passi produceva sui pavimenti antichi di secoli. Le monache aprono le porte come fossero incorporee, io non riuscivo a non far sentire il mio ingresso in una stanza. Ho provato a indossare le ciabatte, ma non è servito a nulla». Ma cosa fanno tutto il giorno oltre a star zitte? «Il loro è un silenzio che ha dentro molta vita, loro stesse lo definiscono un "silenzio abitato". I ritmi sono frenetici. Pensi che io facevo fatica a star dietro a tutte le attività della giornata, non ho mai avuto tempo per me né come studiosa né come persona. La sveglia suona per tutte alle 5 e 45, alle 6,25 c'è l'Angelus, alle 7,30 le lodi, alle 8 la colazione, alle 8,20 la lettura spirituale, alle 9,15 l'ora terza della preghiera, alle 11,45 la messa, alle 13,45 una pausa per la ricreazione e poi riprendono le attività di preghiera. Si va avanti così fino alle 22 e 30, quando si spengono le luci per tutte». Riusciva a pregare così tanto in un giorno? «A fatica. Durante i cicli di preghiera avevo sempre male alle braccia, desideravo cambiare posizione e talvolta, nello spostamento o nell' appoggiarmi per sbaglio al bracciolo facevo rumore; la mia difficoltà con l'orazione era evidente: arrivavo alla fine dell'ora di preghiera, quando riuscivo ad arrivarci, con tutte le gambe addormentate e dolenti, mi alzavo in modo scomposto e facevo sempre rumore con il piccolo sedile: le religiose invece appaiono come statue di gesso o figure pietrificate. Il corpo quasi si annulla e questo accade anche durante la ricreazione». Di che cosa si parla durante la ricreazione? «Formalmente si potrebbe parlare di qualsiasi argomento, in realtà è tutto molto controllato. Raramente le monache parlano di sé, si confrontano sulle loro difficoltà magari perché non hanno capito un testo religioso, parlano delle famiglie o commentano le notizie che arrivano dal mondo esterno». Allora non c'è il distacco totale? «Arrivano giornali anche se solo quelli religiosi, non c'è la televisione ma c'è una religiosa che per mezz'ora al giorno si connette con il mondo esterno attraverso il computer. Per il resto sono isolate. Ricordo che un giorno ho commesso un errore». Cosa ha combinato?

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«In una toilette, sopra gli asciugamani, ho trovato una chiavetta Usb. Non l'ho presa, ma durante la ricreazione l'ho detto alle monache. Non ho ricevuto risposta, eppure credevo di essere stata gentile. Ho chiesto spiegazioni alla religiosa a cui ero stata affidata e lei mi ha chiarito che avevo sbagliato per due motivi: dicendo della mia scoperta avevo peccato di vanagloria e messo in difficoltà la responsabile del pc. Non avrei dovuto mettermi in mostra e avrei dovuto "proteggere" l'altra religiosa». Ha conosciuto anche monache giovani? «Sì, donne sulla quarantina». Ma è riuscita a capire qual è la motivazione principale che spinge alcune donne a entrare in clausura? Hanno una vocazione speciale? «Non ho approfondito questo aspetto perché, durante le ore di ricreazione, non puoi parlare sempre con le stesse monache. E quindi, nonostante cercassi un dialogo con alcune in particolare, soprattutto con l'archivista che poteva darmi più informazioni, non ho creato un rapporto così intimo da poter fare queste domande. Direi che la motivazione è il desiderio di un dialogo diretto con la divinità, la ricerca di un misticismo puro». Come sono le celle in cui vivono? «C'è un lettino, un armadio, una sedia e un crocifisso». Specchi? «No, né in camera né in bagno. Nascosto nell'armadio c'è uno specchietto piccolo, come quello che le signore portano in borsa. Essendo il simbolo della vanità, va eliminato. L'unico specchio sono le altre suore che consentono un confronto e una verifica quotidiana e sono anche una continua fonte di apprendimento, visto che l'uso della parola è limitato: sono la regola personificata. La comunità è il libro vivente delle proprie consuetudini». C'è rivalità tra le religiose? «Questo tema è al centro della loro formazione. Le rivalità sono taciute e, d'altro canto, sono vietate le amicizie particolari. Anche se una persona è più simpatica di un'altra non riesci a frequentarla come vorresti sia per l'organizzazione rigida della giornata in monastero sia perché, come dicevo, durante la ricreazione è obbligatorio cambiare interlocutore ogni volta». Com'è il cibo, si mangia quello che passa il convento? «In un certo senso sì, anche se si mangia bene e in abbondanza. Ma anche nel refettorio c' è una forma di controllo della e sulla persona. Quando ti siedi a tavola non sai cosa c'è dopo, non puoi chiederlo. Se vuoi il bis devi fare un cenno col capo, ma magari poi arriva un secondo che ti piace tanto e non riesci a mangiarlo». Si mangia in silenzio? «Certo. Non puoi alzarti e devi mangiare in venti minuti massimo mezz'ora. Mi viene in mente un altro mio errore». Dica. «Un giorno, durante la ricreazione, mi sono confidata con alcune monache: "Ho mangiato troppo, non sto bene"». E loro? «Non mi hanno risposto». Un po' insensibili, per fortuna che sono religiose «Mi hanno spiegato che non si parla di cibo. Non c' è motivo. Se hai mangiato troppo, la prossima volta impari a controllarti e a mangiare di meno». C'è qualcosa che non si aspettava di trovare in un monastero? «Ritmi così incalzanti». Manzoni ci ha regalato quel capolavoro di donna che è la peccaminosa monaca di Monza, che aveva scoperto il piacere del corpo con Egidio. Nella realtà le monache parlano di sesso? «Non ho mai sentito discorsi di questo tipo, sono stata in due monasteri diversi per un totale di tre mesi, poco per affrontare questo argomento. Forse in qualche modo le monache avranno una loro sessualità ma non so dire nulla su questo». Cosa ha imparato da quest'esperienza? «Ho capito che parliamo troppo e spesso inutilmente». Ha avuto la tentazione di farsi monaca veramente?

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«No, ho sempre avuto un approccio da studiosa. Conservo però un bellissimo ricordo di quelle donne, padrone dei loro corpi e delle loro menti». IL GAZZETTINO Pag 8 Tredici nuovi cardinali, un solo italiano di Franca Giansoldati e Alvise Sperandio Roma e l’Europa perdono peso a vantaggio delle periferie del mondo. San Marco, 5 anni senza porpora Mappamondo alla mano. Centrafrica, Bangladesh, Siria, Venezuela, Isola di Maurizio, Nuova Guinea, Messico, Stati Uniti. Il collegio cardinalizio “glocal” di Papa Bergoglio prende sempre più forma. Meno italiani, meno europei, meno curiali. Il terzo concistoro annunciato ieri a mezzogiorno mette a fuoco i contorni di un elettorato più vicino alle realtà locali e il successore di Francesco sarà scelto anche tra queste 13 new entry. Nella scelta dei nuovi cardinali elettori per la terza volta consecutiva sono state penalizzate le tradizionali sedi storiche in attesa di una porpora, come Venezia con il patriarca Francesco Moraglia, Bologna o Palermo. I cardinali elettori che in passato sono sempre stati un po’ l’espressione della Chiesa di Roma, piano piano lasciano il passo a candidati che sono l’espressione delle periferie. In tutto sono 17 ( 13 elettori, con meno di 80 anni, e 4 emeriti, over 80). Verranno creati nel concistoro del 19 novembre, alla vigilia della cerimonia di chiusura del Giubileo. Nella lista degli elettori c’è un solo italiano, l’attuale nunzio apostolico in Siria, il veneto Mario Zenari nato a Villafranca di Verona, che continuerà a lavorare a Damasco. Anche questa è una novità assoluta. In passato i nunzi insigniti della berretta rossa venivano poi trasferiti ad incarico più importante, spesso in curia. Stavolta, invece, l’indicazione del Papa è di restare sul posto e andare avanti a servire la comunità cristiana perseguitata, denunciando le violenze della guerra civile siriana, rassicurando la popolazione. Così il giorno dopo il concistoro Zenari ripartirà per Damasco. Nella lista figura anche un altro italiano, stavolta un non elettore, l’ultra ottantenne Corti, ex vescovo di Novara e discepolo del defunto cardinale Martini, al quale Francesco aveva affidato, l’anno scorso, l’incarico di scrivere le meditazioni per la Via Crucis al Colosseo. Comporre la lista non deve essere stata una impresa tanto facile. Troppe le attese e pochi i posti a disposizione per colmare i posti vacanti e arrivare al tetto dei 120 elettori. In ogni caso si è trattato di una scelta personale e solitaria del Papa. Sui nuovi cardinali hanno pesato due fattori, da una parte la loro provenienza geografica, simbolicamente intesa come espressione di universalità; dall’altra l’autentica condivisione di una sintonia in campo pastorale per la realizzazione di una Chiesa da campo, la più inclusiva possibile, attenta agli ultimi, alla ricerca di nuove strade capaci di arginare le differenze tra poveri e ricchi, o le sofferenze delle famiglie ferite. Come, per esempio, l’arcivescovo di Madrid, Carlos Osoro Cierra, il “Francesco spagnolo”. O il messicano Carlos Aguiar Retes, presidente del Celam o, ancora, gli statunitensi Tobin e Cupich, vicini per attitudine e sensibilità alle aperture di Bergoglio. La scorsa settimana tornando dal viaggio in Georgia, il Papa aveva illustrato ai giornalisti i criteri. «La lista è lunga e ci sono soltanto 13 posti. Si deve pensare a fare un equilibrio. A me piace che si veda l’universalità, non soltanto il centro – per dire – europeo; ma dappertutto. I cinque continenti, se si può». E così è stato. La Chiesa che si sta delineando all’orizzonte è sempre più internazionale e improntata all’impegno sociale. I nuovi cardinali provengono da 11 Nazioni. L’elenco comprende tre europei, tre dell’America Latina, tre statunitensi, due africani, un asiatico, uno dall’Oceania. Paesi marginali come il Bangladesh, Papua Nuova Guinea, isole di Maurizio, Centrafrica o il Lesotho, nazione in cui il 40 per cento della popolazione vive con 1,20 dollari al giorno, vanteranno la presenza di un cardinale. Perde decisamente peso l’Europa che scende a 54 elettori, mentre salgono le Americhe (con un totale di 34 elettori: 17 per il Nord, 4 per il Centro e 13 per il Sud), l’Africa con 15 elettori, l’Asia, con 14 e l’Oceania con 4. Infine una curiosità. Ad essere premiato per la coerenza e il coraggio è stato un prete albanese ultra ottantenne. Padre Ernest Simoni, fino a tre anni fa, Bergoglio non sapeva nemmeno che esistesse. A Tirana, ascoltando con le sue orecchie il calvario di un cristiano perseguitato sotto il regime comunista di Enver Hoxha, ha pianto. Simoni prima di essere liberato nel 1990, ha scontato 11.107 giorni di prigione ai lavori forzati. Fu arrestato la notte di Natale del 1963.

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Roma - Una porpora per il popolo siriano, per le vittime, per i bambini, un segnale che deve essere utilizzato il più possibile per arrivare alla pace. Così il nunzio a Damasco, Mario Zenari, di Villafranca di Verona. Ora che è un cardinale, cosa cambierà nel suo impegno per la pace in Siria? «Come mia umile persona credo che non faccio molto conto, però vorrei che questo segnale del Santo Padre venga utilizzato il più possibile. Il mio impegno è quello che è... però dietro c'è questo appoggio! E sento la forza, sento la spinta, sento questo segnale forte del Santo Padre dietro la mia povera persona e i miei limiti». Niente porpora cardinalizia per monsignor Francesco Moraglia. La sua esclusione dalla lista dei prescelti dal Papa ha lasciato l'amaro in bocca ai fedeli veneziani che ritenevano maturi i tempi per la promozione del Patriarca. Ci confidavano anche perché quello annunciato ieri per il 19 novembre, è il terzo Concistoro dell'era bergogliana: il primo era stato il 22 febbraio 2014, il secondo si era tenuto il 14 febbraio 2015. Il presule rimane così fuori dall'eventuale Conclave che verrebbe convocato se si dovesse eleggere il successore di Francesco. Una decisione che nella diocesi lagunare sta spiazzando sempre di più, alla luce del fatto che in passato i Patriarchi sono sempre stati fatti Cardinali e anche in tempi brevi: Angelo Scola arrivò a San Marco il 5 gennaio 2002 e ricevette la berretta il 21 ottobre 2003; Marco Cé rispettivamente il 7 dicembre 1978 e il 30 giugno 1979; Albino Luciani il 15 dicembre 1969 e il 5 marzo 1973; Giovanni Urbani l'11 novembre 1958 e il 15 dicembre 1958; mentre Angelo Giuseppe Roncalli fu creato Cardinale addirittura tre giorni prima di essere nominato Patriarca, il 12 gennaio del 1953, solo per risalire ai predecessori più recenti. Monsignor Moraglia, genovese, 63 anni, fu nominato Patriarca da Benedetto XVI il 31 gennaio del 2012 e fece il suo ingresso a Venezia nel giorno della fondazione della città, 25 marzo, dopo essere stato per qualche anno vescovo a La Spezia. Sulla scia della tradizione, allora sembrava scontata la sua successiva nomina a cardinale, ma con l'avvento al Soglio pontificio di Francesco il 13 marzo 2013, uno che non smette mai di sorprendere, tutto è cambiato. IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag V Concistoro, Moraglia fuori dai nuovi cardinali di Alvise Sperandio Delusione tra i fedeli veneziani per la mancata nomina del Patriarca da parte di Papa Francesco Il Papa nomina i nuovi cardinali, ma ancora una volta nella lista non c'è monsignor Francesco Moraglia. Dunque, il Patriarca non riceverà la porpora neppure nel prossimo Concistoro che Francesco ieri ha annunciato a sorpresa per il 19 novembre, alla vigilia della festa di Cristo re che concluderà l'Anno santo straordinario della Misericordia. Inevitabile la delusione dei fedeli veneziani che da tempo speravano nella sua promozione e che vedono sfumare per la terza volta consecutiva. Il Pontefice ha preferito scegliere altri nomi, 13 come eventuali elettori in Conclave più 4 che al contrario non lo sarebbero perché hanno già superato gli 80 anni. I due italiani prescelti sono monsignor Mario Zenari, nunzio apostolico in Siria, e il vescovo emerito di Novara, monsignor Renato Corti, già a riposo. Niente Moraglia, a conferma che con Francesco è finito probabilmente per sempre l'automatismo della carica assegnata a chi occupa la sede patriarcale di Venezia, com'era avvenuto sempre almeno negli ultimi decenni anche perché dalla cattedra di San Marco erano usciti ben tre Papi: Giuseppe Melchiorre Sarto (1903), Angelo Giuseppe Roncalli (1958) e Albino Luciani (1978). «C'è poco da sorprendersi. Questo Papa ha uno stile talmente innovativo che le sue scelte spiazzano sempre. Le logiche di un tempo sono state ribaltate e non valgono più, prova ne è che dalle nomine risultano ancora escluse diocesi territorialmente molto più grandi della nostra, come Torino con Cesare Nosiglia o Palermo con Paolo Romeo o Bologna con Matteo Zuppi, anche se quest'ultimo è vescovo da meno tempo rispetto agli altri», ha commentato il vicario episcopale e moderatore di Curia monsignor Dino Pistolato, ieri ad Altino per la Festa del creato dov'è intervenuto anche Moraglia che, però, si è assentato anzitempo per fare visita a un malato in ospedale senza rilasciare alcuna dichiarazione. La delusione dei fedeli è legata al mancato riconoscimento al patriarca, a quasi cinque

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anni dal suo arrivo in città, e all'eventualità che Venezia non potrebbe essere rappresentata in un futuro Conclave. LA NUOVA Pag 4 Annuncio a sorpresa di papa Francesco: in arrivo 13 cardinali di Mariaelena Finessi e Filippo Tosatto Il nuovo Concistoro convocato per il prossimo 19 novembre. La porpora negata al Patriarca di Venezia Roma. Papa Francesco coglie tutti di sorpresa e ieri, al termine dell’Angelus e della Messa per il Giubileo Mariano, a sorpresa annuncia un nuovo Concistoro per il 19 novembre prossimo, il giorno prima della chiusura dell’Anno santo della Misericordia. Saranno 17 i cardinali: tra loro 13 elettori, che avranno dunque diritto di voto in un eventuale Conclave e 4 ultraottantenni, e per questo non elettori. Gli italiani sono due: monsignor Mario Zenari, «che resta nunzio nell’amata e martoriata Siria», ha però tenuto a precisare il Pontefice, e l’emerito di Novara Renato Corti, che ha predicato gli esercizi spirituali di Quaresima alla Curia. Tutti gli altri arrivano da 11 Paesi diversi, quelli che oggi chiameremmo le «periferie del mondo» - per usare un’espressione cara a Bergoglio -, tra cui Malesia, Bangladesh e Mauritius. E se alcune scelte non destano stupore, altre sottendono un messaggio, come quella di nominare Zennari, appunto, affinché non si spengano i riflettori sul conflitto che da anni sta martoriando il popolo siriano. O come quella di dare un primo cardinale alla chiesa centrafricana, monsignor Dieudonné Nzapalainga, arcivescovo di Bangui, dove l’anno scorso Francesco aprì la prima Porta Santa del Giubileo. Prima berretta cardinalizia anche per altri sei Paesi: tre con cardinali elettori (Bangladesh, Mauritius e Papua Nuova Guinea) e tre con cardinali senza diritto di voto (Malaysia, Lesotho e Albania). E poi ancora gli arcivescovi di Madrid (Carlos Osoro Sierra), di Brasilia (Sergio da Rocha), del Venezuela (Baltazar Enrique Porras Cardozo), di Malines-Bruxelles (Joseph de Kesel) e i due statunitensi Blaise Cupich e il religioso Joseph Tobin. Infine due nomine che raccontano l’importanza che per Bergoglio hanno le dinamiche familiari nella vita spirituale di ciascuno: quella del prefetto del nuovo dicastero Laici Famiglia Vita, monsignor Kevin J.Farrel, e quella del messicano Carlos Aguiar Retes, voluto proprio dal Papa ai due Sinodi sulla famiglia. Oltre a Corti, i quattro ultraottantenni che, per ragioni di età, non potrebbero prendere parte a un ipotetico Conclave, sono invece padre Ernest Simoni, sacerdote di Scutari, testimone della persecuzione della Chiesa albanese sotto il regime comunista, Anthony Soter Fernandez, vescovo emerito di Kuala Lumpur e Sebastian Koto Khoarai, vescovo Emerito di Mohale’s Hoek, nell’Africa del Sud. «La loro provenienza - ha spiegato il Papa prima di rivelare la lista dei porporati - esprime l’universalità della Chiesa». Venezia. La diocesi di San Marco non è più sede cardinalizia e il suo primate, monsignor Francesco Moraglia, si scopre una volta ancora escluso dall’assemblea dei grandi elettori della Chiesa. L’esito del terzo concistoro voluto da Papa Francesco lascia l’amaro in bocca alle aspettative della comunità cattolica veneziana e veneta: al patriarca Moraglia, presidente della Conferenza episcopale del Triveneto, è negata la porpora tradizionalmente accordata alla cattedra marciana chiamata ad esprimere (da Pio X a Giovanni XXIII fino a Giovanni Paolo I)- ben tre pontefici in un secolo. Difficile non scorgere nella circostanza un ridimensionamento della rappresentatività dell’episcopato nordestino ai vertici della Santa Sede, attenuato appena dall’elezione del “diplomatico” veronese Mario Zenari. Ma se la delusione è comprensibile, sarebbe errato e del tutto fuorviante interpretare la scelta di Bergoglio come una bocciatura dell’operato del Patriarca. Vero è che Moraglia - al pari del predecessore Angelo Scola (arcivescovo di Milano) e di Cesare Nosiglia (ieri vescovo a Vicenza, oggi a Torino) - appartiene all’“asse del nord” di estrazione ruiniana che in seno alla Cei non nasconde qualche perplessità verso la svolta “pauperista” intrapresa dal papa argentino, impegnato tuttora in un braccio di ferro - sul versante della trasparenza finanziaria e della gestione delle risorse - con l’ala conservatrice della Curia. Ma non è questo il fattore che ostacola la concessione della berretta al pastore di Venezia, il cui impegno inclusivo - capace di dialogare con le tante sensibilità di una città vocata alla pluralità cosmopolita- è in realtà apprezzato tra le mura leonine. Le scelte cardinalizie di Jorge Bergoglio, commentano i vaticanisti più

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avveduti, non mirano a premiare o e penalizzare le aspirazioni dei singoli ma piuttosto a porre fine alla prassi degli «automatismi» che volevano questa o quella diocesi “titolare” di un ufficioso ma indiscusso tributo ecclesiale, quasi un’eco medievale dei “benefici residenziali” riconosciuti ai principi-vescovi. Una tradizionale plurisecolare capace di alimentare «la malattia del carrierismo» sempre denunciata dal gesuita che, nei suoi primi atti di nomina, non ha mancato di elevare a vescovi due “preti di strada” ignoti al Vaticano quanto amati dalle comunità di provenienza. Non solo politica interna. Perché questo Concistoro enfatizza la visione globale del Papa “venuto dalla fine del mondo”: la sua Chiesa non è più eurocentrica e tantomeno elegge l’Italia a teatro privilegiato. Guarda alle periferie del pianeta, ai Paesi africani, asiatici e latinoamericani dove la fede mantiene vitalità e forza propulsiva smarrite dalla terra dell’evangelista Marco che fu “vigna del Signore”. WWW.CHIESA.ESPRESSONLINE.IT Tredici nuovi cardinali più quattro. Vincitori e vinti del prossimo concistoro di Sandro Magister La torta in faccia che si buscò sei anni fa l'arcivescovo di Bruxelles André-Joseph Léonard, dileggiato per le sue posizioni tradizionali sia in dottrina che in pastorale, ha trovato oggi una ben più sostanziosa replica nella porpora conferita da papa Francesco al suo successore e rivale progressista, Jozef De Kesel. Nei precedenti concistori, aveva ripetutamente creato sconcerto il rifiuto di papa Jorge Maria Bergoglio di far cardinale Léonard, nonostante l'importanza della sede da lui governata e le qualità della persona. Si disse che il nuovo papa non volesse più privilegiare le diocesi storicamente cardinalizie, a vantaggio delle "periferie". Ma con De Kesel questo scrupolo è prontamente caduto. Titolo di merito del neocardinale è d'essere pupillo di Godfried Danneels, predecessore di Léonard e capofila della "mafia" – definizione sua – di San Gallo, il club cardinalizio dei grandi elettori di Bergoglio nel conclave fallito del 2005 e in quello riuscito del 2013. Ma questa non è affatto l'unica botta messa a segno da papa Francesco con l'annuncio dei tredici nuovi cardinali, più altri quattro d'età non più da conclave, da lui fatto al termine dell'Angelus di questa domenica 9 ottobre. È vero che qualche promozione di "periferia" c'è, come quelle degli arcivescovi di Bangui nella Repubblica Centroafricana, di Dhaka in Bangladesh, di Port-Louis nelle Isole Maurizio e di Port Moresby in Papua Nuova Guinea. Ma anche alcune grandi diocesi tradizionalmente cardinalizie sono state premiate con la porpora. Ad esempio quella di Madrid, il cui arcivescovo Carlos Osoro Sierra, lì collocato dallo stesso Bergoglio, sì è guadagnata la promozione anche per aver lasciato esposti al pubblico ludibrio, senza prenderne le difese, due suoi vescovi suburbicari colpevoli di aver criticato i matrimoni omosessuali. Ma a far più scalpore è il conferimento della porpora al titolare di un'altra grande diocesi storicamente cardinalizia, quella di Chicago. Il premiato è Blase J. Cupich, cioè l'uomo su cui Bergoglio ha puntato di più per rovesciare a proprio vantaggio gli equilibri di forze dentro la conferenza episcopale degli Stati Uniti. Non solo. I nuovi cardinali statunitensi sono ben tre su tredici. E uno di questi, Joseph W. Tobin, arcivescovo di Indianapolis, ha ottenuto la sua rivincita dopo essere stato estromesso nel 2012 dalla curia vaticana – dove era il numero due della congregazione per i religiosi – per aver scopertamente appoggiato le suore americane ultraprogressiste. Il terzo nuovo cardinale statunitense, sia pur di nascita irlandese, è Kevin J. Farrell, da poco chiamato a Roma come prefetto del neonato dicastero per i laici, la famiglia e la vita. A suo proposito si può notare che in questa carica ha soffiato il posto – e di conseguenza la porpora – a monsignor Vincenzo Paglia, l'ecclesiastico di più alto grado della Comunità di Sant'Egidio. La quale è quindi rimasta all'asciutto anche in questo concistoro, alla pari dell'Opus Dei, il cui arcivescovo più in vista, José Horacio Gómez, è titolare di Los Angeles, un'altra delle grandi diocesi storiche, ma è anche per sua sfortuna agli antipodi dell'ultrabergogliano Cupich. Tra gli altri promossi, è curioso che il Venezuela abbia, per la prima volta nella storia, un secondo cardinale (mentre altri paesi dell'America latina non ne hanno nemmeno uno), forse per ridimensionare la preminenza dell'arcivescovo di Caracas, Jorge L. Urosa Savino, che è uno dei tredici cardinali della famosa lettera di protesta che irritò grandemente Francesco all'inizio del sinodo dello scorso ottobre. Più di vetrina è il cardinalato dato all'attuale nunzio in Siria, Mario Zenari. Così come, tra gli

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ultraottantenni, la porpora conferita a Renato Corti, vescovo emerito di Novara e molto vicino, in passato, al cardinale gesuita Carlo Maria Martini, durante l'episcopato di questi a Milano. Commovente la porpora per il vecchio sacerdote albanese Ernest Simone, martire vivente delle atroci persecuzioni del passato regime. Ecco di seguito i tredici nuovi cardinali elettori, nell'ordine e con le qualifiche con cui sono stati annunciati da papa Francesco: 1. Mons. Mario Zenari, che rimane Nunzio Apostolico nell’amata e martoriata Siria (Italia); 2. Mons. Dieudonné Nzapalainga, C.S.Sp., Arcivescovo di Bangui (Repubblica Centrafricana); 3. Mons. Carlos Osoro Sierra, Arcivescovo di Madrid (Spagna); 4. Mons. Sérgio da Rocha, Arcivescovo di Brasilia (Brasile); 5. Mons. Blase J. Cupich, Arcivescovo di Chicago (U.S.A.); 6. Mons. Patrick D’Rozario, C.S.C., Arcivescovo di Dhaka (Bangladesh); 7. Mons. Baltazar Enrique Porras Cardozo, Arcivescovo di Mérida (Venezuela); 8. Mons. Jozef De Kesel, Arcivescovo di Malines-Bruxelles (Belgio); 9. Mons. Maurice Piat, Arcivescovo di Port-Louis (Isola Maurizio); 10. Mons. Kevin Joseph Farrell, Prefetto del Dicastero per i Laici, la Famiglia e la Vita (U.S.A.); 11. Mons. Carlos Aguiar Retes, Arcivescovo di Tlalnepantla (Messico); 12. Mons. John Ribat, M.S.C., Arcivescovo di Port Moresby (Papua Nuova Guinea); 13. Mons. Joseph William Tobin, C.SS.R., Arcivescovo di Indianapolis (U.S.A.). Più i quattro ultraottantenni: 1. Mons. Anthony Soter Fernandez, Arcivescovo Emerito di Kuala Lumpur (Malaysia); 2. Mons. Renato Corti, Arcivescovo [per l'esattezza: Vescovo - ndr] Emerito di Novara (Italia); 3. Mons. Sebastian Koto Khoarai, O.M.I, Vescovo Emerito di Mohale’s Hoek (Lesotho); 4. Reverendo Ernest Simoni, Presbitero dell’Arcidiocesi di Shkodrë-Pult (Scutari – Albania). Il concistoro in cui saranno fatti cardinali è in programma per il 19 e 20 novembre. Dopo questo concistoro, in un ipotetico conclave non avranno un cardinale, in America latina, Cuba, Repubblica Dominicana, Ecuador, Bolivia, Paraguay. Quest'ultimo paese non ha mai avuto un cardinale in tutta la sua storia. AVVENIRE di domenica 9 ottobre 2016 Pag 3 Un padre tra noi (lo stile di Francesco) di Giovanni D’Ercole Semplice e storica visita nell’Ascolano terremotato Mercoledì 5 ottobre, il mattino dopo la breve visita di papa Francesco a Pescara del Tronto e alla tendopoli di Borgo d’Arquata sono andato in Vaticano per portare in dono alcuni prodotti che le aziende locali, lesionate o addirittura distrutte dal sisma, avevano preparato per lui. Volevamo offrirglieli al termine della sua visita come segno tangibile della volontà di riprendere la vita senza cedere allo scoraggiamento, ma purtroppo non è stato possibile. Qualcuno si chiederà perché. La risposta ci permette di toccare con mano lo stile di papa Francesco. Vale la pena ripercorrere l’iter di questa visita che passerà alla storia perché Francesco è il primo papa a tornare nell’Ascolano dal 1859, quando Pio IX venne e sostò proprio ad Ascoli. Mercoledì 28 settembre, la diocesi di Ascoli ha compiuto il pellegrinaggio giubilare in Vaticano ed è ripartita con la sicurezza che papa Francesco sarebbe venuto a trovare i terremotati: sicura quindi la sua venuta, ma incerta la data sino all’ultimo momento. E così è stato. Perché? Per l’effetto sorpresa? Mi sembra riduttivo. La visita di un pontefice, ancor più in una terra terremotata, chiede una preparazione attenta per ragioni connesse proprio alla complessità della situazione umana e logistica originata dall’evento sismico. Organizzare una sua visita prevista per tempo, permette di prevenire al massimo le difficoltà a essa connesse, mentre non è la stessa cosa accogliere l’arrivo improvviso del Papa. Francesco come in tante altre occasioni, ha scelto invece di arrivare senza preavvisi: è partito da solo, solo con l’autista e qualche uomo della sicurezza al seguito. Anche il sottoscritto, malgrado quello che si possa pensare, è stato avvisato nell’immediatezza del suo arrivo e, tra l’altro, il Papa è giunto ben in anticipo su quanto era possibile immaginare. Per questo, nella

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concitazione, non abbiamo potuto offrirgli il dono perché pur in fretta non si è riusciti a confezionarlo. Questo è il suo stile ed è bene comprenderlo per abituarci e per assimilare il messaggio che ci sta comunicando. Il Papa vuole dirci che si muove liberamente e ama la 'normalità' delle relazioni; vuole avere con tutti un contatto diretto e immediato, in maniera semplice senza ufficialità e protocolli, quasi come un parroco che va tra i suoi parrocchiani. E così incontra chi trova sul luogo e nel momento. Ci dobbiamo abituare perché, almeno in queste circostanze, non ama imbattersi in un ammassamento di gente con la schiera delle autorità che lo aspettano. Era il suo stile da Arcivescovo in Buenos Aires, intende conservarlo il più possibile da Vescovo di Roma. Questo modo di fare ci sorprende, e per alcuni è addirittura non conveniente. Io credo sia una lezione di semplicità in piena coerenza con le scelte e il programma di questo pontificato. Ci aiuta a percepire una dimensione più feriale del Papa. Francesco tende ad abolire le distanze, è esempio di «Chiesa in uscita» che cammina con e fra la gente. Mostra con i fatti il cammino che tutti noi, vescovi e sacerdoti, siamo chiamati a percorrere per tornare a quella semplicità e libertà d’animo di Gesù che leggiamo nel Vangelo. Ho riflettuto a lungo su questo suo stile, che in quest’occasione ho toccato con mano; lo ritengo una spinta ad abbracciare la strada della coerenza e della quotidianità evangelica in ogni sua forma, rinunciando ai privilegi legati al ruolo. E c’è di più: l’improvviso arrivo del Papa tra noi ci abitua a vedere in lui non la personalità da riverire, bensì il padre che in ogni momento può venire a trovarci perché è di casa. Sicuramente per noi non è facile adattarci a questo stile 'francescano', ma è importante capirlo perché ci riporta a Gesù, il quale camminava tra la gente e decideva per strada di entrare nelle case cogliendo di sorpresa chi doveva ospitarlo. Tutto questo ci dice la sua improvvisata e breve visita a Pescara del Tronto e a Borgo Arquata. Da una parte non ha permesso a tanti di incontrarlo, salutarlo e vederlo lasciando qualcuno deluso e scontento, a tutti ha però insegnato che il Papa non è una figura 'magica' e lontana, ma cammina con noi, al nostro passo. È uno di noi, il cui linguaggio ispira fiducia perché supportato dalla coerenza dei gesti. Per questo sorprende e conquista il cuore anche di chi si dice lontano dalla fede cristiana. Pag 17 Ccee, Bagnasco presidente dei vescovi europei di Mimmo Muolo Subentra a Erdö. Nichols e Gadecki i due vice Le prime parole dopo l’elezione sono una mano tesa, un’offerta di collaborazione e un invito al dialogo. «Vorremmo che l’Europa potesse contare sulla Chiesa cattolica, che non la temesse, così come non avesse timore delle altre Chiese cristiane. Insomma che non abbia paura della dimensione religiosa, perché essa non sottrae nulla a ciò che è umano, ma semmai lo fonda e lo garantisce». Neanche mezz’ora dopo che l’Assemblea plenaria del Consiglio delle Conferenze episcopali europee (Ccee) lo ha scelto come suo nuovo presidente, il cardinale Angelo Bagnasco si presenta nella sala stampa attigua all’Aula dei lavori (che si concluderanno oggi) per il suo primo breve, ma significativo saluto da numero uno dell’organismo europeo. Cita il Papa e parla di «valori portanti» del continente, l’arcivescovo di Genova e presidente della Cei, del loro necessario fondamento in quella «dimensione trascendente» che «è la migliore garanzia per una convivenza veramente umana e non soltanto organizzativa». E ribadisce, sottolineandoli, concetti già diverse volte espressi nelle sue prolusioni al Consiglio permanente e all’Assemblea generale. Concetti che evidentemente i vescovi europei condividono, come hanno testimoniato facendo convergere i loro voti su di lui. Oltre a questo, l’elezione di Bagnasco (primo italiano ad assumere la carica dopo la riforma dello statuto voluta nel 1993 da san Giovanni Paolo II, il quale chiamò nel Ccee direttamente i presidenti degli episcopati nazionali; il secondo in assoluto considerando la presidenza di Carlo Maria Martini prima di quello spartiacque), che subentra a Peter Erdö si iscrive anche in un’ottica di continuità dato che l’arcivescovo di Genova era fino a ieri vicepresidente. E conferma la consuetudine non scritta secondo cui a un presidente dell’est segue uno dell’ovest e viceversa (il mandato ha durata quinquennale, rinnovabile senza limiti e con l’unica condizione che l’eletto sia presidente in carica del suo episcopato). Di Europa a due polmoni, del resto, aveva parlato anche il Papa nel messaggio inviato giovedì all’Assemblea. E l’indicazione è stata puntualmente seguita, poiché uno dei due nuovi vicepresidenti - anch’essi votati ieri - è il presidente dei vescovi polacchi, l’arcivescovo di

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Poznan, Stanislaw Gadecki. Mentre la scelta dell’altro vice, il cardinale Vincent Nichols, arcivescovo di Westminster a capo della Conferenza episcopale di Inghilterra e Galles, è chiaramente un segnale dell’importanza attribuita al mondo britannico dai vescovi europei, nonostante la Brexit. Oltre tutto, ha chiosato ieri monsignor Gadecki, «è stata eletta una terna che riguardo alle problematiche continentali ha la stessa visione». Una visione che il cardinale Bagnasco ha riassunto in pochi ma incisivi tratti, parlando con i giornalisti. Primo: «L’invito a non farci prendere dalla paura perché faremmo il gioco di chi semina terrore e morte». Secondo: «L’Europa ripensi seriamente se stessa, perché c’è bisogno di più Europa, non di meno». Ma «un’Europa che sia fondata – ha ricordato il porporato – su una base spirituale e morale che ispira una identità culturale alta e bella, secondo la sua tradizione e la sua storia». Terzo: l’inclusione. «L’Europa deve poter offrire a tutti i suoi cittadini, vecchi e nuovi, compresi gli immigrati – ha detto Bagnasco – non soltanto un’organizzazione, materiale, sociale, politica ed economica, ma innanzitutto una serie di valori, che non escludono nessuno». In questo i richiami del Papa sono fondamentali. «Gli siamo molto grati per le sue continue sollecitazioni: parole paterne e piene dell’ansia apostolica di cui san Paolo è stato grande maestro, perché tutti possiamo correre il rischio di rinchiuderci in alcuni schemi». Quanto poi al rapporto con la società, il neo presidente del Ccee, ha sottolineato: «Spero che l’Europa si lasci aiutare, che ascolti almeno qualche volta con attenzione le nostre sollecitazioni di ordine spirituale, morale, culturale in difesa della persona e non contro la sua felicità». Dio, ha aggiunto il cardinale, «non è geloso della libertà dell’uomo. Tutt’altro. È anzi il suo miglior garante». Infine Bagnasco ha parlato di una «peculiare missione dell’Europa» perché «ogni continente ha qualcosa di peculiare da offrire al mondo intero», una missione da riscoprire e «in questo – ha rimarcato – noi come Chiesa vorremmo aiutarla». Anche il Papa, «accennando a un continente un po’ stanco, ha detto che non deve abbattersi ». E «non si abbatte, se non si ripiega su stesso chiudendo i confini». «Aprirsi – ha concluso il nuovo presidente del Ccee – non significa perdere se stessi, ma mantenere se stessi in dialogo con tutti». Pag 17 “Noi diaconi permanenti, sposi e ministri” di Sara Melchiori Incontro della comunità diaconale del Triveneto Equilibrio, consapevolezza, maturità, chiarezza. Sono queste gli ingredienti perché matrimonio e diaconato, nella loro vocazione di servizio alla Chiesa, possano convivere, crescere ed essere pienamente vissuti. È un po’ questa la traccia di indirizzo emersa dal secondo convegno ecclesiale della comunità diaconale del Triveneto, svoltasi ieri all’Opera della Provvidenza Sant’Antonio di Sarmeola di Rubano (Padova). «Un’occasione di incontro, a due anni dal primo convenire a Verona – ha ricordato il vescovo delegato per il Triveneto e arcivescovo di Udine, Andrea Bruno Mazzocato – per creare un tessuto di rapporto e di sintonia ecclesiale ». L’intervento di don Giuseppe Como, docente di teologia spirituale e rettore dell’équipe per la formazione dei diaconi permanenti della arcidiocesi di Milano, ha approfondito il tema e il rapporto tra matrimonio e diaconato, partendo dalle esperienze concrete, per analizzare poi le indicazioni del magistero e arrivare ad alcuni spunti di riflessione teologico-spirituale. Sullo sfondo anche quanto emerge dalla prima indagine sul diaconato, condotta dall’Osservatorio socio religioso del Triveneto (Alessandro Castegnaro e Monica Chilese, Uomini che servono. L’incerta rinascita del diaconato permanente, Edizioni Messaggero). Essere diaconi e essere sposi insieme. Due dimensioni che chiedono di trovare una comunione e una reciproca crescita, dove il servizio diaconale deve trovare il proprio spazio, senza relegare la famiglia a ritagli di tempo o viceversa; dove non si viva concorrenza tra diaconato e moglie, ma neppure si confonda il ministero del diacono con un ministero di coppia; dove l’“acconsentire” della sposa alla vocazione diaconale del marito comprende anche tutta la complessità di possibili difficoltà, paure, necessità di condivisione, concessioni reciproche e altrettanto reciproca maturazione. Un percorso da vivere insieme, ma nel rispetto dei “ruoli”, sapendo che il diaconato 'uxorato' coinvolge la moglie senza per questo farla diventare una sorta di “diaconessa”. Il tutto nella consapevolezza che ordine e matrimonio sono sacramenti del cristiano adulto, ha precisato don Como, e chi si sente chiamato al diaconato è un cristiano «che ha già maturato nella vita coniugale o nel celibato la sua dimensione di servizio alla Chiesa». Parole di gratitudine e vicinanza ai

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diaconi e alle loro spose sono state espresse dal patriarca di Venezia, Francesco Moraglia, che ha presieduto l’Eucaristia e offerto alcuni spunti di riflessione, ricordando che «il diacono non è costituito per una sua decisione o, ancor più, per una voglia di primeggiare nella comunità ma per il bene della Chiesa; è un “mandato”, inviato dal vescovo là dove la Chiesa ha bisogno. È così che il diaconato arricchisce la Chiesa proprio attraverso il ministero inteso come servizio ». Bando perciò ad alcune derive nel leggere la figura del diacono: «non è un super-laico o un quasi-prete», ma è «colui che nella Chiesa ricorda il servizio come realtà che appartiene all’istituzione e che, anche sul piano ascetico-spirituale, esprime tale realtà ecclesiale». Così pure le mogli sono chiamate a svolgere un compito che accompagna e, in certi momenti, integra il loro ministero. Il patriarca ha poi evidenziato come lo spirito di servizio che anima il diacono non sia riconducibile a una mera «funzione di pura solidarietà o sostegno umano» ma è «qualcosa che sgorga dall’altare e all’altare ritorna», perché «l’agire del diacono esprime la presenza e l’azione di Cristo-servo e sempre si riferisce a Lui». LA NUOVA di domenica 9 ottobre 2016 Pag 20 La nipote di Papa Luciani: “Non faceva uso di sonniferi” di f.d.m. La nuova ipotesi sulla morte «È la solita maldicenza». Così, di brutto, reagisce Pia Luciani, nipote di Albino divenuto papa nel 1978 e morto dopo soli trentatré giorni. Secondo un’ultima indiscrezione, Giovanni Paolo I sarebbe morto a causa dell’assunzione di una dose eccessiva di sonniferi, che avrebbe provocato l’arresto cardiaco. «Non può essere vero», ribatte la signora Pia, che vive a Caviola, pochi chilometri sopra Canale d’Agordo, il paese natale di Luciani. «Mio zio non prendeva mai le medicine da solo. Gliele ha sempre somministrate suor Vincenza Taffarel, che lo ha seguito per lunghi anni, da Vescovo di Vittorio Veneto a patriarca di Venezia e fino in Vaticano». Può essersi sbagliata? «Assolutamente no, era di una precisione unica. Anche quando mio zio aveva mal di testa e chiedeva qualche pastiglia, suor Vincenza interpellava prima un medico». Ma Pia Luciani fa un’altra precisazione, ancora più importante. «Mi sorprende questa storia dei sonniferi. Mio zio non se ne è mai servito e trovo strano che avesse cominciato a prenderli proprio in quei giorni, da Papa». Luciani è morto nella notte tra il 28 e il 29 settembre 1978, per un arresto cardiaco. «I medici, all’epoca», riferisce la nipote, «a noi familiari avanzarono un’ipotesi: che l’infarto fosse avvenuto per il ripresentarsi di quell’embolo all’occhio che colpì l’allora patriarca di Venezia, nel 1975, nel corso della sua visita pastorale in Brasile». Un’embolia polmonare provoca una morte quasi istantanea. E lo stesso Luciani, parlando con la sorella Antonia, avrebbe considerato che se quell’embolo si fosse fermato nel cuore o nei polmoni, la morte sarebbe stata istantanea. Vive ancora a Vittorio Veneto il medico personale di Luciani, Antonio Da Ros. La sera del 28 settembre il Papa avrebbe parlato al telefono con lui, ma Da Ros ribadirà in più occasioni che il suo illustre assistito non aveva fatto il minimo riferimento a malesseri. Non può essere che quella notte, in cui probabilmente Luciani era teso a seguito di una serie di pesanti problematiche, si sia sbagliato a leggere il bugiardino, confondendo le dosi consigliate? «Assolutamente no», conferma la nipote Pia. «Lo ripeto, è tutta fantasia. Suor Vincenza stessa mi ha rassicurato che la sera prima mio zio stava bene e non le aveva riferito di alcun dolore». Torna al sommario L’OSSERVATORE ROMANO di sabato 8 ottobre 2016 Pag 1 La giovinezza del Vangelo di Lorenzo Baldisseri Nel prossimo sinodo Il tema del prossimo sinodo è «I giovani, la fede e il discernimento vocazionale». La scelta del Papa nasce dall’ascolto dei pastori della Chiesa, attraverso fasi successive, in continuità con l’esperienza delle due assemblee sulla famiglia e con l’esortazione apostolica «Amoris laetitia». L’obiettivo della convocazione sinodale è dunque «accompagnare i giovani nel loro cammino esistenziale verso la maturità affinché, attraverso un processo di discernimento, possano scoprire il loro progetto di vita e

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realizzarlo con gioia». Nell’esortazione accompagnamento e discernimento sono le parole chiave che evocano la prospettiva con la quale la Chiesa si rivolge a tutte le famiglie, nell’orizzonte della cura pastorale. Il presupposto è l’accoglienza, l’esito è l’integrazione nella vita ecclesiale e nella società. Non si tratta infatti di un percorso riservato ad alcuni: tutti hanno il diritto di ricevere la parola del Vangelo, e di rispondervi in coscienza e con libertà. Analogamente con il nuovo tema sinodale si vuole promuovere la partecipazione dei giovani alla vita delle comunità cristiane e un loro maggiore coinvolgimento nei processi di costruzione della società. I giovani hanno il futuro davanti a loro, sperano di poterlo costruire, di raggiungere il meglio per la propria vita. Il desiderio di realizzarsi in pienezza, il coraggio di intraprendere sentieri sconosciuti, di rischiare nuove strade appartengono naturalmente alla giovinezza, in ogni contesto culturale e religioso. Per questo la Chiesa sinodale si mette in cammino per incontrare i giovani, nelle loro concrete situazioni esistenziali, ascoltare la loro voce, le loro difficoltà, i loro desideri, le loro aspettative, anche quando la loro fede è vacillante o assente. Il primo passo dei pastori è dunque quello di star dietro, per seguire lo slancio generoso seppur incerto, delle giovani generazioni. Potrà seguire l’accompagnamento lungo le strade tortuose della ricerca, attraverso il confronto, il dialogo, il paziente discernimento. Infine, sarà possibile indicare ai giovani la direzione, star loro innanzi per sostenerli nei momenti di difficoltà. In questo modo, insieme ai giovani, la Chiesa impara, dialoga, insegna. La Chiesa avverte così l’urgenza di attraversare con le giovani generazioni i sentieri della storia, con in mano il Vangelo e la sua esigente carica di coerenza e di impegno per i più deboli ed emarginati. Affinché i giovani possano prepararsi a scelte significative e a costruire un progetto di vita che porti alla piena realizzazione di se stessi, è necessario offrire loro strumenti che li mettano in grado di vivere concretamente i loro sogni. I giovani sono sognatori: ciò li rende particolarmente cari allo sguardo di Dio. A loro anzitutto è rivolta la domanda del Papa, formulata il 16 marzo 2015 durante la messa a Santa Marta: «Avete mai pensato: il Signore mi sogna? Mi pensa? Io sono nella mente, nel cuore del Signore? Il Signore è capace di cambiarmi la vita?». Quando un giovane sperimenta la gioia dell’incontro con Gesù, e ha la grazia di rimanere colpito da queste domande, nel suo cuore può schiudersi anche l’orizzonte della vocazione al sacerdozio e alla vita consacrata. Perciò l’attenzione principale va rivolta al discernimento. Occorre tenere presente cosa s’intende con il termine, quali elementi lo costituiscono e come si può svolgere questo processo. Riguarda i giovani, ai quali andrà mostrata l’importanza in ordine alle scelte da compiere, scelte che mirino al loro vero bene e permettano loro di vivere con gioia. Riguarda anche chi li accompagna (genitori, pastori, educatori) ai quali occorre fornire strumenti adeguati. Raccontano i vangeli che i giovani hanno sempre trovato un maestro pronto ad ascoltarli: il Signore Gesù. Poco più grande di loro, li ha chiamati amici, li ha tenuti con sé accogliendo le loro fragilità senza paternalismo, mostrando loro il cuore del Padre. Sapevano che era il Signore, ma solo dopo la morte in croce hanno trovato nello Spirito la forza di diventare testimoni della sua risurrezione. Riconoscenti al Papa per aver scelto di convocare questa nuova assemblea, siamo chiamati a riflettere con gioia sul suo tema, per riscoprire la giovinezza del Vangelo. Pag 6 Sinodalità e primato Per il dialogo teologico fra cattolici e ortodossi Dal 16 al 21 settembre si è tenuto a Francavilla al Mare (Chieti) il quattordicesimo incontro della Commissione mista internazionale per il dialogo teologico fra la Chiesa cattolica e la Chiesa ortodossa. Al termine l’assemblea ha approvato un documento, intitolato Sinodalità e primato nel primo millennio. Verso una comune comprensione nel servizio all’unità della Chiesa, del quale pubblichiamo una nostra traduzione dall’inglese. «Quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunciamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi. E la nostra comunione è con il Padre e con il figlio suo, Gesù Cristo. Queste cose vi scriviamo, perché la nostra gioia sia piena» (1 Giovanni, 1, 3-4). 1. La comunione ecclesiale nasce direttamente dall’incarnazione del Verbo eterno di Dio, secondo la benevolenza (eudokía) del Padre, per mezzo dello Spirito santo. Cristo, venuto sulla terra, ha fondato la Chiesa come suo corpo (cfr. 1 Corinzi, 12, 12-27).

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L’unità esistente tra le persone della Trinità si riflette nella comunione (koinonía) dei membri della Chiesa tra loro. Così, come ha affermato san Massimo il Confessore, la Chiesa è un éikon della santissima Trinità1. Durante l’ultima cena Gesù Cristo ha pregato il Padre: «Custodiscili nel tuo nome, quello che mi hai dato, perché siano una sola cosa, come noi» (Giovanni, 17, 11). Questa unità trinitaria è manifestata nella santa Eucaristia, dove la Chiesa prega Dio Padre per Gesù Cristo nello Spirito santo. 2. Sin dai primordi, la Chiesa una esisteva come molte Chiese locali. La comunione (koinonía) dello Spirito santo (cfr. 2 Corinzi, 13, 13) era vissuta sia in seno a ogni Chiesa locale sia nelle relazioni tra di loro come unità nella diversità. Sotto la guida dello Spirito (cfr. Giovanni, 16, 13) la Chiesa sviluppò modelli d’ordine e pratiche varie, conformemente alla sua natura di «popolo che fonda la sua unità nell’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito santo»2. 3. La sinodalità è una qualità fondamentale della Chiesa nel suo insieme. Come ha detto san Giovanni Crisostomo: «“Chiesa” significa sia assemblea [sýstema] sia sinodo [sýnodos]»3. L’espressione deriva dalla parola “concilio” (sýnodos in greco, concilium in latino), che denota in primo luogo un’assemblea di vescovi, sotto la guida dello Spirito santo, per la deliberazione e l’azione comuni nella cura della Chiesa. In senso lato, si riferisce alla partecipazione attiva di tutti i fedeli alla vita e alla missione della Chiesa. 4. Il termine primato si riferisce all’essere primo (primus, prótos). Nella Chiesa il primato appartiene al suo Capo, Gesù Cristo, «principio, primogenito di quelli che risorgono dai morti, perché sia lui ad avere il primato [protéuon] su tutte le cose» (Colossesi, 1, 18). La tradizione cristiana mostra chiaramente che, nell’ambito della vita sinodale della Chiesa a vari livelli, un vescovo è stato riconosciuto come il “primo”. Gesù Cristo associa questo essere “primo” con il servizio (diakonía): «Se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti» (Marco, 9, 35). 5. Nel secondo millennio, la comunione è stata spezzata tra Oriente e Occidente. Sono stati compiuti molti sforzi per ripristinare la comunione tra cattolici e ortodossi, ma senza successo. La Commissione mista internazionale per il dialogo teologico tra la Chiesa cattolica e la Chiesa ortodossa, nel suo lavoro costante per superare le divergenze teologiche, ha esaminato il rapporto tra sinodalità e primato nella vita della Chiesa. Le diverse comprensioni di queste realtà hanno svolto un ruolo importante nella divisione tra ortodossi e cattolici. Pertanto, è essenziale cercare di giungere a una comprensione comune di queste realtà interrelate, complementari e inscindibili. 6. Al fine di giungere a questa comprensione comune di primato e sinodalità, è necessario riflettere sulla storia. Dio si rivela nella storia. È particolarmente importante compiere insieme una lettura teologica della storia della liturgia della Chiesa, della spiritualità, delle istituzioni e dei canoni, che hanno sempre una dimensione teologica. 7. La storia della Chiesa nel primo millennio è fondamentale. Malgrado alcune fratture temporanee, all’epoca i cristiani d’Oriente e d’Occidente vivevano in comunione e, in quel contesto, furono costituite le strutture essenziali della Chiesa. Il rapporto tra sinodalità e primato assunse diverse forme, che possono offrire agli ortodossi e ai cattolici una guida fondamentale nei loro sforzi per ripristinare oggi la piena comunione. La Chiesa locale 8. La Chiesa una, santa cattolica e apostolica della quale Cristo è il capo è presente oggi nella sinassi eucaristica di una Chiesa locale sotto il suo vescovo. È lui che presiede (proestós). Nella sinassi liturgica, il vescovo rende visibile la presenza di Gesù Cristo. Nella Chiesa locale (vale a dire nella diocesi), i molti fedeli e il clero sotto l’unico vescovo sono uniti tra di loro in Cristo e sono in comunione con lui in ogni aspetto della vita della Chiesa, specialmente nella celebrazione dell’Eucaristia. Come insegnava sant’Ignazio di Antiochia, «dove compare il vescovo, là sia la comunità, come là dove c’è Gesù Cristo ivi è la Chiesa cattolica [katholiké ekklesía]»4. Ogni Chiesa locale celebra in comunione con tutte le altre Chiese locali che confessano la vera fede e celebrano la stessa Eucaristia. Quando un presbitero presiede l’Eucaristia, il vescovo locale viene sempre ricordato in segno di unità della Chiesa locale. Nell’Eucaristia, il proestós e la comunità sono interdipendenti: la comunità non può celebrare l’Eucaristia senza un proestós, e il proestós, a sua volta, deve celebrare con una comunità. 9. Questa interrelazione di proestós o vescovo e comunità è un elemento costitutivo della vita della Chiesa locale. Insieme al clero, che collabora al suo ministero, il vescovo locale agisce in mezzo ai fedeli, che sono il gregge di Cristo, quale garante e servitore

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dell’unità. Quale successore degli apostoli, egli esercita la sua missione come impegno di servizio e di amore, custodendo la sua comunità e guidandola, come suo capo, verso un’unità sempre più profonda con Cristo nella verità, conservando la fede apostolica attraverso la predicazione del Vangelo e la celebrazione dei sacramenti. 10. Poiché il vescovo è il capo della sua Chiesa locale, egli rappresenta la sua Chiesa dinanzi alle altre Chiese locali e nella comunione di tutte le Chiese. Allo stesso modo rende questa comunione presente nella sua Chiesa. È questo un principio fondamentale di sinodalità. La comunione regionale delle Chiese 11. Ci sono prove in abbondanza che i vescovi nella Chiesa dei primordi erano consapevoli di avere una responsabilità comune per la Chiesa nel suo insieme. Come ha detto san Cipriano, c’è «un solo episcopato, diffuso in una moltitudine armonica di molti vescovi»5. Questo vincolo di unità era espresso nel requisito che almeno tre vescovi partecipassero all’ordinazione (cheirotonía) di un nuovo vescovo6; era anche evidente negli incontri multipli di vescovi in concili o sinodi per discutere di questioni comuni di dottrina (dógma, didaskalía) e di prassi, nonché nei loro frequenti scambi epistolari e nelle visite reciproche. 12. Già durante i primi quattro secoli si formarono diversi raggruppamenti di diocesi in regioni particolari. Il prótos, il primo tra i vescovi della regione, era il vescovo della prima sede, la metropoli, e il suo ufficio di metropolita era sempre legato alla sua sede. I concili ecumenici attribuirono alcune prerogative (presbéia, pronomía, díkaia) al metropolita, sempre nel quadro della sinodalità. Così, il primo concilio ecumenico (Nicea, 325), pur chiedendo a tutti i vescovi di una provincia la loro partecipazione personale o il consenso scritto a una elezione e consacrazione episcopale - atto sinodico per eccellenza - attribuiva al metropolita la convalida (kýros) dell’elezione di un nuovo vescovo7. Il quarto concilio ecumenico (Calcedonia, 451) ricordò di nuovo i diritti (díkaia) del metropolita - insistendo sul fatto che questo ufficio fosse ecclesiale e non politico8 - proprio come il settimo concilio ecumenico (Nicea II, 787)9. 13. Il Canone apostolico 34 propone una descrizione canonica della correlazione tra il prótos e gli altri vescovi di ogni regione [éthnos]: «I vescovi di ciascuna nazione debbono riconoscere colui che è il primo [prótos] tra di loro, e considerarlo il loro capo [kephalé], e non fare nulla di importante senza il suo consenso [gnóme]; ciascun vescovo può soltanto fare ciò che riguarda la sua diocesi [paroikía] e i territori che dipendono da essa. Ma il primo [prótos] non può fare nulla senza il consenso di tutti. Poiché in questo modo la concordia [homónoia] prevarrà, e Dio sarà lodato per mezzo del Signore nello Spirito santo»10. 14. L’istituzione della metropoli è una forma di comunione regionale tra Chiese locali. In seguito si svilupparono altre forme, vale a dire i patriarcati comprendenti diverse metropoli. Sia il metropolita sia il patriarca erano vescovi diocesani con pieni poteri episcopali nelle loro diocesi. Nelle questioni legate alle loro rispettive metropoli o nei patriarcati, però, dovevano agire in accordo con gli altri vescovi. Questo modo di agire è alla radice delle istituzioni sinodiche nel senso stretto del termine, come il sinodo regionale dei vescovi. Questi sinodi venivano convocati e presieduti dal metropolita o dal patriarca. Lui e gli altri vescovi agivano in mutua complementarità ed erano responsabili dinanzi al sinodo. La Chiesa a livello universale 15. Tra il quarto e il settimo secolo, si iniziò a riconoscere l’ordine (táxis) delle cinque sedi patriarcali, basato sui concili ecumenici e da essi sancito, con la sede di Roma al primo posto, esercitando un primato d’onore (presbéia tes timés), seguita da quella di Costantinopoli, Alessandria, Antiochia e Gerusalemme, in questo ordine preciso, secondo la tradizione canonica11. 16. In Occidente, il primato della sede di Roma fu compreso, specialmente a partire dal quarto secolo, con riferimento al ruolo di Pietro tra gli apostoli. Il primato del vescovo di Roma tra i vescovi fu man mano interpretato come una prerogativa che gli apparteneva in quanto era successore di Pietro, primo tra gli apostoli12. Questa comprensione non fu adottata in Oriente, che aveva su questo punto un’interpretazione diversa delle Scritture e dei Padri. Il nostro dialogo potrà ritornare su tale questione in futuro. 17. Quando veniva eletto un nuovo patriarca in una delle cinque sedi della táxis, era prassi comune che inviasse una lettera a tutti gli altri patriarchi, annunciando la sua

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elezione e includendo una professione di fede. Tali “lettere di comunione” erano un’espressione profonda del vincolo canonico di comunione tra i patriarchi. Includendo il nome del nuovo patriarca, secondo il giusto ordine, nei dittici delle loro chiese, letti durante la liturgia, gli altri patriarchi riconoscevano la sua elezione. La táxis delle sedi patriarcali trovava la sua massima espressione nella celebrazione della santa Eucaristia. Ogni volta che due o più patriarchi si riunivano per celebrare l’Eucaristia, si ponevano secondo la táxis. Questa prassi manifestava la natura eucaristica della loro comunione. 18. A partire dal primo concilio ecumenico (Nicea, 325), le questioni rilevanti riguardanti la fede e l’ordine canonico nella Chiesa furono discusse e risolte dai concili ecumenici. Anche se il vescovo di Roma non partecipò di persona a nessuno di quei concili, ogni volta fu rappresentato dai suoi legati o approvò le conclusioni conciliari post factum. La comprensione della Chiesa dei criteri per la recezione di un concilio come ecumenico si sviluppò nel corso del primo millennio. Per esempio, spinto da circostanze storiche, il settimo concilio ecumenico (Nicea II, 787) descrisse in modo dettagliato i criteri così come erano intesi allora: la concordia (symphonía) dei capi delle Chiese, la cooperazione (synérgheia) del vescovo di Roma, e l’accordo degli altri patriarchi (symphronúntes). Un concilio ecumenico deve avere il proprio numero appropriato nella sequenza dei concili ecumenici e il suo insegnamento deve essere in sintonia con quello dei concili precedenti13. La recezione da parte della Chiesa nel suo insieme è sempre stato l’ultimo criterio dell’ecumenicità di un concilio. 19. Nei secoli sono stati rivolti numerosi appelli al vescovo di Roma, anche dall’Oriente, su questioni disciplinari, come la deposizione di un vescovo. Al sinodo di Sardica (343) fu fatto un tentativo di stabilire regole per questa procedura14. Sardica fu recepita al concilio in Trullo (692)15. I canoni di Sardica stabilivano che un vescovo che era stato condannato poteva fare appello al vescovo di Roma e che quest’ultimo, se lo riteneva opportuno, poteva ordinare un nuovo processo, che doveva essere svolto dai vescovi nella provincia limitrofa a quella del vescovo stesso. Appelli in materia disciplinare furono rivolti anche alla sede di Costantinopoli16 e ad altre sedi. Tali appelli alle sedi maggiori furono sempre trattati in modo sinodico. Gli appelli al vescovo di Roma dall’Oriente esprimevano la comunione della Chiesa, ma il vescovo di Roma non esercitava un’autorità canonica sulle Chiese d’Oriente. Conclusione 20. Per tutto il primo millennio, la Chiesa in Oriente e in Occidente fu unita nel preservare la fede apostolica, mantenere la successione apostolica dei vescovi, sviluppare strutture di sinodalità inscindibilmente legate al primato, e nella comprensione dell’autorità come servizio (diakonía) d’amore. Sebbene l’unità tra Oriente e Occidente sia a volte stata complicata, i vescovi di Oriente e Occidente erano consapevoli di appartenere alla Chiesa una. 21. Questa eredità comune di principi teologici, disposizioni canoniche e pratiche liturgiche del primo millennio rappresenta un punto di riferimento necessario e una potente fonte di ispirazione sia per i cattolici sia per gli ortodossi mentre cercano di curare la ferita della loro divisione all’inizio del terzo millennio. Sulla base di questa eredità comune, entrambi devono riflettere su come il primato, la sinodalità e l’interrelazione che esiste tra loro possono essere concepiti ed esercitati oggi e in futuro. Note 1. Cfr. san Massimo il Confessore, Mystagogia (PG 91, 663D). 2. San Cipriano, De oratione dominica, 23 (PL 4, 536). 3. Cfr. san Giovanni Crisostomo, Explicatio in psalmum 149 (PG 55, 493). 4. Sant’Ignazio, Lettera agli smirnesi, VIII. 5. San Cipriano, Epistulae, 55, 24, 2; si veda anche De unitate, 5: episcopatus unus est cuius a singulis in solidum pars tenetur. 6. Primo concilio ecumenico (Nicea, 325), canone IV: «Si abbia la massima cura che un vescovo sia istituito da tutti i vescovi della provincia. Ma se ciò fosse difficile o per sopravvenute difficoltà, o per la distanza, almeno tre, radunandosi nello stesso luogo, e non senza aver avuto prima per iscritto il consenso degli assenti, celebrino la consacrazione. La conferma [kýros] di quanto è stato compiuto è riservata in ciascuna provincia al vescovo metropolita». Cfr. anche Canone apostolico, 1: «Un vescovo deve essere consacrato da due o tre vescovi».

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7. Primo concilio ecumenico (Nicea, 325), canone IV; anche canone VI: «Se qualcuno è fatto vescovo senza il consenso del metropolita, questo grande sinodo stabilisce che costui non debba esser vescovo». 8. Quarto concilio ecumenico (Calcedonia, 451), canone XII: «Quelle città, però, che già avessero ricevuto con lettere imperiali l’onorifico titolo di metropoli godranno del solo onore, così pure il vescovo che governa quella Chiesa, salvi, naturalmente, i privilegi della vera [katà alétheian] metropoli». 9. Settimo concilio ecumenico (Nicea II, 787): il canone XI concede ai metropoliti il diritto di nominare gli economi delle loro diocesi suffraganee se i vescovi non provvedono a farlo. 10. Cfr. concilio di Antiochia (327), canone IX: «È appropriato che i vescovi in ogni provincia [eparchía] sottostiano al vescovo che presiede la metropoli». 11. Cfr. primo concilio ecumenico (Nicea, 325), canone VI: «In Egitto, nella Libia e nella Pentapoli siano mantenute le antiche consuetudini per cui il vescovo di Alessandria abbia autorità su tutte queste province; anche al vescovo di Roma infatti è riconosciuta una simile autorità. Ugualmente ad Antiochia e nelle altre province siano conservati alle chiese gli antichi privilegi [presbéia]»; secondo concilio ecumenico (Costantinopoli, 381), canone III: «Il vescovo di Costantinopoli avrà il primato d’onore [presbéia tes timés] dopo il vescovo di Roma, perché tale città è la nuova Roma»; quarto concilio ecumenico (Calcedonia, 451), canone XXVIII: «Giustamente i padri concessero privilegi [presbéia] alla sede dell’antica Roma, perché la città era città imperiale. Per lo stesso motivo i centocinquanta vescovi diletti da Dio concessero alla sede della santissima nuova Roma, onorata di avere l’imperatore e il senato, e che gode di privilegi uguali a quelli dell’antica città imperiale di Roma, eguali privilegi anche nel campo ecclesiastico e che fosse seconda dopo di quella» (questo canone non fu mai recepito in Occidente); cfr. concilio in Trullo (692), canone XXXVI: «Rinnovando le disposizioni dei centocinquanta Padri riuniti nella città imperiale protetta da Dio, e quelle dei seicentotrenta che si sono riuniti a Calcedonia, decretiamo che la sede di Costantinopoli abbia uguali privilegi [presbéia] della sede dell’antica Roma, e sia tenuta in alto conto nelle questioni ecclesiali poiché questa sede è e deve essere seconda a essa. Dopo Costantinopoli viene la sede di Alessandria, poi quella di Antiochia e quindi la sede di Gerusalemme». 12. Cfr. Girolamo, In Isaiam, 14, 53; Leone, Sermo 96, 2-3. 13. Cfr. settimo concilio ecumenico (Nicea II, 787): J. D. Mansi, Sacrorum conciliorum nova et amplissima collectio, XIII, 208D-209C. 14. Cfr. sinodo di Sardica (343), canoni III e V. 15. Cfr. concilio in Trullo, canone II. Similmente, il concilio di Fozio dell’861 accettò i canoni di Sardica come riconoscenti il diritto di cassazione del vescovo di Roma su casi già giudicati a Costantinopoli. 16. Cfr. quarto concilio ecumenico (Calcedonia, 451), canoni IX e XVII. AVVENIRE di sabato 8 ottobre 2016 Pag 2 Una foto e una scelta che valgono un mondo di Angelo Scelzo Riflessioni sulla visita del papa nei luoghi del sisma Il Papa, di spalle, solo e sullo sfondo le macerie di Amatrice: se una foto è anche un racconto quella di Francesco nei paesi terremotati parla e narra fino ai dettagli della natura e dello stile di un pontificato. La forza di pietre ridotte in polvere è grande, ed è per questo che dalle rovine di Amatrice lo sguardo non fa fatica ad allargarsi al mondo, e ad altre macerie non di pietra, ma non meno rovinose. Le guerre, i morti, gli esodi forzati da continente a continente, la schiavitù, la fame e tutti gli orrori disseminati da ingiustizie e sopraffazioni dell’uomo sull’uomo. E diventa naturale pensare che a questo scenario più ampio Francesco accompagni, con gli occhi e con il cuore, la sua chiesa in uscita: quella che ha la particolarità di trovarsi sempre più a suo agio proprio laddove è massimo, invece, il disagio. È il segno di un cammino alla rovescia, della scelta controcorrente di voltare le spalle e di girarsi dall’altra parte. Ma dalla parte giusta, in cerca di chi è difficile da vedere, o soltanto da scorgere. Papa Francesco ha ormai insediato la Chiesa su queste frontiere di “retroguardia” dalle quali la vista verso gli “avamposti” si fa più ampia e più libera. Amatrice, come ogni altro Paese colpito dal terremoto, è stata così il nuovo capezzale sul quale si è inchinata la sua chiesa da

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campo; un’altra ferita nel corpo dilaniato di una terra che non trova pace e che ha invece bisogno di chi l’aiuti a trovarla a ogni costo. Davanti a un panorama di macerie, l’ansia tutta francescana di «riparare la casa» – l’uscio di Amatrice, la porta del mondo – si è manifestata in tutta la sua struggente intensità. Francesco, solo, di spalle, vestito della sua semplicità, era la Chiesa che apriva il cuore e si rimboccava le maniche, pronta a una nuova prova, ma già in campo su tutti i fronti e sempre dalla parte dall’uomo, della sua dignità. Dal Caucaso al Reatino c’è stato lo spazio di appena 48 ore, ma ancora più esile è stato il divario di significato tra i due eventi: la Chiesa di Francesco non solo visita ma accorre, e non lascia suonare invano le tante sirene di allarme che si levano da ogni parte nel mondo. Per chi sa tendere le orecchie e aprire lo sguardo, la terra non è altro che un grande villaggio: non quello omologato e fatto simile a un mercato secondo le leggi di una globalizzazione senz’anima, ma una «casa comune» che ha per norma fondamentale la solidarietà e la condivisione. Anche di fronte alle macerie di Amatrice, Francesco ha mostrato come una Chiesa che accorre è tutt’altro che un mero organismo da «pronto soccorso». Essa non invade campi, né ad Amatrice («Non sono venuto prima per non dare fastidio») né in ogni altra parte nel mondo. E non ha bisogno di piantare bandiere. La sua casa è l’uomo e dove egli vive. Il Reatino vale il Caucaso, e Lesbo vale Cuba, l’Africa, l’America Latina. Una globalizzazione anche, ma radicalmente diversa. E ancora alla rovescia. Perché la chiesa di papa Francesco, nell’era di internet e nel profluvio delle connessioni, è quella che ha preso a bussare a ogni porta. LA REPUBBLICA di sabato 8 ottobre 2016 Pag 22 La tristezza del Papa per le nozze delle ex suore di Paolo Rodari Il vicesegretario di Stato Becciu su Twitter: “Quando ha letto la storia si è rabbuiato” Città del Vaticano. «Quanta tristezza sul volto del Papa quando gli ho letto la notizia delle due "suore" spose!». Così scrive su Twitter monsignor Angelo Becciu, sostituto della segreteria di Stato vaticana, riferendosi all' intervista che Repubblica ha fatto ieri a suor Federica e a suor Isabel, le due religiose che hanno lasciato le loro comunità e si sono unite civilmente nei giorni scorsi a Pinerolo. Becciu è sceso a Santa Marta, dove abita Bergoglio, nella mattinata di ieri. Ha mostrato al Papa una copia di Repubblica con l'intervista. Francesco non ha commentato, seppure abbia avuto una reazione amara. Perché? Non tanto per la scelta delle due religiose, raccontano in Vaticano. Quanto per il racconto che le stesse hanno fatto della vita di religiosi e religiose che per non dare scandalo, e continuare a condurre un'esistenza «comoda e falsa», vivrebbero clandestinamente la propria omosessualità. Un conto, spiegano Oltretevere, è lasciare l'abito, un altro è accusare, per altro senza fare nomi, l'ipotetica ipocrisia di altri. Becciu non è solito intervenire su Twitter. Se l'ha fatto evidentemente l'amarezza del Papa era cosa non da poco. Bergoglio aveva seguito già una settimana fa la vicenda delle due suore. Anche allora aveva preferito non dire nulla. E nemmeno ha reagito, ieri, alla richiesta di comprensione che nell'intervista le due religiose hanno inviato proprio a lui. «Il Papa ha detto: "Chi sono io per giudicare?". Ecco: nessuno dovrebbe permettersi di giudicare. Quella frase ci ha aperto il cuore», hanno sottolineato suor Federica e suor Isabel. Il Papa ha avuto semplicemente una smorfia di amarezza. Beninteso, lui è per accogliere a braccia aperte ogni persona, omosessuali compresi. Ma quando ex religiosi, come fu il caso di Krzysztof Charamsa, teologo dell'ex Sant'Uffizio che un anno fa lasciò il Vaticano dichiarandosi gay, accusano di omofobia la Chiesa alla quale hanno appartenuto per anni, le cose cambiano. Entrambe le religiose hanno 44 anni. Federica è originaria del Sud Italia mentre Isabel è sudamericana. Si sono dette "sì" lo scorso 28 settembre, nel Municipio di Pinerolo, nel Torinese. A celebrare l'unione civile è stato il sindaco Luca Salvai, del Movimento 5 Stelle. «Il nostro amore - hanno confidato al giornale - è un dono di Dio: nessuno può impedirlo». Non è stato facile: «Ci siamo sentite sole, di più, abbandonate. Ma qualche consorella ci ha incoraggiato: "Se avessi la vostra età lo farei anch'io"». E hanno raccontato anche dove e come si conobbero e il momento in cui scoccò la scintilla: «Da suore missionarie, durante un viaggio in Guinea Bissau. Insieme ci siamo trovate a lavorare al fianco dei più poveri, come è sempre avvenuto da quando, ventenni, abbiamo preso il velo. Lì abbiamo capito che al mosaico della nostra vocazione si aggiungeva una nuova tessera».

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IL FOGLIO di sabato 8 ottobre 2016 Pag I Il silenzio di Dio di Matteo Matzuzzi L’uomo postmoderno non comprende più la misteriosa eternità divina. Senza rumore cade in un’inquietudine sorda e lancinante. Il nuovo libro del cardinale Robert Sarah "Mentre un profondo silenzio avvolgeva tutte le cose, e la notte era a metà del suo corso, la tua parola onnipotente dal cielo, dal tuo trono regale, guerriero implacabile, si lanciò in mezzo a quella terra di sterminio, portando, come spada affilata, il tuo ordine inesorabile" (Sapienza 18,14) Io grido a te ma tu non mi rispondi, insisto ma tu non mi dai retta", urla Giobbe contro quel Dio che aveva servito e riverito e dal quale era stato messo alla prova, piagato nel corpo, lasciato quasi solo al mondo. E' l'imprecazione dell'uomo, umanissima, naturale. Disperata e disarmata dinanzi a quel silenzio incomprensibile. Gustave Flaubert ha elevato quelle pagine alla cosa più bella mai letta nella vita; Benedetto XVI, varcando i confini di Auschwitz, dieci anni fa, chiedeva conto a Dio del perché avesse taciuto davanti al lungo camino che lavorava indefesso nel compiere lo sterminio voluto da mano umana. Al silenzio (dell'uomo, di Dio, dell'uomo davanti a Dio e di Dio davanti all'uomo) il cardinale Robert Sarah ha dedicato il suo ultimo libro, pubblicato qualche giorno fa in Francia ed edito da Fayard, La forza del silenzio. Contro la dittatura del rumore, una conversazione con Nicolas Diat, con il quale aveva già firmato Dio o niente (2015). Il Dio silenzioso, che non parla né interviene nelle cose di questo mondo in modo palese è anche la più ovvia delle giustificazioni per quanti ne negano l'esistenza, professandosi banalmente agnostici o rifacendosi a dotte elucubrazioni kantiane. Il silenzio è un tema complesso che ha scandagliato l'anima dei padri della chiesa fin dai primi tempi, che ha angustiato filosofi credenti e atei, posto interrogativi e indotto a pensare. Soren Kierkegaard - citato ampiamente nel volume - vi dedicò pagine stupende, basti pensare all'indagine sul silenzio di Abramo, angosciante e sofferente. "Devo umilmente riconoscere che ho balbettato di fronte a un così grande mistero", scrive Sarah. "Chi potrebbe parlare del silenzio, e soprattutto di Dio, in una forma adeguata? Possiamo tentare di parlare di Dio solo a partire dalla nostra propria esperienza di silenzio. Perché Dio è avvolto nel silenzio e si rivela nel silenzio interiore del nostro cuore". Nel cuore dell'uomo c'è "un silenzio innato, perché Dio abita nel profondo di ogni persona. Dio è silenzio, e questo silenzio divino abita l'uomo. In Dio, noi siamo inseparabilmente legati al silenzio. La chiesa può affermare che l'umanità è figlia di un Dio silenzioso". Un silenzio che, scriveva Thomas Merton, può essere insopportabile ed è proprio qui che sta la più grande difficoltà dell'uomo: cercare Dio nel (e con il) silenzio. E' qui che gioca un ruolo determinante la fede, perché "il silenzio divino è una rivelazione misteriosa". Si torna al punto di partenza, al tentativo di comprendere quel silenzio nel dramma dell'umanità. Elie Wiesel scrisse che per lui Auschwitz non fu solo uno scandalo umano ma anche teologico: come è stato possibile, dov'era Dio mentre i treni piombati entravano nel campo polacco? Il filosofo tedesco di religione ebraica Hans Jonas ha tentato di rispondere con argomentazioni alte e sopraffini, concludendo che Dio non può essere onnipotente, avendo la libertà umana in fondo la possibilità di fermare la mano divina. "Ma se Dio rinuncia alla potenza, allora non è Dio", scrive Sarah. "L'infinito di Dio non è un infinito nello spazio, un oceano senza fondo e senza sponde". Dio - osserva il cardinale - "non è indifferente al male. In primo luogo, possiamo credere che Dio permetta il male per distruggere gli uomini. Ma se Dio tace, soffre con noi per il male che ha lacerato e sfigurato la terra. Se cerchiamo di essere con Dio nel silenzio, si capisce la sua presenza e l'amore". L'uomo è ansioso di dare una risposta alle difficoltà, alle sofferenze, ai disastri che si abbattono sull'umanità. Da sempre è così, fino dai tempi di Giobbe. "Ma ci dimentichiamo che l'origine dei nostri mali nasce dall'illusione che siamo qualcosa di diverso dalla polvere. L'uomo che si fa divinità non vuole riconoscere che è un mortale". Giovanni Paolo II disse che "il silenzio divino è spesso motivo di perplessità e persino di scandalo, tuttavia non si tratta di un silenzio che indica un'assenza, quasi che la storia sia lasciata in mano ai perversi e il Signore rimanga indifferente e impassibile". In realtà, chiosava Karol Wojtyla, "quel tacere sfocia in una reazione simile al travaglio di una partoriente che s'affanna, sbuffa e urla. E' il giudizio divino sul male, raffigurato con immagini di aridità, distruzione, deserto, che ha come meta un risultato vivo e fecondo". Il fatto è che "molti dei nostri contemporanei non possono accettare il silenzio di Dio. Non ammettono che sia possibile

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entrare in comunicazione in modo diverso che non siano le parole, i gesti o le azioni concrete e visibili". Ma "Dio parla attraverso il silenzio". Il suo silenzio è una parola. Per comprenderlo, oggi, si deve salire su qualche eremo isolato o calpestare le pietre fredde di vecchi monasteri - sempre più rari - rimasti quasi uguali nei secoli. O ancora, scalare le vette montane, come suggeriva Giovanni Paolo II, per accorgersi che Dio effettivamente esiste, ché quella beltà non può che derivare dal disegno misterioso e affascinante del Creatore. "Credo che noi siamo le vittime della superficialità, dell' egoismo e dello spirito mondano. Ci perdiamo in lotte per stabilire l'influenza, in conflitti tra persone, in un narcisistico e vano attivismo", ha detto il cardinale Robert Sarah in una recente intervista concessa alla Nef. "Ci gonfiamo di orgoglio e di pretese, prigionieri di una volontà di potenza. Per cercare titoli, incarichi professionali o ecclesiastici accettiamo compromessi vili. Ma tutto ciò passa, come il fumo. Nel mio libro - aggiunge - ho voluto invitare i cristiani e le persone di buona volontà a entrare nel silenzio. Senza di esso, ci troviamo in un'illusione. L'unica realtà che merita la nostra attenzione è Dio stesso, e Dio tace. Aspetta il nostro silenzio per rivelare se stesso". Anche per questo, scrive ne La forza del silenzio, "è necessario uscire dal tumulto interiore per trovare Dio. Nonostante i turbamenti, il consumismo, i piaceri facili, Dio resta silenziosamente presente. E' in noi come un pensiero, una parola e una presenza le cui fonti segrete sono nascoste nello stesso Dio, inaccessibili agli occhi umani". C'è un paradosso, se si vuole considerarlo tale, nell'invocare la solitudine, l'isolamento da tutto per ritrovare se stessi e gli altri. "La solitudine è lo stato migliore per trovare il silenzio di Dio. Per chi vuole trovare il silenzio, la solitudine è la montagna che deve essere scalata". Un' impresa, insomma. Perché oggi, e Sarah lo ripete più volte, "i poteri mondani che cercano di plasmare l'uomo moderno scartano metodicamente il silenzio". In un mondo ipertecnologico come quello contemporaneo, come è possibile trovare questo silenzio? Non è questione di iscriversi a corsi per sconnettersi da internet né di spegnere per qualche ora lo smartphone che spesso fa percepire come vere e reali relazioni che in realtà sono meramente virtuali. "Abbiamo la sensazione che il silenzio sia divenuto un'oasi inattingibile. Senza rumore, l'uomo postmoderno cade in una inquietudine sorda e lancinante. E' abituato a un rumore di fondo permanente, che lo rende malato e lo rassicura". Senza rumore, aggiunge il cardinale prefetto del Culto divino e la disciplina dei sacramenti, l'uomo pare perduto. Il rumore lo rassicura, come una droga da cui è divenuto dipendente. L'agitazione diviene un tranquillante, un sedativo, una dose di morfina, una forma di sogno, d'onirismo senza consistenza". Uno stato che fa perdere i riferimenti vitali e necessari e ancora di più il contatto con Dio, con la preghiera. "Il nostro mondo non comprende più Dio perché parla continuamente, a un ritmo e a una velocità della luce, per non dire niente. La civiltà moderna non sa tacere, nega il passato e vede il presente come un vile oggetto di consumo. Guarda l'avvenire attraverso le ragioni di un progresso quassi ossessivo". C'è l'illusione che con "le manifestazioni esteriori", osserva il cardinale, si abbia la prova della prossimità divina: ma "i nostri amici più vicini, a volte, sono lontani da noi, impediti dall'amarci". In uno scritto pubblicato all'inizio dell'anno, Sarah osservava che "in senso negativo il silenzio è l'assenza di rumore. Può essere esteriore o interiore". Nel corso della sua visita a Sulmona, nel luglio del 2010, Benedetto XVI aveva riflettuto proprio su questo punto, sottolineando come noi "viviamo in una società in cui ogni spazio, ogni momento sembra debba essere riempito da iniziative, da attività, da suoni; spesso non c'è il tempo neppure per ascoltare e per dialogare. Non abbiamo paura di fare silenzio fuori e dentro di noi, se vogliamo essere capaci non solo di percepire la voce di Dio, ma anche la voce di chi ci sta accanto, la voce degli altri". La riflessione di Robert Sarah si sposta sull'occidente, incapace di godere del silenzio e quindi di pregare. Lui, uomo d'un piccolo villaggio della Guinea che proprio in un monastero francese si è convinto sempre di più di quanto il silenzio orante sia svanito, portandosi dietro molto dell'eredità che aveva reso grande e prospero il cristianesimo nel Vecchio mondo. Senza silenzio si perde anche il senso del sacro, scrive oggi. E' sufficiente guardare, in molte realtà grandi e piccole, lo stato della liturgia, gli abusi e le frequenti "autocelebrazioni di preti che entrano in chiesa trionfalmente". Silenzio e sacro: i due aspetti sono connessi, se cade uno cade anche l'altro. L'aveva già rimarcato qualche mese fa, auspicando anche una riscoperta della pratica ascetica, divenuta ormai cosa per pochi eletti. L'ascesi, "una parola estranea alla nostra società consumistica che spaventa i nostri contemporanei, compresi

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anche i cristiani, che subiscono l'influenza dello spirito mondano è un mezzo indispensabile che ci aiuta a togliere dalla nostra esistenza tutto quanto l'appesantisce, vale a dire ciò che ostacola la nostra vita spirituale o interiore, e che dunque costituisce un ostacolo per la preghiera. Ed è proprio nella preghiera che Dio ci comunica la sua Vita, ossia manifesta la sua presenza nella nostra anima, irrigandola con i flutti del suo Amore trinitario: il Padre attraverso il Figlio nello Spirito Santo. E la preghiera è essenzialmente silenzio". Oggi, invece, si moltiplicano le "immense celebrazioni eucaristiche composte da migliaia e migliaia di partecipanti" che altro non fanno se non favorire il pericolo di "trasformare l' eucaristia, il grande mistero della fede, in una banale kermesse", scrive il cardinale. "I preti che distribuiscono le sacre specie non conoscono nessuno e danno il corpo di Gesù a tutti, senza discernimento tra i cristiani e i non cristiani, partecipano alla profanazione del santo sacrificio eucaristico". Il risultato di queste "gigantesche e ridicole autocelebrazioni" è che "davvero pochi comprendono che 'voi annunciate la morte del Signore affinché egli venga'". Di nuovo, serve silenzio. "Non illudiamoci. Questa è la cosa veramente urgente: riscoprire il senso di Dio", ha aggiunto ancora alla Nef: "Il Padre si lascia avvicinare solo nel silenzio. Ciò di cui la chiesa ha più bisogno oggi non è una riforma amministrativa, un altro programma pastorale, un cambiamento strutturale. Il programma c'è già: è quello che abbiamo sempre avuto, tratto dal Vangelo e dalla viva Tradizione. E' centrato su Cristo stesso, che dobbiamo conoscere, amare e imitare, per vivere in Lui e per Lui, per trasformare il nostro mondo che è degradato, perché gli esseri umani vivono come se Dio non esistesse". LA NUOVA di sabato 8 ottobre 2016 Pag 11 ”Papa Luciani vittima di una dose eccessiva di sonniferi” di Silvia Quaranta La nuova ipotesi del teologo e giornalista Gennari sulla morte del pontefice bellunese Belluno. Si riaccende il giallo sulla morte di Papa Albino Luciani, pontefice appena per 33 giorni, deceduto nella notte tra il 28 e il 29 settembre 1978. Le fonti ufficiali vaticane, all’epoca, parlarono genericamente di infarto: la causa fu spiegata privatamente dal cardinale Giuseppe Siri, arcivescovo di Genova, secondo il quale il Papa, persona di semplicità evangelica e spiccata emotività, sarebbe forse stato stroncato dalla troppa emozione. Inutile dire che le teorie in merito - anche assai fantasiose - si sono sprecate, ma secondo l’ultima ricostruzione emersa la causa sarebbe quanto mai concreta: troppi sonniferi, presi in un dose tale da provocare l’arresto cardiaco. Un “suicidio”, involontario però: Luciani avrebbe semplicemente sbagliato a leggere il bugiardino, confondendo le dosi consigliate. L’ipotesi non è del tutto nuova, ma a confermarla sta volta è l’ex sacerdote Gianni Gennari, noto teologo e collaboratore dell’“Avvenire”, in una lunga intervista al settimanale “Oggi” in edicola. Quella sera, sembra, il Papa di Canale d’Agordo non stava bene: aveva sofferto per un lieve malessere, avvertiva dolori al petto. Senza allarmare nessuno, però, si ritirò silenziosamente nella sua stanza: qui, non trovando quiete, provò ad assumere un calmante, per dormire. Non è dato sapere se ne facesse uso abituale, se l'avesse semplicemente con sé o se a consigliarlo fu il medico curante di Vittorio Veneto. L’unica certezza è che intorno alle 5 del mattino la sua governante “storica”, suor Vincenza Taffarel, lo trovò esanime, seduto sul letto con la luce del comodino accesa e un foglio di appunti tra le mani. Suor Vincenza, tra l’altro, disse che la sera prima il Papa stava bene e non ricordava di alcun dolore. Né è ben chiaro come qualche goccia in più di Effortil, il farmaco che prendeva il pontefice, abbia potuto ucciderlo. Ma credere o meno, come spesso accade, è questione di fede. Torna al sommario 4 – ISTITUZIONI, ASSOCIAZIONI, MOVIMENTI E GRUPPI IL GAZZETTINO DI VENEZIA di domenica 9 ottobre 2016 Pag VII Misericordia Day. Dimostrazioni e informazione a San Giacometo di Giorgia Pradolin Una giornata uggiosa scaldata dall'impegno assistenziale. Ieri a Venezia sono arrivati dall'Emilia Romagna e dal Friuli Venezia Giulia per festeggiare il «Misericordia Day» La

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Festa del volontariato organizzata ogni anno dall'Arciconfraternita di S. Cristoforo e della Misericordia di Venezia. Una giornata di prevenzione e dimostrazioni di primo soccorso, dove sono stati premiati i medici e i volontari delle attività socio-assistenziali sul territorio, con momenti di aggregazione e raccoglimento. L'ambulatorio di campo San Giacometto a Rialto, ieri mattina, ha aperto le porte ai cittadini effettuando controlli glicemici e misurazione dei parametri vitali (pressione arteriosa, frequenza cardiaca e respiratoria). Il pomeriggio ha dato spazio alle dimostrazioni simulate di primo intervento da parte dei volontari ad effettuare simulazioni di massaggi cardiaci e di rianimazione. Alle 18 la messa a S. Giacometto, presieduta dal vicario generale mons. Angelo Pagan. Premiati i volontari e tre medici veneziani che prestano servizio volontario nell'ambulatorio. Il presidente della Misericordia veneziana Giuseppe Mazzariol ha espresso: «Gioia e soddisfazione per l'impegno della squadra e la risposta della città. É aumentata la presenza dei giovani, puntiamo soprattutto a loro con i corsi di primo soccorso come quelli che si stanno tenendo a Sant'Andrea e vedono la partecipazione di una sessantina di persone». Pag VIII Forte Mazzorbo, la gestione andrà all’Agesci La Giunta ha approvato la delibera che concede all'Agesci - associazione Guide e Scouts Cattolici Italiani - per quattro anni l'area di Forte Mazzorbo, al fine di sviluppare attività educative, ricreative e didattiche. La convenzione consentirà di allestire campi scuola e di svolgere attività di Protezione civile e campi di formazione. Tra i gruppi, le comunità e le associazioni che sostengono il progetto ci sono: l'associazione canoistica Arcobaleno, l'associazione ex allievi di Don Bosco, l’associazione dilettantistica lagunare kayak S. Erasmo), la comunità pastorale di San Pietro, San Giuseppe e San Francesco di Paola di Castello, il sestante di Venezia, la base scout isola Mazzorbetto, il gruppo anziani volontariato fraterno, Masci Zona Serenissima e il patronato Salesiano Leone XXIII. IL GAZZETTINO DI VENEZIA di sabato 8 ottobre 2016 Pag VI Misericordia, in campo San Giacometo la festa del volontariato con i test medici gratuiti La Misericordia di Venezia celebra oggi a Rialto il "Misericordia day", la festa del volontariato che vedrà le dimostrazioni di primo soccorso a San Giacometo. Dalle 10 alle 12 e dalle 15 alle 17 l’ambulatorio di San Giacometo sarà aperto al pubblico per controlli gratuiti di glicemia e misurazione dei parametri vitali. Dalle 16.30 invece in campo ci sarà la dimostrazione di prove simulate di primo soccorso con i volontari della confraternita. Alle 18 messa solenne presieduta da monsignor Angelo Pagan. Al termine, consegna di medaglie e benemerenze e rinfresco. Torna al sommario 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO CORRIERE DELLA SERA Pag 10 Case, auto e cibo: così il ceto medio si sta salvando con l’economia condivisa di Dario Di Vico L’affitto degli appartamenti con le piattaforme Internet integra il redito e fa nascere piccole imprese Il primo sciopero dei rider, i fattorini torinesi della piattaforma di consegne a domicilio Foodora, ha già avuto l’effetto di rilanciare sulla Rete la discussione sugli effetti della sharing economy sul mercato del lavoro italiano, discussione finora vissuta quasi esclusivamente sul conflitto tra Uber e i tassisti. Si calcola che il 17% degli italiani usi una piattaforma digitale di condivisione (Airbnb, BlaBlaCar, Gnammo e il car sharing) e il successo è crescente avendo la sharing economy saputo coniugare l’elemento razionale (l’utilizzo ottimale delle risorse) con quello valoriale (la gratificazione di concorrere a qualcosa di socialmente utile). E abbia di conseguenza coinvolto oltre al popolo del politicamente corretto anche una frazione crescente del ceto medio non riflessivo. Per di

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più è riuscita a mettere d’accordo culture politiche assai diverse tra loro, si trovano tifosi della sharing tra i liberali ortodossi come tra i sostenitori della teoria dei beni comuni. Spiega però Ivana Pais, sociologa dell’Università Cattolica di Milano: «Attenzione a non fare confusione. Il caso di Foodora non rientra nella sharing, è una prestazione a chiamata e quindi più tradizionale. A fare il prezzo non è chi presta il servizio ma l’azienda-madre e può accadere che si parta con compensi alti per i fattorini e prezzi bassi per i clienti e poi una volta conquistato lo spazio di mercato si cambino le regole per aumentare il profitto». La verità è che la sharing economy favorisce il ceto medio che ha bisogno di integrare il proprio reddito e coltivare la possibilità di diventare piccolo imprenditore, quanto al lavoro dipendente invece crea quelli che ci siamo abituati a chiamare lavoretti - negli Usa la chiamano gigeconomy - che dovrebbero essere retribuiti con equità e non con meccanismi da economia sommersa. Spiega Marta Mainieri, fondatrice di Collaboriamo e organizzatrice della due giorni di Sharitaly in programma a Milano per metà novembre: «La sharing si confà alla perfezione al ceto medio: per avere un ruolo attivo bisogna possedere un bene e se si tratta della casa è più facile metterlo a reddito. Non averla equivale a rimanere senza il biglietto d’ingresso». Questo spiega come la piattaforma che ha più successo in Italia - e va in soccorso del ceto medio - è Airbnb, che affitta le abitazioni e oggi coinvolge almeno 100 mila host (nel gergo sono le persone che mettono a disposizione la loro prima o seconda casa). A proposito di beni posseduti gli inglesi noleggiano persino i gioielli o il posto macchina e la piattaforma Skillshare ha provato a mettere sul mercato della condivisione le competenze intellettuali (skill). Il caso Airbnb - Avendo le proteste dei tassisti bloccato Uber, Airbnb resta il vero caso di studio monitorato con attenzione anche dalle associazioni degli albergatori che non mancano di avanzare dubbi sulla reale trasparenza della piattaforma. I dati nazionali ci dicono che i 100 mila host di cui abbiamo parlato hanno percepito in media nel 2015 un bonus di 2.300 euro ciascuno. Ancora poco, ma si tratta di una media perché il grosso delle transazioni si ha in quattro città (Venezia, Firenze, Roma e Milano) che richiamano turisti per l’intero anno e in questi casi l’integrazione di reddito è molto superiore. In riva all’Arno siamo sui 6.300 euro annuali e nella Capitale sui 5.500. Si calcola che in media un host dia vita a tre annunci di affitto di spazi diversi, di conseguenza è facile che in futuro si crei una polarizzazione: da una parte chi del noleggio-casa ha fatto un’attività costante e chi invece si è fermato all’integrazione saltuaria di reddito. Per ora i dati sulle fasce di ricchezza degli host sono equilibrati: il 27% gode già di un reddito annuo superiore ai 33 mila euro ma il 24% ha meno di 13.600 euro. «Il reddito generato grazie alla nostra piattaforma aiuta gli host italiani a far quadrare i conti e a rimanere nelle case che amano. Il reddito di molti di loro è inferiore al reddito medio in Italia» dicono ad Airbnb. E il caso più citato è quello di Milano dove c’è la maggiore estensione del numero di host e nella settimana del Salone del Mobile risulta si affittino anche case molto lontane dal centro. Un reddito extra per il ceto medio - Così mentre le élites rimpiangono la vecchia cetomedizzazione del Paese (che prima disprezzavano) la sharing economy in qualche modo la ricrea. Qualche host si è trasformato addirittura in un piccolo giocatore di Borsa che aumenta il prezzo dell’affitto in corrispondenza del mutamento della domanda, vedi sempre il caso milanese di Expo e delle settimane della moda. Altri sono diventati dei piccoli albergatori, capaci di studiare i movimenti della concorrenza, curare il marketing e la soddisfazione del cliente, investire sul look della casa: tutto con l’obiettivo di riempire per un maggior numero di giorni possibili l’anno. Teniamo presente che la differenza di guadagno tra affittare l’abitazione a un inquilino fisso come da tradizione e invece puntare sulla rotazione via sharing può essere del 100% a favore di quest’ultima anche con un’occupazione dell’appartamento di 20 giorni su 30 al mese. Il fenomeno non è solo italiano e il «Financial Times» ha dedicato qualche mese fa un lungo articolo all’extra-reddito immobiliare del ceto medio inglese. E comunque per avere un’idea delle iniziative sorte attorno alle piattaforme di affitto (non c’è solo Airbnb che è la più nota) a Firenze si è formata Ospitalità Alternativa un’associazione di piccoli gestori, ma soprattutto sono nate attività legate all’indotto del noleggio di abitazioni. Servizi di pulizia, servizi di consigli di arredamento, portierato. A Milano è spuntato un gruppo Facebook curato da Carlotta Bianchini che serve a scambiarsi le informazioni su aspetti fiscali, pratiche burocratiche, rapporti con le autorità amministrative e di polizia.

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«Vogliamo evitare che si allarghi la piaga degli abusivi che già esistono e con prezzi bassissimi in realtà eludono Fisco e controlli» dice Bianchini. C’è anche un’altra variante, di tipo generazionale: i genitori che danno in gestione le loro seconde case ai figli perché si responsabilizzino, inizino un’attività o comunque facciano apprendistato organizzativo. Le idee di business non mancano e sta nascendo anche un filone di turismo sanitario con collegata offerta di servizi complementari capace di fornire infermieri h24. Il rischio «professionalizzazione» - Sarebbe un errore però ricondurre tutta la sharing ad unum vuoi perché si tratta di esperienze recenti e in rapida trasformazione (e quindi difficili da normare con un legge passepartout) vuoi anche perché i modelli di business delle piattaforme sono assai diversi tra loro e risentono delle caratteristiche del settore dove operano e anche delle differenze di carattere culturale tra americani ed europei. «La grande divaricazione che nel mondo della sharing si è creata è tra lavoro professionalizzato e prestazione occasionale e le piattaforme si caratterizzano anche per la scelta a monte che hanno fatto» spiega la sociologa Pais. Ad esempio BlaBlaCar, la piattaforma francese che organizza i viaggi in condivisione e ha riportato all’onore delle cronache il vecchio autostop, sta ripulendo gli elenchi dei suoi autisti per evitare che qualcuno di loro, insistendo su una determinata tratta, si costruisca un business. Al contrario di Airbnb e di come avrebbe agito Uber. La piattaforma Gnammo, che consente di organizzare cene in casa propria facendo pagare gli ospiti, ha messo addirittura un limite ai ricavi di 5 mila euro annui, assai basso, proprio per evitare la professionalizzazione spinta. «Sono esperienze sicuramente più vicine alla narrazione iniziale della sharing - sostiene Mainieri -. Qui diventa centrale non tanto l’incremento di reddito o la professionalizzazione ma il risparmio e il confronto culturale. Viaggiando insieme in auto si mischiano comunità diverse e in una fase storica in cui la diffidenza dell’altro cresce il fatto che si accetti di stare ore in macchina con dei perfetti sconosciuti è un segno di grande apertura mentale». Resta, infine, il tema della tutela sindacale per chi lavora nelle piattaforme a chiamata come Foodora. «Lo sviluppo della sharing pone anche al sindacato una serie di domande nuove - risponde Massimo Bonini, giovane segretario generale della Cgil di Milano -. Se hai la seconda casa e la metti su Airbnb è integrazione del reddito, l’autista di Uber invece fa un vero lavoro. Per il resto bisogna capire bene quale sia il rapporto di lavoro tra l’azienda di consegna del cibo e i fattorini. La sharing non c’entra, bisogna più semplicemente accertare se sono rispettate le leggi e se esiste un contratto di qualsiasi natura esso sia». LA NUOVA Pag 1 A mancare è l’ingresso di cervelli di Francesco Jori Quelli del PAP: il partito (trasversale) delle Prefiche A Prescindere. Che dai tempi dell’antica Roma si esibiscono in pubbliche lamentazioni funebri: ieri a pagamento di un tot di sesterzi, oggi remunerati da un tot di visibilità mediatica. Come appena accaduto col rapporto di Migrantes sui giovani che se ne vanno dall’Italia, ennesimo pretesto di una stucchevole polemica politica ad oltranza. Spaziando da chi addossa la colpa al governo Renzi citando i 100mila esodi del 2015, e fingendo di ignorare il dato degli ultimi dieci anni, in cui l’esodo è stato di 2 milioni di persone, con un aumento del 55 per cento; fino a chi arriva a sfoderare il termine di “pulizia etnica”, in ossequio al suo cialtronesco ruolo di esternatore seriale. La questione in realtà c’è, ed è seria; ma proprio per questo va affrontata con serietà. Sgombrando il campo dalle generalizzazioni sommarie: c’è chi lascia il Paese perché costretto o rassegnato; e chi lo fa per libera scelta. Nell’epoca del mondo globale, la mobilità è la regola: oggi i viaggiatori internazionali sono 429 milioni, 244 milioni di persone vivono fuori dalla loro terra di origine, i lavoratori frontalieri sono 44 milioni, 5 milioni di ragazzi studiano all’estero. Una rivoluzione agevolata anche dai mezzi di trasporto: si arriva molto più agevolmente da Venezia o Trieste a Londra con voli low cost, che dalle stesse località a Torino o Roma con i costosi treni veloci. Certo, molti emigrano per necessità: ma c’è chi lo fa per una questione di soldi, e chi per sottrarsi alla tagliola di una burocrazia ottusa e prepotente che mortifica la libera iniziativa. Infine, un’esperienza all’estero non può essere che salutare: come ben sapeva la Serenissima, il cui ceto dirigente spediva i propri figli in giro per il mondo, ritenendolo essenziale per la loro formazione. Ma c’è un aspetto ancora più importante, peraltro ignorato dai coristi del PAP: il vero handicap italiano non

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è l’alto export di intelligenze, ma la mancanza di import. Non riusciamo a intercettare che le briciole di un flusso pure vistoso: già nel 2001 ammontavano a un milione e mezzo di 75 Paesi diversi i cosiddetti “talenti nomadi” trasferitisi all’estero, nel 2025 saranno 8 milioni; per contro, i ricercatori stranieri che operano in casa nostra sono appena il 2 per cento del totale, dieci volte meno della Germania, trenta meno degli Usa. Con il risultato che la nostra ideale bilancia dei pagamenti intellettuali presenta un rosso profondo nel rapporto tra quelli che con gioco di parole gli inglesi chiamano “brain drain” (fuga di cervelli) e “brain gain” (guadagno di cervelli). Tutt’altra Italia rispetto a quella che nei secoli passati era un porto rinomato di approdo per le intelligenze straniere; per limitarsi ad un esempio nordestino, basta consultare il prestigioso catalogo di docenti e studenti illustri dell’università di Padova proposto nel libro “Clariores”. Sono naturalmente molte e diverse le ragioni che hanno condotto a questa nefasta inversione di tendenza. Tra le più rilevanti, ma anche tra le meno note, c’è la teoria delle tre T proposta qualche anno fa dal sociologo americano Richard Florida, dell’università di Toronto: per attirare risorse, economiche e intellettuali, un territorio deve disporre di un mix di Tecnologia, Talento e Tolleranza. Sono questi gli ingredienti per alimentare la nascita e la crescita di una “classe creativa” che diventa il vero motore della crescita. Ed è strategica soprattutto la Tolleranza, cioè una realtà caratterizzata da mentalità aperta, dove il nuovo non fa paura, le persone si misurano per la sostanza non per l’apparenza, includere diventa uno stile di vita. Basta sfogliare le cronache quotidiane della rissosa, ingessata, faziosa Italia per capire perché gli stranieri ci girino al largo. CORRIERE DELLA SERA di sabato 8 ottobre 2016 Pag 1 Gli studenti e la protesta come un rito di Sabino Cassese Le ragioni, gli eccessi La protesta degli studenti: un rito che si ripete da un cinquantennio. Una volta si scendeva nelle strade per Trieste italiana. Ora la protesta è motivata dalle più diverse ragioni, grandi e piccole, vicine e lontane: istruzione gratuita (ma bisogna cercare i mezzi per farvi fronte, dove non lo è già, come nell’università); istruzione di qualità (anche questa una giusta richiesta, ma non si può avere dall’oggi al domani; c’è bisogno di un ventennio per realizzarla); diritto allo studio (richiesta ragionevole, anche perché garantita dalla Costituzione); rifiuto della scuola azienda e del preside manager (ma questi non vanno condannati, perché sono i mezzi per assicurare l’autonomia degli istituti scolastici pubblici e abbandonare il centralismo); critica della privatizzazione dei luoghi del sapere (ma non è meglio assicurare il fine pubblico e realizzarlo con strumenti privatistici, invece che in modi burocratici?); no alle diseguaglianze di fatto (lo disse tra i primi Karl Marx, e, nonostante tanti sforzi, sappiamo che è ancora un obiettivo lontano, che costerà lacrime e sangue); no a Renzi (in Italia c’è libertà di opinione e la Costituzione garantisce che le forze politiche, con metodo democratico, competano). Insomma, c’è tanta energia nelle richieste studentesche, ma anche tanta confusione tra speranze smisurate e speranze ragionevoli (la distinzione è di uno dei nostri maggiori storici della filosofia, Paolo Rossi). La protesta studentesca è inoltre prigioniera di due miti, quello per cui pubblico è buono, privato cattivo; e quello per cui bisogna scendere per strada, bloccare il traffico, danneggiare proprietà private e pubbliche, per farsi ascoltare. Tanti sprechi e soperchierie pubblici, tante inefficienze, tanti guasti prodotti dal burocratismo e dall’ignavia di gestori pubblici non hanno ancora convinto i nostri studenti che non si può opporre privato a pubblico, che è sbagliato ritenere il primo regno del male, il secondo regno del bene. Gli abusi della libertà di riunione, di quella di manifestare nei luoghi pubblici, i danni conseguenti, i disagi provocati a cittadini incolpevoli, non hanno ancora insegnato che la competizione «con metodo democratico» comporta anche il rispetto dei diritti degli altri e il senso del limite. È un peccato che questo senso del limite non sia entrato nello stile della protesta studentesca, perché questa troverebbe maggior ascolto. Essa ha radici comprensibili. È indicatore di un disagio di chi studia (e lavora) nella scuola, perché l’autonomia scolastica è rimasta una promessa, i mezzi sono pochi e le strutture obsolete, non esiste un sistema di istruzione ricorrente degli adulti, i governi che si sono succeduti non hanno avuto una politica scolastica. Rivela una preoccupazione, quella sul futuro. La generazione cresciuta negli anni del miracolo viveva molto peggio, ma aveva dinanzi a sé un futuro migliore. Quella

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di oggi vive meglio, dispone di più mezzi, ma sa di avere dinanzi un futuro incerto, perché la attende un’epoca di insicurezza. È questo il messaggio della protesta, e su questo sarebbe utile oggi riflettere, per cercare rimedi ragionevoli, senza coltivare smisurate speranz e. LA NUOVA di sabato 8 ottobre 2016 Pag 1 I lavoratori, salvezza delle imprese di Franco A. Grassini L’Italia è uno strano Paese: si tende sempre a sottolineare gli aspetti negativi della vita economica e poco o nulla gli esempi positivi che pure ci sono. Uno di questi ultimi, piccolissimo, ma significativo è che, nel triennio 2012-2015, ci siano stati 61 casi in cui crisi di impresa sono state superate attraverso l’acquisizione dell’azienda da parte di una cooperativa di lavoratori. Nel primo trimestre del presente anno ce ne sono stati altri 7. Trattandosi di imprese medio piccole anche i lavoratori coinvolti non sono migliaia. I numeri, ovviamente, sono modesti, ma il significato è notevole perché i lavoratori hanno sottoscritto parte del capitale, talvolta conferendo le indennità cui avevano diritto talaltra con risparmi, ed hanno corso il rischio di perderlo in caso la crisi non venisse superata. Questo è stato possibile perché parte del capitale è stata fornita da una cooperativa, Cfi, a sua volta formata da altre cooperative e dal ministero dello Sviluppo. Da notare che lo Stato, il cui intervento ha avuto luogo in base ad una legge, voluta dall’allora Ministro dell’Industria Giovanni Marcora nel 1984, non ci ha mai rimesso perché, oltre ad evitare indennità di disoccupazione e simili, ha incassato dei dividendi, dato che, con rarissime eccezioni, le crisi sono state superate e le aziende sono andate bene. Come già detto il significato di queste operazioni supera molto i singoli casi. Esso conferma, infatti, che i lavoratori possono anche in Italia assumere dei rischi e partecipare attivamente alla gestione di imprese medio-piccole. Questo è molto più difficile di quanto lo sia nelle imprese medio-grandi, perché in queste ultime, oltre ad esserci normalmente un management che ha le necessarie competenze, non c’è bisogno di avere rapporti personalizzati con clienti e fornitori. Si obietterà che i lavoratori coinvolti in questi salvataggi avevano come alternativa la perdita del posto di lavoro, ma si trascura che dette operazioni non sarebbero state possibili senza una profonda fiducia reciproca tra i lavoratori coinvolti. Questa esperienza se vista alla luce di quello che alcuni economisti comportamentali hanno messo in luce e cioè che i rapporti personali contano più degli incentivi economici per migliorare produttività ed innovazione, indica una strada per la ripresa della nostra economia. Occorre ricreare nelle imprese un rapporto di appartenenza e di fiducia reciproca, come già accade in molte delle aziende che, andando bene, hanno impedito il crollo. Molto importante al riguardo è il caso della Prysmian, l’unica multinazionale italiana senza un azionista che controlla, via scatole cinesi, senza avere la maggioranza del capitale. Prysmian da qualche anno ha un programma di coinvolgimento dei lavoratori come azionisti. Ora ne ha molte migliaia come soci e rilancia perché vuole superare il 40% già raggiunto. Una risalita dai bassi livelli in cui stiamo affogando è possibile se supereremo pregiudizi e visioni sempre negative. I politici dovrebbero rendersene conto e cambiare impostazione. Torna al sommario 6 – SERVIZI SOCIALI / SANITÀ LA NUOVA di sabato 8 ottobre 2016 Pag 22 Ospedale San Camillo verso la cessione, Regione in prima fila di Francesco Furlan I Camilliani hanno offerto una sorta di diritto di prelazione. Palazzo Balbi interessato Lido. La Regione studia l’acquisto dell’Ospedale San Camillo. Al dossier sta lavorando il direttore generale dell’Asl 12 Giuseppe Dal Ben incaricato dalla Regione di approfondire la questione e di raccogliere tutti gli elementi utili per valutare l’acquisto del prestigioso Istituto di ricovero e cura a carattere scientifico (Irccs) che conta circa 220 dipendenti oltre a 40 ricercatori, e ospita mediamente tra i 100 e i 105 dipendenti. È stata la Fondazione dei padri camilliani, proprietari della struttura, a inviare nei giorni scorsi una

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lettera alla Regione, informandola della volontà di vendere l’ospedale, e garantendo a Palazzo Balbi - per così dire -una sorta di diritto di prelazione per l’acquisto. Un’ipotesi alla quale la Regione starebbe guardando con interesse, nell’ambito della riorganizzazione della nuova Asl metropolitana, che si chiamerà Serenissima e metterà insieme le Asl 12, 13 e 14. La vendita alla Regione è una soluzione che dal punto di vista dei Padri camilliani garantirebbe meglio i dipendenti rispetto ad altre offerte d’acquisto da parte di società private. Alcune delle quali si sono già fatte avanti pronte a presentare una proposta d’acquisto. La notizia dei contatti tra i Camilliani e la Regione è emersa nei giorni scorsi nel corso di un incontro dove il direttore generale ha presentato ai lavoratori una serie di nuovi incarichi tra i camilliani e facendo riferimento anche alla cessione. Il direttore generale della struttura del Lido, Francesco Pietrobon, spiega: «In questa fase il principale obiettivo dai Camilliani è la tutela dei posti di lavoro. Con la Regione ci sono stati dei contatti ma non c’è ancora alcuna trattativa. Ma se dovesse essere avviata lavoratori e organizzazioni sindacali saranno subito informati». Ma quanto potrebbe valere l’istituto? Difficile dirlo. A Milano la Fondazione dei camilliani ha venduta la casa di cura San Pio X per 60 milioni di euro. La struttura del Lido più piccola ma diversa - secondo alcune fonti - potrebbe valere circa 20 milioni di euro. «Si apra subito un tavolo di confronto formale tra tutti i soggetti coinvolti per chiarire al meglio i contorni dell'operazione che vedrebbe il passaggio della struttura privata alla Regione Veneto», chiedono Daniele Giordano, segretario Generale Fp Cgil e Marco Busato, Segretario Fp Cgil responsabile del settore della Sanità. «Pensiamo che un’operazione simile possa rafforzare il ruolo pubblico nel nostro territorio», aggiungono dalla Cgil, «ma attendiamo di approfondire e comprendere l’impianto strategico e le finalità dell’operazione prima di esprimere un giudizio complessivo sull'operazione». Anche perché i Camilliani hanno intenzione di vendere anche la casa di riposo Stella Maris che al momento però non fa parte del dossier cui sta lavorando la Regione Veneto. «Da giorni chiediamo un incontro con l’amministratore delegato della Fondazione per avere informazioni sulla prospettiva di vendita dell’ospedale», spiega Piero Polo, Uil Fpl, «siamo preoccupati per il personale, scottati da esperienze del passato». Un primo incontro tra il direttore generale e le organizzazioni sindacali è fissato per il 19 ottobre. Torna al sommario 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA IL GAZZETTINO Pag 11 Le 10 cose da vedere nella galleria del lusso di Alda Vanzan T Fondaco, 7mila metri quadrati nell’ex Palazzo delle Poste a Venezia, a due passi dal ponte di Rialto Vederlo tutto, con attenzione e scrupolo, richiederebbe giorni. In fin dei conti sono 7mila metri quadri di superficie e per aprirli al pubblico, il 1° ottobre scorso, sono serviti quattro anni di cantiere. T Fondaco a Venezia è la galleria firmata da Dfs Duty Free e realizzata in quello che era il palazzo delle Poste, comprato dal Demanio nel 2008 dal gruppo Benetton per 53 milioni di euro. Adesso è un polo del lusso che attira clienti e curiosi. Perché è il primo aperto da Dfs in Europa. E perché, rispetto ad altri centri commerciali, si trova in un posto "magico", attaccato al ponte di Rialto, poco distante da San Marco. Ecco le 10 cose da segnarsi. IL NOME - Si chiama T Fondaco dei Tedeschi dove T sta per "travelers", viaggiatori. Ma non preoccupatevi se i veneziani doc vi correggeranno: Fondaco è la traduzione italiana, per i puristi della lingua si chiama Fontego. LE SCRITTE - Prima di entrare attraverso uno dei quattro ingressi (cinque con la porta d’acqua), alzare gli occhi: all’esterno ci sono ancora le scritte di quando il Fontego era il palazzo delle Poste: "Poste telecomunicazioni", "Telegrafo". E nell’atrio c’è la grande scritta in latino per ricordare la ricostruzione dell’edificio in seguito a un incendio che l’aveva distrutto. La riedificazione avvenne nel 1506, il sesto anno di carica del doge Leonardo Loredan. LE DATE - Se allo shopping si vuole associare la cultura, il periodo giusto per andare al T Fondaco va dal 15 ottobre al 15 gennaio: in questo periodo, ogni venerdì, sabato e

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domenica, universitari di Ca’ Foscari nelle vesti di mediatori culturali presenteranno speciali percorsi collegando particolari segni storici (come le incisioni sulle colonne fatte all’epoca dai mercanti o la favolosa vera da pozzo nell’atrio) ad aneddoti. Occhio: T Fondaco resta pur sempre un negozio, non è un museo. PENSIERINI - Al piano terra c’è l’area gift, quella dei regali, e uno spazio importante è dedicato a prodotti veneziani di qualità. È qui che si trovano alcune delle creazioni di una ventina di artigiani selezionati dopo averne visionati quasi un centinaio. Tra le idee regalo esclusive, cioè che si trovano solo al T Fondaco di Venezia, le forcole di Saverio Pastor (488 euro), il vaso di Venini rosso dorato (240 euro il più piccolo), i bijoux di vetro di Manuela Zanvettori. O, per passare all’area gastronomia, le baute in cioccolato di VizioVirtù (23 euro) e i biscottini al caramello e cannella della trevigiana Bettina (10,50 euro). Quanto ai gioielli, tolto Tiffany, è tutta produzione italiana e in alcuni casi quasi a chilometro zero: Dfs ha selezionato tra gli altri un laboratorio mestrino che ha creato una linea col ferro da gondola e un marchio di Portogruaro che crea pizzi di argento. LA SCALA MOBILE - È una normalissima scala mobile tinta di rosso che nelle foto sembra di velluto (cosa che ovviamente non è). Prima di salirci sopra va guardata osservando tutto quello che ha attorno: la parete di mattoni originari, il cemento usato nei lavori del secolo scorso, la mezzaluna di ottone voluta dall’archistar Rem Koolhass che ha firmato il restauro. Una stratificazione architettonica che dà il senso della continuità. DISTESA DI SCARPE - Al terzo piano bisogna andarci: ci sono 400 metri quadri di sandali gioiello, decolleté, stivali, ballerine, pantofole. Tutte e solo calzature femminili, tutte griffatissime, tutte economicamente a dir poco impegnative. La calzatura più a buon mercato è un sandalo infradito a 80 euro, tutto di pelliccia (per poche, superbe, coraggiose). MAESTRANZE - Adesso tra commessi (soprattutto commesse) e addetti vari, sono al lavoro 500 persone, ma a trasformare il palazzo delle Poste in T Fondaco, in quattro anni di cantiere, sono stati 2mila operai. Alcuni di questi si sono dedicati a tirare a lucido il terrazzo alla veneziana (originale). Altri a restaurare il soffitto a cassettone (originale pure quello). Altri ancora a togliere i masegni dal cortile, numerarli uno ad uno, pulirli, rimetterli al loro posto. Tutto all’insegna di un obiettivo: preservare. OCCHI E ORECCHIE - La tappa in terrazza per vedere il panorama di Venezia è obbligata, non costa niente, bisogna solo farsi dare un numerino perché più di 80 persone per volta non possono salire. Ma oltre a guardare è consigliabile ascoltare: nell’Event Pavilion, cioè lo spazio al quarto e ultimo piano del Fondaco ideato per ospitare eventi, adesso c’è la mostra di Fabrizio Plessi "Under Water" che ha uno speciale accompagnamento musicale: tre minuti di gocce di notte che cadono nella laguna firmate Michael Nyman. LA SCALA DI OTTONE - C’è da sperare di non doverla usare mai, essendo la scala antincendio. Ma è un peccato perché è una scala bellissima, tutta di ottone. Gli unici autorizzati a usarla sono i clienti della Prestige Lounge, la sala privé dove i clienti di alto rango possono fare acquisti senza stare in mezzo alla folla. LA TESSERA - Per accedere alla Prestige Lounge (dove c’è anche una sala riunioni), bisogna avere la Loyal T Card. Che funziona esattamente come le carte del supermercato, solo che in regalo non dà pentole bensì servizi. Chi fa shopping per almeno 20mila dollari in 24 mesi ha diritto al livello 3 della card che dà diritto all’accesso alla sala vip. Ma c’è anche un quarto livello, il top, per chi di dollari in un biennio ne spende almeno 80mila. Pag 16 La fondazione di Venezia, dalla contestazione dei miti al confronto dei dati storici di Giovanni Distefano La storia ci fa capire la complessa trama che lega il passato al presente. Il lavoro dello storico è, per definizione, sempre sbagliato, sempre da rivedere, sempre da correggere, grazie a nuovi dati e a nuove riflessioni. Con questa frase in mente leggo l’articolo proposto dal “Gazzettino” del 28 settembre: un ricercatore ha scritto un libro su Venezia usando il cosiddetto metodo della “storia totale”, che si basa sul confronto di dati provenienti da tutto il mondo. Contesta il mito della fondazione di Venezia, ma i miti non sono fasulli, i miti non si discutono. Scende nel dettaglio e sostiene che la storia della

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città va riscritta, che furono i padovani a fondarla, ma qui non c’è da riscrivere nulla. Tutti gli storici che hanno scritto su Venezia accettano il mito: il 25 marzo 421 una delegazione politica e religiosa proveniente da Padova celebra la fondazione della Chiesa di San Giacometo e questa data rappresenta il Natale di Venezia. Il fatto è che con il metodo della “storia totale” si va avanti a ipotesi e queste rimangono soltanto parole in assenza di dati concreti, assolutamente necessari per sostenere un qualsiasi argomento. Questo egli lo sa per certo e infatti dice che “non c’è nessuna fuga” verso la libertà, verso la Laguna, perché non ci sono dati, la fuga è indimostrabile, resta una ipotesi, fa parte del mito. Altre affermazioni che si leggono nell’intervista fanno a pugni con dati certi, come quella, per esempio, che “l’acqua non costituisce una difesa, come si è sostenuto finora…” Ma a Venezia tutti sanno che la città-stato della Repubblica non fu mai invasa nel corso dei secoli, nemmeno da Pipino che vi provò con forza nell’810: tutti ricacciati, perfino i genovesi nel Trecento. Perché? Diamine, grazie all’acqua, alla Laguna, alle mura della Patria, tant’è che nel Cinquecento l’umanista Giambattista Cipelli (1498-1553) dettò una frase in latino fatta incidere su marmo dalla Serenissima e murata a Palazzo Ducale (ora si trova al Correr), nota come l’Editto di Egnazio. La lapide tradotta in italiano comincia così: “La Città dei Veneti, fondata per disposizione della Divina Provvidenza in mezzo alle acque, cinta tutta attorno dalle acque, e difesa dalle acque, anziché da un muro…”. Un’altra ipotesi che emerge da questa intervista è quella che riguarda la trafugazione del corpo di san Marco: non è stato trafugato è stato pagato, afferma il ricercatore. Su quale basi? Ipotesi, ma con quelle, ripeto, in mancanza di dati si può affermare qualsiasi cosa. Infine, due altre affermazioni prese dall’articolo in esame meritano una precisazione: le migrazioni e la costruzione della città. È risaputo che le conquiste si fanno con le armi o con le migrazioni pacifiche, i greci, per esempio hanno conquistato parte del meridione d’Italia e la Sicilia muovendosi dapprima pacificamente, ma poi con violenza. Nel nostro caso anche i popoli germanici nelle loro migrazioni hanno fatto ricorso alla violenza e all’aggressione, non sempre, ma ripetutamente… tanto è vero che in tutta Europa e in Africa sono sorti i regno romano-germanici a seguito della caduta dell’impero romano d’Occidente (476 d.C.) e delle invasioni germaniche o barbariche. Sulla costruzione della città il ricercatore propone questo sillogismo: “Se scappo assieme ad altra gente e devo difendermi, sbaracco di qua e costruisco di là. Ma subito, non un po’ alla volta, come invece avviene a Venezia”. Nemmeno la Protezione Civile oggi riesce a fare questo dopo un terremoto: prima mette la gente al riparo sotto le tende, poi costruisce le casette di legno e via così. Bene, è quello che hanno fatto i fuggiaschi giunti in Laguna: hanno trovato canne e fango e con quelle si sono costruiti un riparo, le capanne, e poi sono venute le casette di legno e quelle in muratura e infine i palazzi. Certo è che volendo imitare il ricercatore in questione e usare il metodo della “storia totale” potremmo affermare che Venezia è stata fondata dai cinesi. Pag 18 Le icone raccontano la Madonna del Don di Melody Fusaro La mostra a Mestre. E’ stata il simbolo della fede degli alpini Arrivò a Mestre dal cielo, trasportata da un elicottero militare, e fu accolta da centinaia di persone, soprattutto penne nere, in piazzale Leonardo da Vinci. Pochi mesi dopo, la "Madonna del Don" fu sistemata nella chiesa di San Carlo dei padri Cappuccini, circondata da targhe dedicate alle unità alpine che avevano combattuto su tutti i fronti. E lì è custodita ancora oggi, dopo 50 anni. Il primo a tracciarne la storia fu padre Policarpo Crosata, che era stato cappellano militare in Russia. Era stato lui a raccontare di questa icona, simbolo della fede degli alpini, che donava coraggio durante i combattimenti del Don e al gelo, nelle trincee. Oggi, dopo mezzo secolo, Mestre continua a celebrarla con una speciale mostra che svela, attraverso le icone, il mistero di Maria. Dopo l'inaugurazione di mercoledì scorso, che ha aperto al pubblico la prima parte dell'esposizione nei nuovi spazi della Provvederia, la mostra "Icone, la madre di Dio tra Oriente e Occidente" raddoppia, conquistando una nuova sede espositiva. Anche negli spazi del Banco San Marco, in via Verdi, saranno le icone a raccontare Maria, questa volta da una prospettiva più teologica che iconografica. L'inaugurazione è in programma oggi alle 17 negli spazi della banca, dove la mostra rimarrà aperta fino al 19 ottobre (orari di apertura dal lunedì al venerdì 8.30-13,30 e 14.45-16.05). Se in Provvederia

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(aperta tutti i giorni dalle 10 alle 12 e dalle 15.30 alle 18.30) trovano spazio le opere di 9 artiste, questa seconda esposizione è dedicata alla visione della Madre di Dio proposta da Julia Tarciniu Balan, teologa ortodossa e iconografa, che cura la mostra, e di un'altra artista dell'associazione Amici dei Presepi di Spinea, Elisa Baraldi. «L'Icona di Maria - spiega Alessandro Cuk, presidente dell'associazione - non è quella naturalistica o rinascimentale che la raffigura come una bella donna con un bambino meraviglioso, ma quella che manifesta il suo mistero, cioè che porta il cristiano alla conoscenza e all'amore del Figlio, dello Spirito e del Padre». La Festa della Madonna del Don, organizzata dal Comune di Venezia in collaborazione con l'Associazione Amici dei Presepi di Spinea, l'Associazione Nazionale Alpini e il Banco San Marco, si inserisce nell'ambito del programma «Le città in festa». All'inaugurazione parteciperanno Andrea Lo Bianco, direttore di area del Banco San Marco, l’assessore Renato Boraso, Alessandro Cuk e don Gianni Bernardi, parroco della chiesa di San Lorenzo a Mestre. IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag I La rivoluzione culturale di Tiziano Graziottin La Venezia accessibile a tutti non è più solo uno slogan o una prospettiva. La volontà annunciata dall’amministrazione comunale di assumere in prima persona la gestione delle passerelle installate sui ponti attraversati dai runners della Venice Marathon e soprattutto di mantenerle nel tempo (certo adeguandole per quanto possibile alle esigenze anche estetiche del centro storico) è la vera "rivoluzione culturale" in una città ostica non solo per i diversamente abili ma anche per anziani, donne incinte e genitori con figli piccoli. Finalmente si riconosce che la miglior fruibilità di Venezia va garantita subito, senza dilazioni, senza programmatici quanto indeterminati "faremo". Il cambio di prospettiva è netto ed è quel che aveva sempre sostenuto questo giornale: non si può subordinare la questione dell’accessibilità alla ricerca estetica della miglior soluzione architettonica, tanto più considerando il poco o nulla che è stato fatto nel tempo per coniugare i due aspetti. Serviva una risposta "qui e ora", e questa sembra finalmente la strada imboccata per rispondere all’appello dal basso di tantissimi veneziani che negli ultimi anni insistentemente hanno chiesto di potersi muovere in un ambiente meno "difficile". Se i progetti abbandonati nei cassetti - perché "quello giusto" per Venezia non si trovava mai - saranno in futuro rimessi sul tavolo tanto meglio, ma intanto avanti con le passerelle e con una più compiuta idea di mobilità per tutti almeno dove ciò è attualmente possibile. Il 2016, con lo straordinario successo delle paralimpiadi, ha definitivamente messo le barriere architettoniche sul banco degli imputati, ed è bello e significativo che proprio un evento sportivo come la Venice Marathon abbia definitivamente "imposto" nell’agenda il tema della Venezia accessibile. LA NUOVA Pag 20 Valeria e le donne che erediteranno questa nostra terra di Nicolò Menniti-Ippolito Il racconto della mamma della giovane Solesin diventa il cuore del nuovo libro di Cazzullo In 228 pagine compaiono tante donne, più di cento sicuramente. Ci sono donne geniali, ognuna nel suo campo, come le sorelle Bronte e Jane Austin da un lato, ma dall’altro Marie Curie e Rita Levi Montalcini. Ci sono donne masochiste e vittime degli uomini, come Maria Callas, ma in fondo anche l’ex ministro Federica Guidi; ci sono donne che hanno passato la vita vestite da uomini come la suora tenente Catalina de Erauso e non si esclude neppure che sia stata una donna a scrivere l’Iliade e l’Odissea, sotto il nome maschile di Omero. Ma c’è solo una donna cui è dedicato un intero capitolo ed è Valeria Solesin, la giovane veneziana morta a novembre dello scorso anno a Parigi, nell’attentato del Bataclan. Il nuovo libro di Aldo Cazzullo si intitola “Le donne erediteranno la terra” (Mondadori, pp 228, 17 euro) e parte da una convinzione che non è solo dell’autore, ma poggia su solidi basi statistiche. Nei prossimi cento anni, questa la tesi, saranno le donne ad essere protagoniste, perché studiano di più, perché si impegnano di più, perché sono più attente a ciò che hanno intorno, perché sono più sensibili, perché sono meno egoiste. Per dimostrarlo Cazzullo racconta storie di donne di

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oggi e di ieri, saltando secoli e ambienti, cedendo, nelle ultime pagine, la parola a donne anonime che raccontano la loro storia o quella delle loro nonne, delle loro mamme. Però, dovendo scegliere una storia tra tutte, per farne il centro del suo libro, Cazzullo ha scelto quella di Valeria Solesin, o meglio il racconto di Valeria Solesin fatto da sua madre Luciana, nella casa di Cannaregio, proprio nella stanza della figlia. Potrebbe essere un racconto struggente e basta, ma non lo è, perché evidentemente Valeria e sua madre avevano un dono, che è la mancanza di retorica. Cazzullo parte da una frase, che può sembrare strana, ma che i media francesi hanno colto subito nella sua autenticità. «Valeria mancherà molto a noi, e anche al suo Paese» disse la madre, nelle poche parole pronunciate al microfono di un giornalista subito dopo la tragedia, alla fine di una drammatica giornata senza notizie precise, culminata con la certezza della morte della figlia. I francesi quella frase, nei giorni del Bataclan, l’hanno mandate e rimandata in onda, perché riassumeva un sentire collettivo, che valeva per tutti i giovani morti. Ognuno di quei ragazzi era unico, un valore per la società, perché ognuno era un ragazzo normale, vero. Ed è questo che la madre racconta della figlia: il suo essere brava «a non bravissim» a scuola, il suo senso della giustizia che non si traduce mai in sterile lamentela ma diventa un fare, il suo scherzare sull’essere stata costretta a fare la ricercatrice in Francia: «non sono ancora un cervello ma sono già in fuga». E ancora il suo essere vitale («Fioi, c’è il sole»), la facilità di farsi amici, la simpatia («A Parigi per parlare tocca andare dai barboni»), la capacità di partire per l’estero senza guardarsi indietro, la voglia di conoscere il mondo e le persone: «una sociologa per natura» dice la madre. Si può essere unici senza essere eccezionali, semplicemente essendo autentici: questo racconta la storia di Valeria e per questo è lei lo specchio in cui si riflette l’immagine di quelle giovani donne che, dice Cazzullo, erediteranno la terra. Per questo il suo funerale è stato per Venezia un momento di straordinaria unità, di straordinaria civiltà. Per questo le mamme scrivono a mamma Luciana che chiameranno le figlie Valeria: non per ripetere il nome di un’eroina, ma semplicemente il nome di una ragazza. IL GAZZETTINO DI VENEZIA di domenica 9 ottobre 2016 Pag I Crociere a Marghera di Antonio Foscari A chi ama Venezia – città d’acqua e di terra, come si usa dire – e rispetta la popolazione che qui ci vive, due cose sono evidenti. 1) Che le grandi navi da crociera – veri e propri alberghi galleggianti – non debbono passare per il bacino di San Marco. 2) Che il loro approdo deve essere il più vicino possibile a Mestre, cioè a Marghera, all’altezza di quella che si usa definire “prima zona industriale”. Sul primo punto non serve nemmeno trovare argomenti. Sostenere, come fa qualcuno, che sia compatibile con la sostanza fisica e l’essenza storico-artistica dell’isola antica la presenza in bacino di questi giganti marittimi si può equiparare a quello che sostenesse che sarebbe intelligente tenere entro la basilica di San Marco un elefante perché sarebbe una formidabile attrazione turistica. È il secondo punto che mi pare vada argomentato. Una stazione per le grandi navi da crociera che sorgesse nella prima zona industriale sarebbe dotata di tutte le infrastrutture necessarie al suo funzionamento: dai canali marittimi, alla ferrovia, alla rete stradale e – anche questo non è da trascurare – da un canale lagunare che la collegherebbe direttamente al bacino di San Marco tramite il canale della Giudecca. Ma non è il tema infrastrutturale – che pur tuttavia è decisivo – a raccomandare, anzi a imporre, la decisione di localizzare nel settore nord della prima zona industriale di Marghera la stazione delle grandi navi da crociera. La ragione primaria della necessità di portare lì questa stazione è di carattere morale e storico. A me sembra immorale che dopo decenni che si parla della necessità di avviare una conversione e una vitalizzazione delle aree industriali di Marghera non si colga l’occasione di avviare questo processo quando se ne offre l’occasione. Sembra immorale che quanti hanno esaltato e proclamato la necessità di dare un water-front all’entroterra veneziano – per avviare processi di trasformazione virtuosi analoghi a quelli che hanno conosciuto Londra e Barcellona – tacciano. Incredibilmente tacciano. L’insediamento della stazione delle grandi navi da crociera a fianco di Marghera e di Mestre farebbe far un salto di qualità, in termini di qualificazione urbana, all’una e all’altra. Non parlo solo dei due o tre milioni di utenti che farebbero uso di questa stazione ogni anno, e che determinerebbero un

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indotto economico niente affatto marginale negli ambienti urbani circostanti (un indotto di cui Venezia con i suoi ventotto milioni di turisti non ha certamente bisogno). Quel che a me pare della massima importanza è che un atto di tal genere sarebbe un detonatore, anzi il detonatore, che avvierebbe un processo di valorizzazione di molte aree dismesse di Porto Marghera assicurando a esse un rapporto qualificato con il mare, cioè con quell’elemento naturale che nel secolo scorso è stato la ragione delle loro straordinaria crescita e affermazione. Cosa bisogna fare per sancire la decisione di portare sulla gronda lagunare – dunque a Mestre e a Marghera – il flusso turistico attratto dalle crociere? Basta decidere che le grandi navi da crociera entrino in laguna dal Porto di Malamocco, che percorrano fino a Fusina l’esistente canale di gronda lagunare e proseguano nel medesimo canale di gronda (solo di poco allargato) per qualche centinaio di metri. Torna al sommario 8 – VENETO / NORDEST IL GAZZETTINO di domenica 9 ottobre 2016 Pag 13 Migranti, tribunale invaso dai ricorsi di Gianluca Amadori Pendenti quasi tremila richieste di silo, in un anno ne sono state definite soltanto 400 Il Tribunale di Venezia è sommerso di ricorsi presentati da migranti che chiedono il riconoscimento del diritto di asilo e il numero di fascicoli pendenti, in attesa di essere trattati, continua ad aumentare: a fine agosto erano ben 2859, di cui la maggior parte - 2449 - iscritti nel corso di quest’anno. Per i giudici veneziani si tratta di un carico di lavoro sempre più difficile da gestire, soprattutto perché si assomma alla normale e già pesante attività, ovvero a centinaia di fascicoli che ciascuno di loro deve gestire ogni anno. «Da poco è arrivato un nuovo magistrato, applicato appositamente per occuparsi dei ricorsi in materia di richiesta di asilo - spiega il presidente della terza sezione civile del Tribunale, Roberto Simone - ma la situazione resta comunque critica». Basti pensare che dal giugno del 2015 il Tribunale è riuscito a definire 402 procedimenti, di cui ne sono stati accolti poco più di 250. A livello nazionale, a fronte di 15mila ricorsi presentati nei primi 5 mesi del 2016 (ad un ritmo di 3000 al mese) i procedimenti definiti sono stati meno di mille. La Commissione territoriale che si occupa in prima istanza del riconoscimento della protezione internazionale per i richiedenti di Veneto e Trentino-Alto Adige si trova a Verona, e la competenza giurisdizionale è stata affidata interamente ai giudici veneziani, senza però che il ministero abbia previsto uno stabile aumento degli organici di giudici e cancellieri. La Commissione normalmente accoglie circa il 20 per cento delle richieste di asilo, dopo aver verificato che i migranti provengano da zone di guerra, oppure che siano perseguitati. La povertà non è motivo contemplato per la concessione dell’asilo. Un altro 15-20 per cento (minori, donne incinte, malati) ottiene permessi temporanei. Il restante 60 per cento delle richieste di asilo viene respinto e si va in Tribunale: a presentare ricorso sono principalmente cittadini provenienti da Bangladesh e stati africani, tra cui Senegal, Ghana, Gambia, Nigeria. I ricorsi sono tutti presentati da uomini. «Ogni caso viene istruito accuratamente, raccogliendo informazioni sul richiedente e sul Paese di provenienza per capire se rientra in quelli previsti dalle norme internazionali sul diritto d’asilo», spiega il dottor Simone. Le decisioni del Tribunale possono essere poi impugnate di fronte la Corte d’Appello ed eventualmente in Cassazione. Ma il Governo ha annunciato di voler semplificare la procedura, realizzando sezioni specializzate ed eliminando il secondo grado, in modo da accelerare i tempi di definizione dei procedimenti (oggi il tempo medio nazionale è di 2 anni) e riuscire a rendere effettive le espulsioni quando le domande sono respinte. «Una proposta inaccettabile - tuona l’avvocato Fabrizio D’Avino - Non si può togliere un grado di giudizio quando si parla della vita delle persone. Bisognerebbe invece distribuire i ricorsi nei vari tribunali del Veneto». In tutta Italia nel 2015 le richieste di asilo sono state quasi 84 mila (20mila in più rispetto al 2014 e 57mila in più rispetto al 2013) a fronte di quasi 154mila migranti arrivati nel 2015 (16mila in meno rispetto al 2014, ma 100mila in più rispetto al 2013). In Veneto, stando ai dati del ministero della Giustizia, i migranti

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sono poco meno di 8mila, ma più aggiornati sono quelli della Regione che conta 11mila ospiti nelle varie strutture. CORRIERE DEL VENETO di domenica 9 ottobre 2016 Pag 1 Emigrare nel mondo “largo” di Stefano Allievi Fuga e opportunità Sono più di centomila quelli certificati. Ma sono molti di più, gli italiani andati a vivere all’estero lo scorso anno: perché di solito ci si iscrive all’Aire (l’anagrafe degli italiani residenti all’estero) solo dopo anni, quando la partenza non è più un’avventura appena iniziata ma una fase nuova della propria vita. Oltre diecimila dal Veneto (seconda regione in cifra assoluta, dopo la Lombardia), oltre quattromila dal Friuli, quasi tremila dal Trentino. Nuova emigrazione? Solo in parte. Forse dovremmo aggiornare anche il vocabolario: e parlare di mobilità di medio e lungo raggio, di pendolarismo allargato. Perché si parte per cercare un lavoro che non si trova a casa, certo. Ma anche per fare il lavoro per il quale si è studiato, per farlo a condizioni migliori, con un salario più alto. E per fare esperienza, per spirito di avventura, per andare a vivere in paesi e città più stimolanti e vivaci, che offrono opportunità (non necessariamente solo di lavoro: anche di vita, di divertimento) che da noi non ci sono. E, infine, semplicemente perché il mondo è davvero globale, ogni posto è più vicino di prima, i viaggi sono molto più brevi e più economici, e si rimane comunque connessi – grazie a tecnologie a disposizione di tutti ed economiche – con il proprio paese di origine e i propri affetti. L’idea che muoversi e cambiare può valere la pena l’abbiamo introiettata tutti, ormai. Anche i pensionati che vanno a godersi la pensione altrove. Quattro secoli fa il Mar Mediterraneo, diceva Braudel, era «largo una settimana». Un secolo fa ci voleva un mese di transatlantico e l’impegno dei risparmi di una famiglia per andare in America. Oggi vai avanti e indietro in poche ore e con pochi soldi: i problemi semmai, a differenza del passato – quando viaggiare era tecnicamente complesso ma giuridicamente più semplice, e Phileas Fogg, il protagonista del romanzo di Jules Verne di fine Ottocento, poteva fare il giro del mondo in 80 giorni praticamente senza documenti e visti – sta negli ostacoli legislativi. Il motivo per cui, incidentalmente, migliaia di disperati pagano migliaia di dollari, rischiando la vita, per partire da posti dove un charter costa una manciata di euro… Noi abbiamo passaporti privilegiati – siamo nati non per nostro merito dalla parte giusta della storia – e possiamo spostarci. Ma le ragioni, rispetto al passato, sono cambiate. La fame vera c’è, ma è più rara. La disperazione muove una parte degli espatri over 50: espulsi dal mercato del lavoro, e che non riescono a rientrarci. Ma molti anche in questa fascia d’età cercano solo maggiori opportunità di crescita e salari più competitivi. E i più giovani? Le ragioni sono molte, ma l’essere costretti a emigrare riguarda solo una parte di loro – reale - ma che non spiega tutto. Tutti coloro che possiedono un’istruzione istruzione superiore cominciano già con l’esperienza degli Erasmus a proiettarsi altrove (e un terzo di loro finisce per sposarsi con persone d’altri paesi, scegliendo anche la residenza della persona incontrata). Nel mondo della ricerca si comincia dai primi anni di università a guardarsi in giro per effettuare i dottorati all’estero: e al primo anno di dottorato, si compulsano le mailing list che segnalano le opportunità di lavoro per disciplina, non per paese, nelle aree umanistiche come in quelle scientifiche. Chi sceglie questi lavori lo sa, che il mercato è «largo»: e se non lo sa ha fatto i calcoli male. Nel mondo dell’impresa, in molti lavori tecnici (a tutti i livelli: dall’operaio manutentore all’ingegnere capo fino a molti altri) si presuppongono almeno alcuni anni di permanenza all’estero, o presenze temporanee ma molto lunghe legate a progetti. Nel mondo dell’arte, della produzione culturale (musica, danza, cinema, moda), oltre che dello sport, nessuno guarda più ai confini nazionali come a un vincolo. Ma anche chi fa il cuoco o il cameriere si proietta in un mondo di mobilità fin dai primi stage. E spesso spostarsi è l’opportunità che mancava per uscire dal controllo sociale familiare, per prendere in mano il proprio destino e buttarsi nel mondo senza rete. Il differenziale vero lo fa non il dover genericamente partire (accade anche in paesi messi meglio di noi), ma la tristezza di farlo perché altrove il welfare funziona meglio, la meritocrazia è reale, e nel caso di molte donne il lavoro non ti punisce per questioni di genere, come ancora fa da noi. In prospettiva, la mobilità aumenterà ulteriormente, in ingresso e in uscita, quasi ovunque. E’ un mondo diverso:

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con i suoi vincenti e i suoi perdenti. Il problema è inventarsi le regole della convivenza in una situazione mutata. Il vero dramma non è l’emigrazione: ma il fatto che il cambiamento sociale è già avvenuto, e noi dobbiamo ancora cominciare a pensarlo. CORRIERE DEL VENETO di sabato 8 ottobre 2016 Pag 1 Le radici della nuova emigrazione di Gabriella Imperatori Fuga dal Veneto Passano gli anni e non passa giorno senza che si riparli dei migranti che fuggono dal preagonico continente africano, dalle macerie della Siria, o, nascosti nei tir, perfino dai deserti dell’Asia centrale, da un altrove insomma di miseria, dolore e morte, per inseguire la speranza, incentivata anche dalla tv, di una vita migliore. Uomini e donne, bambini accompagnati o, sempre più spesso, soli, a costituire un problema spesso insolubile cui si attribuisce perfino il rischio di reintrodurre da noi malattie che qui eran debellate - come la tbc, come la scabbia -, rischio possibile anche in qualche asilo-nido, come quello in cui i bagni erano stati separati per bimbi «indigeni» e bimbi immigrati. Proprio come avveniva coi neri d’America in tempi non antidiluviani. E se ne parla con toni contrapposti: con pietà solidale o con insofferenza verso coloro, cito a memoria, «che vengono a rubarci case, lavoro, soldi, donne, facendo i mantenuti in alberghi di lusso senza smetter di chiedere l’elemosina o di penetrare nottetempo nei nostri appartamenti, procurando infarti ai vecchietti per poche migliaia di euro». I discorsi son sempre gli stessi, in bus, al bar, in televisione, a volte insopportabili altre volte inconfutabili, e non sempre repetita iuvant, spesso non si vede l’ora di cambiare musica. Cosa peraltro che da qualche tempo comincia a succedere, da quando al fenomeno migratorio verso «casa nostra» si aggiunge un nuovo fenomeno migratorio. Minore certo ma non trascurabile, quello da casa nostra, anche dal Veneto, verso l’Altrove. Le motivazioni sono varie, ma le cifre di coloro che decidono di emigrare all’estero sono in crescita. Diverse le età, diverse le cause, diverse le città d’arrivo e le città di partenza. Padova è per ora la città veneta con più emigranti, seguita da Belluno, Treviso, Venezia e Vicenza. Le destinazioni più ambite in Europa sono la Francia, la Germania, il Regno Unito, il Belgio, l’Austria… Nel Nordamerica gli Stati Uniti, nel Sudamerica Argentina e Brasile. L’età è naturalmente la giovinezza o la prima maturità, ma non manca la terza età, che predilige per ora le Canarie e il Portogallo, dove la vita è meno costosa, il clima è mite, le lingue sono neolatine, e non è difficile trovar compatrioti con cui far amicizia. Per i più giovani, le ragioni del piccolo esodo sono soprattutto economiche, perché qui ancora scarseggiano i lavori a tempo indeterminato, la crisi non è superata nonostante le dichiarazioni ottimistiche, e il merito è poco considerato. In altri paesi viene premiato, com’è avvenuto per il 22enne inventore di Uniwhere (un’applicazione pensata per gli universitari), ingaggiato a Berlino con ottime prospettive. Ma anche occupazioni meno brillanti sono concupite, da parte di aspiranti ristoratori, baristi, agenti immobiliari. Non mancano però nemmeno i giovani che si spostano in cerca di avventura, con pochi soldi e molto romanticismo, e con la convinzione che il proprio perimetro sia l’universo mondo, non solo la terra dove si è nati. Certo lasciare il proprio paese comporta rischi, non ultimo quello di perdere i contatti con la propria cultura se non con la propria lingua (che si può sempre insegnare a coloro che, in ogni parte del mondo, amano l’italiano). L’emigrazione attuale degli italiani non ha dunque quasi nulla a che vedere con quella dei migranti con le valigie di cartone, ma è rappresentata da persone in maggioranza colte, che se da un lato se ne vanno da un paese incapace di rinnovarsi, corrotto e rissoso, dall’altro cercano, in un altrove difficile ma affascinante, la vita che vorrebbero avere. Poi non è escluso che ritornino, a cercare radici non del tutto estirpate. Torna al sommario … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Un ponte che mai si farà di Angelo Panebianco

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Il governo Renzi ha scelto di investire risorse nella costruzione del ponte sullo Stretto di Messina. Se ne parla da un secolo e nessuno è mai riuscito nell’impresa. La vicenda del ponte è ricca di insegnamenti, aiuta a capire certe costanti, certi schemi di comportamento che, in Italia, si ripetono sempre uguali a se stessi, pur nel variare delle situazioni e dei protagonisti. Ci sono due domande che meritano di essere formulate. La prima: perché nonostante l’enfasi posta sulla sua necessità, e le risorse periodicamente investite da questo o quel governo, il ponte non è mai stato costruito e, con ogni probabilità, non lo sarà mai? La seconda: perché il tema del ponte entra improvvisamente nell’agenda pubblica nazionale, e poi scompare per anni o anche decenni, riappare e scompare di nuovo? Rispondere (o tentare di rispondere) alla prima domanda può aiutarci a capire alcuni aspetti del complicatissimo e travagliatissimo rapporto fra la Sicilia e il resto del Paese. La fondamentale ragione per cui il ponte non è mai stato costruito è che i siciliani sono sempre stati divisi sull’argomento. Ci sono nell’isola, naturalmente, i favorevoli al ponte ma sono sempre stati numerosi anche i contrari. Non si capisce la Brexit se non si mette in conto il rapporto storicamente complicato fra le isole britanniche e l’Europa continentale. Allo stesso modo non si capisce l’opposizione di una parte non piccola dei siciliani per il ponte se non si considera che esso - in definitiva, una passerella che collegherebbe stabilmente, permanentemente, la Sicilia alla Calabria - sarebbe, psicologicamente, un vulnus per l’insularità. Ciò, nonostante il fatto che quasi sempre, se non sempre, quando si abbattono costi e tempi di trasporto di persone e merci (come fanno appunto i ponti), ciò ha, nel lungo periodo, effetti economici benefici per i territori interessati. Naturalmente, oltre alle divisioni dei siciliani, ha sempre giocato anche la scarsa disponibilità del resto del Paese a dirottare verso tale impresa le ingenti risorse necessarie. Le tradizionali obiezioni al ponte (rischi sismici, rischi di impatto ambientale) non sono mai state davvero dirimenti. Anche perché esistono i mezzi tecnici per ridurre quei rischi. Le ragioni autentiche dell’opposizione sono altre. La seconda domanda a cui occorre rispondere è: da cosa dipende il movimento pendolare per cui il tema appare e scompare, viene rilanciato da un governo e poi bruscamente accantonato da quello successivo? La questione ha a che fare, prima di tutto, con il grado di centralizzazione del potere di volta in volta prevalente. In Italia alterniamo momenti in cui si afferma (o tenta di affermarsi) una leadership individuale, personale, in cui il potere si concentra, ad altri momenti, in genere molto più lunghi, in cui il potere è diluito, in cui le redini del gioco sono nelle mani di una oligarchia, di una ristretta aggregazione di ottimati. Dal movimento pendolare, dall’oscillazione fra il polo della leadership individuale e il polo del potere oligarchico–collegiale dipendono la comparsa e la scomparsa del ponte sullo Stretto dalla discussione pubblica. Quando si afferma una leadership individuale, il progetto riappare, quando quella leadership individuale viene sconfitta e sostituita da una oligarchia, il progetto viene di nuovo accantonato. Lasciando da parte (perché non c’entra niente) l’età fascista, restando al solo periodo democratico, sono stati favorevoli al ponte sullo Stretto, nell’ordine, Bettino Craxi, Silvio Berlusconi, Matteo Renzi. Lasciando agli stolti di sostenere che fra tali uomini politici non ci sia differenza, notiamo però che un elemento di somiglianza c’è effettivamente: sono tutti casi di leadership personali, individuali, uomini che gestiscono il potere in modo antitetico rispetto a quello che è proprio degli assetti oligarchico-collegiali. Non è un caso che tutti e tre siano andati incontro all’accusa di autoritarismo, all’accusa di volere imporre una tirannia, da parte dei fautori del potere oligarchico, da parte dei nemici delle leadership individuali. Che cosa muove questi leader, che cosa li spinge a imbarcarsi in una impresa difficilissima, probabilmente disperata, come il tentativo di fare il ponte sullo Stretto? Due cose, forse. Da un lato, la volontà di legare la propria leadership a un progetto di modernizzazione del Paese, Mezzogiorno d’Italia incluso (e il ponte diventa un simbolo di questo progetto). Dall’altro, l’idea che, data la forza degli ostacoli, dato il volume di fuoco che è sempre in grado di scatenare l’artiglieria dei nemici del ponte, riuscire a costruirlo, nonostante tutto e tutti, sarebbe una indiscutibile dimostrazione di potenza. Lo sappiamo tutti, conta anche un’altra cosa: il ponte sullo Stretto è di destra. Come la mozzarella, si sarebbe detto un tempo. Il non-ponte, invece, è di sinistra. Come il gorgonzola. Oltre all’oscillazione fra leadership personali e leadership oligarchico-collegiali, anche gli alti e bassi dell’eterno conflitto fra le due fazioni contribuiscono a favorire il movimento per cui l’interesse per il ponte appare e scompare. Appare quando

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è in vantaggio la destra oppure quando, come accade oggi, c’è un leader di sinistra «impuro» o anomalo, uno che cerca di rimescolare le carte, attirando dalla sua gli italiani della più varia provenienza politica. Scompare invece quando è in vantaggio la sinistra dura e pura (ma anche un puro potere oligarchico-collegiale come fu quello democristiano). Ma questo movimento non modifica di un millimetro la situazione: il ponte, quasi certamente, non si potrà mai fare. Se venisse costruito potrebbe destabilizzare, quanto meno nel medio-lungo termine, equilibri consolidati, indebolire gerarchie sociali, dinamizzare un mondo che chiede di restare immobile. Quel desidero di immobilità è più forte del ponte nonché di qualunque governo voglia costruirlo. Il futuro, naturalmente, è sempre imprevedibile ma gli scommettitori, se conoscono il loro mestiere, non possono che puntare sulla vittoria di quel desiderio di immobilità. Pag 3 La grande fuga dei repubblicani di Massimo Gaggi Molti elettori conservatori di tendenze moderate, gli indipendenti e tante donne di destra che, contrariati o addirittura nauseate, dalla misoginia di Donald Trump, l’8 novembre decidono di astenersi dal voto per la Casa Bianca. E, così facendo, non vanno a votare nemmeno per deputati, senatori e governatori repubblicani, condannando molti di loro alla sconfitta. È questo lo scenario che terrorizza il Grand Old Party dopo l’ultimo scandalo piovuto sulla campagna di «The Donald»: lui che racconta il gusto che prova nell’assalire donne sposate, fare sesso a tre, prendere una ragazza con prepotenza e senza preamboli, forte della sua ricchezza e celebrità. È per questo che, dopo la diffusione delle registrazioni, decine di deputati e senatori repubblicani hanno tolto il sostegno al candidato del loro partito e molti di loro gli hanno chiesto addirittura di abbandonare la corsa alla Casa Bianca, lasciando che a sfidare Hillary Clinton sia il suo attuale vice, Mike Pence. Lui tiene duro, contrattacca, si gioca tutto nel dibattito della notte a St. Louis. Dopo il quale, stamattina, i leader del partito che, pur detestandolo, ancora lo appoggiano ufficialmente, si consulteranno per decidere. Ma in queste ore della vigilia l’esodo è stato imponente. Fino a due giorni fa erano cinque i senatori di destra che si erano rifiutati di appoggiare Trump. Ma fino al primo dibattito, quello di fine settembre, i sondaggisti sostenevano che la scorrettezza e la scarsa popolarità dell’immobiliarista tra le donne e nell’elettorato indipendente non avrebbe danneggiato gli altri candidati in misura significativa. Dopo il confronto alla Hofstra University, però, i sismografi elettorali repubblicani hanno cominciato a segnalare scosse pericolose. E con le registrazioni la paura è diventata panico. In poche ore i senatori in rivolta sono diventati 16 (quasi un terzo della rappresentanza dei conservatori in quest’aula) e tra questi sono spuntati nomi di primo piano come l’ex candidato alla Casa Bianca John McCain e il presidente della conferenza dei senatori John Thune, il numero tre del partito, che ha chiesto al miliardario di lasciare. Complessivamente sono una quarantina i parlamentari in rivolta contro il loro candidato che, però, replica colpo su colpo e invita i suoi sostenitori più leali a contrattaccare, forte dei primi sondaggi (quelli condotti da «Politico») secondo i quali la maggioranza degli elettori di destra, pur condannando le parole di Trump, non vuole che il partito lo abbandoni. Ecco perché i due leader del Grand Old Party, lo speaker della Camera Paul Ryan e il presidente dei senatori, Mitch McConnell, pur condannando con parole durissime le cose dette da Trump («ripugnanti» secondo McConnell), per ora non hanno tolto il loro appoggio alla candidatura di «The Donald». «È comprensibile» spiega un anonimo dirigente del partito conservatore: «Se gli chiediamo di ritirarsi lui non solo resta, ma si mette ad attaccare noi anziché i democratici». Insomma, non essendo riusciti a frenare la corsa del miliardario populista durante le primarie, ora i repubblicani si ritrovano col loro fronte spaccato da una guerra civile: se scaricano Trump perdono il sostegno dei suoi moltissimi fan e dei radicali, se continuano a sostenerlo perdono fette essenziali dell’elettorato centrista e di quello femminile. I leader vorrebbero uscire dal guado ma non è facile e non solo per via della spaccatura del loro elettorato: i margini per un eventuale cambio di cavallo sono ridottissimi, forse addirittura inesistenti. Se Trump fosse costretto al ritiro si aprirebbe una crisi politico-istituzionale gravissima, senza precedenti. Anche ammesso che il Rnc, la direzione del partito repubblicano, fosse in grado di riconvocare rapidamente i delegati della convention e di arrivare al voto su Pence (scelta per nulla scontata), sarebbe poi impossibile cancellare il nome di Trump dalle liste: siamo a un mese dalle elezioni e i

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termini per le candidature sono scaduti da tempo, le schede sono state già stampate, in molti casi (400 mila, secondo gli esperti) i voti per posta sono già stati espressi. Dovrebbero essere, Stato per Stato, i tribunali a ingiungere al Segretario di Stato di riaprire i termini ignorando i vincoli di legge invocando un interesse istituzionale superiore. Ma probabilmente ogni giudice si regolerebbe a suo modo e i democratici farebbero ricorso. Toccherebbe, allora, alla Corte Suprema, oggi semiparalizzata. IL GAZZETTINO Pag 1 Giustizia e politica, come evitare gli effetti collaterali di Cesare Mirabelli C’è da riflettere, quando iniziative penali promosse dalle Procure hanno un avvio clamoroso, determinano effetti irreversibili nelle istituzioni o nelle attività economiche e nella vita sociale, ma si concludono con assoluzioni che ne mostrano la vistosa infondatezza. Ci si può rallegrare che ci sia un giudice imparziale e che il processo consenta di valutare la effettiva consistenza dell’accusa e di assolvere chi è innocente. Ma c’è anche da chiedersi se il processo ingiustamente subito non sia già una pena, e se la persona, oltre a sopportare i costi della difesa in giudizio, non rimanga ferita, anche nella vita di relazione, da un’accusa resa pubblica e che si riveli infondata. Alle conseguenze personali che subisce chi è sottoposto al processo, se ne aggiungono altre, più vistose e rilevanti per il corretto funzionamento delle istituzioni, quando l’iniziativa penale delle Procure è resa pubblica ed è naturalmente amplificata dai mezzi di comunicazione. Gli effetti sono irreversibili, se l’iniziativa penale determina o suscita le dimissioni dalla carica, mentre successivamente l’assoluzione escluderà l’esistenza di un reato. Così si finisce con incidere sulla rappresentanza elettiva e in definitiva sul funzionamento della democrazia. Si potrebbe dire che questo è un effetto indiretto e non voluto dell’azione penale, e che semmai a dover operare sono i casi di sospensione dalla carica in attesa del giudizio, previsti dalla legge Severino. Tuttavia è innegabile l’effetto politico di una iniziativa penale, sia pure destinata a fallire. E questo apre all’uso della scorciatoia giudiziaria nella lotta politica, tanto più se basta una denuncia, un rapporto della polizia giudiziaria o una campagna di stampa, per portare inevitabilmente al processo senza il filtro di un preventivo approfondimento critico che consenta la sollecita valutazione della fondatezza o meno della notizia di reato. Entra in gioco la professionalità delle Procure nel valutare le accuse prima di promuovere l’azione penale, richiamata dal vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura Giovanni Legnini, e la prudenza che deve caratterizzare l’attività del pubblico ministero, se la sua azione deve essere efficace e condurre non solamente a celebrare processi bensì a ottenere condanne. È facile prevedere una obiezione: la costituzione prevede l’obbligatorietà dell’azione penale. È vero: l’articolo 112 prescrive incisivamente che “il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale”. Ma questo non rappresenta un paravento costituzionale per promuovere sempre e comunque, con atteggiamento accusatorio, un processo. Nel senso voluto dall’assemblea costituente significa che il pubblico ministero, contrariamente a quanto avveniva nel precedente ordinamento, non può archiviare gli atti senza chiedere la verifica del giudice, ad evitare il rischio di una sua omissione strumentale. E la richiesta di archiviazione del pubblico ministero, quando la notizia di reato si rivela scarsamente consistente, non è una manifestazione di debolezza o di incuria nelle indagini, bensì di professionalità e senso di giustizia. Non significa, quindi, lasciar correre e non perseguire i reati, ma rendere efficace la persecuzione dei reati, evitando di disperdere risorse in azioni destinate a non portare ad alcuna condanna penale. È anche vero che occorre fare attenzione alla formula della assoluzione. Se il fatto non sussiste o l’imputato non lo ha commesso, l’abbaglio del pubblico ministero riguarda lo stesso fatto materiale oggetto dell’accusa. Se il fatto non costituisce reato, l’errore è nella sua qualificazione come penalmente perseguibile, mentre può essere un fatto per il quale vi può essere una responsabilità amministrativa o politica. Ma in questo caso la supplenza della giurisdizione penale, che agisce per l’inerzia di altre istituzioni, manifesterebbe una distorsione nello svolgimento della diverse competenze. Ciò non significa che vi siano altre situazioni, nelle quali non è in gioco la rappresentanza elettiva, ma la nomina a funzioni pubbliche politico-amministrative, come nel caso dell’assessore comunale di Roma Paola Muraro. La esistenza di quello che in altri tempi si sarebbe chiamato un “carico pendente”, un

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procedimento penale in corso, tanto più se per reati che arrecano danno alla stessa amministrazione, può sconsigliare se non addirittura precludere la assunzione o il mantenimento della carica per la quale non vi è stata una investitura popolare. Sullo sfondo rimangono i tempi lunghi della giustizia. La ragionevole durata dei processi, che pure la costituzione prevede e che va valutata tenendo anche conto degli interessi istituzionali in gioco, imporrebbe un rapido accertamento della esistenza o meno di responsabilità penali quando le attese, e le incertezze che ne derivano, determinano effetti così negativi. Torna al sommario CORRIERE DELLA SERA di domenica 9 ottobre 2016 Pag 1 La bellezza perduta nelle città di Ernesto Galli della Loggia Democrazia e follie A chi appartengono Firenze, Roma, Venezia, i grandi luoghi della bellezza italiana? A chi anche quelli meno noti, i tanti borghi sparsi nella Penisola, per esempio quelle autentiche gemme dell’Umbria che sono Bevagna e Montefalco? Chi ha titolo a decidere del loro destino? si chiede inevitabilmente chi oggi visita questi luoghi. Se lo chiede davanti allo spettacolo dello scempio che se ne sta facendo. Lasciamo perdere la calca soffocante dei turisti italiani e stranieri che si aggirano di continuo in un paesaggio urbano in genere concepito per la ventesima parte di quelli che oggi vi aggirano. Lasciamo perdere dunque le gimkane tra le gambe della gente sdraiata come se nulla fosse in mezzo alla strada, o il percorso continuo a zig zag cui si è costretti per evitare di essere travolti da gruppi di turisti procedenti come rulli compressori con gli occhi fissi sul segnacolo brandito dalla loro guida, e lasciamo perdere pure gli assalti ai mezzi pubblici, o le pipì in mezzo alla strada e i tuffi nei canali delle cronache di questa estate. Ma quello che non si può lasciar perdere è lo stupro dei luoghi, lo stravolgimento dell’ambiente fino alla sua virtuale cancellazione. Tutto quello che il passato aveva fin qui prodotto - botteghe, commerci, edicole, angoli appartati, dignitosi negozi - tutto o quasi sta per scomparire o è già scomparso. Al suo posto minimarket, rivendite di cianfrusaglie orribili spacciate per souvenirs, losche hostarie con cibi congelati, caldarrostai bengalesi in pieno luglio, miriadi di bugigattoli per pizze a taglio, pub improbabili, sedie e tavolini straripanti fino alla metà della strada e presidiati da petulanti «buttadentro», gelaterie in ogni anfratto. Per non dire dello stuolo infinito di rivenditori extracomunitari di merci false, delle mille insegne in un inglese «de noantri», della marea di Bed & Breakfast spuntati dovunque come funghi. Non chiudiamo gli occhi di fronte alla realtà: i centri storici (e non solo loro) delle più belle città italiane e molte delle località cosiddette minori sono ridotti a questa informe poltiglia turistico-commerciale. Un cinico sfruttamento affaristico si sta mangiando ogni giorno un pezzo del nostro passato, del nostro Paese, un pezzo di quella «grande bellezza» di cui pure ama riempirsi la bocca la sempiterna retorica della chiacchiera politica. Di tutto quanto ho detto conosciamo i responsabili. Sono per la massima parte i poteri locali, le amministrazioni comunali, gli assessori e i sindaci. Questi ultimi soprattutto, per la loro funzione di guide e di responsabili politici ultimi. Sono i Comuni infatti che rilasciano le licenze commerciali, che autorizzano il cambiamento della destinazione d’uso dei locali, che emanano le regole circa l’arredo urbano. Sono essi infine che dispongono della polizia locale la quale - anche su ciò è ora di dire una parola di verità - specie nei grandi centri da Roma in giù rappresenta uno dei tanti aspetti scandalosi di questo Paese, essendo quel ricettacolo che essa abitualmente è di clientele politiche e di assenteismo, esempio di una conclamata approssimazione professionale quando non di peggio. È la polizia urbana agli ordini dei sindaci che non controlla nulla, non è mai presente, lascia correre, fa finta di non vedere. Il fatto è che i sindaci hanno un interesse preciso a fare andare le cose nel modo in cui vanno. Si chiama democrazia. Non la democrazia come ideale, beninteso, al quale siamo tutti devoti, ma la democrazia come realtà. Cioè come suffragio elettorale, come necessità di ottenere e mantenere il consenso degli elettori. Al pari di ogni altro politico l’interesse primo di ogni sindaco è quello di essere rieletto (è vero che non possono esserlo più di una volta nelle località al di sopra dei 15 mila abitanti, ma un sindaco che anche dopo due mandati consegna la propria

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amministrazione agli avversari non ha certo delle buone credenziali per vedersi candidato ad altri incarichi); egli dunque non deve assolutamente dispiacere ai propri elettori. Soprattutto là dove il turismo è una risorsa essenziale ciò significa non dispiacere alle categorie che vivono più o meno direttamente del turismo: ai commercianti, agli albergatori, ai ristoratori, ai tassisti, ma anche alla connessa proprietà edilizia e a tutta la pletora di «abusivi» che ruota intorno all’organizzazione dell’ospitalità (tipo i finti «centurioni» o gli autobus-chiosco diffusi a Roma). Tutti segmenti sociali, quelli appena detti, abituati a organizzare in modo ferreo il proprio voto amministrativo e ad allocarlo su chi promette di non impedire loro di continuare a sfruttare strade, piazze e monumenti per il proprio esclusivo interesse. Nove volte su dieci determinandone così la vittoria. Ma se dunque la «grande bellezza» italiana è la vittima predestinata del meccanismo del consenso elettorale a livello locale, è davvero così antidemocratico pensare di neutralizzare un tale meccanismo? Pensare ad esempio di dare al ministero dei Beni culturali, attraverso i suoi organi periferici quali le Soprintendenze, la facoltà di porre il veto su un certo numero di atti amministrativi concernenti le materie di cui si è discorso sopra? È davvero antidemocratico, ricorrendo certe condizioni (tasso di assenteismo, numero di procedimenti disciplinari e giudiziari a carico dei loro componenti) pensare ad esempio di mettere le polizie locali agli ordini di un ufficiale dei Carabinieri temporaneamente distaccato in aspettativa dall’Arma? Il fatto è che in società dal fragile spirito civico come la nostra, abitate da interessi privati furiosamente indisciplinati, la pedissequa applicazione del suffragio elettorale può spesso risolversi in un danno reale e grave inferto proprio ai valori sostanziali, al bene comune, per la cui difesa la democrazia è stata pensata. Classi politiche degne di questo nome, le quali non si lasciassero intimidire dalle parole ma guardassero ai fatti, dovrebbero convincersene e agire di conseguenza. Pag 1 Il populismo è già in crisi ma ha contagiato i vecchi partiti di Federico Fubini In Europa «Graecia capta ferum victorem cepit» scriveva Orazio della conquista di Roma sull’Ellade. La Grecia, conquistata, conquistò il feroce vincitore. I romani furono dominati dalla cultura greca anche quando il potere era nelle loro mani. A venti secoli di distanza è il caso di chiedersi se Orazio non continui ad avere ragione oggi, fra protagonisti meno nobili: i leader dei partiti tradizionali e quelli dei movimenti antisistema che hanno trasformato la politica negli ultimi anni. Anche quando questi ultimi sono perdenti o lontani dal potere, stanno conquistando l’establishment con le loro attitudini e le loro idee. L’ultimo sintomo è emerso dalla conferenza del Partito conservatore britannico pochi giorni fa. Nel suo discorso ai delegati, Theresa May ha riassunto il cambio di stagione in una formula: «Se credete di essere cittadini del mondo, non siete cittadini di nessun posto. Non capite neanche cosa significhi la parola cittadinanza». A pronunciare queste parole era la premier del Paese che ha beneficiato forse di più di qualunque altro in Europa del cosmopolitismo e della caduta dei muri degli ultimi decenni. Da Margareth Thatcher, a Tony Blair, a David Cameron, i suoi predecessori laburisti o conservatori promettevano ai britannici che l’apertura al mondo avrebbe reso tutti più ricchi. May invece parla di patria e di confini, come l’ultranazionalista Nigel Farage nella sua campagna per portare la Gran Bretagna fuori dall’Unione Europea. Oggi Farage è un leader in pensione, ricorda un po’ Umberto Bossi. Il suo partito è giù nei sondaggi e in preda al caos. Spetta a una premier compassato e prevedibile come May guidare il suo Paese nel divorzio dal resto d’Europa, e forse per questo lei stessa semina altri indizi del fatto che i tempi stanno cambiando. May è la leader del partito europeo da sempre più favorevole all’apertura dei mercati, eppure oggi parla di intervento pubblico e di «settori strategici» dell’industria nazionale come una no global francese. È l’erede della tradizione thatcheriana nutrita di monetarismo e separazione dei poteri, ma getta ombre sull’indipendenza della Bank of England come coloro che lei stessa definiva «populisti». Ha questo da dire dei liberal di tutte le aree politiche: «Trovano il patriottismo di cattivo gusto». Si può approvare o restare spiazzati, è impossibile però non vedere che Theresa May non si muove da sola. Ovunque in Europa e in Occidente gli eredi dei partiti tradizionali stanno adeguando la propria retorica e le decisioni di governo alla nuova aria

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del tempo. Nessuno di loro intende lasciare un voto più del necessario agli avversari situati ai confini estremi della politica. In Francia, Nicolas Sarkozy cerca di coprire per intero il terreno della destra radicale del Front National di Marin Le Pen. Nel ricandidarsi all’Eliseo, Sarkozy ha proposto misure contro il terrorismo islamico che fanno apparire Guantànamo un’accademia dello Stato di diritto: centri di «detenzione preventiva» per qualunque francese che dia luogo a «sospetti» per i siti in Rete che apre da proprio computer di casa o per il modo in cui si comporta nella sua vita quotidiana. Neanche la Germania della grande coalizione fra democristiani e socialdemocratici sembra al riparo da questo vento nuovo. I nazionalisti anti immigrati di Alternative für Deutschland minacciano per la prima volta di erodere consenso da destra al partito della cancelliera Angela Merkel, ed è per questo che il governo ha preso proprio questa settimana una decisione che sarebbe stata impensabile anche solo pochi anni fa: i cittadini di altri Paesi europei dovranno vivere in Germania per almeno cinque anni, prima di poter ricevere assegni di disoccupazione se restano senza lavoro. In precedenza bastava aver lavorato nella Repubblica Federale sei mesi. Una misura del genere rischia adesso di danneggiare migliaia di italiani che hanno lavorato e pagato le tasse per anni in Germania. Ma, ancora una volta, l’ottimismo e lo spirito di apertura dei due decenni di prima della Grande Recessione sembrano ormai un ricordo distante. Lo sono anche negli Stati Uniti. In campagna presidenziale Hillary Clinton ha dovuto promettere che bloccherà gli accordi commerciali con i Paesi del Pacifico che lei stessa aveva negoziato come segretario di Stato pochi anni fa. Dalla Casa Bianca degli Anni 90 suo marito Bill Clinton sosteneva che il libero scambio era «hundred to nothing», solo vantaggi e zero svantaggi; Hillary invece deve tenere testa alla retorica protezionista di Donald Trump. Neanche l’Italia è immune, naturalmente. Le tirate di Matteo Renzi contro «i burocrati di Bruxelles» non sono difficili da capire in un Paese in cui la prima forza nei sondaggi - M5S - propone un referendum sull’euro. Ma anche chi è a disagio di fronte al nazionalismo e al protezionismo dei leader occidentali di oggi deve riconoscere una realtà: Thatcher e Tony Blair si sbagliavano, la globalizzazione e l’apertura delle frontiere non hanno reso tutti più ricchi e sicuri di sé. Hanno creato anche dei perdenti. Perché la società aperta si salvi, dovrà beneficiarne anche chi non ci è riuscito fin qui Pag 1 Trump, la caduta di ottobre di Massimo Gaggi L’October surprise che sconvolge la campagna elettorale a un mese dal voto è esplosa. Nel quartier generale di Donald Trump. Il dibattito di stasera è davvero l’ultima spiaggia per lui. Era attesa sul fronte di Hillary Clinton - tra i sostenitori della candidata democratica si temevano rivelazioni sulle email segrete dell’ex segretario di Stato trafugate dagli hacker o addirittura nuovi problemi di salute -, l’«October surprise» che sconvolge la campagna elettorale a un mese dal voto è esplosa, invece, nel quartier generale di Donald Trump. La registrazione delle scandalose frasi del miliardario sulle donne è arrivata sui media americani e mondiali come un siluro e può far affondare definitivamente la sua candidatura o perfino costringerlo al ritiro anche se lui, per ora, con una serie dei tweet insistenti, lo esclude categoricamente. Il dibattito di stasera, per lui, è davvero l’ultima spiaggia. Ma il voto per la Casa Bianca, ogni giorno che passa, si sta rivelando una prova durissima non solo per due candidati ognuno - a suo modo - inadeguato, ma anche per il partito repubblicano, che rischia di essere ridotto in macerie dall’avventura politica dell’immobiliarista e per la stessa democrazia americana. Deve essere stato per questo che le pressioni anche dall’interno della forza politica perché ci fosse un ritiro di Trump si sono fatte sempre più forti, tanto che lo stesso candidato le ha rivelate riferendosi ai media e all’establishment: «Mi vogliono fuori dalla corsa, ma io non abbandonerò mai». Con i meccanismi legislativi del Congresso inceppati da tempo e un sistema elettorale basato sulle primarie che non riesce più a selezionare candidati validi, l’immagine del sistema politico del Paese-chiave dell’Occidente rischia di essere ridotta a quella dello scontro pecoreccio tra infedeltà coniugali incrociate. Quello messo in moto da Trump è un meccanismo infernale che trita il partito repubblicano trasformando la malcelata ostilità dei suoi parlamentari in disgusto, rabbia e, soprattutto, terrore: quello di non essere rieletti dai loro votanti conservatori, anch’essi disgustati. Cosi sale la richiesta di un ritiro di Trump per salvare, almeno, la maggioranza repubblicana al Congresso. Trump resiste e, comunque, probabilmente è

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troppo tardi per un cambio di cavallo. Come ha detto l’arciconservatore senatore Mark Kirk, il partito è finito nelle mani di un clown malefico. AVVENIRE di domenica 9 ottobre 2016 Pag 1 La compagnia dimenticata di Vittorio A.Sironi I limiti della medicina e della morte Tra gli eventi cruciali della vita umana – nascita, malattia, invecchiamento – la morte è quello di maggiore rilevanza esistenziale e di più intensa risonanza emotiva: per i familiari, ma anche per gli operatori sanitari. La morte è un fatto naturale, il normale termine di ogni esistenza, ma il morire appartiene alla vita, che deve essere rispettata, protetta e assistita sino al suo concludersi. «L’atteggiamento davanti al morente – ha scritto Giovanni Paolo II – è il banco di prova del senso di giustizia e di carità, della responsabilità e della capacità professionale degli operatori sanitari, a cominciare dai medici». Oggi i medici sanno ancora accompagnare in modo dignitoso e umano il malato alla morte? Alcuni recenti episodi di cronaca, con il poco o tanto clamore mediatico che hanno suscitato, invitano a riflettere. Assistere il morente è da sempre parte integrante del 'mestiere di medico': la sua professione è quella più coinvolta in un’esperienza diretta e continua della morte. Nell’esercizio dell’antica 'arte della cura', per parecchi secoli il medico ha inteso la morte come un elemento intrinseco della sua visione del rapporto tra salute e malattia. Sino a Ottocento inoltrato l’enunciazione della prognosi era più importante della diagnosi (e della terapia): il medico sapeva che l’esplicita e dichiarata previsione di morte era essenziale alla prognosi quanto l’enunciazione di una futura guarigione. La morte apparteneva al mondo concettuale e comportamentale del medico quanto la speranza di superare la malattia: vita e morte costituivano una categoria mentale unitaria dei medici condotti, dei medici di famiglia, dei medici di campagna che operavano sul territorio. La loro visita al capezzale del paziente riguardava in ugual misura i malati suscettibili di guarigione quanto quelli destinati alla morte o addirittura già deceduti. Accompagnare il morente al suo destino e consolare i familiari del defunto erano atti professionali identici e simmetrici a quelli usati per curare i malati sanabili: gesti dotati della stessa dignità umana di attenzione al bisognoso e al sofferente (per la malattia, per l’imminente morte, per la perdita di una persona cara). Nel Novecento, con l’avvento della moderna medicina tecnologica, l’orizzonte culturale del medico è cambiato. La morte del malato viene vissuta come una sconfitta della medicina, un limite della professione che non ha saputo vincere la malattia. Fatta la diagnosi e messa in atto la terapia, se quest’ultima non è risolutiva, il medico si sente implicitamente autorizzato a disinteressarsi di questo malato inguaribile. In ospedale però spesso non ci si rassegna: il malato morente non viene considerato tale e rischia di essere inutilmente sottoposto a un accanimento terapeutico nella speranza – vana – di modificare la sua prognosi. Viceversa gli operatori sanitari non dovrebbero mai dimenticare che «chi sta morendo ha bisogno di affetto, di aiuto, di non essere lasciato solo», come scrive Norbert Elias nel libro La solitudine del morente. Quando la guarigione non è possibile, lenire e consolare sono gli indispensabili atti di cura che il medico deve sempre saper offrire al suo paziente. Per questo, più di altri operatori sanitari, il medico deve riappropriarsi (in ospedale ma forse ancora di più sul territorio) della capacità di saper accompagnare il morente. Recuperando quella perenne dimensione antropologica della sua professione che non deve essere prevaricata e cancellata dalla pur apprezzabile componente tecnologica della medicina odierna. Anzi, proprio i mezzi che la medicina oggi offre per lenire le sofferenze del morente, devono essere per il medico un incentivo atto a rendere possibile – quando la morte è un evento atteso e purtroppo ineluttabile – un trapasso indolore e corale della persona morente nel sereno ambiente domestico, circondato dall’affetto dei suoi cari. Un passaggio più dignitoso e umano della morte solitaria e inaffettiva – sovente evitabile – dentro l’asettica camera di un ospedale o di un hospice. Senza rinunciare alle terapie più efficaci e attuali, farsi carico della morte del proprio paziente quando questa diventa inevitabile, sapendo accompagnare lui o lei e i suoi familiari lungo questo processo naturale, deve tornare a essere per il medico – come lo è sempre stato – un’esperienza umana emotivamente coinvolgente, ma soprattutto un atto fondante della sua competenza professionale.

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IL GAZZETTINO di domenica 9 ottobre 2016 Pag 1 La fiducia necessaria per la ripresa di Romano Prodi “Obbligati a crescere” è stato il titolo dato alla discussione sullo stato dell’Economia organizzata lo scorso mercoledì. Il dibattito ha dimostrato che questo titolo era purtroppo pienamente appropriato, tenuto conto dei danni che i lunghi anni di crisi hanno portato alle nostre economie e alle nostre società. La disoccupazione non solo ha rovinato il reddito di milioni di famiglie ma ha lesionato il capitale sociale di interi paesi in modo tale da distruggere anche la fiducia sulle prospettive di un miglioramento in un prevedibile futuro. Un crollo di fiducia che incide su tutti gli aspetti dell'organizzazione sociale, emarginando un numero sempre maggiore di giovani, allontanando i cittadini dalla partecipazione politica e influenzando perfino i comportamenti demografici. Una sfiducia che, a livello planetario si traduce in un rallentamento del commercio internazionale che, nei sei mesi che ci stanno alle spalle, è addirittura in fase di stagnazione. Ed è ancora la sfiducia a rendere ormai impossibile la firma degli accordi commerciali che erano stati uno degli elementi propulsivi dell'economia mondiale. Per un certo tempo si è pensato che a questo disfacimento potessero porre rimedio le banche centrali, fornendo illimitate quantità di moneta al sistema economico. Esse hanno evitato disastri peggiori ma nemmeno i tassi di interesse sotto zero (che non hanno alcun precedente nella storia economica) sono oggi in grado di ricostruire la fiducia necessaria per la ripresa. Lo può fare soltanto un accordo fra i governi che hanno la maggiore responsabilità nella gestione della politica mondiale, ma quest'accordo mondiale non c'è, come ha dimostrato l'ultima riunione del G20. Non vi è accordo nemmeno a livello europeo, dove la Commissione viene esautorata perfino nei settori nei quali aveva competenza esclusiva, come le trattative sul commercio internazionale. Ed è ancora alla sfiducia che si deve non solo la, Brexit ma anche il dopo-Brexit, che vede tutti i paesi europei divisi sul come comportarsi nei confronti della Gran Bretagna. Una divisione che entra in tutte le decisioni della politica economica europea, nella quale ormai i paesi più forti impongono le loro regole ai più deboli, rallentando la crescita di tutti e relegando l'Europa intera a fanalino di coda dello sviluppo mondiale. Una sfiducia che pesa particolarmente sull'Italia perché, per il bene e per il male, siamo diversi dagli altri paesi europei e ci troviamo invece di fronte a regole che colpiscono in modo particolarmente negativo il nostro sistema economico. Naturalmente sta prima di tutto a noi fare fronte alle nostre debolezze, che sono tante. Pur essendo il secondo paese industriale del continente non abbiamo più alcuna grande impresa e le nostre piccole imprese hanno un livello di produttività nettamente inferiore rispetto ai nostri concorrenti e non facciamo nulla per incentivarle a raggrupparsi o a fondersi. Nel grande campo dei servizi siamo così frammentati da non avere alcuna presenza al di fuori dei nostri confini, lasciando alle organizzazioni straniere di dominare nel commercio, nel turismo e nella consulenza. Con tutto questo possiamo ancora contare su un folto gruppo di medie aziende così efficienti da garantirci una bilancia commerciale in attivo nonostante la necessità di importare la maggioranza delle risorse energetiche. Questo complicato ma straordinario equilibrio si regge su fonti di finanziamento anch'esse diverse dagli altri paesi. L'80% delle risorse finanziarie necessarie alle nostre imprese proviene infatti dal sistema bancario, una misura grandemente superiore a quella dei concorrenti, la struttura finanziaria dei quali si fonda soprattutto sul mercato obbligazionario e azionario. La crisi economica ha inoltre spazzato via più del 20% della nostra capacità produttiva. Il che ha appesantito il bilancio delle nostre banche in misura superiore a quella degli altri paesi dell'Euro. E' giusto (e persino ovvio) che tutti i paesi dell'Euro debbano adottare una severa disciplina comune nei confronti del proprio sistema bancario, ma questo obiettivo deve essere raggiunto con tempi e modi che non tolgano l'ossigeno del credito al sistema produttivo. Il che richiede severità ma anche fiducia. Vedo invece che una crescente parte della pubblicistica europea mette in secondo piano gli equilibri di fondo del nostro sistema economico e ritiene che i crediti non esigibili di alcune nostre banche siano l'unico pericolo per gli equilibri futuri dell'economia europea. Con questo dimenticando quanto sia almeno altrettanto pericoloso l'eccesso di titoli derivati di dubbia qualità che dominano i bilanci di alcune grandi banche europee. La sfiducia nei nostri confronti è tale da fare nascere il sospetto che, di fronte ad una possibile

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tempesta speculativa, l'obiettivo di alcuni nostri partner non sia quello di rafforzare la nave comune europea con strumenti equi e severi ma solo quello di sottolineare le debolezze italiane. Troppe volte leggo nei sarcastici commenti sul nostro sistema bancario non una doverosa critica alle nostre debolezze ma l'obiettivo di presentarci come una pecora zoppa in grado saziare per lungo tempo il lupo della speculazione. Credo che questa sia la strada maestra per rovinarci tutti insieme. È per questo motivo che penso che avere speso una mattina ad approfondire i legami fra la crescita e la fiducia sia stata un'occasione utile ed opportuna. Crescere è infatti un obbligo ma senza un minimo di fiducia reciproca non si crescerà mai. LA NUOVA di domenica 9 ottobre 2016 Pag 1 Democrazia diretta più diffusa di Fabio Bordignon Il mondo si sta trasformando in una grande Svizzera? Dalla Brexit fino alle Farc, passando per l’Ungheria e il Canton Ticino. Poi, naturalmente, il 4 dicembre italiano. Si moltiplicano, sul piano globale, le occasioni di coinvolgimento della popolazione nelle decisioni politiche, attraverso l’uso del referendum. Segnale di rinascita della democrazia o ulteriore sintomo della sua crisi? Il 2016 è, per molti versi, l’anno dei referendum. In realtà, è solo la continuazione di una lunga scia. Nei due anni precedenti, l’attenzione si è puntata sul voto per l’indipendenza scozzese, e sul pronunciamento della Grecia in merito agli accordi con i creditori internazionali. Consultazioni molto diverse tra loro. Come le due consultazioni italiane di quest’anno. Il referendum dello scorso aprile sulle “trivelle”: abrogativo e con quorum, promosso attraverso una iniziativa “dal basso”. Il referendum sulla Renzi-Boschi: senza quorum, richiesto (da maggioranza e opposizione) in seguito all’approvazione parlamentare di una riforma “governativa”. Il revival della democrazia diretta riflette, indubbiamente, l’insoddisfazione per il funzionamento della rappresentanza politica. È in questo scenario che si fa largo l’idea di riscoprire la democrazia come potere “del popolo”. E non è un caso che, negli ultimi anni, molti tra gli appuntamenti referendari più rilevanti abbiano riguardato l’Europa, divenuta, agli occhi dei populisti, emblema dello svuotamento della democrazia. Così - a partire dalla bocciatura della costituzione europea in Francia e nei Paesi Bassi (2005) - il popolo europeo ha iniziato a votare contro l’Europa. Negli Usa, la democrazia diretta, con i suoi diversi strumenti, ha una lunga tradizione, a livello di singoli stati: basti pensare che - secondo i calcoli del politologo Todd Donovan - gli americani, tra il 2000 e il 2012, hanno votato su circa 1.600 referendum o iniziative popolari. In Svizzera, patria europea della democrazia diretta, nello stesso periodo si sono tenuti “solo” 113 referendum. In Italia, dal 1974, si è votato su ben 67 referendum abrogativi. Ma, da qualche tempo a questa parte, la democrazia diretta si sta diffondendo un po’ ovunque. L’espressione (diretta) della volontà popolare, tuttavia, genera dilemmi di notevole portata. In che misura i cittadini, spesso poco informati, possono essere ritenuti idonei a esprimersi su questioni ad alto contenuto tecnico? Cosa fare, poi, quando la maggioranza popolare viola principi “universali”, prevarica i diritti delle minoranze, oppure, semplicemente, produce decisioni che vanno contro l’interesse generale? La Colombia, domenica scorsa, ha bocciato il processo di riconciliazione nazionale portato avanti dal presidente Santos, insignito poche ore dopo del Nobel per la Pace.Negli stessi giorni, il 98% degli ungheresi ha detto no alle quote di ripartizione dei migranti previste dall'Ue, e il 58% dei ticinesi ha alzato il muro del #Primainostri contro i lavoratori transfrontalieri. Dalla Svizzera hanno subito precisato che “non cambia niente”. Il governo di Budapest, a dispetto del quorum mancato, sembra intenzionato a procedere sulla strada della chiusura. Mentre il Regno Unito, alle prese con il difficile divorzio dall’Europa, già all’indomani del voto ha visto crescere i pentiti del leave. Già, ma quali élite possono assumersi la responsabilità di stabilire che il popolo “ha sbagliato”? Fino a che punto i leader politici - che sempre più spesso invocano il popolo per rafforzare il proprio potere, o mascherare la propria impotenza - possono trascurare le scelte dei cittadini? Proprio a partire da questi quesiti, nel prossimo futuro, andranno ri-pensati (e magari ampliati) i canali della democrazia diretta. Nella cornice della democrazia rappresentativa, che difficilmente, anche nell’epoca della Rete, sarà soppiantata dalla democrazia diretta. Ma, inevitabilmente e sempre più spesso, dovrà misurarsi con le indicazioni che provengono dal popolo.

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Pag 4 The Donald è vicino al disastro di Alberto Flores d’Arcais Da giorni Donald Trump, i suoi uomini (e i media repubblicani, guidati da Fox News) annunciavano clamorose rivelazioni che avrebbero “affossato Hillary”. Wikileaks ha mantenuto le promesse rendendo pubbliche 2mila email di John Podesta (capo della campagna della Clinton), ma un paio d’ore prima il Washington Post ha messo in rete un video del 2005, in cui Trump si vantava dei suoi rapporti con le donne ed è partito il contrappasso: le rivelazioni di Wikileaks sono passate in secondo piano e tutti parlano del video sessista. Nonostante le (quasi) immediate e poco credibili scuse (“Bill Clinton è peggio di me”, si è affrettato a dichiarare) il danno è enorme e per The Donald la strada verso la Casa Bianca ad oggi sembra sbarrata. Lo spregiudicato tycoon ha condotto il Grand Old Party davanti al proprio peggiore incubo. Che non è solo quello di perdere la Casa Bianca per la terza volta di fila (e con una nuova Corte Suprema a maggioranza liberal), ma anche quello di rischiare la maggioranza al Senato e un buon numero di deputati. I numeri dei sondaggi nell’ultima settimana (che tenevano conto del primo dibattito televisivo ma non ancora del video sessista) sono devastanti per The Donald. Secondo il sito di Nate Silver (fivethirtyeight.com), di gran lunga il più attendibile (ha azzeccato quasi al dettaglio i risultati delle ultime due presidenziali), se si votasse oggi Hillary avrebbe l’87,4 per cento di probabilità di vittoria contro il 12,6 di Trump. Non solo, l’ex First Lady vincerebbe nei due Stati-chiave per eccellenza (Florida e Ohio), conquisterebbe la North Carolina (dove l’unica vittoria democratica è quella di Obama nel 2008, nel 2012 vinse Romney) e addirittura potrebbe conquistare l’Arizona, regno del senatore repubblicano John McCain e degli oltranzisti anti-immigrati, dove nessun candidato democratico (con l’eccezione di Bill Clinton nel 1996) ha mai vinto dal lontano 1948. Se aggiungiamo che in diversi Stati (altri ne seguiranno nei prossimi giorni) sono iniziati gli early vote (il voto anticipato) e che prima dell’8 novembre circa il 30 per cento degli aventi diritto avrà già messo la scheda nelle urne (tra i 30 e 40 milioni di elettori) il disastro per Trump appare in modo ancora più evidente. Fino a quando il candidato-miliardario (e che non paga le tasse) nei sondaggi è rimasto incollato a Hillary, praticamente tutti i candidati a Senato e Camera del Grand Old Party erano stati costretti a fare buon viso a cattivo gioco. Anche quelli che lo vedevano come il fumo negli occhi - ad esempio il senatore Ted Cruz, il rivale delle primarie che alla Convention gli aveva rifiutato l’appoggio - si erano dovuti, volenti o nolenti, adeguare a slogan e stile di un possibile futuro presidente. Dopo il video “hot” diffuso dal Washington Post è iniziata la corsa ai distinguo: il via libera l’ha dato il leader repubblicano al Congresso Paul Ryan («sono disgustato», ha dichiarato annunciando la cancellazione dei comizi in comune con Trump), sono già decine i candidati che hanno deciso di smarcarsi nel tentativo di salvare il proprio seggio (in molti Stati Usa si vota con un’unica scheda per il candidato alla Casa Bianca e quelli del Congresso) ed è probabile che molti seguiranno nei prossimi giorni. Le scadenze elettorali offrono subito a The Donald una possibilità di riscatto, stanotte nel secondo dibattito in diretta televisiva. Aveva già annunciato (spinto dal suo staff e dai leader del Gop) di voler rinunciare ad attacchi personali contro madame Clinton (i tradimenti e la vita sessuale di Bill), lo ha confermato dopo le polemiche sul video. Non è detto che mantenga la promessa, l’uomo è impulsivo e nel campo di Hillary stanno certamente preparando il modo per provocarlo. Con un altro scivolone anche quelle pochissime chance di rimonta svanirebbero del tutto. Pag 8 La povertà e le colpe dei ricchi di Giancesare Flesca Confermando la sostanziale malvagità della natura che già Lucrezio lamentava, l’uragano Matthew si sta calmando dopo aver sconvolto il Paese più povero fra quelli colpiti, anzi il più povero delle Americhe, l’isola caraibica di Haiti. Imprecisato il numero delle vittime, impossibile il computo dei danni. Tuttavia sarebbe ingiusto addossare soltanto a Madre Natura la responsabilità dello scempio che Haiti vive oggi, sei anni dopo un terremoto che aveva inutilmente commosso il mondo intero uccidendo 250mila dei suoi 10 milioni di abitanti, l’80 per cento dei quali vive sotto la soglia di povertà, meno di un dollaro al giorno. Chi è stato a Port-au-Prince, la capitale, può raccontare di un immenso carnaio senza soluzione di continuità, un’unica, tremenda discarica dove le persone si muovono davvero come in un girone dantesco. Niente fogne, niente elettricità, niente acqua

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potabile: è logico che anche stavolta si paventi l’arrivo del colera, epidemia da queste parti quasi endemica. La deforestazione ha trasformato i pochi terreni agricoli dei cui frutti campava la stragrande maggioranza degli abitanti in brutali miniere di carbone a cielo aperto, divenute l’unica fonte energetica del Paese. Scomparse le piantagioni di cotone e di tabacco che per qualche decennio avevano reso prospera l’economia, non resta che sopravvivere negli slums. Dove le case, costruite in fango e legno, vengono giù a ripetizione, lasciando a chi ci abita una sola opzione:ricostruirle. A dare manforte alle sventure volute dal Cielo, si sono impegnate anche le classi dirigenti di quest’isola, un tempo celebre per il suo padre padrone Duvalier, “papa doc” che governava con i riti voodoo approfittando dell’ignoranza della sua gente o con gli squadroni della morte, i “tontons macoutes” approfittando della loro paura. Finita l’era Duvalier il Paese ha vissuto ogni sorta di traversie, dalle quali era emerso un cattolico, Jean Bernard Aristide, che si proponeva di portare qualche molecola di giustizia sociale nell’isola e fu per questo eletto democraticamente, ma dopo un po’ costretto a trasferirsi negli Stati Uniti, per essere indottrinato alla filosofia dell’Impero. Benché rieducato, Aristide e i suoi successori non ebbero vita facile, i giochi politici a Port-au-Prince nel palazzo del governo erano duri e sporchi, sempre controllati dai militari locali affiancati da diecimila marines statunitensi che tiravano il guinzaglio. La loro presenza non bastava però a placare la violenza della città bassa, la città “a testa in giù”, come diceva Frantz Fanon, serviva più che altro a garantire i turisti disposti a chiudere gli occhi di fronte a tanta miseria e ad alloggiare in sontuosi alberghi e resort sulla sabbia di un mare fra i più belli del mondo. Poi c’era l’hotel Oloffson, un vetusto edificio in legno, ogni camera era intestata a una celebrità letteraria. Qui si incontravano giornalisti, politici, capi militari, agenti segreti. Per la povera gente, l’unica alternativa a tutto questo era ed è una sola: andarsene. Ma dove? Nella Repubblica Dominicana, che fa parte della stessa isola ma è di matrice mulatta e non africana, gli haitiani subiscono vessazioni terribili e vengono trattati con grande disprezzo. Gli vengono riservati solo i lavori che nessun dominicano ha più voglia di fare e vivono nei ghetti, appunto come negri. E come tali li tratta anche l’immigration americana che cerca di tenerne lontani il più possibile. Durante la dittatura feroce di “papa doc” e del suo sciocco figliolo, qualche haitiano ottenne lo status di rifugiato politico. Ma oggi in teoria la democrazia c’è, anche se i Consigli elettorali provvisori rimandano le elezioni di anno in anno e se la violenza politica è all’ordine del giorno. Quindi, niente posto da rifugiato. Le catastrofi naturali, pur se facilitate dall’opera dell’uomo, non sono considerate una buona ragione per cercare fuori dal proprio paese una vita più dignitosa. Non resta quindi che restare ad Haiti, dove le riserve in valuta vengono da emigrati fortunati o dalle tasse che parenti più sfortunati debbono pagare sulle telefonate ricevute dall’estero. Torna al sommario CORRIERE DELLA SERA di sabato 8 ottobre 2016 Pag 1 Il rapporto (ancora) malato tra partiti e magistratura di Marco Imarisio L’ex sindaco di Roma Ignazio Marino e l’ex presidente della Regione Piemonte Roberto Cota appartengono ormai al passato. Nel frullatore sempre acceso della nostra politica non c’è tempo per voltarsi indietro. Le assoluzioni dei due amministratori per le cosiddette spese pazze con i soldi dei contribuenti avranno come unica conseguenza soltanto scuse retrodatate, spesso ipocrite come le frasi fatte sulla restituzione dell’onore ai diretti interessati. Il danno che hanno subìto a livello personale e politico rimane. Le cinquantasei cene del «marziano» salito al Campidoglio e le mutande verdi del leghista devoto a Umberto Bossi non sono state la causa principale della loro caduta. Il primo fu costretto a dimettersi perché il Pd, il suo partito, organizzò una raccolta di firme tra i consiglieri comunali per sfiduciarlo. Cota fu destituito da una sentenza del Tar per una vicenda di firme false che fin dall’inizio gravò sulla sua legislatura. Ma l’azione della magistratura venne usata dai loro avversari politici per accompagnare l’azione di delegittimazione dei due amministratori, per demolirli anche come persone additando all’elettorato la loro indegnità morale. La differenza tra l’eco mediatica prodotto dalle accuse e il verdetto finale non è prerogativa solo di queste due vicende. Forse le 116 richieste di archiviazione per politici, imprenditori e funzionari pubblici indagati per Mafia

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Capitale non tolgono nulla all’inchiesta e alla sua ragion d’essere, ma giustificano le recriminazioni comunque vane di chi ha visto andare in fumo la propria carriera o ha dovuto rinunciare alle sue ambizioni elettorali, come denunciato da alcuni esponenti della destra romana. Nel 2014 il presidente dell’Emilia-Romagna Vasco Errani si dimise dopo una condanna per falso ideologico. Alla sua successione si candidarono Matteo Richetti e Stefano Bonaccini, che pochi giorni dopo vennero indagati per le spese del gruppo consiliare della Regione. Il primo si ritirò dalle primarie, il secondo rimase e gli andò bene, perché la sua posizione venne subito archiviata. Errani e Richetti sono stati assolti quest’anno. L’ex governatore è stato nominato commissario per la ricostruzione nelle aree colpite dal terremoto del 24 agosto. I suoi detrattori ancora gli rinfacciano quelle accuse cadute nel vuoto, perché non sempre l’assoluzione porta via anche la maldicenza e il pregiudizio, almeno dalle nostre parti. Marino era ritenuto non adatto al ruolo, isolato, autoreferenziale. Ma onesto. Le cene pagate con la carta di credito del Comune fecero cadere l’ultimo bastione. «Mente anche sugli scontrini», dissero esponenti del Pd romano e nazionale sull’allora sindaco della Capitale. Le loro odierne professioni di garantismo, che in Italia viene sempre esercitato a giorni alterni e in base alle proprie appartenenze, sono un corollario penoso a una vicenda già triste di suo. Nel biennio 2012-2014 i dettagli sulle presunte spese pazze degli amministratori locali riempirono le pagine dei nostri giornali. Ovunque sono arrivate molte condanne e quasi altrettante assoluzioni. Può essere un segno del fatto che i giudici non hanno ceduto a un facile giustizialismo moralistico, distinguendo le responsabilità individuali tra dolo ed errori di vario tipo. Ma intanto, Cota, come Marino e con lui molti altri, sono stati umiliati e ridicolizzati a mezzo stampa. E infine messi da parte. Le mutande verdi divennero il simbolo dell’ingordigia dei consiglieri regionali, la più vituperata delle nostre classi dirigenti, spesso con solidi argomenti. In queste settimane di campagna referendaria sono state spesso citate da Matteo Renzi, l’ultima volta proprio ieri mattina dai microfoni di Radio anch’io . In questi anni è stato comunque in buona compagnia. Da destra a sinistra, passando per i nemici interni della Lega, lo hanno fatto tutti. Il ricorso continuo a quell’indumento intimo in attesa di giudizio come il suo proprietario è un altro indizio della subalternità della nostra classe dirigente a un immaginario di derivazione giudiziaria. Così come l’uso strumentale delle inchieste per affossare gli avversari dimostra come la politica italiana sia ancora succube della magistratura. A quasi 25 anni da Tangentopoli. Pag 1 Legge elettorale, la difficile partita per un accordo di Francesco Verderami Da capisaldi del bipolarismo all’italiana, Berlusconi e Prodi sono oggi spettatori poco protagonisti di un referendum che non evoca lo spirito costituente, ma lo scontro tra Repubblica e monarchia. Il fatto che gli artefici di un ventennio - per motivi diversi - siano marginali nella contesa, rende ancor più evidente che i pilastri su cui fondarono le rispettive leadership non ci sono più. Perciò risulta già in partenza complicato il tentativo che Renzi, da segretario del Pd, si appresta a fare: quello cioè di dar vita a una serie di incontri bilaterali con gli altri partiti, per verificare se ci sia la «volontà politica» di cambiare insieme la legge elettorale, prima di capire come e quando farlo. È quella la cruna dell’ago dalla quale far passare un appeasement nella sfida referendaria. Ma anche se la «volontà politica» ci fosse, le forze che un tempo trainavano le coalizioni e ne dettavano l’agenda, oggi non sembrano attrezzate per chiudere un eventuale accordo e gestirlo poi nell’iter parlamentare. E non solo perché sono logore e divise al proprio interno, ma anche perché hanno il timore di prestare il fianco agli attacchi del fronte populista, che è pronto ad accusarle al cospetto dell’elettorato, ad additarle come responsabili di un nuovo «inciucio». Per quanto distinti e distanti, con i loro atteggiamenti Berlusconi e Prodi diventano così le cartine di tornasole della crisi. È incredibile come sia passata quasi del tutto inosservata la decisione del Professore di non volersi esprimere sul referendum, mentre invece è clamoroso il modo in cui l’ha fatto: «Ho ben presente l’impianto della riforma ma nemmeno sotto tortura dirò come la penso». Non facendo sapere la propria posizione, il fondatore dell’Ulivo non solo ha privato - almeno finora - l’elettorato di centrosinistra di un punto di riferimento. Ma soprattutto ha aperto uno spaccato sulla guerra civile che è in corso in quell’area, e nella quale non vuole essere coinvolto. Il silenzio di Prodi è la rappresentazione plastica delle

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macerie nel Pd, che da quando Renzi è diventato premier si è diviso su tutto: sulla politica economica, sulla politica giudiziaria, sui temi del lavoro e della scuola, e al dunque sulla legge elettorale e sull’idea di nuova Costituzione. Da separati in casa si apprestano a scontrarsi anche nelle urne il 4 dicembre, e nel partito ormai si parla senza remore di quanto accadrà dopo: o la minoranza democrat batterà Renzi al referendum per poi tentare di riprendersi la «ditta», o «la ditta» dopo il referendum verrà aperta da un’altra parte. Sull’altro versante, i dirigenti di ciò che resta del centrodestra temono che Berlusconi non si spenderà nella campagna referendaria. È vero, le sue condizioni di salute rappresentano un valido motivo di assenza, ma ci sono anche ragioni politiche che lo spingerebbero a evitare un ritorno imminente sulla scena: perché il Cavaliere dovrebbe spiegare nel merito la posizione assunta sulle riforme, dopo averle sostenute in Parlamento fino al penultimo voto. Non a caso il 40% dell’elettorato di Forza Italia è pronto a votare Sì alle modifiche costituzionali. Insomma, l’aria che tira nel Pd è la stessa che spira nel partito di Berlusconi, dove l’innesto di Parisi ha provocato la rivolta del gruppo dirigente azzurro, criticato da Gianni Letta per le «smodate reazioni» contro il manager che, «come chiede Silvio, andrebbe invece aiutato sul territorio». Ma il «territorio» di Forza Italia è diventato un deserto. Se ne sono accorti i vertici del partito iniziando a organizzare la Conferenza programmatica di novembre: l’obiettivo di riunire cinquemila amministratori locali sembra un’impresa improba. Il capogruppo al Senato Romani l’altro giorno si è speso con un test chiamando 34 persone al telefono: peccato che la metà avesse cambiato numero, una parte fosse passata con altre forze politiche e una parte ancora abbia preso tempo perché «impegnata al lavoro». Alla fine solo in 4 hanno assicurato la loro presenza alla convention. E anche la mobilitazione per il No al referendum, decisa da Ghedini, non pare avere al momento miglior sorte: il progetto di girare i comuni d’Italia con 30 Fiat Cinquecento ha un costo di 80 mila euro. I coordinatori regionali - interpellati - si sarebbero però sonoramente opposti alla richiesta di fronteggiare la spesa. I due partiti continuano ad avere consensi, non c’è dubbio. Ma (anche) i silenzi di Berlusconi e Prodi fanno capire che la forza di un tempo non c’è più. Pag 6 I 5 Stelle restano il primo partito. Al ballottaggio il Pd perderebbe di Nando Pagnoncelli Dopo un calo di consensi in settembre per il caso Roma, M5S stabile al 30,3% Il Movimento 5 Stelle, nonostante la fase profondamente critica che sta attraversando, con le vicende di Roma, le tensioni interne che hanno riassegnato un ruolo di primo piano a Beppe Grillo (dopo il passo laterale di un anno fa quando fu costituito il direttorio), l’uscita dal Movimento di Federico Pizzarotti, il primo sindaco eletto in un importante capoluogo, continua a mantenere il proprio ruolo preminente nel panorama politico. Questo sembra essere il dato più interessante che emerge dal sondaggio attuale. Pochi i cambiamenti per le altre principali forze politiche, anche qui nonostante avvenimenti di indubbio rilievo: dalla convention milanese di Stefano Parisi che avrebbe potuto delineare un nuova prospettiva per il centrodestra, alla fase critica attraversata dal Movimento 5 Stelle, alle divisioni sempre più aspre tra maggioranza e minoranza del Pd. Per non parlare della campagna referendaria, che è entrata nel vivo e sta determinando maggioranze (e minoranze) «a geometria variabile». Vediamo quindi nel dettaglio i risultati. Un terzo degli italiani (34%) esprime apprezzamento per l’attività del governo, mentre il 60% ne dà un giudizio negativo. L’indice di gradimento, calcolato escludendo gli intervistati che non si esprimono, rimane stabile a 36, come a inizio luglio. Analogamente, il giudizio positivo sul premier si attesta al 32% con un indice di gradimento pari a 34, in flessione di 1 punto rispetto al trimestre precedente. Passando alle valutazioni sui singoli ministri, la differenza più elevata è di 2 punti e riguarda Franceschini che con il 26% di giudizi positivi si colloca al primo posto scavalcando Padoan (24%). A seguire Delrio (23), Gentiloni (22%), Lorenzin (21%) e Boschi (20%). Riguardo alle intenzioni di voto il M5S si mantiene al primo posto con il 30,3% dei consensi, stabilizzando la flessione di circa 2 punti registrata dal sondaggio di settembre. A seguire il Pd con il 29,3% (come a settembre). Nel centrodestra continua il testa a testa tra Forza Italia (12,3%) e Lega (12,1%), mentre Fratelli d’Italia si attesta al 5,1%. Area popolare si conferma al 4,1% e la Sinistra nell’insieme (Sel-Si e altre liste), si colloca poco sotto il 5%. Quanto ai ballottaggi, sempre ammesso che l’Italicum non

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venga modificato, nell’ipotesi di confronto tra M5S e Pd, ad oggi il primo si affermerebbe 56,9% a 43,1%, grazie ad un orientamento a suo favore espresso in misura molto netta dagli elettori della Lega (60%-5%) e di FdI (65%-0%) e meno netta da quelli di Forza Italia (40%-25%). Qualora il ballottaggio mettesse a confronto il M5S e una lista unica di centrodestra, il vantaggio del primo sarebbe ancora più largo (61,1% a 38,9%), con Pd (45%-15%) e Sinistra (55%-0%) nettamente a favore dei grillini e Ap a favore del centrodestra (65%-10%). Da ultimo, il Pd si affermerebbe contro una lista unica di centrodestra (54,5% a 45,5%); in questo caso va sottolineata l’elevata propensione ad astenersi (60%) dell’elettorato grillino (come nel ballottaggio di Milano) e il maggiore favore per il centrodestra (65%-25%) degli elettori centristi, che pure sono alleati del Pd nell’attuale maggioranza di governo. In sintesi, il M5S sembra aver attutito il calo di consensi registrato nelle ultime settimane. Si è trattato più di una flessione di «immagine» presso i non elettori che di una contrazione del proprio elettorato. I delusi sono una minoranza e sono propensi ad astenersi. Al contrario, la maggioranza prende le difese del Movimento e dei propri leader. Il Pd presenta un elettorato piuttosto coeso che non sembra risentire delle profonde divisioni tra maggioranza e minoranza. Il consenso risulta stabile. Il centrodestra nel suo insieme sfiora il 30% dei consensi ma è alle prese con difficoltà nell’elaborazione di una proposta condivisa attorno alla quale coagulare un’alleanza e definire la nuova leadership. I centristi sono molto divisi ed esprimono un evidente disagio testimoniato dai giudizi sul governo, di cui fanno parte, (55% giudizi positivi, 44% quelli negativi) e su Renzi (51% positivi, 47% negativi), nonché dagli orientamenti nell’ipotesi di ballottaggio tra Pd e centrodestra, come sottolineato. Insomma, lo scenario politico sembra irrigidito in quadro tripolare, con tutte le conseguenze che comporta in termini di fiducia nei leader, consenso per il governo e l’opposizione, opinioni sull’attualità e le proposte politiche. È probabile che l’esito del referendum possa modificare gli orientamenti di voto a favore di chi risulterà vincente, come abbiamo potuto constatare dopo l’affermazione del Pd di Renzi alle Europee e dopo quella del M5S alle Amministrative della primavera scorsa. D’altra parte, ammoniva Ennio Flaiano, «gli italiani sono sempre pronti a correre in soccorso al vincitore». Pag 12 Scelte ambigue e controproducenti. Il riconoscimento ha ancora senso? di Pierluigi Battista Il Nobel all’accordo di pace in Colombia Prima domanda (con interrogativo connesso): ha senso assegnare il Premio Nobel per la pace a Juan Manuel Santos per un tentativo ancora non riuscito, quello di mettere formalmente fine a un conflitto cruento con la guerriglia Farc, e che addirittura è stato appena bocciato in un referendum dal popolo colombiano? Interrogativo connesso: il Nobel deve avere un qualche rapporto con il rispetto del voto democratico o può ignorarlo del tutto? Seconda domanda: se si vuole riconoscere il ruolo di Santos, perché non esigere lo stesso trattamento per le Farc? Terza domanda: ma ha ancora un senso, simbolicamente forte, il Premio Nobel per la pace? Dopo quello preventivo e assai imprudente (considerati gli sviluppi successivi) assegnato al Presidente Obama e dopo quest’ultima scelta, la domanda potrebbe pure avere un suo perché. Non è la prima volta che il Nobel premia contemporaneamente i protagonisti di un processo di pacificazione, e quasi sempre protagonisti di tentativi di pace non riusciti. È stato così quando nel 1973 vennero indicati i negoziatori del processo di pace in Vietnam Henry Kissinger e il vietnamita Le Duc Tho: negoziato che fallì miseramente spianando la strada alla vittoria schiacciante delle truppe di Ho Chi Minh. Oppure nel 1994 quando vennero premiati per «i loro sforzi di creare la pace in Medio Oriente» Yasser Arafat e Ytzhak Rabin, con le conseguenze che noi conosciamo. Il premio a Santos assomiglia più a questi tentativi fallimentari e tuttavia indicati come meritevoli del Nobel dalla giuria di Stoccolma che non ai premi dedicati a paci siglate, a svolte effettivamente vincenti, come il premio del 1978 a Sadat e Begin per gli accordi di pace tra Egitto e Israele, e quello del 1993 a Nelson Mandela e Fredrik Willem de Klerk per gli accordi sulla fine dell’apartheid in Sudafrica. Mai nella premiazione di accordi bilaterali in fieri era stata ignorata una delle due parti determinanti del processo negoziale e soprattutto mai una decisione di Stoccolma era andata così clamorosamente contro un voto popolare che

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aveva bocciato la decisione considerata meritevole del Premio. Un Premio, quello della Pace, che accentua così sempre più il carattere di una decisione molto attenta agli equilibri politici del momento. Il caso di Obama fu clamoroso, ma anche il Premio assegnato a Gorbaciov praticamente alla vigilia della dissoluzione dell’Urss non fu da meno. E nemmeno i premi alle forze di peacekeeping dell’Onu prima che dimostrassero tutta la loro impotenza nel conflitto dell’ex Jugoslavia e quello, vagamente surreale, che ha gratificato nel 2012 nientemeno che l’Unione Europea o nel 2007 il candidato democratico sconfitto alle elezioni Al Gore. Premi molto più coraggiosi, come quello a Martin Luther King, al dissidente sovietico Sacharov o quello, assegnato nel 2014 alla pakistana Malala Yousafzai, vengono così oscurati da scelte di compromesso, politicamente ambigue e forse controproducenti. Pag 15 L’arcivescovo Tutu e l’eutanasia: lasciatemi la scelta di Michele Farina La richiesta del prelato amico di Mandela Nel mezzo del suo 85esimo compleanno, «più vicino al terminal delle partenze che a quello degli arrivi», Desmond Tutu chiede per sé il diritto di decidere come e quando andarsene da questo mondo. L’arcivescovo emerito anglicano di Città del Capo e Nobel per la Pace 1984, l’amico di Nelson Mandela che tutti in Sudafrica chiamano «The Arch», ora «più che mai sente» la necessità di «prestare la sua voce» alla causa della «morte dignitosamente assistita». Un occhio alla festa, l’altro alla cartella clinica: Tutu è reduce da uno dei suoi sempre più frequenti tour in ospedale, dove anche questa volta dopo un piccolo intervento chirurgico ha rintuzzato «le infezioni» che minano da qualche tempo la sua salute. Nessuno parla di una precisa malattia (vent’anni fa The Arch fu curato per un tumore alla prostata). È lui stesso a descriversi più vicino all’ultimo «gate». E così, mentre nel giorno del compleanno i ragazzi della sua Fondazione distribuiscono dolcetti nel centro di Città del Capo in nome della campagna #ShareTheJoy, assieme alla gioia The Arch ha deciso di condividere le sue riflessioni in «fine vita». Non c’è contraddizione tra l’inno alla gioia e la via dell’eutanasia, lascia intendere Tutu dalla tribuna del quotidiano americano The Washington Post : «Per tutta l’esistenza ho avuto la fortuna di lavorare appassionatamente per la dignità dei viventi. Così come ho lottato per la compassione e la giustizia nella vita, allo stesso modo credo che i malati terminali debbano essere trattati con giustizia e compassione davanti alla morte». The Arch non usa giri di parole: «I morenti dovrebbero avere il diritto di scegliere come e quando lasciare la Madre Terra». Tutu ricorda le recenti leggi sulla «dolce morte» entrate in vigore in California e in Canada. Ma sottolinea come «a migliaia di persone in tutto il mondo venga negato il diritto di morire con dignità». Su questo tema, l’incrollabile campione dei diritti umani ha cambiato idea da poco. «Per tutta la vita mi sono opposto all’idea della morte assistita. Due anni fa dissi che ci avevo ripensato. Ma sull’eventualità che io stesso potessi farvi ricorso, ero rimasto sul vago. “Non mi importa”, dicevo allora. Oggi che sono più vicino al terminal delle partenze, lo affermo con chiarezza: ci sto pensando, sto pensando a come vorrei essere trattato quando verrà l’ora». Il Sudafrica, che vanta una delle Costituzioni più avanzate del mondo, non ha una legge sulle scelte di fine vita. Nell’aprile 2015 un tribunale ha garantito a un malato terminale il diritto di morire, ma il Parlamento non ha colto questa occasione per discuterne in maniera approfondita. Anche il sasso lanciato da Tutu non sembra aver fatto grande rumore nello stagno dell’opinione pubblica, dominata com’è da altre emergenze e ricorrenze: le manovre del corrotto presidente Jacob Zuma, il declino dell’Anc, le storie di mazzette che avvolgono un ex pupillo di Nelson Mandela, Tokyo Sexwale; le proteste a petto nudo delle studentesse della Wits University contro l’aumento delle tasse scolastiche; l’economia sudafricana che non riparte, la violenza sulle donne... La dignità dei viventi è minacciata ogni giorno nella Nazione Arcobaleno, a oltre vent’anni dalla fine dell’apartheid. L’uomo che ha spiazzato i neri in pieno regime dell’apartheid («siate buoni con i bianchi, hanno bisogno di riscoprire la loro umanità», disse alla cerimonia del Nobel), il prete che ha inventato la meravigliosa definizione di Rainbow Nation, il vecchietto che negli ultimi anni ha tuonato mentre i potenti di turno imbrattavano la bandiera di Mandela, oggi si ritrova abbastanza solo a interrogarsi sulla dignità dei morenti. D’altra parte questa è sempre stata la sua specialità, come diceva Madiba: dare voce a chi non ha voce. Con un occhio ai dolcetti della vita, l’altro alla cartella clinica.

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Pag 28 Il consenso da ricostruire sulla pace in Colombia di Andrea Riccardi Il referendum in Colombia ha dato un risultato sorprendente. È stato respinto - com’è noto - l’accordo di pace, perseguito a lungo dal presidente Santos, che pone fine a più di mezzo secolo di guerra. Gran parte dell’opinione pubblica internazionale ha seguito con simpatia gli sforzi di Santos, come si vede anche dal Premio Nobel per la pace che gli è stato concesso. Tuttavia, nel determinare il voto negativo, ha pesato un misto di memoria dolorosa e di timore per il futuro. Il referendum è stato tenuto quasi a ridosso della firma dell’accordo, senza poterne vedere i benefici nel tempo. E poi, in ogni processo negoziale, si manifesta spesso un «panico» iniziale per la pace e la convivenza con l’altro, in cui si è visto a lungo il nemico. Ci vuole tempo per realizzare un nuovo atteggiamento e comprendere che la pace garantisce il futuro meglio di ogni lotta armata. La vittoria del «no» è stata di stretta misura: 60.000 voti, poco più. Molti colombiani ora sono sorpresi per un risultato inatteso. Il Paese è diviso a metà. Un fatto è singolare: la Chiesa cattolica non ha pesato su questa scelta. Con un suo intervento, forte e popolare com’è, avrebbe determinato la vittoria del «sì», però schierandosi con una parte del Paese. Invece non ha preso posizione su un accordo che, pur con alcuni aspetti discutibili, chiudeva una lunghissima guerra. I motivi sono molteplici, spesso non dissimili da quelli della popolazione: l’accordo riconosce troppo spazio ai guerriglieri delle Farc, li sanziona poco penalmente, mentre non si può essere sicuri della loro buona fede. Il presidente dei vescovi, monsignor Castro Quiroga, ha dichiarato: «La Chiesa colombiana non si comporta come Ponzio Pilato…». Mostra, così dicendo, di sentire la difficoltà per la posizione assunta. Ha aggiunto: «Noi invitiamo i colombiani ad andare a votare e speriamo in un voto di coscienza». Alla firma dell’accordo, accanto a Ban Ki-moon, ai quindici presidenti e ai 27 ministri degli Esteri, non si sono visti i vescovi. C’era il cardinal Parolin, segretario di Stato di Francesco, venuto da Roma. Molti vescovi erano perplessi verso le trattative con le Farc, sospettate di doppiogiochismo. Nei negoziati, però, le parti implementano la loro credibilità con l’attuazione degli accordi: non c’è una fiducia a priori. Lo s’è visto in importanti trattative, come per la fine dell’apartheid in Sud Africa (in cui era impegnato il vescovo anglicano Tutu). In tanti processi di riconciliazione, dagli anni Novanta, la Chiesa è stata in prima linea o addirittura decisiva. Oggi, grazie al prestigio di papa Bergoglio, la Santa Sede è spesso sollecitata per la pace, tra cui nel complesso scenario del Venezuela e nella mediazione per il Mozambico. Ci sono nell’accordo, tra l’altro, aspetti che riguardano il «genere», sgraditi alla Chiesa. È uno dei motivi della forte opposizione delle Chiese evangeliche e neoprotestanti, rilevanti in Colombia (circa 10 milioni di fedeli). Al contrario, gli abitanti delle zone che hanno vissuto la guerra da vicino sono stati più in favore della pace che quelli delle aree meno toccate. È necessario un vasto lavoro di persuasione della gente sulla necessità dell’accordo. Perché tanta cautela dei vescovi? La Chiesa non ha voluto assumere una posizione impopolare, che i vescovi non sentivano e che magari avrebbe loro alienato una parte del Paese. Le Farc poi rappresentano un interlocutore estraneo, caratterizzato da un misto d’ideologia e narcotraffico e da una sconcertante pratica della violenza (anche se pure le forze di autodifesa e dello Stato hanno commesso violenze). Francesco, da parte sua, ha afferrato subito il valore storico dell’accordo. Ha detto la sua «felicità» dopo «tanto sangue»: ha chiesto che si «blindi» l’accordo, «a tal punto che non si possa tornare, sia da dentro che da fuori, a uno stato di guerra». Ha parlato di viaggio in Colombia: «Se vince il plebiscito, quando tutto sarà sicuro, sicuro. Quando tutta la comunità internazionale sarà d’accordo, sì che andrò… Tutto dipende da quello che dirà il popolo». Si manifesta più entusiasmo nel papa per l’accordo che nei vescovi. La permeabilità dell’episcopato ai timori della società nasce anche dalla relativa condivisione della prospettiva del papa, meno politica ma che guarda lontano. S’incrociano due problemi: il rapporto tra papa ed episcopati nazionali, ma anche la fatica delle Chiese locali a leggere la situazione storica in cui sono (e non solo in Colombia). In mezzo a un popolo diviso, i vescovi rischiano di non essere incisivi. I colombiani (cattolici all’80%) non li hanno seguiti nell’invito a votare: solo il 37% è andato alle urne. Ora il gioco è tornato alla politica. Dopo il voto, il leader dei vescovi ha interpretato la vittoria del «no» come richiesta di cambiare parti dell’accordo, non come rifiuto della pace, insistendo sulla riconciliazione. Il presidente Santos, ora aureolato dal

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Nobel, ha incontrato a lungo il predecessore Alvaro Uribe. Questi è stato un duro avversario degli accordi durante il referendum, ma ormai si prospetta come un interlocutore - disponibile ma pesante - per riequilibrare la situazione. Ma deve avere il suo spazio. Si va ricostruendo, anche con gli altri oppositori, un consenso politico alla pace, anche se saranno necessarie altre trattative con le Farc. Intanto continua il cessate il fuoco in vigore dal 29 agosto. Finisce però il 31 ottobre. Quanto durerà il nuovo negoziato? AVVENIRE di sabato 8 ottobre 2016 Pag 1 Promessa da onorare di Fabio Carminati Le luci evidenziate dal Nobel 2016 Non una celebrazione, ma una spinta alla pacificazione in Colombia, un aiuto a compiere l’ultimo passo che manca. Una speranza messa nelle mani dell’uomo, Juan Manuel Santos, che ha sfidato l’eredità dei suoi predecessori e impegnato tutto sul dialogo. Un dialogo ritenuto da molti impossibile, ma che alla fine ha pagato. Questo è il Premio Nobel per la pace all’attuale presidente colombiano. È una spallata, ancor più necessaria dopo che, domenica scorsa, il sogno di una pace “rapida” è stato colpito dall’esito del referendum che ha bocciato l’accordo con i guerriglieri delle Forze armate rivoluzionarie di Colombia, le famigerate Farc. Quella manciata di voti in più per il No pesa maledettamente, e però ha solo rinviato la chiusura di un capitolo di sangue lungo 52 anni e segnato da almeno 262mila vittime, buona parte delle quali civili. Il presidente Santos, contro tutto e contro tutti, sta infatti perseverando sul cammino intrapreso. Anche contro il suo predecessore alla presidenza, quell’Álvaro Uribe che ha guidato il fronte del No alla pace. Con profonde motivazioni politiche, Uribe ha denunciato la «riconciliazione impossibile» e il «tradimento della memoria delle vittime», riuscendo a spaccare il Paese a metà. Ma la tenacia di Santos è impressionante, e continua a dimostrarsi capace di resistere anche davanti alle provocazioni più dure, che spesso sono arrivate – e continuano ad arrivare – dal suo fronte politico piuttosto che da quello avversario. A Cuba, in quasi 4 anni di trattative, è nato qualcosa di impensabile anche per i più ottimisti e lo hanno testimoniato le parole del leader dei guerriglieri di sinistra, Rodrigo Londono, alias Timochenko. Questi ha chiesto per la prima volta «scusa» per il male che hanno arrecato al popolo colombiano, un mea culpa inaspettato, pronunciato davanti al presidente e a milioni di cittadini che hanno assistito in tv alla firma a Cartagena, ormai quasi due settimane fa, dell’accordo di cessate il fuoco che il referendum di domenica scorsa avrebbe dovuto trasformare in “pace” definitiva. Uno stop malaugurato. Che rimette in dubbio il percorso compiuto sin qui. Ma il dialogo «non morirà». L’ha giurato Santos e l’hanno promesso le Farc. Insieme torneranno al tavolo negoziale di Cuba e cercheranno un modo per rabberciate un’intesa che il voto popolare, per ora, sia pure per un soffio, ha vanificato. Quando i membri del Comitato di Oslo hanno deciso di assegnare il Nobel 2016 a Santos, probabilmente, tutto questo non era immaginabile. La strada verso la pace sembrava finalmente spianata, così come sincera appariva la volontà dei guerriglieri. Un movimento nato da legittime rivendicazioni sulla ridistribuzione delle terre ai campesinos, ma poi trasformatosi in feroce macchina assassina e in spietato trafficante internazionale di droga. Anche per questo, verosimilmente, il Comitato ha scelto di non spingersi più in là. Si è fermato a uno dei due protagonisti, il presidente Santos appunto, di un processo di pace avvenuto anche grazie alla preziosa mediazione 'pastorale' della Chiesa cattolica. Santos e non Timochenko. Il presidente con la camicia bianca, simbolo della pace, e non il guerrigliero convertito al dialogo quando le sue Farc apparivano sempre rinchiuse in un delirio di potere e violenza e dunque, sempre più politicamente residuali. Qualcuno aveva ipotizzato un 'Nobel per due', come fu per la coppia Peres-Rabin e per Arafat per gli accordi del 1993 a Oslo tra Israele e Olp. Un precedente suggestivo e aspro, perché quella speranza di pace non si è mai fatta concreta in una Terra Santa dove le fratture e le sofferenze restano profonde. Non va insomma taciuto né dimenticato che il Comitato del Nobel per la pace ha guardato oltre i dati di realtà e deciso di dare solenne riconoscimento a un cantiere di pace ancora aperto. Eppure il premio a Juan Manuel Santos appare meno “prematuro” di quello assegnato a un presidente statunitense, Barack Obama, appena insediatosi. È una sorta di investimento, l’accettazione di una

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speranza densa di elementi di certezza. Una promessa per un Paese che, dopo mezzo secolo, vuole provare il sapore della pace e, a ben vedere, per l’intera America Latina. Una promessa da mantenere. Pag 1 Una lunga, lunga strada di Marco Olivetti Le ombre non fugate dal Nobel 2016 L’attribuzione del Premio Nobel per la pace al presidente colombiano Juan Manuel Santos ha indubbi meriti, ma solleva anche alcuni interrogativi, relativi al momento in cui viene annunciata. Il merito del premio Nobel per la pace 2016 è anzitutto quello di richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica mondiale sulla lunghissima guerra civile colombiana, la più antica dell’emisfero occidentale, iniziata 52 anni fa dalle Farc ( Fuerzas armadas revolucionarias de Colombia) e ora appesa a un fragile 'cessate il fuoco'. Le radici anche di quella guerra stanno nel drammatico tentativo del regime comunista cubano e dei suoi sponsor sovietici di esportare il comunismo nell’America meridionale, utilizzando la tecnica della guerriglia e puntando soprattutto sulla rivolta delle campagne depresse e isolate. Il simbolo di quel tentativo fu, com’è noto, un medico argentino idealista: Ernesto 'Che' Guevara. Ma se il 'Che' cadde ben presto (nel 1967) – come altri idealisti, come il prete colombiano Camilo Torres – sotto i mitra dei militari che fecero fronte alla insurgencia, le guerriglie e i terrorismi dilagarono in tutta l’America del Sud, assumendo le forme più varie, da Sendero Luminoso in Perù all’Eln e alle Farc in Colombia, dai Tupamaros in Uruguay ai Montoneros in Argentina. Non tutte queste guerriglie erano ricondubicili al tentativo cubano di esportare il comunismo; alcune avevano radici urbane, anziché rurali (i Tupamaros); alcune propendevano per il maoismo, o per il trotzkismo o per tanti altri rivoli della galassia marxista, per non citare i casi (come M-19 o i Montoneros) in cui la radice era dubbia, sospesa fra estrema sinistra ed estrema destra. Si pensi ai riferimenti al peronismo in Argentina o alla dittatura di Rojas Pinilla in Colombia. Ed inoltre, quasi sempre quelle guerriglie trovarono terreno fertile nelle grandi diseguaglianze sociali – culminanti in alcuni casi nell’estrema arretratezza delle campagne che caratterizzavano l’America Latina. Ma il risultato è stato tragico: non giustizia, bensì morte, violenza, sequestri, torture, commistioni col narcotraffico. E ovviamente, nessuna vittoria rivoluzionaria. Anzi: in molti Paesi quelle guerriglie concorsero a legittimare i colpi di stato militari. In questo triste panorama, le Farc, la principale guerriglia colombiana, si sono distinte per la loro tenacia e per la loro brutalità. Ogni sorta si violazione dei diritti umani è stata compiuta: sequestri durati anni; narcotraffico; arruolamento di minori; soggiogamento alla violenza di interi territori; omicidi. Ovviamente il tutto condito dalla non minore ferocia delle reazioni delle forze paramilitari e dello stesso esercito regolare. Tutto ciò sino ai livelli inauditi dell’inizio dello scorso decennio, quando il governo del presidente Uribe – di cui Santos era ministro –avviò una drastica campagna militare che ridusse notevolmente la forza militare delle Farc. Ma il successo delle forze armate colombiane non si tradusse in una vittoria militare decisiva e finale. Sicché quando, nel 2010, Santos successe ad Uribe alla Presidenza, egli fece il passo decisivo, sino ad allora mancato: avviare contatti diretti con le Farc, grazie alla mediazione norvegese e cubana. È iniziata così una lunga e controversa trattativa, culminata negli accordi di pace fra Santos e il leader delle Farc, Rodrigo Londono alias Timochenko, firmati alla fine di settembre. Questi accordi sono poi stati sottoposti a plebiscito domenica 2 ottobre, ma, inaspettatamente, essi sono stati rigettati dal corpo elettorale (50,2 per cento di no contro il 49,8 per cento di sì). E alla guida della campagna per il No si è trovato il predecessore di Santos, Uribe, che ha criticato duramente alcuni contenuti degli accordi di pace (nessuna pena carceraria per i guerriglieri e garanzia di rappresentanza parlamentare per l’ex guerriglia). Singolarmente, gli accordi di pace firmati a Cartagena nei giorni scorsi, hanno goduto di un largo sostegno dell’opinione pubblica internazionale, tutta schierata con Santos, oltre che dell’appoggio di quasi tutti i media colombiani. Ma ciò non è bastato a far trionfare la pace: forse perché il Presidente ha giocato troppo pesante contro coloro che criticavano alcuni aspetti dell’accordo di pace o forse per l’impopolarità delle Farc, i cui misfatti non sono stati perdonati dalla maggioranza dei colombiani. O forse per la naturale tendenza degli elettori di questo tempo a votare contro le élite. O forse ancora per la grande popo-larità di cui continua a godere l’ex presidente Uribe. Quest’ultimo, dopo il voto del

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2 ottobre, si è immediatamente seduto al tavolo dei negoziati con il Governo, chiedendo alcuni ritocchi agli accordi di pace, mentre il cessate il fuoco è stato per ora confermato, sia dal governo sia dalle Farc. La pace in Colombia è dunque ancora possibile, ma il compimento del processo di pace è ancora lontano. Per questo motivo, l’attribuzione del Nobel a Santos solleva dubbi: ricorda quasi – checché se ne dica – il Nobel 'preventivo' a Obama nel 2009, subito dopo la sua elezione. Un premio 'a prescindere', avrebbe detto Totò. E dice non poco sulla Fondazione Nobel, che più che riconoscere le opere di pace sembra incoraggiarle ex ante, sostenendo quelli che le sembrano i suoi paladini. Ma sottovalutando, talora, la complessità delle vicende concrete. In Colombia la pace è più che mai necessaria e nel 2016 è possibile. Diverrà realtà se essa sarà opera non solo di Santos (e delle Farc), ma anche di Uribe, che rappresenta quella ampia parte della popolazione colombiana che vuole la pace, ma non la legittimazione politica delle Farc. Le quali la guerra civile l’hanno persa, moralmente e militarmente. Altrimenti i 262mila morti di questi 52 anni di guerra civile sarebbero caduti invano. Pag 3 La Malaysia, una polveriera. Così cresce il pericolo jihad di Federica Zoja Tra tensioni etniche e lotta al radicalismo islamista Si intensifica la lotta al radicalismo islamista in Malaysia, con l’adozione di una legislazione anti-terrorismo in linea con quelle già approvate in Indonesia e Filippine, altrettanto a rischio jihad. Le nuove norme permettono all’Esecutivo di proclamare in qualsiasi momento la legge marziale, vietando manifestazioni e assembramenti e dando carta bianca alle forze di sicurezza in materia di arresti, interrogatori e sequestro dei beni. Uno strapotere, quello attribuito alle forze di sicurezza, che suscita svariati interrogativi sulla tenuta dello stato di diritto e porta con sé polemiche e critiche. Proprio sotto l’'ombrello' della nuova legge, nell’ultima settimana di agosto, la polizia ha fermato tre attentatori pronti a colpire nel giorno dell’Indipendenza (il 31 agosto del 1957, dalla corona britannica, ndr). Nel loro mirino c’erano località abitualmente frequentate da turisti stranieri e stazioni di polizia, secondo le linee di comportamento indicate dalla 'casa madre', cioè dal sedicente califfato di Abu Bakr al-Baghdadi. O probabilmente dettate dalla formazione ad esso affiliata e più vicina in termini geografici al jihad malesiano, cioè il gruppo di milizie Abu Sayyaf, annidate nel Sud delle Filippine. La stampa ha svelato di recente che alcuni elementi radicali malesi noti alla polizia avrebbero partecipato, nel novembre del 2015 nell’isola filippina di Sulu, a una riunione di alto livello fra dirigenti appunto di Abu Sayyaf, luogotenenti del califfo di nazionalità ignota e figure di spicco del Moro national liberation front (la formazione politica filippina che punta alla secessione da Manila). L’allarme a Kuala Lumpur è alto: la minaccia è multiforme, in un Paese di 30 milioni di abitanti che fa del pluralismo di etnie, lingue, religioni la propria ricchezza, ma avverte tutta la fragilità di una società caleidoscopica. Per la Malaysia, infatti, il mostro salafita non è una novità: al-Qaeda e, prima ancora, la Jamaa al-Islamiya non hanno certo trascurato questa monarchia asiatica (costituzionale federale). Da un anno a questa parte, però, la Malaysia è entrata nella lista nera delle nazioni additate da Dabiq, testata giornalistica del sedicente Stato islamico, poiché in essa «si adorano costituzioni fatte dagli esseri umani» e «altre divinità che non sono Allah». E da aprile, poco dopo un altro attacco verbale su Dabiq, il lavoro della Sb-Ctd, unità federale della polizia concepita in funzione anti-terroristica, si è fatto febbrile. Il fatto è che in questo frangente storico, in Malaysia il jihad potrebbe trovare terreno fertile. Lo strapotere politico di due formazioni di matrice islamista – il Partito islamico pan-malese (Pas) e l’Organizzazione nazionale malese unita (Umno) – insieme ad altri micro-partiti e movimenti 'costole' dei due colossi dà l’idea di quanto la componente musulmana controlli la cabina di regia della nazione. Eppure, per quanto nella carta fondante malese sia esplicito il richiamo all’islam (sunnita) come religione di Stato, solo il 61% della popolazione è musulmano (in massima parte si segue la scuola Shafi’i), a fronte di una cospicua presenza di cittadini buddhisti (20%), cristiani (9%), hindu (6%). Seguono i fedeli di religioni di origine cinese, animisti, sikh. Organizzazioni umanitarie e attivisti politici denunciano la progressiva radicalizzazione della Malaysia islamica a discapito di quella non-musulmana. E l’accanimento delle autorità nei confronti dei musulmani moderati. Il caso del rapper Namewee, accusato di aver 'insultato l’islam' con il suo ultimo video, intitolato 'Oh my God!', fa discutere in Malaysia e nell’intero Sud-Est

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asiatico: il giovane canta in cinese mandarino ed è diventato famoso anche in Cina e Taiwan, grazie a canzoni e video sempre provocatori. La difesa dell’artista - il cui vero nome è Wee Meng Chee non arretra di un millimetro, da quando la polizia lo ha fermato all’aeroporto di Kuala Lumpur, di rientro da una tournée all’estero: il cantante sostiene di aver voluto promuovere l’armonia religiosa con un motivo e un video pluralisti. Nella clip si vedono il rapper e la sua band cantare di fronte e all’interno diversi luoghi di culto malesi: una moschea, una chiesa cristiana, un tempio buddista e uno taoista. Con loro, quattro esponenti delle quattro religioni ritratti in modo ironico. In una nuova versione del video, caricata su Youtube dopo l’arresto, sarebbe stata tagliata la sequenza nella moschea. Non è la prima volta che il rapper ha problemi con le autorità del Paese asiatico e, ancor di più, con associazioni di cittadini musulmani assai attente ai contenuti veicolati dai media: già negli anni scorsi anni Wee Meng Chee aveva rischiato la detenzione per un motivo musicale in cui faceva la parodia dell’inno nazionale malese ('Negaraku'). Un’interpretazione 'sediziosa', era stato il parere di un giudice. Come in altri Paesi protagonisti di una islamizzazione a passo di marcia, alla classe politica dominante ha fatto gioco flirtare con l’anima più conservatrice della cittadinanza. Tale radicalizzazione, peraltro, non ha disturbato lo sviluppo economico malese: anche adesso che, da circa un anno, il Pil segna il passo, è probabile che il 2016 si chiuda con un eccellente +4% medio. Le ultime informative degli organi di sicurezza, però, riferiscono che ora lo scenario è cambiato. I movimenti armati hanno più disponibilità finanziaria, aspirano a creare province orientali del califfato (wilayat, in arabo), si coordinano su scala transnazionale. È a rischio jihad e instabilità politica la zona orientale di Sabah: la polizia teme un attacco dal mare, vista appunto la vicinanza con Sulu, area filippina ad alta densità di jihadismo. In quell’area, a luglio e in agosto si è verificato uno stillicidio di sequestri ai danni di pescatori malesi e indonesiani da parte dei 'pirati' di Abu Sayyaf, che così finanziano latitanza, addestramento e rifornimenti del proprio gruppo. Non tutti i mujaheddin malesi, però, hanno scelto di legarsi ai filippini. Altri privilegiano il gemellaggio con i colleghi indonesiani, meglio posizionati, in termini gerarchici, all’interno dell’organigramma del califfato di Raqqah. Questo è il caso della Katibah Nusantara, la brigata congiunta indonesiano-malese guidata da Bahrumsyah, fra le figure orientali più in vista nel Daesh (acronimo arabo di Stato islamico di Grande Siria e Iraq, con una sfumatura sprezzante per gli arabofoni). Da Raqqah, secondo informazioni di intelligence internazionali, Bahrumsyah coordina le azioni in Indonesia e Malaysia, anche se nuovi e rampanti jihadisti ne mettono sempre più frequentemente in discussione la supervisione. Così come in Indonesia, dunque, anche in Malaysia si potrebbe verificare una guerra intestina fra alti dirigenti del terrore islamico per il potere assoluto. Per Kuala Lumpur è fondamentale proteggere le uova d’oro della federazione - turismo, investimenti stranieri, interscambio commerciale - dagli effetti di un avanzamento del fenomeno radicale. Ebbene, in questa campagna per la difesa del Paese la classe politica malese sembra partire già zoppa, appesantita da clamorosi episodi di corruzione: lo stesso primo ministro Najib Razak è coinvolto in uno scandalo del valore di un miliardo di dollari. Tutti fondi pubblici, secondo l’accusa, deviati dalle casse dello Stato verso conti esteri riconducibili alla famiglia del premier. Una vicenda che l’Esecutivo sta cercando di spegnere, tirando in causa l’Arabia saudita e quelli che sarebbero generosi doni 'personali' di Riyadh al primo ministro. Il naturale compimento della legislatura sarebbe a marzo del 2018, ma la necessità di ribadire la natura democratica della federazione potrebbe portare i malesi alle urne la prossima primavera. Una prospettiva inaccettabile per i mujaheddin, che vedono nell’espressione della volontà del singolo la più grande eresia. IL GAZZETTINO di sabato 8 ottobre 2016 Pag 1 La politica punita dal giustizialismo di Carlo Nordio Talvolta il destino, diceva un filosofo, realizza disegni buoni servendosi di strumenti cattivi. La caduta - di fatto la destituzione – del professor Marino dalla carica di sindaco di Roma, sarà anche stata una soluzione propizia, viste le difficoltà e il degrado in cui versava la Capitale. Nondimeno è stata conseguita attraverso il mezzo improprio di un'indagine giudiziaria. Improprio, come ripetiamo da tempo, per vari motivi: perché confligge con la presunzione di innocenza; perché trasferisce il potere di controllo

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politico dall'elettorato alla magistratura; e infine perché, a ben vedere, costringe anche quest'ultima ad assumersi responsabilità di cui farebbe volentieri a meno. L'iscrizione nel registro degli indagati e la conseguente informazione di garanzia sono, infatti, atti dovuti e conseguono anche a una semplice denuncia; cosicché il destino di un sindaco, e magari di un ministro e di un governo, possono dipendere, prima ancora che dall'iniziativa di un pm, da quella di qualche solerte cittadino. Non è solo pericoloso. E' dannatamente stupido. Ora il professor Marino, assolto con clamore, ha tutte le ragioni per lamentare l'assurdità di questo sistema. Il fatto che i partiti suoi sostenitori non abbiano mai brillato per garantismo, nulla toglie all'evidente ingiustizia di una estromissione fondata sul motivo spurio di un processo penale. Tuttavia, temiamo che la lezione servirà a poco: nell'attuale debolezza della politica la tentazione di far fuori l'avversario invocando la verginità dei carichi pendenti è ancora forte e radicata. E' vero che qualcosa sta cambiando: ma sta cambiando in modo ambiguo e in un contesto assai dissimile. Alludiamo alla vicenda dell’assessore Muraro, per la quale, a differenza delle altre, la presunzione di innocenza sembra funzionare. Eppure la sua situazione processuale e politica non è paragonabile a quella dell'ex sindaco, e per varie ragioni. La prima, che la Muraro non ha avuto un mandato elettorale, e quindi non deve rispondere a che l'ha votata ma a chi l'ha nominata; la seconda, che Marino è stato processato da privato cittadino, mentre lei è ancora in carica, e quindi teoricamente a rischio di reiterazione del reato; la terza, e la più significativa, che il movimento pentastellato ha fatto dell'“onestà” una sorta di feticcio rituale. Intendiamoci: Muraro può esser la persona più onesta del mondo, e tra qualche tempo forse festeggerà anche lei un'assoluzione, o addirittura un'archiviazione. Ma il punto non è questo. Il punto è che dopo anni di martellamento maniacale sull' incompatibilità tra cariche pubbliche e pendenze penali, il garantismo tardivo che ora la protegge non è soltanto sospetto, ma anche rischioso. I grillini saranno tante cose, ma non acritici trinariciuti, disposti a ingoiare un contrordine così bruciante. Staremo a vedere. Per ora, da garantisti antichi e sinceri, siamo lieti di questa inversione, quantunque circoscritta a una dei loro, e un po' contestata. Anche se questo atteggiamento ci ricorda quanto disse il gesuita al liberale, che gli rimproverava la contraddizione di chiedere una libertà che loro, quando erano al potere, negavano agli altri: “Appunto – rispose il gesuita - la libertà la chiedo in nome dei vostri principi, ma la nego in nome dei miei!”. Pag 1 Italiani in fuga, il governo aiuti i giovani geni di Bruno Vespa Gli immigrati regolari in Italia sono cinque milioni. E cinque milioni sono gli italiani ufficialmente residenti all’estero. Questi dieci milioni di persone non fanno gli stessi lavori. Gli immigrati in Italia fanno lavori che gli italiani si rifiutano di fare. E molti italiani (soprattutto giovani) fanno all’estero lavori che non farebbero in Italia. Per una nostra studentessa fare la cameriera a Londra è up, farlo in Italia sarebbe down, mi ha detto un ascoltatore ieri alla radio. Ha ragione. Per chi ha avuto fortuna professionale, poter dire di aver cominciato lavando i piatti è un motivo di orgoglio. Ma in Italia l’ascensore sociale è molto più lento che in Gran Bretagna: perciò ha più senso fare sacrifici lì che qui, anche se la Brexit rischia di essere molto più severa del previsto con i lavoratori stranieri, a cominciare dai livelli più alti. Se è vero che le università britanniche hanno ricevuto la disposizione di non ospitare consulenti stranieri, la vecchia battuta ‘Manica in tempesta, Europa isolata’ avrebbe un drammatico e folle riscontro. Meno di un terzo degli italiani che espatriano faranno ritorno a casa. Gran parte dei 107mila connazionali emigrati l’anno scorso soprattutto in Inghilterra, Germania, Svizzera e Francia resteranno lì. E lascia pensare che quarantamila emigrati l’anno scorso hanno tra i 18 e i 34 anni. Non saranno tutti cervelli in fuga, ma certo è una emorragia di sangue vivo che si disperde dal corpo materno. Provvedere non è facile. Un paese non cresce per decreto legge e l’Italia è ferma. Le ricette per ricominciare sono infinite, ma richiedono tempo. E’ noto che forti investimenti pubblici e privati,insieme con il taglio al costo del lavoro e all’imposizione fiscale possono dare un po’ di respiro. Ma due provvedimenti di costo modesto potrebbero già aiutare molti giovani a restare in Italia. Il governo ha lodevolmente deciso di far selezionare nei licei gli studenti eccezionalmente bravi da sostenere completamente per l’intero percorso formativo. Ma il tetto di cinquecento è troppo basso visto che i docenti parlano di alcune migliaia di piccoli geni in tutta Italia. Il

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costo previsto nella legge di bilancio è di una decina milioni all’interno di un ‘pacchetto giovani’ di 450. Avrebbe francamente molto più senso allargare il ‘progetto talenti’ riducendo magari la paghetta di 500 euro ai 570mila diciottenni che costa da sola 290 milioni. Il secondo provvedimento sarebbe più cospicuo e coraggioso. Come era prevedibile, esaurito il supersconto fiscale introdotto dal jobs act nel 2015, le assunzioni a tempo indeterminato nel 2016 sono scese sensibilmente e non c’è attesa che crescano radicalmente l’anno prossimo. Se un grande sconto fiscale andasse a premiare le aziende che volessero assumere i giovani sotto i trent’anni (l’età critica in cui cresce la tentazione di andar via) la fuga dall’Italia potrebbe essere arginata almeno in parte. Due ipotesi tra le tante. L’Italia è povera di denaro, ma non di idee. Al governo certamente qualcuno ne avrà di migliori. Ma si faccia avanti, per favore. LA NUOVA di sabato 8 ottobre 2016 Pag 1 Travolto dal ciclone giudiziario di Bruno Manfellotto E così, scontrini e ricevute di Ignazio Marino - sindaco di Roma a furor di voto, poi azzoppato, umiliato, sfiduciato - non erano fuorilegge. Eppure il pm aveva chiesto una condanna a tre anni. Dal momento in cui la valanga giudiziaria si è messa in moto, sono passati più di dodici mesi, un commissario prefettizio e un nuovo sindaco della Capitale, e certo cene e compensi per i collaboratori non sono stati ininfluenti, almeno nel creare lo sfondo sul quale si è poi agitata la politica romana. Anche le mutande verdi di Roberto Cota, pagate con i fondi della Regione Piemonte di cui il leader leghista era governatore, rientrano secondo il gup nelle spese legittime e non nel peculato. In questo caso di anni ne sono trascorsi tre e al posto di Cota siede oggi Sergio Chiamparino, Pd, e la saga ha pesato non poco nel far maturare il ribaltone. Si potrebbe continuare, per esempio con le 116 richieste di archiviazione avanzate dalla procura di Roma per altrettanti personaggi più o meno eccellenti - tra i quali Gianni Alemanno e Nicola Zingaretti - chiamati in causa da alcuni imputati di Mafia Capitale senza elementi sufficienti. Anche se questa decisione è del tutto diversa - qua sono stati gli stessi pm, per fare chiarezza, a rigettare accuse formulate non dalla magistratura, ma da Buzzi & C. - alla fine una storia tira l’altra e resta nell’aria lo stridìo di meccanismi arrugginiti e incontrollati. Il primo è proprio quello della giustizia. Vincolati dal principio dell’obbligatorietà dell’azione penale, i magistrati devono agire al primo sospetto e formulare ipotesi di reato. E qui si dilatano i tempi: le indagini preliminari possono durare da sei mesi a un anno, ma è possibile anche che di anni ne siano concessi due; altro tempo può passare fino all’iscrizione nel registro degli indagati, e così per l’invio dell’avviso di garanzia. Sempre più frequente, specie quando si tratta di vicende legate alla politica, è la fuga di notizie che i mass media non possono ignorare. L’esperienza ci dice che per arrivare poi a una sentenza possono essere necessari anni: una lunga parentesi nel corso della quale ogni dettaglio viene svelato e l’imputato esposto al giudizio dell’opinione pubblica. Oltre che agli inevitabili giochetti della politica. Sarebbe utile anche un’attenta riflessione intorno alla degenerazione subìta dal concetto di Casta, lanciato dal best seller di Rizzo e Stella per denunciare sprechi e vizi pubblici e divenuto loro malgrado facile strumento di battaglia contro la politica tout court. Il dilagare di demagogia e malinteso populismo ha fatto il resto, alimentando un pregiudizio generalizzato che ha acuìto polemiche, creato spaccature insanabili, giustificato giudizi sommari. Ora non sarà facile fare marcia indietro e distinguere il grano dal loglio. La questione, certo, riguarda anche noi giornalisti, stretti come siamo tra le responsabilità legate all’informazione e il dovere di rendere pubbliche tutte le notizie di cui veniamo a conoscenza. Che fare, ignorare le inchieste che per vent’anni hanno svelato i comportamenti pubblici e privati di Silvio Berlusconi? E oggi non dare conto, che so?, dello stillicidio di particolari inquietanti su vita e opere di Paola Muraro, assessore della giunta Raggi? O attendere invece l’esito di processi infiniti senza che l’opinione pubblica sappia fino a quel giorno da chi è governata o rappresentata? Dovremmo scegliere, insomma, tra il silenzio dell’autocensura e l’assunzione di un ruolo di supplenza nei confronti della magistratura - questo sì, quello no - senza averne però né i doveri né i poteri: due alternative impraticabili. Forse sarebbe compito dei singoli partiti o movimenti sanzionare comportamenti scorretti o fuori luogo (una volta c’erano i probiviri) ben prima della magistratura. Sia le cene di Marino che le spese pazze di Cota, infatti, sono documentate

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eccome, non sono un’invenzione ma, contenute o eccessive, dovute o no, sono state giudicate spese di rappresentanza, e dunque rientrano non nel codice penale, ma etico. O più semplicemente nelle regole della civiltà, della sobrietà, del buon gusto che dovrebbero guidare la vita pubblica. Ma se sono state rispettate o no, non può dirlo un pm. Torna al sommario